Fino a pochi decenni fa, lo scopo dell’archeologia, come di tutte quelle discipline che rientrano nell’etichetta delle scienze umane, poteva essere sinteticamente definito come l’acquisizione di conoscenza, ottenuta, nel caso specifico, con lo studio e l’interpretazione delle culture del passato attraverso le evidenze materiali. Assieme ad altri fenomeni strutturali, come la globalizzazione, la crisi economica che ha investito il mondo occidentale, ha fortemente circoscritto il ruolo delle scienze umane, che si trovano oggi sollecitate a giustificare la propria autonomia ed importanza secondo parametri inattesi, quelli della sostenibilità non solo culturale, ma economica e sociale. Vi è quindi la necessità, per l’archeologia come per altre discipline affini, di rivolgersi ad un pubblico il più ampio possibile, sperimentando ruoli e pratiche nuovi, quali quelli di mediazione culturale e di inclusione sociale.
All’interno del progetto NEARCH (Nuovi scenari per un’archeologia partecipativa) come altrove in Europa, le esperienze di questo tipo si vanno ampliando: Archaeology&ME ne presenta alcune, tuttora in corso che, a diversi livelli, sono riuscite ad attivare un coinvolgimento reale nei confronti di un pubblico in partenza scarsamente interessato alle tematiche archeologiche. Nelle esperienze descritte, gli attori protagonisti sono, di volta in volta, assieme agli archeologi, gli immigrati che già da molti anni hanno scelto l’Europa come seconda patria, i migranti di recentissimo arrivo, o ancora gli abitanti delle nostre periferie urbane. In generale, quindi, chi solo raramente vive l’esperienza di un contatto non casuale con l’archeologia o le nostre istituzioni culturali. In alcuni degli esempi che presentiamo lo scavo archeologico o un monumento sono diventati l’occasione per conoscere e vivere il proprio ambiente e le sue trasformazioni in modo più consapevole o anche solo più piacevole. In un altro caso il patrimonio archeologico conservato nei nostri musei è diventato la chiave per avvicinare due realtà molto distanti come possono apparire ai migranti quelle del paese di origine e quella del paese ospitante: attraverso oggetti spesso provenienti dai paesi d’origine, i migranti provano a riallacciare dei fili e a riconoscere, assieme agli archeologi, come le distanze che ci separano siano relative e che le nostre storie si sono incrociate fin da tempi remotissimi. A queste esperienze si apparentano anche i progetti descritti nel capitolo dedicato all’archeologia coloniale (pp. 188 ss.). In questo caso gli archeologi europei, nel loro rapporto con le comunità locali, hanno dovuto gestire la dificile eredità di un passato coloniale, nel quale cioè l’archeologia era stata a tutti gli effetti strumento di sfruttamento delle risorse locali e di imposizione del paradigma culturale occidentale.
In tutti i casi presentati, così come per Archaeology&Me, al centro del progetto archeologico è il rapporto con la società, intesa sia come comunità locale, che come pubblico allargato e l’obiettivo primario diventa quello di consentire o favorire un accesso non superficiale alla storia e al patrimonio culturale per gruppi sociali sempre più ampi. Uno dei risultati che ha accomunato tutte le esperienze presentate, è quello di aver innescato un percorso circolare, in cui, cioè, il dialogo di partenza fra archeologi e gruppi sociali ha acquisito un carattere sempre meno asimmetrico. La comunicazione è diventata allora bidirezionale e gli archeologi si sono dovuti confrontare con esigenze, interpretazioni, usi del patrimonio che rivendicano piena dignità e che richiedono risposte che non possono che essere il frutto di un impegno condiviso. Il ‘pubblico interesse’, lungi da essere un dato oggettivo e fissato per sempre, si dimostra sempre più un processo di negoziazione a più voci, sottoposto alla precarietà del contesto ambientale e sociale e bisognoso di un impegno culturale approfondito.