Si è fermato il sogno americano
di Federico Rampini
Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.
Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.
Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.
È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.
Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.
Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa – osserva il demografo William Frey della Brookings Institution – la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".
Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso – e traumatizzante – in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.
E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.
La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".
Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.
Quella lunga corsa a Ovest di un Paese fatto di speranza
di Vittorio Zucconi
La sua traduzione pratica e industriale era stata non soltanto l’automobile e, ancor di più, il "pick-up", il camioncino che fino dagli anni della Grande Depressione e della siccità aveva trasformato stati come l’Oklahoma in immense conche di polvere. Su di esso, famiglie intere ritratte dai grandi fotografi e raccontate dai narratori della disperazione come Steinbeck, aveva caricato le miserabili masserizie e i rottami del proprio fallimento, per andare verso l’Oceano Pacifico e la frontiera dell’ultima speranza, oltre la quale c’erano soltanto migliaia di chilometri di acqua.
Quando, negli Anni ‘50 e sotto il pungolo della Guerra Fredda e del timore di un’invasione, il generale presidente Dwight Eisenhower aveva lanciato la costruzione delle autostrade interstatali, secondo i criteri strategici delle strade consolari romane, il continente si era trasformato in un piano inclinato sul quale tutto ciò che non fosse saldamente inchiodato o radicato ruzzolava verso Ovest.
Furono inventati i "caravan", furgoni per passeggeri e persone, eredi dei carri coperti che il signor Studebaker aveva costruito per i Pionieri del XIX secolo e i magnifici Winnebago di alluminio lucido come gli aerei, roulotte leggere da agganciare alle Chevy, alle Ford, alle Chrysler per trascinare vite oltre le Montagne Rocciose.
Fino agli Anni ‘80 e ai primi Anni ‘90, in coincidenza con la vittoria - forse pirrica - sul nemico "rosso", le statistiche dicevano che un americano medio cambiava 20 lavori, non soltanto "posti", ma proprio attività, e 25 indirizzi nella propria vita, a cominciare dai 17 anni quando figli e figlie dovevano lasciare il nido materno, i più fortunati per il "college", gli altri per un lavoro e dunque un proprio indirizzo. Potevano piangere agitando i fazzoletti, i genitori, ma erano loro per prima a sapere che quello di andarsene, di volare via, di rispondere al "destino manifesto" di muoversi e conquistarsi spazi e territori propri, era la condizione dell’essere americani.
Il vero carburante, ancora più della benzina a poco prezzo che alimentava la migrazione perenne dei "tumbleweed", dei cespugli rotolanti, era lo stesso che aveva mosso i padri, i nonni, i bisnonni generazioni prima: la speranza. Meglio, la certezza che oltre il profilo delle colline e delle montagna, prima dei bassi e facili Appalachi poi le durissime Rocciose seguite da deserti micidiali dove morivano pionieri a migliaia, c’era il futuro migliore al quale tutti aspiravano. Era stata una continua corsa all’oro, anche quando l’oro non c’era più, e al suo posto sorgevano gli stabilimenti aereospaziali, i fertilissimi campi della California, i giacimenti e le miniere che costruirono città come Denver. E non importava - perché quello era il diritto storico, il lascito del destino - se nel rotolare da Est a Ovest la migrazione che portò un’Italia intera dall’Atlantico al Pacifico nel dopoguerra, 60 milioni, e che prima aveva guidato i pionieri scortati dalle giubbe blu, avrebbe travolto i popoli che già abitavano quelle terre, niente affatto vuote.
Se oggi la lava si sta raffreddando è perché la speranza, la certezza del futuro migliore alla fine dei grandi cieli sono diventate merce più rara, mentre è cresciuta, con il prezzo della benzina, la paura di perdere quello che si ha, più che la libidine di conquistare quello che non si ha. Tornano sempre più al nido dei genitori i non più giovanissimi, i trentenni e qualcosa, che dopo il college, o il primo matrimonio fallito o i licenziamenti multipli divengono la "boomerang generation", la generazione che va e poi ritorna.
Soltanto un americano su tre pensa che i propri figli staranno meglio di loro e persino la California, la Terra Promessa che già nel 1849 spinse i disperati a morire nella Valle del Morte in Nevada pur di raggiungerla, è in crisi demografica, oltre che finanziaria. Se un flusso umano continua è quello che viene da Sud, dall’oltre "Frontera" quella del Messico.
Si vedono ancora, sulla autostrade, i "caravan", i pick-up, le mega roulotte e le case mobili che portano sulle rastrelliere le biciclette dei bambini o l’auto di famiglia, con il papà al volante della motrice, la mamma al fianco e i marmocchi sballottati dietro, ma sono quasi sempre i lavorati migranti, i carpentieri, gli elettrici, gli idraulici, i muratori che seguono come procellarie il corso degli uragani e dei tornado per andare dove c’è da ricostruire e da guadagnare per qualche settimana o mese. Il grido del «Go West young man», va a Ovest giovanotto è sempre più lo stai fermo dove sei, aggrappato a quello che oggi hai. Domani non è più necessariamente il primo giorno del resto della tua vita, come voleva il proverbio ottimista, ma potrebbe essere l’ultimo della vita che ora hai.
postilla
Richard Florida ieri, a proposito dei medesimi dati censuari commentati da Rampini e Zucconi, scriveva sull'Atlantic che "La proprietà della casa, un tempo segno di ricchezza, in molti casi è oggi un ostacolo. Si discute fra economisti su quanto esattamente essere bloccati da un immobile che non si riesce a vendere impedisca di cogliere nuove occasioni di vita e lavoro: i dati indicano che l'ostacolo è notevole".
Florida coglie forse di più, oltre le immagini se mi si consente un pochino retoriche dei nostri inviati speciali, un aspetto della faccenda che dovrebbe stare a cuore di chi si occupa di territorio, sviluppo, ambiente. Perché il portato di questa storica mobilità, legata a quadruplo nodo alla crescita economica, si chiama suburban sprawl, consumo di suolo, spreco energetico. Quello che tramonta non è tanto un sogno più o meno americano, o un mito della frontiera, quanto l'idea di un mondo vacca da mungere senza criterio.
Naturalmente ci sono tanti altri aspetti della questione, come quello dello stravolgimento sociale degli spazi della dispersione, di cui ho provato a trattare qualche giorno fa in un pezzo su Mall, ma avremo modo di tornarci in seguito (f.b.)