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Introduco questo breve articolo con la selezione dei titoli di altri, scritti nel corso di una dozzina d’anni specie per eddyburg, poi pubblicati in libri delle edizioni Libreria Clup o Maggioli. Ne ho aggiunti tre apparsi nel sito arcipelagomilano. Il problema dell’abitare nel senso più esteso è trattato in ognuno dei testi secondo le prerogative richieste da un semplice articolo di giornale volto soprattutto alla denuncia delle inadeguatezze, ma anche descrittivo di specifiche condizioni urbane e sostenuto dalla polemica sociale-politica, ancorché sbrigativa. Voglio dire che la scientificità insita nella definizione di «Questione delle abitazioni» (come in Engels - e vorrei dire gramscianamente «quistione») appartiene ad altre ricerche approfondite, sui testi e sul campo, per esempio quelle effettuate ai tempi del mio insegnamento di urbanistica (di per sé non avulso dall’architettura) correlato con quello di insegnanti di composizione architettonica. Ma, in definitiva, l’insieme degli articoli e il presente tassello aggiuntivo spero che costituiscano una buona base per conoscere la larghezza della «Casa».
Inevitabili certe sovrapposizioni e ripetizioni.
- Esiste ancora una «questione delle abitazioni»?, in eddyburg, 10 novembre 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, 2006, p. 103.
- Avere non avere casa a Milano, idem, 17 marzo 2006, poi in idem, p. 147.
- La casa della città pubblica. Bigino di storia per la scuola di eddyburg, in eddyburg, 18 giugno 2006, poi in idem c.s., p. 165.
- Allora esiste ancora il problema della casa?, in eddyburg, 5 marzo 2008, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, p. 143.
- Come dare l’ultima mazzata alla città pubblica, in eddyburg, 8 gennaio 2010, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010, p. 129.
- Un po’ di conti sulla casa, in eddyburg, 25 novembre 2010.
- Equivoci, ambiguità ed errori del censimento, in eddyburg, 8 maggio 2012
- Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione Universale, in arcipelagomilano, 22 aprile 2015.
- Scali ferroviari: “Rito ambrosiano” e nuovi ritualismi, in arcipelagomilano, 9 novembre 2016.
- Ultime note sulla casa, in eddyburg, 14 febbraio 2017.
- Realtà e propaganda nella condizione urbana, in eddyburg, 22 febbraio 2018.
Lodo Meneghetti, 6 settembre 2018
Dall’immediato dopoguerra il pretesto dell’urgenza trasforma la ricostruzione in una tumultuosa edificazione privata e una speculazione immobiliare che non avranno mai fine. Subito, nel 1945, Ernesto Nathan Rogers avverte che «ricostruire con criterio significa rispondere con la tecnica alle esigenze della morale». Un popolo può dirsi realmente civile se ricostruisce secondo un ordine di precedenza coerente agli interessi della società, ossia se risponde con chiarezza alla domanda per chi ricostruire. ENR non ha dubbi, si deve ricostruire per i lavoratori, per i loro bisogni: casa e lavoro ma anche scuole, ospedali, musei. Sulla stessa lunghezza d’onda e nello stesso momento Piero Bottoni pubblica da Görlich il libretto La casa a chi lavora, estensione di un articolo apparso in Domus dell’agosto 1941, Una nuova previdenza sociale: l’assicurazione sociale per la casa. Ma, a chi credeva in un forte rilancio della politica sociale della casa basteranno tre anni per verificarne l’insuccesso se non il fallimento. Il più anziano dei razionalisti, Enrico Griffini, in un saggio su Edilizia moderna del dicembre 1948, scrive di orrendo disastro milanese, di decadenza morale e civile, di ordine edilizio sostituito dal caos: «Una licenziosa e babelica febbre costruttiva conduce questa nostra città a imbruttirsi oltre ogni previsione, perdendo tutta la sua organicità e l’unitaria bellezza formata e difesa dai nostri padri nella pazienza dei secoli».
Eppure, grazie alla fiduciosa vocazione di personaggi resistenti in amministrazioni pubbliche o sul fronte della cultura urbanistica e architettonica, la casa popolare cercava di farsi largo nella città benché non riuscisse a bloccare un’attività privata senza scopi sociali che come una marea sarebbe montata sempre più su se stessa – non solo abitazioni, uffici di ogni tipo – andando a occupare gli spazi prima poveri di attrattive per le bande armate della speculazione. Ad ogni modo bisognava rilanciare la dotazione pubblica danneggiata dai bombardamenti o impedita durante la guerra: case dell’Iacpm, Incis (Istituto nazionale case impiegati statali), case comunali e di altri istituti delegati a possederne o a realizzarne. Esemplare la nascita del QT8, con la nomina di Piero Bottoni a commissario da parte del Comitato di liberazione (11 maggio 1945). Troppo noto il QT8 per indugiarvi, va detto però che se fosse permansa una dedizione degli amministratori pubblici eguale a quella che aveva permesso la rivoluzione della funzione stessa della Triennale, non saremmo costretti a riconsiderare oggi le denunce di Rogers e di Griffini. Nuovi quartieri di edilizia popolare se ne realizzeranno specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta, ma gl’interventi saranno ultra-periferici e malamente progettati. Unica eccezione il quartiere Feltre, favorito sia da una progettazione di diversi architetti coordinati da Gino Pollini, sia dalla prossimità del parco urbano del torrente Lambro.
Milano si avviava a un drastico cambiamento sociale. La città, pur sospinta verso l’affermazione del proprio ruolo finanziario e commerciale, presentava una corposa entità di operai o assimilati e di posti di lavoro industriali. Delle persone attive, 47,5 % dei residenti, il 54,3 % erano operai. Gli stabilimenti industriali in città dovevano richiamare anche una parte di forza lavoro da fuori, come si evince dalla differenza fra attivi e addetti. Nei decenni successivi a Milano imperverserà il rivolgimento demografico, economico, sociale. Gli abitanti residenti continuano a diminuire, sicché il milione e182.000 del primo censimento del nuovo millennio rappresenterà l’estremo di un impressionante crollo demografico. La successiva inversione di tendenza sarà dovuta esclusivamente all’ottenimento della residenza di immigrati stranieri, così che la città potrà riconquistare una consistenza demografica almeno non inferiore a quella del 1951.
Gli operai stabili per abitazione (residenti), occupati in città o altrove, che a suo tempo superavano la metà della popolazione attiva e dunque imprimevano un potente marchio di classe lavoratrice tradizionale, diminuiscono molto più velocemente dell’intera popolazione e degli attivi totali, così che il loro peso, già ridotto al 10 % entro la fine del secolo, risulta oggi trascurabile. L’industria è sparita da Milano, vuoi per abolizione pura e semplice vuoi per delocalizzazione, ma il processo di azzeramento lungo gli anni ha colpito molto più pesantemente il risiedere operaio che il lavorare, mentre si susseguivano ondate di terziario che allagavano spazi di ogni specie, in primis quelli residenziali.
I quartieri popolari di una volta non bastavano ma servirono. Al contrario: da un lato, amministratori comunali prima estranei a una cultura europea in materia di case popolari, poi, da oltre tre decenni, fedeli interpreti dei principi fondiari ed edilizi liberisti, da un altro lato la terziarizzazione selvaggia: queste le cause essenziali che hanno provocato l’espulsione da Milano di famiglie e persone di quei ceti ma, ormai avvenuta la trasformazione strutturale e occupazionale, hanno anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori del terzo settore (gli operai dell’epoca attuale) che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non da oggi non occorre essere operai per essere poveri o comunque inidonei a fronteggiare gli oneri imposti da una città come Milano.
Il terziario milanese, si sa, è pieno di lavoro a termine, precario, faticoso anche se franco dalla tuta sporca d’olio di macchina; se non è provvisorio è comunque spesso sotto la minaccia del licenziamento. Cosa possono offrire alle classi disponibili per lavori veri e seri i settori decantati ineguagliabili in Europa, anzi nel mondo, come la moda (del resto man mano venduta ad atelier stranieri) e il design ridotto a rappresentazioni di forme malthusiane o di stranezze, in generale tradimento della grande tradizione milanese, epitome di utilità e di bellezza, conclusa molto prima della fine del secolo breve. Del commercio generale e generico meglio tacere, per quel dominio di mafia e ‘ndrangheta che lo contraddistingue.
Le famiglie e le persone resistenti in città nonostante tutto, rappresentano il rimanente della classe d’antan, non più propriamente classe mancando uno specifico rapporto di produzione, infatti sono per lo più pensionati anziani – compresi gli ex occupati in lavoro non operaio ma a basso salario – soprattutto donne. La struttura della popolazione milanese è sbilanciata verso le fasce d’età elevate. Anni fa, quando la popolazione era maggiore, demografi e sociologi descrissero in maniera fulminante uno dei caratteri dominanti della struttura demografica milanese: essere donne, essere vecchie, essere sole. Le donne erano ben l’80 % dei residenti ultrasessantenni soli, a loro volta una presenza relativa forte mentre cominciavano a diminuire le fasce d’età giovanili, in seguito man mano sempre più ridotte.
Oggi sappiamo che la decadenza demografica milanese deriva anche dalla struttura d’età sempre squilibrata nella stessa direzione (per ora è troppo scarsa l’incidenza dovuta ai giovani immigrati). La malaresidenza, oltre alla malasanità, infierisce più che nel passato; la proporzione conta più della numerosità assoluta e proprio per questo la città ne risente maggiormente l’effetto. I pensionati, le donne sole anziane, i nuovi poveri, gli ex affittuari di case popolari costretti all’acquisto o ad arrangiarsi in un mercato libero criminoso rappresentano il volto oscurato di una Milano che crede di accecarci con le luci violente della moda, delle fiere, delle strade di negozi e atelier in buona parte in mano alla mafia legale degli investimenti commerciali e finanziari.
L’Aler (Azienda invece che Istituto) ha tradito l’eredità dell’Iacp migliore, coerentemente al cambiamento del nome, il secondo può scusare la propria inerzia con le conseguenze degli atti di un sindaco (Albertini,1997-2006) industrialotto lombardo, deciso da subito, disse, ad amministrare il municipio come un condominio. Il Comune ha privatizzato le migliori delle sue case estromettendo i vecchi inquilini mentre ha lasciato degradare quelle affittate alle famiglie dal reddito per così dire inadeguato; la peggior giunta comunale liberava begli edifici in zone pregiate affittati da decenni a popolo residente con il pretesto di ristrutturarli; poi, magari trascorsi due decenni come nell’incredibile caso (dimenticato?) dei 157 alloggi di piazzale Dateo, negava il diritto al rientro e decideva di guadagnarci vendendoli a prezzi di mercato preferibilmente a un unico imprenditore-speculatore. Altro pretesto quello di reinvestire in alloggi popolari nell’estrema periferia «meno costosi di tre volte», sempre secondo il sindaco Albertini. Da qualche anno il Comune si è accollato una parte modesta del patrimonio di Aler, ma per ora non si conosce l’auspicata politica sociale di sinistra nella gestione delle assegnazioni, della manutenzione, del rapporto fra proprietà e affitto.
Allora, a Milano (in Lombardia) è cambiata la qualità del servizio sanitario nazionale. Molti cittadini (etiam ego) hanno sperimentato sulla propria pelle l’arretramento dalle posizioni di eccellenza invidiate dalle altre regioni. Lo spostamento delle risorse a favore di un numero enorme di cliniche private convenzionate e ad ogni modo il privilegio ideologico e pratico riservato al privatismo più ricco corrispondono al decadimento dell’offerta pubblica. Siamo giunti al momento in cui a Milano e in Lombardia la malasanità si afferma come sistema sociale ed economico. Dovremo aggiungervi la constatazione di una malaresidenza, seconda fettuccia di un legaccio che rende irreversibile la difficoltà di vita di tante famiglie.