Dico per titoli i fatti storici dai quali parto: il crollo dell'ipotesi sovietica, la crisi irrimediabile dell'esperienza della socialdemocrazia europea e la sconfitta del `68. E' un «elenco» che - in modo del tutto sommario e sempre a mo' di titolo di una possibile e auspicabile ricerca analitica adeguata - narro così: il tentativo fallito di costruire il socialismo mutando la proprietà dei mezzi di produzione, non il modo di produzione e l'illusione di potersi servire dello strumento «stato» per fare l'operazione, dimostra che non è possibile, senza mutare anche il modo di produzione e senza costruire uno stato che non sia - come quello uscito dalla Rivoluzione francese - uno strumento dotato di garanzie giuridiche e di laicità, ma in fin dei conti autoritario e militarista.
La crisi irreversibile della grande socialdemocrazia europea, compreso anche il suo esempio estremo di «sinistra socialdemocratica» che fu il Pci, dimostra che anche costruire lo stato sociale è una buonissima idea, ma non basta per mutare l'economia e non regge alle spinte militariste anche prima citate.
Quanto al `68, la cui origine antiautoritaria e creativa poteva far sperare che avrebbe ovviato ai limiti prima elencati, esso fu sconfitto non perché avesse sbagliato l'agenda dei problemi (che sono ancora tutti lì irrisolti e presenti) bensì le forme della politica con la trasformazione del movimento in una costellazione di partiti e partitini aventi caratteristica di istituzioni generaliste, quando già la critica di tali forme era nata. In più di avere ceduto - per una immagine di stato non radicalmente diversa da quella sovietica - all'idea che l'uso della forza o della violenza politica potesse avere una carica rivoluzionaria.
Se questi sono i titoli di un possibile ragionamento e tenendo conto che nel frattempo sono avvenuti fenomeni sociali molto vasti (migrazioni, delocalizzazione produttiva, segmentazione dell'iniziativa sindacale) e sono nate nuove culture politiche (femminismo, ecologia, pacifismo) sembra di poter osservare che non si può avanzare di un passo se non si ripercorrono i temi indicati, per trovare le cause dei fallimenti e porvi rimedio.
A me pare che si dovrebbero soprattutto analizzare le novità sociali e culturali e di conseguenza disegnare la traccia di un sistema di relazioni politiche che tenga conto dell'esistenza della società complessa, della critica alle forme generaliste e della prevalente cultura sistemica; in più bisogna analizzare con cura i nuovi movimenti, che hanno la caratteristica di essere politici e non rivendicativi e perciò pongono la domanda cruciale di ridiscutere il sistema delle relazioni politiche. Inoltre sembrano, in tutto il mondo, avere scelto la pratica dell'azione diretta nonviolenta e di non rifiutare un rapporto con le istituzioni formali e informali.
In più - e questa è la caratteristica più innovativa - i movimenti hanno un approccio alla realtà attraverso un simbolico che non è più quello del mosaico (l'armonia dei vari pezzi e colori che prevede sempre uno che disegna e stabilisce funzioni e dispone i pezzi al loro posto) bensì un modo olistico di leggere il reale, tanto che in uno dei pezzi - per piccolo che sia - si trova il nesso con l'intera realtà e per questo ogni movimento è politico e un sistema di relazioni deve tenere presente la questione di come si compone il rapporto tra molteplici (non tra plurali), che restano tali e non sono riducibili a unità o a sintesi: in altri termini come si può organizzare una serie di relazioni politiche e di forme adeguate a una complessità non riducibile. Come si risolve a sinistra l'analisi fatta da Luhmann; allo stesso modo come Marx non rifiutò l'analisi degli economisti del capitalismo ma ne mise in discussione le conseguenze sociali, le valenze politiche, la scala dei valori: tutto qui, per cominciare.