Due articoli in due sezioni diverse dello stesso giornale, apparentemente senza alcun rapporto tra loro salvo il medesimo autore, toccano due aspetti del medesimo problema: sostenibilità e cittadinanza. La Repubblica, 11 dicembre 2013, postilla (f.b.)
Il diritto al cibo
C’è qualcosa di nuovo da dire a proposito della fame nel mondo? Qualcosa che non sia ancora stato detto. C’è. O meglio c’era. Ed è quel che ha detto lunedì Papa Francesco, portando all’attenzione di una politica, e probabilmente anche di una chiesa, avvitate su se stesse, una situazione planetaria che non è tollerabile: il fatto che quasi un miliardo di persone nel mondo sia malnutrita o soffra la fame non è una questione di sfortuna o di destino, è una questione di scelte e di responsabilità.
In un videomessaggio registrato in occasione del lancio della nuova campagna della Caritas Internationalis contro la fame, il Pontefice ha richiamato l’attenzione del mondo su quello che ha chiamato «lo scandalo mondiale » della morte per fame.
La fame non è certo un tema nuovo per il mondo cattolico e per i papi, ma è nuovo l’atteggiamento che emerge dalle parole di Francesco: «Non possiamo girare la testa dall’altra parte e fare finta che questo non esista, (...) invito tutti noi a diventare più consapevoli delle nostre scelte alimentari che spesso comportano spreco di cibo e cattivo uso delle risorse a nostra disposizione». La prospettiva viene ribaltata. La fame non è un accidente della storia, quanto piuttosto un prodotto funzionale al sistema alimentare e produttivo in cui ognuno di noi gioca un ruolo e ha una parte. La svolta è radicale, non si mette più al centro solo l’aiuto che i ricchi fortunati devono per spirito di carità ai fratelli più sfortunati. Al contrario, Francesco dice chiaramente che noi, con il nostro stile di vita, siamo parte del problema e non solo della soluzione.
Il messaggio del Papa è arrivato nel momento in cui mezzo mondo si stava predisponendo a partecipare alle esequie di una delle figure più imponenti della modernità, Nelson Mandela, proprio nel continente in cui oggi si concentra la maggioranza degli affamati. Se Mandela è riuscito a vedere il suo continente liberato dalla vergogna dell’apartheid e dal colonialismo (almeno quello istituzionalizzato), non è tuttavia riuscito a vedere gli abitanti di quel continente liberi dalla fame. In un passaggio del suo messaggio Francesco dice: «Il cibo basterebbe a sfamare tutti» e «se c’è la volontà quello che abbiamo non finisce». Questo è il punto, la fame è una vergogna risolvibile, cancellabile dalla storia in tempi ragionevoli. Manca la volontà politica, e noi cittadini, associazioni, organizzazioni, partiti, movimenti, dobbiamo essere la massa critica che mette in moto il processo.
Per il popolo ebraico le due calamità per eccellenza erano la fame e la schiavitù. Ecco, per sconfiggere definitivamente la schiavitù, almeno quella legalizzata, abbiamo dovuto aspettare secoli, e addirittura abbiamo attraversato periodi in cui l’umanità ha vissuto senza battere ciglio palesi contraddizioni. Basti pensare alla Costituzione Americana, stilata nel 1787, due anni prima della rivoluzione francese. Veniva sancita l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma per quasi un secolo, in contemporanea alla vigenza di quella Costituzione, negli stati del sud la schiavitù era non solo accettata ma addirittura normata. L’ultimo stato al mondo ad abolirla dal proprio codice è stata la Mauritania, nel 1980, più di due secoli dopo la nascita del movimento abolizionista.
La fame sta seguendo un percorso simile. Francesco parla del «diritto dato da Dio a tutti di avere accesso a un’alimentazione adeguata». Aggiungo che anche il diritto degli uomini sancisce questo punto fermo. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 si dice «ognuno ha il diritto a uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere propri e della propria famiglia, incluso il cibo…», mentre nella Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza Alimentare Mondiale del 1996 si fa un passo in più affermando «… il diritto di ogni persona ad avere accesso ad alimenti sani e nutrienti, in accordo con il diritto ad una alimentazione appropriata e con il diritto fondamentale di ogni essere umano di non soffrire la fame». Nessuno mette in discussione queste formulazioni, eppure tutti quanti conviviamo con la consapevolezza dell’esistenza di un miliardo di malnutriti.
Il messaggio del Papa è una sollecitazione morale straordinaria, e andrebbe inserito in un dibattito politico che sembra aver dimenticato la centralità del cibo. L’obiettivo della sconfitta della fame deve essere assunto come prioritario da ognuno di noi non solo per fratellanza universale, quanto piuttosto per il proprio benessere personale. Non possiamo essere felici se non lo sono anche gli altri, per cui fino a che non si riuscirà a cancellare questa vergogna non potremo dirci compiutamente realizzati. Se una fetta così grande della “grande famiglia umana” non ha accesso al cibo significa che noi non stiamo adempiendo al nostro dovere di fratelli.
Il Pontefice parla dell’importanza del cibo nel messaggio cristiano e porta l’esempio della parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci. In quell’occasione, messo al corrente della moltitudine di persone affamate convenute per ascoltarlo, Gesù non esita e manda immediatamente i suoi discepoli a cercare cibo per tutti. Ecco il punto: senza cibo non c’è parola di salvezza che tenga. Oggi non è pensabile immaginare futuri possibili, vie d’uscita dalla crisi mondiale, nuovi paradigmi di convivenza, se un miliardo di persone non mangia. Per questo il messaggio di Francesco è un messaggio di liberazione. Dobbiamo scrollarci di dosso la ruggine delle nostre questioni di piccolo cabotaggio politico per volare alto e per affrontare sfide davvero epocali e centrali. Questo sistema alimentare mostra ogni giorno i suoi lati oscuri, da qualunque punto di vista lo si guardi. Ai morti per fame si contrappongono gli obesi, ai malnutriti gli ipernutriti, con la differenza che gli affamati e i malnutriti non sono artefici delle proprie scelte alimentari ma subiscono la violenza del sistema.
Arizona da coltivare
Pensare all’Arizona vuol dire immediatamente pensare al Grand Canyon, uno dei luoghi più impressionanti e famosi del mondo. Una gola scavata nel corso dei millenni dal fiume Colorado, che con la sua azione erosiva ha creato una delle attrazioni principali per chi cerca viaggi ad alto tasso d’avventura. Ma l’Arizona è anche uno Stato a forte caratterizzazione agricola. Il clima semi-arido di questa terra ha fatto sì che l’uomo abbia dovuto ingegnarsi per trovare sistemi efficienti per ottimizzare le rese con il minimo utilizzo di risorse, in primis l’acqua. Ancora oggi, nonostante l’agronomia e la tecnologia agricola abbiano fatto passi da gigante, in Arizona il rapporto tra uomo e natura rimane estremamente delicato. La scarsità di acqua e di suolo fertile ha concentrato le pratiche agricole nelle zone più vantaggiose (quelle che oggi ospitano le grandi città), offrendo il substrato ambientale adatto alla nascita di una fiorente agricoltura di comunità.
Proprio l’agricoltura urbana di comunità è il centro dell’attività di Agritopia, un’interessante esperienza nel cui nome è visibile quel seme di utopia che contraddistingue il progetto fin dalla sua nascita. La famiglia Johnston acquista la fattoria, oggi il centro di Agritopia negli anni Sessanta, un periodo di transizione dalla coltura del fieno ai più redditizi cotone e grano. Trent’anni dopo inizia a essere chiaro che l’espansione inarrestabile dell’area urbanizzata di Phoenix avrebbe presto raggiunto anche l’area in cui sta la fattoria, ed ecco che nasce l’idea di pianifica-re alcune opere che includono abitazioni, aree dedicate alla commercializzazione diretta dei prodotti agricoli, un ristorante e una caffetteria, al fine di preservare lo stile di vita tipico delle comunità agricole del Sudovest. I lavori sono iniziati nel 2000, e oggi Agritopia è una comunità agricola urbana, totalmente integrata nella municipalità di Phoenix. Al centro c’è ancora l’azienda agricola e la comunità ne sostiene l’attività versando il denaro in anticipo per poi ricevere i prodotti della terra secondo la disponibilità e la stagionalità.
È quello che chiamano Community supported agriculture e uno degli obiettivi è favorire l’interazione sociale e lo scambio, rendendo consapevoli i cittadini di cosa significhi il lavoro agricolo. Ad Agritopia è anche possibile affittare alcune parcelle di terreno per coltivare personalmente il proprio orto e i lavoratori dell’azienda agricola che mettono a disposizione tecniche e savoir faire. L’intera produzione è biologica, e la rigenerazione dei terreni si fonda su un complesso sistema di rotazione delle colture. Dalla monocoltura si è passati a un’ampia biodiversità, con frutteti, orti e colture cerealicole. Agritopia è uno dei tanti esempi di agricoltura di comunità praticata in Arizona, ed è il simbolo di una sensibilità crescente nei confronti della produzione alimentare sostenibile, anche in una zona poco fertile come il deserto del Sudovest americano. Phoenix è la base ideale di partenza per una visita dello Stato, e le suggestioni gastronomiche non mancano: il ristorante The Herb Box, nel sobborgo di Scottsdale, offre sempre piatti stagionali e attenti al territorio, mentre il D-Vine, a Mesa, è interessante anche per la presenza nella carta dei vini di alcune cantine dell’Arizona, dove esiste una piccola ma significativa viticoltura.
postillaSe l'accesso al cibo è un diritto, come autorevolmente sottolineato anche dalle parole del Papa, forse non va dimenticato sino a che punto il concetto di città si leghi a quello di diritti, e parallelamente quanto il tema dell'urbanizzazione, della sua sostenibilità ambientale e sociale, sia ormai all'ordine del giorno in questo nostro terzo millennio. Urbanizzazione autoritaria, tecnocratica, puro strascico della civiltà industriale meccanica oggi rappresentato dal trionfo del capitalismo finanziario liberista, significa ancora e forse inevitabilmente mega-città tradizionali, diseguaglianze, campagne industrializzate, land grabbing, e in sostanza accessibilità limitata alle risorse, oltre che loro spreco. Urbanizzazione sostenibile significa recuperare, o almeno cercare di recuperare, un diverso rapporto fra natura e artificio, città e campagna, recuperando il meglio della tradizione utopista senza per questo rinunciare agli avanzamenti tecnologici messi a disposizione dal progresso industriale e scientifico. L'idea di agricoltura urbana partecipata e integrata è una delle risposte più avanzate sinora emerse: non ritorno a un improbabile passato, ma sperimentazione per un futuro migliore (f.b.)
p.s. uno studio recente che affronta il tema dell'equilibrio fra attività primarie e urbanizzazione a scala molto ampia conferma questa prospettiva