Il manifesto, 13 dicembre 2015
Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.
Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario?
Kobler dichiara che siamo in ritardo, che «il tempo è scaduto». Come a dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti. Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità.
Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due…
È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di Tripoli e i «riconosciuti internazionalmente» filo-occidentali di Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i condizionamenti delle due «firmatarie» dell’intesa del 16 in Marocco. Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo.
Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a Derna e addirittura a Tobruk?
Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico.
Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico?
Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di cautela «non vogliamo una Libia-bis» di Matteo Renzi è certo apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e dei governi occidentali alla «mancata ricostruzione». L’interesse italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi «amici» in Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato ambasciatore degli Stati uniti in Libia. E’ una storia che rischia di compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere. Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 «perché Assad se ne deve andare». Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che hanno fatto in Libia.
Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per Seif Al Islam?
Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di «un Gheddafi». Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978 dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e miseria, per dichiarare la «guerra agli scafisti» (dagli effetti collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis.
È fondamentale un interlocutore — come facevamo con Gheddafi — che fermi anche in campi di concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto: formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di Seif Al Islam.