Una seria crisi politica è diventata più grave perché c’è sotto anche una crisi istituzionale "all’italiana". Frutto di procedure parlamentari divenute, per lunga incuria, anacronistiche. Prodotta da un sistema elettorale a "perdere". Figlia di un modo di pensare le istituzioni come se fossero cose, tubi, strumenti inerti: e non organismi viventi, da curare ogni giorno, specchi parlanti di una nazione.
Il Paese-nazione dovrebbe, infatti, immediatamente riconoscersi nelle sue istituzioni come immagini della sua identità e della sua storia: la rappresentazione autentica di com’è e come lo vedono gli altri. E, invece, si trova davanti a raffigurazioni estranee, a incomprensibili intrecci, a rompicapi. Come quello che qualche giorno fa spinse la maggioranza a votare contro una mozione che approvava il ministro della difesa del suo governo.
«Voto contro»: solo perché quella approvazione l’avevano proposta per primi gli avversari. «Strumentalmente» certo: ma si può combattere lo «strumentalismo», alterando il valore e il significato del «sì» e del «no» in un parlamento?
Se appena si fa lo sforzo di uscire da questo scenario di finzioni accettate, si scopre, come «Alice nel Paese delle meraviglie», di trovarsi di fronte a non-cose, a non-luoghi. Certamente di fronte a modi di fare che sfuggono alla logica semplice e chiara della Costituzione. Modi che si sono incrostati in certi angoli dove non può o non vuole arrivare l’aspirapolvere della giustizia costituzionale.
Così abbiamo una crisi per effetto di tre paradossi: uno dentro l’altro, come le bambole russe di legno.
Il primo paradosso è che il Senato italiano è l’unica assemblea al mondo in cui il governo può perdere anche quando vince. La crisi è infatti scoppiata perché la mozione della sua maggioranza aveva avuto 158 voti a favore e 136 contro. Una differenza di 22 voti che sarebbe stata una buona vittoria in qualsiasi aula parlamentare planetaria. Compresa, per non andare tanto lontano, la nostra Camera dei deputati. Ma al Senato, no: è una sconfitta. Perché? Perché a quei 136 voti contrari vanno, per prassi, sommati i 24 senatori astenuti (e dunque 160 è più di 158). Ma è giusto che chi si astiene – cioè chi non vuole prendere posizione né da una parte né dall’altra – venga considerato uguale a chi vota contro? E’ un non-senso, una bizzaria che è vecchia come la Repubblica perché il Senato ha sempre rifiutato, per immotivata pigrizia di correggerla e la Corte costituzionale, nel 1984, si dichiarò, pilatescamente, impotente a farlo (per via di una zona che sarebbe off-shore: interna corporis, in latino). Così se la votazione di mercoledì si fosse svolta alla Camera con gli stessi, identici numeri (158 a favore, 136 contro, 24 astenuti) non sarebbe successo nulla. Basta passare da Palazzo Montecitorio a Palazzo Madama perché la «non-crisi» diventi invece «crisi».
È un bell’esempio di politica spiegata al popolo, di "democrazia partecipativa". Ma non solo: questo made in Italy è una specie di manifesto culturale della nostra maniera di fare politica. Una lunga accidia dei ceti politici che hanno sempre considerato come una noiosa occupazione l’ordinaria manutenzione istituzionale. Quanto è ancora sopportabile questa asimmetria nel conteggio parlamentare sulle sorti di un Paese che voglia stare al mondo, quale che sia il colore del suo governo?
Dentro tale paradosso ve ne è un altro che in un certo senso ha innescato il primo. Ed è stato quello di aver ripescato da un’altra epoca storica, e senza le giustificazioni gravissime di allora, la conventio ad excludendum in Parlamento. Cioè, la chiusura della coalizione ad ogni voto parlamentare, sia pure occasionale, non compreso nell’originario patto di sindacato.
In questo modo si dà un assurdo potere di crisi (e, magari, in ultima analisi, di scioglimento) a ciascun senatore. E non alle componenti politiche della coalizione di maggioranza. Eppure in Costituzione la differenza è chiara. C’è l’art. 49 che assegna ai partiti (e, quindi, ai gruppi parlamentari che ne sono proiezione) il potere di «determinare la politica nazionale»: e dunque fiducia e sfiducia ai governi. E c’è l’art. 67 che tutela la libertà del mandato di ciascun parlamentare e quindi anche la libertà di dissenso. Questa libertà è ferita se, come si è fatto in questo accidentato scorcio di legislatura, si caricano su singoli senatori dissidenti responsabilità catastrofiche. Certo, etica e disciplina per i gruppi cui si è liberamente aderito vanno normalmente rispettati: se si vuole evitare l’anarchia assembleare. Ma un sistema come il nostro, anche se, per fortuna, è diventato bipolare, non può permettersi di rinunciare a quella misura di fluidità propria di ogni regime parlamentare (che è ancora il fondamento della Costituzione).
Senonché i primi due paradossi pesano ancora di più sulla vitalità del sistema perché al fondo di tutti ve n’è un terzo e decisivo. Il paradosso di una legge elettorale che non permette di vincere le elezioni al Senato. Lo impedisce perché si prevedono diciassette "premi di maggioranza" regionali. E questi si eliminano a vicenda e la loro somma algebrica non può determinare quel margine in più che garantirebbe al Senato di funzionare. Quindi abbiamo una Camera che assicura la maggioranza e un Senato che la contraddice. E non per scelte imprevedibili del corpo elettorale ma per artificiose malformazioni della legge.
Dunque: un Senato che ha le stesse funzioni della Camera, ma con ben quattromilionitrecentomila elettori in meno (questa è la anacronistica differenza tra il corpo elettorale dei post-diciottenni alla Camera e del corpo elettorale dei post-venticinquenni al Senato), può determinare con le sue decisioni contrarie all’altro ramo del parlamento una non-verità politica, cioè un risultato non corrispondente alla opinione maggioritaria degli italiani. Questo vale oggi e varrà domani. Le tabelle e l’analisi di Roberto D’Alimonte, su Il Sole 24Ore, tolgono ogni illusione che elezioni anticipate, con questa stessa legge, possano cambiare la situazione: quale che sia il vincitore.
Certo, non è più ammissibile la formula «il Senato non fa crisi» che fu la saggia regola del periodo monarchico, quando il Senato non era elettivo. Ma, per misurare lo stato di salute del sistema politico nel suo complesso, è paradossale che un Senato, così artificiosamente reso sottorappresentativo, abbia lo stesso peso della Camera dei deputati.
Domande su domande. Assurdità dentro assurdità. Rispetto ad esse l’apertura formale della crisi ha avuto almeno il senso di una ventata di aria vera e pulita. Un salutare ritorno alla Costituzione. Ma quale sarà la soluzione, è bene sapere che restano annidati e aggrovigliati nel cuore del sistema, insidiosi per tutti, quei paradossi istituzionali. E fino a che restano lì, ci sarà sempre "crisi".