Un libro più volte riscritto ogni volta che il suo autore, Mike Davis, tornava da un viaggio in una città nota per la povertà dei milioni di uomini e donne che lì vivono. Oppure quando riusciva a mettere le mani sui dati economici e demografici di realtà urbane sfuggenti a un censimento sistematico. Poi, con un colpo di mouse, la nuova versione veniva inviata in rete a un gruppo eterogeneo di lettori scelti dallo stesso autore per sollecitare critiche e commenti. A quel punto, Davis si sedeva nuovamente di fronte allo schermo per compiere mirati «taglia e cuci» o per riscriverne parti alla luce delle note a margine dei suoi «lettori di riferimento». Un work in progress che ha avuto il primo momento pubblico all'uscita sulla New Left Review di due lunghi articoli con un unico titolo: The planet of slums. Saggi anch'essi rielaborati che ora aprono il volume dato alle stampe nei mesi scorsi e che Feltrinelli ha prontamente tradotto con lo stesso titolo di quei primi materiali: Il pianeta degli slums (pp. 214, euro 15).
Non è certo la prima volta che Mike Davis sottopone le sue riflessioni a un confronto collettivo prima che si condensino in un libro. Ma questa volta lo ha fatto perché il volume si propone come la prima tappa di un'esplorazione teorica sulla rilevanza delle megalopoli nel Sud del mondo nel definire lo spirito del tempo postmoderno. Rio de Janeiro, Manila, Seoul, San Paulo, Karachi, Khartoum, Mumbay, Città del Messico, Lusaka, Giacarta sono infatti da considerare le capitali del XXI secolo, perché entro il 2020 gran parte dell'umanità vivrà in città simili a Karachi. Il pianeta degli slums è quindi un libro ambizioso perché considera chiusa l'esperienza centrale della modernità - la metropoli novecentesca, appunto - ed è agli antipodi di un altro importante studio sulle trasformazioni urbane d'inizio millennio.
Non compare mai, ma questo libro di Mike Davis è il contraltare documentato e appassionato dell'altrettanto ambizioso volume di Saskia Sassen in cui la studiosa di origine europea descrive la progressiva, ma irreversibile formazione di Città globali in quanto porti d'accesso e centri di coordinamento dell'economia globale, mantenendo però gran parte delle caratteristiche architettoniche, sociali, politiche della metropoli novencentesca.
Nel regno dell'informale
Nel pianeta degli slums della metropoli di Georg Simmel o dei passages di Walter Benjamin o dei melting pot di John Dos Passos o Lewis Munford non c'è traccia alcuna. Le capitali del XXI secolo sono infatti un susseguirsi di baraccopoli e quartieri formicaio dove regna sovrana la povertà. Mentre al posto di piccolo o grandi atelier produttivi c'è un susseguirsi senza soluzione di continuità di quelle attività che viene algidamente definito «settore informale». Ed è con questo eterogenea moltitudine di «fantasmi informali» che occorre fare i conti teoricamente e dunque politicamente, sostiene Davis polemizzando con l'ottimismo liberista e compassionevole di studiosi come Herman De Soto, il quale vede nel self-help e nell'«informale» la via d'uscita dalla povertà dello slums.
Mike Davis è però uno studioso di «razza» ed è consapevole che Mumbay o Rio de Janeiro sono il centro di regioni metropolitane in cui accanto alla crescita delle megalopoli vi è anche la «fioritura» delle cosiddette «città di mezzo» abitate da milioni di uomini e donne e che sono il vero nodo strategico di quella «divorazione della campagna» che caratterizza il Sud del mondo. Con molta ironia Davis annota che il vecchio conflitto tra città e campagna così caro ai movimenti di liberazione nazionale è stato alla fine risolto con la progressiva scomparsa della campagna.
La prima domanda a cui Davis tenta di dare una risposta è il perché sono cresciuti gli slums. Quesito retorico, certo, visto che il fenomeno dell'urbanizzazione è parte integrante della «rivoluzione industriale» e che non si è certo arrestato con il passaggio al postfordismo. Inoltre, gli slums sono l'esito di una «urbanizzazione senza industrializzazione» e per questo un concentrato di povertà e «survivalismo informale». La risposta allora va cercata proprio nella «globalizzazione», termine tanto generico quanto equivoco.
Il primo fattore che ha facilitato la crescita degli slums è il decentramento produttivo a livello mondiale. Si può chiamare pure outsourcing o world factory, ma in entrambi i casi significa che molte grandi imprese hanno spostato nel Sud del mondo parte del ciclo produttivo a causa dei bassi salari e di una legislazione del lavoro pressoché nulla. Così, parte delle grandi megalopoli sono diventati gli enormi insediamenti urbani che conosciamo. Per queste città sembra ripetersi la prima, grande urbanizzazione della modernità. In questo caso gli slums ricordano i degradati quartieri operai di Manchester nell'Ottocento e Davis può, a ragione, invitare alla lettura della Situazione della classe operaia inglese di Federich Engels per farsi un'idea di come si possa vivere a San Paulo del Brasile. Ma se questa è una delle spiegazioni, ce ne è un'altra molto meno evidente, e che ha come attori protagonisti organizzazioni diventate sinonimo di «espropriazione», «libero mercato» e povertà. Si tratta del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell'Organizzazioni del commercio. I loro progetti di aggiustamento strutturale e di modernizzazione hanno falcidiato le economie di sussistenza, riducendo i contadini a «proletari passivi» la cui univa via di fuga dalla povertà è rappresentata dallo spostamento in città.
Le pagine che Mike Davis dedica alla vita negli slums sono tra le migliori che lo studioso statunitense ha scritto negli ultimi anni. Con un ritmo serrato e avvincente, scrive dello squattering, l'occupazione cioè del terreno con conseguente costruzione della casa. Ma squattering è anche l'occupazione di stabili abbandonati: terreni e abitazioni «riqualificati» per la gioia dei loro proprietari, i quali si presenteranno mesi dopo dopo per chiedere il pagamento dell'affitto. Nella saggistica mainstream tutto questo ha una definizione. Si tratta della cosiddetta «urbanizzazione pirata», della quale Davis riconosce una forte ambivalenza: le diffusa pratiche di resistenza per conseguire quel «silenzioso sconfinamento nell'ordinario» che è la vita nello slum costituiscono tuttavia la spinta propulsiva per quel circolo virtuoso tra speculazione edilizia, ciclo politico e valorizzazione capitalistica del territorio. Sia che si tratti di conflitti per avere l'acqua, l'elettricità o sistemi di trasporto, alla fine il ghetto o la favela conquista valore di mercato. Sbaglia però chi vede nei poveri degli slums la leva per una rivolta generalizzata contro l'ordine costituito. Le capitali del XXI secolo non conoscono infatti un soggetto operaio che costituisce le sue istituzioni di contropotere. Mumbay, San Paulo, Giacarta o Nairobi conoscono una realtà sociale fortemente differenziata secondo linee di razza e di reddito dove i poveri costituiscono quell'«ornamento» che agli inizi del Novecento era individuato nella classe operaia che irrompeva nel centro metropolitano e plasmava la vita metropolitana. Certo, la vita negli slums conosce anche i suoi apologeti, sia quando incensano il self-help o la vivacità culturale del ghetto, ma sono solo punti di vista «neocoloniali» di un problema esplosivo. Mike Davis parla però di una guerra contro i poveri scatenata da Banca mondiale, Fondo Monetario internazionale, dove gli Stati Uniti forniscono le truppe armate d'assalto, arrivando a sostenere, provocatoriamente, che gli scontri armati a Sadr City, il quartiere di Baghdad sono episodi di quella guerra contro i poveri. Ma pensare che dagli slums possa manifestarsi una una rivolta generalizzata contro l'ordine neoliberista è scambiare i desideri con la realtà.
Il vietnam della globalizzazione
Il libro di Mike Davis pone domande e arrischia prime risposte. E questa appassionata ricognizione sulle capitali del XXI costringe a misurarsi con la crisi della «forma metropoli». Finora, infatti, l'idea dominante è stata che i conflitti decisivi della modernità avevano come teatro le grandi metropoli occidentali. Nella postmodernità non sarà necessariamente così. Una conclusione, la sua, che mette giustamente in primo piano le differenze tra presente e passato, ma non la complementarietà tra le città globali e le megalopoli. Sia nel primo caso che nel secondo viene infatti meno il nesso tra urbanizzazione e industrializzazione. Le città globali sono infatti i luoghi della progettazione e del coordinamento dell'economia mondiale, mentre la produzione si diffonde su scala planeteria. Le megalopoli sono invece gli hub, cioè gli incroci caotici o meglio i punti di intersezione di quella stessa economia mondiale. La crisi della «forma metropoli» è infatti propedeutica al ridisegno delle gerarchie tanto tra gli stati nazionali e le gerarchie sociali all'interno dello stato-nazione. In entrambi i casi, è una crisi originata dai conflitti sociali nel Nord e nel Sud del mondo attorno alla messa al lavoro delle forme di vita. Pensare il superamento degli slums significa dunque pensare i necessari punti di crisi tanto delle città globali che delle megalopoli dal punto di vista dei movimenti globali. Solo così si può immaginare il Vietnam della globalizzazione economica auspicato da Davis. Senza che la lingua della rivolta abbia il ritmo del fondamentalismo religioso.
Nota: qui si Eddyburg, diversi mesi fa la recensione americana al libro di Mike Davis, di Joy Press, da The Village Voice, con qualche link e brani originali di Davis scaricabili (f.b.)