Ricordare la solitudine degli aquilani sotto il falso manto mediatico protettivo di Guido Bertolaso e del governo Berlusconi nei giorni antecedenti e successivi al sisma del 6 aprile 2009, è un imperativo morale categorico. Per questo il libro di Antonello Ciccozzi, Parola di scienza Un’analisi antropologica (Prefazione di Pietro Clemente, DeriveApprodi, 2013), che ci ricorda le contraddizioni e gli imbrogli perpetrati in quella oscura stagione non può che ricevere un forte encomio da chi ritiene che le vittime del terremoto dell’Aquila meritino giustizia e “verità”.
I fatti sono noti ma, poiché se ne va perdendo memoria, quasi fosse trascorsa un’era geologica, merita riassumerli brevemente. Dopo quattro mesi di scosse sismiche di magnitudo modesta ma molto frequenti avvertite a L’Aquila e nella regione circostante, a seguito di una più forte scossa di magnitudo 4.1 la popolazione allarmata (alcuni edifici si erano lesionati) cominciò a prendere alcune precauzioni, dormendo in macchina o spostandosi nelle seconde case o in case di parenti e amici ritenute più sicure. Un tecnico che lavorava nei laboratori del Gran Sasso notando che le sue apparecchiature segnalavano crescenti emissioni di radon, poiché la fuoriuscita di radon è notoriamente un precursore di terremoti, cominciò a fare circolare la voce che bisognava prepararsi a un forte evento. La Protezione Civile, ritenendosi l'unica depositaria del sapere sui terremoti in Italia, lo denunciò per "procurato allarme" e convocò la Commissione Grandi Rischi (CGR) allo scopo di “rassicurare la popolazione” (come risulta anche dalle intercettazioni telefoniche). Il 31 marzo 2009 la CGR (composta da tre membri ufficiali) e quattro funzionari “esperti” della Protezione Civile si riunirono a l’Aquila. Al termine della breve riunione (il cui verbale è stato diffuso dopo il terremoto) venne comunicato alla popolazione che poteva stare tranquilla e che addirittura poteva bere un bicchiere di vino. A seguito di questa comunicazione, molte persone rientrarono a dormire nelle loro case. Nella notte del 6 aprile il terremoto uccise 308 persone e distrusse il centro storico e altre aree intorno alla città. Colpiti nei loro affetti alcuni cittadini hanno denunciato gli esperti della CGR per la rassicurazione data che li aveva indotti a restare nelle abitazioni. Al termine del processo di primo grado, il 22 ottobre 2012 i sette esperti vengono condannati a sei anni di carcere, tutti indistintamente visto che come risulta dal verbale della riunione nessuno si dissociò. La ragione della condanna è nella leggerezza con cui hanno di fatto previsto che il terremoto non sarebbe accaduto.
Il cuore del libro “Parola di scienza” è la perizia antropologica, riportata integralmente, richiesta all’autore dal Tribunale de L’Aquila, per capire gli effetti della “rassicurazione” sui comportamenti individuali e collettivi della popolazione aquilana data dalla Protezione civile attraverso comunicazione mediatica dopo la riunione della CGR. La perizia, unica nel suo genere in ambito giuridico (mai prima in Italia sono state richieste perizie antropologiche su tematiche di rischio), è preceduta da una prefazione del prof. Pietro Clemente, ordinario di Antropologia culturale, che, oltre a mettere in luce le valenze scientifiche della ricerca, offre un ricco e convincente contributo interpretativo personale sul contesto antropologico in cui le vicende si sono svolte. Nella note introduttive dell’autore che precedono la perizia, viene descritta la sua personale esperienza e quella di altri cittadini, concentrando la lente su emozioni e decisioni suggerite ed ispirate da quel lo che - per usare le categorie del premio nobel per l’economia Daniel Kanheman - è il pensiero “veloce”, ma elaborate però con la severa razionalità del “pensiero lento”. Il concetto di fondo della perizia, supportato da una dovizia di argomentazioni antropologiche a sostegno, è molto chiaro: benché molti aquilani, sulla base della paura, avessero preso la decisione di lasciare le loro case, vi sono rimasti perché i loro comportamenti sono stati “viziati” dalla rincuorante comunicazione, in quanto dalla stessa comunicazione, e in generale dal clima creatosi intorno alla sequenza sismica si evinceva che solo gli “esperti” della CGR potevano meritare fiducia e che la loro parola era praticamente infallibile. In una densa e struggente postfazione, l’autore, collocandosi nello spazio temporale del dopo processo, punta il mirino sulla scomposta risposta della classe corporativa degli scienziati all’esito della sentenza. Scienziati che, senza aver letto le motivazioni della sentenza, sono caduti nella trappola predisposta da chi ha fatto passare lo slogan che gli esperti sono stati condannati “per non aver previsto il terremoto”.
Ma perché il libro di Ciccozzi è di così grande interesse culturale anche per chi antropologo non è? Per almeno tre motivi. Per la conservazione della memoria, innanzitutto. Nella cultura sismica, si sa, la memoria non è una scelta ma un obbligo, non soltanto perché il terremoto è un tragico evento di perdita, ma anche perché è un insostituibile laboratorio di apprendimento per la sicurezza del domani. In epoche antiche, in Italia, erano i riti collettivi, le processioni riparatrici, gli ex-voto, le preghiere e i racconti dei vecchi a mantenere viva nelle famiglie la memoria della tragedie e la cognizione delle tecniche di sopravvivenza che si tramandavano da una generazione all’altra. Anche in epoche più secolarizzate la ricostruzione storica è stata la via maestra per difendersi dai terremoti, nella crescente consapevolezza che il ricordo degli accadimenti non produce solo conoscenza scientifica ma anche conoscenza altra, cioè una conoscenza generata dall’esperienza del dolore, irriducibile ad altre forme di conoscenza, ma universalizzabile e capace di farsi misura di prevenzione. Persino oggi, nell’era della tecnica per eccellenza, se si vogliono affinare forme di pacifica coabitazione col terremoto, la memoria storica è la componente di base prioritaria, sia che si guardi al terremoto come “evento naturale” sia come “ evento sociale”. È infatti il principio cardine su cui si basa la classificazione sismica del territorio nazionale, la normativa sismica per le costruzioni e tutte le altre misure di prevenzione dei paesi avanzati.
Ma “la smemoratezza del moderno” – come la definisce l’antropologo Pietro Clemente nella avvincente prefazione al libro di Ciccozzi – sembra essere l’altro principio che, in Italia, governa la società del rischio che si autodefinisce moderna. Nel caso dei terremoti la ragione è ovvia. Il terremoto non schiude solo affascinanti universi scientifici o buoni sentimenti di pietà e solidarietà. I terremoti fanno venire a galla anche le realtà meno nobili di un paese: interessi economici, profitti, illegalità, omertà, complicità, che riguardano le classi dirigenti, le imprese, gli operatori, e persino il mondo della cultura e della ricerca. Per questo c’è un preciso interesse nel fare calare il velo dell’oblio sugli accadimenti che hanno preceduto e seguito il terremoto de L’Aquila, perché l’Aquila è l’archetipo di quel “grumo di misfatti” – per usare un’espressione di Barbara Spinelli – che formano un tutto unico con il sottobosco e la sottocultura del nostro paese.
Un interesse a dimenticare che si estende ad una finestra temporale anche molto più ampia di quella considerata nel libro di Ciccozzi, perché quanto accaduto a L’Aquila non è un fiore del male spuntato all’improvviso. È il punto di arrivo di un lungo percorso di cancellazione della memoria. Cancellare tutto dalla lavagna è stato, fin dal 2002, data di inizio della “resistibile ascesa” della nuova Protezione civile, il principio guida delle politiche di Bertolaso, spalleggiate oltre che dal capo del governo, da un piccolo manipolo di esperti, alcuni dei quali membri della Commissione Grandi Rischi (CGR), che hanno “rassicurato” gli aquilani e che hanno fornito le basi ingegneristiche per un rovesciamento a 180 gradi del modello di difesa dai terremoti. Depennare le buone pratiche accumulate nei precedenti trent’anni di cultura sismica in Italia era, allora, la conditio sine qua non per annunciare la nuova alba della cultura sismica in Italia e sostituire a un modello di difesa dai terremoti, basato su una dialettica «multipolare» centrata sul territorio, un modello centralizzato, esterno, unipolare, in cui solo la Protezione civile e il suo «polo esperto» erano i depositari della protezione sismica. Cancellare tutto dalla lavagna è, oggi, la conditio sine qua non per difendere l’operato degli esperti condannati dalla sentenza del 22 ottobre 2012, e per deviare l’attenzione verso porti delle nebbie dove tutto si mescola e si confonde, in modo da poter martellare in modo mirato su alcuni luoghi comuni circa l’imprevedibilità dei terremoti e così ridicolizzare la magistratura e tutti coloro che vogliono riprendere il filo delle buone pratiche.
È utile, oggi, per chi ha subito la condanna, far dimenticare che, oltre che accademici, alcuni degli esperti della CGR, in quanto liberi professionisti, ricevevano (in pieno conflitto di interessi con il ruolo di “esperti” della CGR) commesse professionali dalla Protezione civile, come è ancora oggi facile verificare sul loro stesso sito web. O far dimenticare che ad alcuni membri della CGR subito dopo il terremoto è stata affidata dalla Protezione Civile la progettazione e la realizzazione dei nuovi 19 quartieri a L'Aquila del Progetto C.A.S.E. , e che il collaudo delle apparecchiature antisismiche è stata affidata al Laboratorio (nato dal nulla nel 2003) finanziato dalla Protezione Civile e diretto da uno dei membri della CGR. E, infine, che questo centro di eccellenza venga oggi utilizzato per chiamare a raccolta 4000 operatori del mondo scientifico, tra cui dottorandi o anche studenti pomposamente chiamati “scienziati”, a difendere i nuovi “Galileo” (il quale Galileo starebbe, invece, oggi dalla parte dell’accusa, come bene dimostra Ciccozzi!). Solo seppellendo le tante imbarazzanti verità del passato è possibile completare la grande opera di falsificazione dell’era Bertolaso azzerando colpe e responsabilità. Se tutto è dimenticato è possibile reci- tare la parte degli scienziati feriti e umiliati da una condanna “assurda”, da loro falsamente presentata alla comunità scientifica e al mondo giornalistico come sanzione “per non avere previsto il terremoto”. Ed è facile trovare “esperti” pronti a gridare sulle persecuzioni alla scienza.
Ma è non solo per la conservazione della memoria che il libro merita apprezzamento. Perché – e questo è il secondo motivo di interesse – la doppia lente con cui l’autore esamina i fatti crea una circolarità virtuosa tra forme di conoscenza che permette di fare “verità” su molti aspetti della tragedia aquilana. Sia le vicende della notte del 6 aprile 2009 sia quelle più recenti sono infatti esaminate attraverso un doppio filtro critico: quello dell’analisi teorica condotta con categorie strettamente antropologiche e quello dell’analisi esperienziale di testimone della tragedia. Come è stato osservato a proposito del personaggio di Pessoa, Bernardo Soares, la finestra da cui l’autore guarda e interpreta gli accadimenti “ha le imposte che si possono aprire sul fuori e sul dentro”. Il “fuori” è l’operato della CGR. Il “dentro” , sono le gallerie segrete scavate nell’animo umano da un evento così sconvolgente dall’essere al di là delle possibilità di comprensione ma che producono e generano un modo del tutto nuovo di conoscenza. Ma anche quando la ricerca porta oltre i confini strettamente antropologici o sfonda addirittura nel territorio dell’esperienza personale, non c’è mai, nel libro, tema od evento che non sia descritto o interpretato senza uno sforzo di rigorosa razionalità. L’autore privilegia sempre il fattore cognitivo su quello valutativo, continuamente ricercando gli appropriati supporti scientifici, perché il suo obiettivo è conseguire la “verità”, attraverso “il pensiero lento”, i passaggi logici e i continui faticosi esercizi di spogliazione della soggettività, degli impulsi e delle tensioni emotive.
Il terzo motivo di interesse culturale è che il libro ci fa capire con argomentazioni avvolgenti quanto sia importante la vigilanza perché ciò che è accaduto non accada mai più. È inconfutabile che l’era Bertolaso rappresenti un unicum nella storia della Protezione civile italiana ma è anche indubbio che seppure più in segreto e in misura più contenuta il malessere di quella stagione non è finito. Se, come è stato detto , “solo la malattia permette di conoscere lo stato di normalità”, soltanto una comprensione piena delle patologie di quel momento storico può condurre a un’adeguata comprensione di alcune deformazioni fisiologiche del nostro paese. L’Aquila non è solo una lente che ha messo a nudo le patologie dell’era Bertolaso. L’Aquila ci permette di capire meglio i guasti della nostra normalità. Puntigliosamente attento a dare una rigorosa e oggettiva descrizione degli accadimenti e ad una loro interpretazione strettamente ancorata alle teorie antropologiche, l’autore tocca alcuni nervi sensibili della nostra attualità, gettando luce su quel mix di distorsioni nei rapporti scienza-potere-società che hanno avuto certamente il loro massimo storico nell’era di Bertolaso ma non certo estinte nella società italiana e persino mondiale: l’arroganza del potere, la pretesa infallibilità e cortigianeria degli esperti, il dispotismo della tecnica, la manipolazione mediatica, gli abusi di autorità autodefinitesi, che hanno tra i loro effetti l’appropriazione dei beni pubblici, la devastazione della geografia e della storia dei luoghi, la sottovalutazione dei rischi, le omissioni, le inconcludenze e le inadempienze del potere politico e accademico. Dopo avere centrato il compasso sulla ricerca antropologica svolta, l’autore allunga il raggio della sua riflessione, risale controcorrente per spiegare le connessioni tra cause ed effetti di quella vicenda dai tragici esiti. Ma è soprattutto la reazione degli scienziati (quasi coro unanime con pochissime voci in controcanto) che lo porta ad allargare il cerchio, a riflettere sulle nuove forme magico-sacrali della società tecnologica, sulla mancanza di autonomia dal potere degli scienziati e degli esperti. La ferita, inferta agli aquilani ma anche alla stessa scienza, dalla corporazione degli scienziati che a livello mondiale si sono piegati, senza verificare prima le ragioni della sentenza, a dare supporto alla tesi preconcetta degli esperti della Protezione civile in una questione così drammatica, rivela, alla luce dell’esperienza del dolore, tutta la anaffettività e la miseria umana che albergano nei cuori di “luminari” spesso autodefinitisi, supponenti e persino spietati. Un’analisi che chi conosce per esperienza i soggetti che mediamente popolano le commissioni tecniche non può che condividere, visto che l’indipendenza di pensiero e il senso della complessità non sono certo la nota saliente della maggior parte degli esperti italiani che le frequentano.
L’analisi è lucida e “distante”, l’autore si afferra con un tenace sforzo di volontà alle metodologie antropologiche in un continuo esercizio di oggettivazione. Ma più il “pensiero lento” lavora, più aumentano le ragioni per considerare quella “reazione” primitiva e scientificamente contro natura. Il pensiero veloce dell’autore interagisce con il pensiero lento e raccorcia le distanze tra oggetto e soggetto fino a diventare “ira santa”, passione furente, malessere esistenziale per manifestazioni come quella che ha portato gli scienziati a credere alle fandonie giornalistiche spacciate da chi ha interesse a dire di essere stato condannato per “non avere previsto il terremoto”.
Perciò tutti noi che abbiamo fatto o facciamo parte di commissioni tecniche non possiamo che essere infinitamente grati a chi dalla doppia angolazione dell’antropologia culturale e dell’esperienza del dolore ci ricorda i limiti del nostro sapere e ci richiama a coniugare competenza scientifica e sensibilità umana.
L'autrice ha insegnato, dal 1982 al 2010, Ingegneria Geotecnica Sismica presso l’Università degli Studi di Firenze.
Riferimenti:
Al terremoto e agli scandali del dopoterremoto eddyburg ha raccolto molti documenti, nella cartella Terremoto all'Aquila