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Lodo Meneghetti
Agli studenti di architettura: leggete il libro di Mike Davis
15 Novembre 2007
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Il pianeta degli slum , Feltrinelli 2006 . - Ne conoscono qualche immagine...

Il pianeta degli slum , Feltrinelli 2006. - Ne conoscono qualche immagine, gli studenti avranno visto su giornali e riviste o casualmente alla televisione (che però, lo sappiamo, nell’informare è falsa come Giuda) il modo di abitare e di vivere cui devono soggiacere milioni di persone in molte megalopoli: le gigantesche proliferazioni urbane cancerogene e metastatiche nel Terzo mondo cui sarebbe sbagliato assegnare il termine urbanistico di “espansione urbana”: troppo dolce, troppo collegato al processo normale e per così dire occidentale che la città ha da sempre introiettato nel suo puro consistere. Per la verità il concetto di espansione e la realtà cui è riferibile sono mutati profondamente nel corso del tempo. Oggi per esempio, riguardo al territorio milanese, come a molti altri contesti italiani, europei e americani, designiamo col termine sprawl un tipo di espansione, o di aggressione (per dire che l’una vien da dentro, l’altra da fuori) che non ha niente della tendenziale crescita fisica della città fino a tutta la prima metà del XX secolo. Lo sprawl è la scomposta periferia metropolitana, (to sprawl, propriamente, significa ”adagiarsi in modo incomposto”), il confuso spazio una volta in gran parte campagna nel quale gli abitati non sono più riconoscibili nella loro conformazione storica ma sono mischiati, unitamente al margine della città centrale, in un magma entro il quale non riusciamo più a ritrovare né confini né toponomastica né chiare direzioni stradali. Uno spazio, un’edilizia irragionevoli, privi di dignità civica, estranei ai caratteri della vecchia periferia aggrappata al cuore della città e non del tutto differente. Lo slum periferico è un’altra cosa. Non lo erano le insane e orribili parti delle città industriali ottocentesche descritte da Engels e Marx; né parrebbe del tutto convincente assegnarne il titolo alle strade e vicoli della Napoli descritta da Frank Snowden (Naples in the Time of Cholera, 1884-1911, Cambridge 1995) che tuttavia Davis definisce “pittoresca ma tragica anticipazione della situazione odierna a Lima o a Kinhasa” (p.158), a Città del Messico o a Dakar.

Ad ogni modo per avvicinarsi alla conoscenza del fenomeno slum allo stato attuale della sua manifestazione e delle cause originarie la lettura del libro è, a mio parere, indispensabile. In buona parte del mondo in via di sviluppo (che vorrei tornare a definire sottosviluppo, essendo ormai incontestabile, nel generale processo globalizzante, l’approfondimento del solco che separa i paesi più ricchi da quelli più poveri) la città continua a crescere benché in assenza di capacità di produzione manifatturiera per l’esportazione (che, invece, possiedono Cina, Corea e Taiwan). Persino grandi città con tradizioni industriali come Buenos Aires, Bombay, San Paolo del Brasile… colpite da chiusure di fabbriche e cadute nel noto processo di deindustrializzazione senza contropartita, sono epitome di un fenomeno che peraltro riguarda, benché in forma del tutto diversa, anche città europee e statunitesi: separazione tra urbanizzazione e sviluppo capitalistico. Lo vediamo nel nostro paese: l’esplosione edilizia nell’epoca del decentramento-ridimensionamento industriale e della dominanza del settore finanziario non significa altro che spostamento dell’accumulazione dal profitto alla rendita fondiaria e finanziaria, a costo di produrre edilizia inutile.

Mentre le città del Terzo mondo non riuscivano più a creare posti di lavoro, la politica di deregulation agricola e di dura disciplina nei bilanci economici degli stati e degli enti continuavano a provocare surplus di manodopera rurale che doveva per forza emigrare verso la città, andare ad aumentare la popolazione insediata negli slum o a crearne di nuovi, utilizzando i margini urbani più degradati, privi di infrastrutture e servizi, “inabitabili” secondo qualsiasi canone igienico anche di infima pretesa. Quanto alla “casa”, sappiamo che il termine di “abitazione impropria”, talvolta impiegato nelle statistiche, non solo è insufficiente, ma è ingannevole e capzioso; è difficile immaginare come la soglia del peggio, del più incredibile arrangiarsi con ogni genere di materiali discaricati dalla città possa essere superata per giungere a forme di riparo che nemmeno i nostri fratelli mammiferi accetterebbero.

La ricerca di Mark Davis da una parte conferma che la portata del fenomeno con i tremendi problemi umani che coinvolge è quasi fuori della portata di reale affrontamento. Ci sono paesi nei quali la popolazione urbana è quasi totalmente costituita da slumsman e slumswoman (si accetta questa personale denominazione improvvisata?) e non da townsman e townswoman (locuzione corretta per l’abitante di città). L’Africa detiene il tristissimo primato. Queste le percentuali di popolazione di slum rispetto al totale di popolazione urbana (2003) in Sudan, 85,7, Tanzania, 92,1, Etiopia, addirittura 99,4 (fig. n.6). Vuol dire che in Etiopia pressoché nessuno vive in condizioni abitative anche lontanamente paragonabili alle nostre di cittadini d’Occidente, la parte di mondo che ha storicamente imposto il sottosviluppo ai fini del proprio sviluppo (ripassare, per favore, le note analisi sullo scambio ineguale). In una rassegna di trenta fra i maggiori megaslum (fig. 7) il numero di persone coinvolte va dalle 500.000 di Kinshasa (slum di Masina) alle 800.000 del Cairo (Città dei morti), al milione e mezzo di Lagos (Ajegunle), ai quattro milioni di Città del Messico (Neza-Chalco-Izta).

Da un’altra parte la ricerca offre interpretazioni originali, coraggiose. È impossibile riassumerne il contenuto e il significato anche politico. Mi limito a una specie di sommario:

- in certe città, i residenti in normali case private o pubbliche costruiscono abusivamente nei cortili baracche altri ricoveri, e li danno in affitto a famiglie giovani povere (p.45);

- è assai diffuso dappertutto nel terzo mondo il fenomeno dei “padroni degli slum” che spremono “profitti osceni ancora oggi dalla povertà urbana. Per generazioni le élite possidenti rurali del Terzo mondo si sono trasformate in proprietari di slum urbani”, una “tendenza al latifondo urbano che affonda le sue radici nella crisi e nel declino dell’economia produttiva” (p.80-81);

- da decenni si è affermata nelle maggiori città di Africa, Asia e Sudamerica la concezione di “ostacoli umani”, attributo degli occupanti delle aree marginali che occorre rimuovere per “ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, delle élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie” (p.93). Di qui la politica e la pratica dello “sgombero”che ha riguardato durante quarant’anni centinaia di migliaia di persone per volta, per esempio a Seoul nel 1988, 800.000, Rangoon nel 1995-96, un milione, Harare nel 2005, 750.000 (vedi fig.10, con dodici casi);

- l’equazione marginalità occupazionale = marginalità urbana a partire dal 1980 è dimostrata; la vita penosa dello slum corrisponde al lavoro penoso informale, sommerso o alla disoccupazione irreversibile (p.159);

- sembra ormai senza ritorno il processo tardo-capitalista di “cernita dell’umanità”. Il surplus di lavoratori e di poveri, ovvero (secondo la vecchia definizione materialista) l’esercito di riserva, rappresenta un carico eccessivo nel quadro dell’economia-mondo globalizzata: non sarà mai più compreso nell’economia e nella società, continuerà a sopravvivere ai margini della città e della società come “discarica umana” (p. 47), proprio come l’immondizia discaricata su cui molti slum sorgono. D’altronde, oggi, se arrivano nuovi wretched nel margine urbano “si trovano di fronte a una condizione esistenziale che non si può definire altrimenti che una marginalità entro la marginalità o, con il termine più bruciante usato dall’abitante disperato di uno slum di Baghdad, una ‘semimorte’” (p.178).

Conclusione guardando al polo opposto dell’habitat urbano. I residenti della classi ricche della metropoli cercano ossessivamente sicurezza, isolamento sociale a fronte del pericolo rappresentato dall’assedio dei sottoproletari, indifferente che sia dall’esterno o dal cuore degradato della città vecchia. Nasce la Edge City, l’insediamento suburbano, peraltro usuale da tempo negli Usa, ben protetto da barriere, cinte, cancellate, blocchi stradali. Case come fortezze che uno studioso nigeriano ha definito “architettura della paura” (p.109). A renderla adatta per essere illustrata sulle riviste frequentate dagli studenti, questa architettura, potrebbero pensarci i Libeskind, le Hadid, i Fuksas… e la compagine pronta a fornire la propria immaginosa versione: purché non chiamata a misurarsi con la superata pretesa di coinvolgere nella ricerca dell’architettura la ragione e il sentimento dei contrasti sociali. (Milano, 10 ottobre 2007)

Si veda anche, in eddyburg, B. Vecchi, Viaggio alla fine della città e J. Press, La corsa allo spazio

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