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Rossana Rossanda
Abbracci
10 Marzo 2007
Articoli del 2007
Riflettendo sulla deriva centrista e sull’assenza della sinistra. Da il manifesto del 10 marzo 2007

Scarsa curiosità e nessuna passione sta suscitando quel terremoto della scena politica italiana che dovrebbe rappresentare la nascita del Partito democratico. Esso cancella definitivamente i due protagonisti del dopoguerra, Dc e Pci, duellanti per oltre quarant'anni, formatori di storia e cultura antagoniste, i cui residui - Ds e Margherita - stanno fluendo in un tiepido abbraccio dentro uno stampo centrista, per dirla all'europea, o «clintoniano» per dirla come Veltroni.

Sono in corso le assemblee che preludono ai due congressi di scioglimento. Non si può dire che la discussione sia bruciante. La Margherita era già frutto della turbolenza che dal 1987 aveva scagliato la Democrazia cristiana in frantumi disperdendone la base elettorale perlopiù nel centrodestra. Ma quello dei due che subisce la trasformazione più profonda è l'ex Pci, che dal crollo del Muro di Berlino ad oggi è andato perdendo, per scivolamenti successivi, ogni aggancio con il movimento operaio dal quale veniva. La svolta, che per breve tempo è sembrata portarlo a una socialdemocrazia ammodernata, è andata assai oltre, fino al taglio con qualsiasi radice, non solo comunista ma socialista. Nessuna Bad Godesberg ha segnato il passaggio come era avvenuto, con non poco clamore, nella socialdemocrazia tedesca; la deriva è stata pigra, coperta, all'italiana, per stati di fatto successivi.

E così sarà anche, a quanto si vede fin d'ora, il suo atto finale. A leggere le mozioni che preparano l'ultimo congresso dei Ds - quella di Fassino, quella di Angius e Zani, quella di Mussi - l'impressione è che, con diverse sensibilità, sia comune a tutte e tre un orizzonte di fine della storia - fine dei due secoli di vicenda europea segnata dall'alto conflitto politico e sociale che, emerso con la rivoluzione francese, s'era addensato mezzo secolo dopo nelle lotte continentali del 1848 e con il Manifesto di Marx avrebbe poi dato vita alla I, II e III Internazionale, e segnato la seconda metà del XIX secolo e tutto il XX. La mozione di Angius e Zani chiede, è vero, un tempo di riflessione prima di andare allo scioglimento, per correggerne l'asse e coinvolgere quell'associazionismo di sinistra, che è una novità degli ultimi decenni e del quale nessuno ha tenuto conto, nell'operazione tutta verticista, e di vertici in buona parte consunti e rissosi. Quanto alla mozione di Fabio Mussi, essa dice rotondamente no all'intera operazione. Ma è da dubitare che l'una e l'altra saranno un vero ostacolo al processo che da almeno dieci anni somiglia piuttosto a una deriva, nel corso della quale idee e pratiche e fini assai lontani anche dalla migliore o più eretica e libertaria tradizione comunista hanno penetrato l'ex Pci. E dove i meccanismi cogenti propri di un grande o ex grande partito, che è anche arbitro dei singoli destini elettorali, sono in grado di garantire il gruppo dirigente da qualsiasi deviazione dalla rotta.

Non era scritto che questo fosse l'approdo obbligato della crisi del Pci alla caduta del Muro di Berlino. Neanche questa crisi era obbligata per un partito che era cresciuto in un largo margine di autonomia e aveva un radicamento autentico. Ma è un fatto che quel partito non aveva mai preso per le corna il toro del cosiddetto socialismo reale, né alle sue origini né nella sua marcescenza, per cui quando l'Urss è precipitata è precipitato anch'esso, fino a definirsi un errore storico. Restando imprecisato a quando risalisse il medesimo, alla scissione del 1921 a Livorno, come sosteneva Giorgio Amendola, o alla matrice marxisteggiante del socialismo europeo, come devono essersi convinti gli stessi che avevano condannato Amendola nel 1964. Né vi si è più riflettuto, con il pretesto che la velocità dei cambiamenti mondiali, negli eventi e nei paradigmi culturali, renderebbe mera perdita di tempo far i conti con la storia. Sta di fatto che l'identità attuale dei Ds si è del tutto separata dall'idea di un conflitto insanabile fra capitale e lavoro, capitale e forze produttive non devastatrici, capitale e piena libertà della persona umana. Essa viene relegata al più passato dei passati, quando non irrilevante da sempre.

E' sulla sua obliterazione che può convergere con i Ds l'ala democratica e solidarista del cattolicesimo politico rappresentata da Romano Prodi e da (un più riluttante) Rutelli. Nonché l'ex terzaforzismo italiano, che con la socialdemocrazia ha sempre flirtato assai poco.

La mozione di maggioranza dei Ds presentata da Piero Fassino rappresenta già il nuovo partito, in essa la transizione o il famoso passaggio del guado sono pienamente compiuti. L'assetto del mondo e della società sono soddisfacenti, o almeno privi di mortali pericoli, la globalizzazione seguita al crollo dell'Urss e al breve tentativo di autonomia dei paesi terzi è assunta come solo terreno reale in cui operare. La mozione suona anzi assai poco aggiornata, giacché neppure fa cenno né alle traversie della crescita europea sotto gli imperativi della Banca Centrale e della Commissione, né alle resistenze di opposta natura degli stati nazionali, né al delinearsi di minacciose guerre commerciali fra soggetti emergenti, né all'imbuto in cui l'iniziativa americana ha cacciato se stessa e il mondo musulmano. Vi è più attenta la mozione Angius-Zani. Il provincialismo domina - l'obiettivo del futuro Partito democratico è non più che una alternanza di governo sulla base di una idea largamente condivisa di società in Italia, come quella che si dà fra repubblicani e democratici negli Stati Uniti, conservatori e New Labour in Gran Bretagna. Partiti peraltro sempre più somiglianti: basti l'impossibilità di distinguersi sul ritorno della guerra come strumento della politica, riesumato con il pretesto della lotta al terrorismo, e sul dogma del mercato e della competitività, con conseguente drastica riduzione dei poteri della sfera politica rispetto a quella economica.

Le due altre mozioni esprimono preoccupazione. Non tanto sulla collocazione del partito sulla scena internazionale, che pure è un punto tutt'altro che risolto, come le vicende della maggioranza dimostrano, ma sulla questione sociale e la laicità. Il conflitto fra capitale e lavoro ha subito anch'esso uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarietà con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d'una volta e precari. E' vero che appena si prende la questione sul serio, ci si scontra con temi tabù, l'essere l'Europa non più che un mercato aperto ad ogni razzia ed esposto a ogni dumping, e la mancanza di qualsiasi controllo sul movimento dei capitali e quindi l'impossibilità d'una politica economica. La verità è che nel liberismo spinto in cui siamo,con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, né l'occupazione né il potere d'acquisto dei salariati possono essere protetti. L'immigrazione è un bisogno potente indotto dalle inuguaglianze della globalizzazione selvaggia e un potente destabilizzatore, cui ad oggi non si sanno che opporre muri e proporre chiacchiere sulle multiculturalità. Ma su tutto questo erano già anni che Pds e Ds avevano saltato il fosso.

Quanto alla laicità, va detto che le due mozioni minoritarie mettono le cose in chiaro, ma quella di Fassino assume da Giorgio Napolitano la complementarietà dei valori che si darebbero fra la chiesa e la repubblica, e qui davvero il novello Partito democratico si colloca alquanto più indietro del 1789.

Chi rappresenterà ormai in Italia i lavoratori e le figure sempre più assoggettate dal mercato? E' sorprendente come l'imminenza del Partito democratico abbia lasciato immobili le forze che si vedono alla sua sinistra. Nulla è cambiato nei rapporti, neppure fra le due che si proponevano di mantenere o rifondare la rappresentanza del conflitto capitale-lavoro, anche se, a dir la verità, una, il Pdci, è stata sempre troppo debole e l'altra, Rifondazione, ha frascheggiato sulla sua importanza nel tempo, quando ha puntato tutto e solo sui movimenti. C'è perfino un paradosso, che in pieno dispiegarsi dell'anarchia dei capitali, il solo nominarla sia diventato oggetto di scandalo. Ma il conflitto esiste e su scala mondiale come non mai ed è esso a rodere alle radici anche l'esercizio della politica, e non solo per i salariati ma per le altre figure che da esso sono, assieme, prodotte e trascinate fuori di sé, nessuna di loro essendo in grado, da sola, di assumere una diversa centralità. Sta di fatto che è una voragine che si è aperta nella rappresentanza.

La necessità di tenere assieme il governo, per evitare che il guasto ormai avvenuto nella nostra società riporti a galla Berlusconi, sta rendendo opaco il vuoto politico a sinistra. Anche per la Cgil: si tratta di ben altro che di governo amico o non amico per il sindacato - tutto il sindacato, non solo quello dei metalmeccanici. Esso è di fronte a qualcosa di ben più grave che lo scorrazzare di qualche velleitario epigono degli anni Settanta, che non ha nulla imparato ma anche nulla ha fatto se non gesticolazioni. Le organizzazioni dei lavoratori hanno davanti a sé una dirigenza capitalistica modesta, quando non improvvisati social climbers, e un ceto politico che in tema di sviluppo, compatibile o no, non ha la minima idea. Come possono difendere il lavoro?

Ieri sull'Afghanistan, domani sulle pensioni, sarà difficile tenere assieme alla Camera o al Senato una maggioranza già così somigliante al prossimo Partito democratico da non riuscire a reggere al suo interno le voci di chi parla il linguaggio dei movimenti, dall'ormai antico movimento sindacale a quello nuovo della pace, e a seguire. Sgomenta che i partiti di estrema (estrema!) sinistra non abbiano di meglio da fare che perseguitare e, magari espellere, i quattro gatti che esprimono una protesta reale, che sbagliano soltanto il terreno su cui farla valere. Se nelle istituzioni oggi essa non può che perdere, fuori di essa si può solo augurarsi che cresca finché anche le istituzioni dovranno tenerne conto. Ma questo non è un obiettivo anche di Rc, del Pdci e di gran parte di quel 13% di italiani che aveva votato fuori del campo ulivista? Non so se sia vero, ma che una persona come Paolo Cacciari sia indesiderabile in Rc è una follia. Si possono tener separati i livelli di intervento (non lo fanno la borghesia e la sua rappresentanza più o meno accreditata?), ma che le sinistre debbano rianalizzare il punto in cui siamo, misurare senza più soddisfazioni la propria fragilità, rimettere le teste in movimento e costruire un'operazione opposta a quella dei Ds-Margherita è d'obbligo. Se no, non glielo perdonerà nessuno.

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