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Acqua marcia
6 Novembre 2009
Paola Somma
La legge votata al Senato sulla privatizzazione della gestione dell’acqua è una minaccia a un diritto essenziale per la vita. Ma c’è chi non ci sta. Da il manifesto e l’Unità del 6 novembre 2009 (m.p.g.)

Un decreto da ritirare

Emilio Molinari, Rosario Lembo – il manifesto

Il Senato ha votato la conversione in legge del decreto art. 15 con il quale si privatizzano tutti i rubinetti d'Italia. L'acqua del sindaco, come per anni l'hanno chiamata i lombardi, non c'è più e di questo bisogna ringraziare la classe politica italiana. In particolare un ringraziamento va alla Lega, che con questo voto ha segnato il suo passaggio al sistema economico di potere e ha mostrato quanto il suo federalismo sia puro linguaggio, e altrettanto la decantata partecipazione dei cittadini.

La mobilitazione del movimento, le mail che hanno intasato i computer dei senatori, la presa di posizione di molti sindaci e della regione Puglia, che ha dichiarato di voler assumere la gestione del Servizio idrico integrato, hanno reso meno celebrativo il dibattito al Senato. Per la prima volta i nostri argomenti sono risuonati in quelle aule in modo chiaro e nel Pd si sono sentite voci discordanti da quelle sostenute da sempre in questo partito.

Ma tutto ciò non ha cambiato la sostanza del decreto.

Si è resa obbligatoria la gara, si sono praticamente liquidate le Spa a totale capitale pubblico, si sono generalizzate e affermate le società miste definendo il tetto alla partecipazione pubblica al trenta per cento, facendo cadere così anche l'ultima foglia di fico di qualche amministratore che nel passato ha sostenuto che con il 51% delle azioni il controllo maggioritario del pubblico era assicurato.

Si è introdotta una nuova mistificazione: la possibilità ai comuni di partecipare come «privati» alla prima gara. Si tratta di una cosa paradossale: i comuni sono obbligati a mettere a gara le proprie azioni ma poi possono gareggiare per riprendersele, magari attingendo a prestiti bancari... Incredibile schizofrenia: mentre si afferma definitivamente il primato del mercato, si permette l'estrema finzione di chi, in mala fede, può ancora dire che non privatizza. A ben vedere, questa ipocrita giustificazione è già in circolazione

E' un vizio tipico di una certa politica italiana: perseguire la privatizzazione e negare di averla fatta. Gli amministratori delle regioni - solo per fare due esempi, la Toscana e l'Emilia Romagna - sono stati maestri in tale arte.

Questo decreto segna un passaggio cruciale per la cultura civile del nostro paese e per la sua Costituzione. I Comuni e le Regioni vengono espropriati da funzioni proprie, con un vero attentato alla democrazia. Tutto questo fa dell'Italia l'unico paese europeo che si incammini su tale strada.

Per la stragrande maggioranza dei partiti, questo non è che l'epilogo di una lunga sbornia privatistica, dalla quale solo in Italia sembra non si voglia più uscire, nemmeno davanti all'attuale devastante crisi finanziaria, nemmeno davanti al palese fallimento del neoliberismo Per altri partiti prevale una storica indifferenza per il problema acqua, per i beni comuni e per la difesa delle risorse limitate: prevale l'abitudine, non il pensare.

Ora il decreto va alla Camera: la battaglia perciò non è chiusa.

Vorremmo tuttavia rivolgere un appello a tutti i partiti perché rivedano questo decreto: bisogna ritirarlo, o in ogni caso togliere dal decreto l'acqua per ciò che essa rappresenta. D'altro canto, si sono già tolti alcuni servizi come il gas e si è tolta la liberalizzazione delle farmacie. Vorremmo venisse tolto l'obbligo di privatizzare imposto ai comuni.

E un altro appello, speciale, ai partiti e ai parlamentari che hanno votato contro il decreto e hanno sostenuto i nostri argomenti.

Li ringraziamo, ma vogliamo dire loro che se si vuole fare veramente una battaglia, non basta votare contro in aula. Ci si pronuncia come partito attraverso il segretario nazionale, si dà mandato a tutto il partito di mobilitarsi, si va in televisione o sui media per denunciare ciò che avviene; si informa l'opinione pubblica.

E questo vale per chi sta in Parlamento e per chi è stato messo fuori.

Per i partiti che intendono mobilitarsi il 5 di dicembre contro la politica sociale di Berlusconi, chiediamo di mettere nella piattaforma la questione dei servizi idrici privatizzati.

E infine, un appello particolare va alle organizzazioni sindacali, affinché si pronuncino e si mobilitino non solo per il destino dei lavoratori del settore, ma al nostro fianco, contro quella che si chiama mercificazione dell'acqua, di cui il decreto italiano è un tassello determinante e un precedente gravissimo.

È in ballo la capacità della sinistra di rinnovare i propri paradigmi. Ne va della sua stessa esistenza.

*Sezione italiana del contratto mondiale dell'acqua

L'acqua che scotta

A. Pal. – il manifesto

C'è una questione semplice - ma con un valore culturale immenso - dietro il decreto legge approvato in Senato e che presto arriverà alla Camera. E' possibile oppure no generare profitto utilizzando il bene acqua? Non si tratta solo di capire se il servizio idrico è essenziale, perché su questo sono tutti d'accordo. E' così importante da diventare la frontiera più estrema della speculazione finanziaria, ben oltre i fondi sulle commodities. La questione della gestione delle risorse idriche è il vero punto focale oggi, forse più della proprietà delle reti.

Quello che il governo - e parte del Pd - vuole, è dare in mano alle società per azioni, nazionali o multinazionali, questo in realtà poco importa, la gestione e quindi lo sfruttamento economico della risorsa acqua. E' una questione che ritorna regolarmente sul tavolo della politica dai primi anni novanta in poi, da quando il governo di Giuliano Amato si lanciò sulla strada delle privatizzazioni. Il governo di Silvio Berlusconi tenta oggi di accelerare la stretta privatizzatrice, a colpi di decreto. Potrebbe essere il colpo finale. I comuni proprietari in tutto o in parte del capitale delle società di gestione dovranno vendere le loro azioni in borsa sacrificando gran parte dell'investimento. I soldi ricavati finiranno di nuovo in speculazioni finanziarie; questo almeno è l'intento della finanza internazionale: mettere le mani sull'acqua e nello stesso tempo sui comuni e sulla loro libertà.

La prima tappa è stata l'approvazione dell'articolo 23 bis del decreto Tremonti, lo scorso anno; poi nei giorni scorsi l'articolo 15 del disegno di legge 135 ha completato, almeno per ora, l'opera. L'articolo in sostanza affida la gestione dei «servizi pubblici locali di rilevanza economica» al mercato, pur mantenendo la proprietà pubblica delle reti. Il problema nasce dal fatto che per il governo anche l'acqua ha una «rilevanza economica».

Questa definizione - che implica di conseguenza l'applicazione delle regole della concorrenza e del libero mercato - è stata ben capita negli ultimi quattro anni dalle centinaia di comitati per l'acqua pubblica. E una resistenza silenziosa è nata in tantissime città, dove alcuni consigli comunali hanno inserito negli statuti la dichiarazione che l'acqua non può avere quella «rilevanza economica» che il governo vuole dare per decreto. Una risposta che è nata proprio in quelle città dove l'impatto dei gestori privati o pubblico-privati - come Acqualatina o Acea - ha fatto capire cosa significa la gestione speculativa dell'acqua. Un movimento, questo, che pochissimi giorni fa è stato abbracciato anche dal presidente della giunta regionale della Puglia Nichi Vendola. Con una delibera del 20 ottobre scorso la giunta pugliese ha stabilito due principi fondamentali: l'Acquedotto pugliese dovrà lasciare la forma di società per azioni diventando una azienda di diritto pubblico e dovrà essere preparata una legge regionale dove l'acqua verrà dichiarata un bene comune, senza rilevanza economica.

Il conflitto politico - e costituzionale, visto che si parla di competenze di stato e di regione - si è dunque aperto. Dalla Puglia Nichi Vendola fa sapere con chiarezza che questo punto sarà - come nel 2005 - la bandiera più importante della sua campagna elettorale. Lo scontro sull'acqua non sarà semplice e non avrà come controparte solo il governo e il centrodestra. Subito dopo la votazione della delibera della Regione Puglia per la ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese la componente del Pd che fa riferimento a Massimo D'Alema ha precisato che non è questa la posizione che sosterranno.

Anche l'altro ieri in Senato buona parte del partito democratico ha sostanzialmente accettato l'idea della gestione privata, nascondendosi dietro il principio della proprietà pubblica delle reti.

La risposta all'approvazione dell'articolo 15 da parte del Forum dei movimenti per l'acqua è arrivata più dura che mai. «Se la Camera dei Deputati - scrive il Forum - non ribalterà il misfatto del Senato, davanti agli occhi attenti del Paese si sarà celebrata la delegittimazione delle Istituzioni». Non è in gioco solo la gestione delle risorse idriche, ma, secondo il Forum, la stessa democrazia locale. Secondo diversi giuristi, infatti, la decisione sulla rilevanza economica di un servizio locale spetta costituzionalmente solo ed esclusivamente ai consigli comunali.

Lo scorso marzo la stessa Corte dei Conti della Lombardia, interpellata da alcuni comuni, ha riaffermato la validità di questo principio, rimandando alle autonomie la scelta sulle modalità di gestione del servizio idrico.

La risposta alle scelte del governo verrà prima di tutto dalle quotidiane battaglie per i diritti che le centinaia di comitati in tutta Italia hanno avviato da almeno quattro anni. Nelle due province dove la privatizzazione arrivò per prima - Arezzo e Latina - hanno già sperimentato direttamente l'impatto della gestione privata: tariffe che aumentano anche del 300% e una qualità dell'acqua che diventa insostenibile. La sfida in realtà è già partita da diverso tempo. A Torino a breve il consiglio comunale dovrà discutere la proposta d'iniziativa popolare per la dichiarazione dell'acqua come «bene senza rilevanza economica». Sarà il terreno per un confronto anche all'interno della sinistra, per capire che direzione prenderà il partito democratico guidato da Pierluigi Bersani.

Affari da bere

Vittorio Emiliani - l’Unità

L’acqua potabile è un diritto essenziale per la vita. Così recita la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Ma la sua gestione - come quella di altri servizi pubblici – deve essere affidata, secondo il nostro governo di centrodestra, soltanto ai privati. Così si è espresso il Senato, pur essendo stato inserito in commissione un emendamento del Partito Democratico che mantiene ai Comuni la proprietà dell’acqua. In un certo numero di Enti locali le società private si sono già insediate al posto dei tradizionali gestori comunali o consortili e le tariffe dell’acqua potabile hanno registrato impennate vessatorie. L’acqua rischia di essere un business e non, invece, uno dei beni primari da garantire alle popolazioni. Va detto subito che la gestione pubblica dell’acqua non è stata nel nostro Paese esemplare: per demagogia le tariffe sono assai più basse di quelle dei Paesi europei sviluppati e i consumi, in parallelo, molto più alti. Contemporaneamente però consumiamo una quantità incredibile di acqua minerale la quale costa da 500 a 1000 volte di più e “produce” una montagna ingombrantissima di bottiglie di plastica.

Le tariffe pubbliche troppo basse, oltre a indurre gli italiani a consumi molto elevati (293 litri per abitante/giorno contro i 196 della Germania o i 211 della Francia), hanno impedito ai Comuni di investire in modo adeguato nella rete, ridotta, per lo più, ad un colabrodo, con perdite ingentissime.

Inoltre pochi Comuni si sono dotati di stoccaggi di acqua riciclata per le fabbriche e per l’irrigazione (che si prende il 60-70 per cento dei consumi). Lo hanno fatto i Comuni più seri e attenti all’ambiente i quali registrano infatti la virtuosa catena di tariffe non stracciate, consumi privati mediamente più bassi, buona efficienza della rete idrica e disponibilità di acque riciclate o comunque non potabili per usi produttivi. Per esempio a Forlì, a Ferrara, a Pistoia, a Livorno o a Reggio Emilia, dove nel 2005 vigevano le tariffe pubbliche dell’acqua più elevate si registravano consumi per abitante dimezzati nei confronti delle città dove all’epoca si praticavano le tariffe più basse.

Ebbene, col testo di legge approvato, i Comuni potranno d’ora in poi partecipare alle aziende idriche miste al massimo per il 40 per cento, ma senza più gestioni dirette: la privatizzazione della gestione dell’acqua punirà dunque nel modo più ingiusto i Comuni “virtuosi”, quelli che hanno sin qui assicurato servizi adeguati a tariffe non demagogiche, facendo così, in modo equo, l’interesse degli amministrati. Né consentirà una sana competizione, alla pari, fra pubblico e privato. E sì che le prime privatizzazioni hanno già provocato un caro-acqua assurdo. Questo governo è rimasto sordo ad ogni saggio richiamo. A Silvio Berlusconi, in qualunque campo, non importa nulla dell’interesse generale. Gli stanno a cuore i tanti interessi privati e corporativi. Ma i cittadini italiani quando apriranno gli occhi su questa elementare realtà?

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