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Pierluigi Sullo
A Teano con Pisacane e i no Dal Molin
3 Ottobre 2010
Articoli del 2010
Cosmopolitismo o municipi? Una discussione aperta in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia e dell’incontro di Teano. il manifesto, 2 ottobre 2010

Ho trovato molto intelligente la proposta del manifesto di una serie di supplementi sull'unità d'Italia (La conquista). Come nel caso dell'incontro in programma a Teano in ottobre, è molto opportuno che sinistra e società civile propongano una loro lettura del 150° della nascita dello Stato nazionale italiano, pena, come scritto nella presentazione al primo di questi supplementi, subire «due retoriche solo apparentemente opposte», quelle di «nazionalisti e leghisti». Perciò ho letto con grande curiosità il primo fascicolo e ne ho ricavato un'impressione che vorrei discutere.

Gabriele Polo scrive che «siamo alla soglia di una società che si frammenta e si rinchiude in una sorta di neo-feudalesimo, si ritrae in microcomunità nutrite di paure e sospetti». E, aggiunge, le due retoriche cui si faceva cenno sono lontane anni luce «da quell'universalismo cosmopolita che nutrì le migliori culture ottocentesche, il "Risorgimento radicale" poi sconfitto e che continuò a vivere nel conflitto sociale del nascente movimento operaio». Perciò si rifiuta sia il «nazionalismo» sia il localismo (anche se non si adopera questa parola) dei leghisti, in nome dell'universalismo cosmopolita. Marco Meriggi aggiunge due cenni al municipalismo tanto radicato nella storia italiana, per dire che esso era agitato dalle élites aristocratiche, unitarie perché insofferenti alle burocrazie poliziesche degli stati pre-unitari, e in conclusione scrive: «Non stupisce che, di fronte a questo deficit di rappresentatività sociale (dello Stato unitario, ndr), le sirene municipalistiche e localistiche che si erano lasciate sentire già prima dell'unificazione tornassero presto a proporre la propria forza centrifuga».

L'impressione che ne ricava il lettore è che, certo, lo Stato unitario era liberale-elitario, ma le «sirene» del municipalismo spingevano verso un passato «medievale» (epoca in cui in effetti l'autonomia dei comuni italiani nacque, ciò che è parte non a caso della retorica leghista, con il Carroccio e tutto il resto). Di questo vorrei discutere perché per un verso mi pare che questa lettura così univoca tralasci una corrente importante del «Risorgimento radicale», quella di Carlo Pisacane. E per altro verso non chiarisca quale fu in effetti il breve futuro dell'universalismo cosmopolita del movimento operaio e comunista (nel senso di Marx) al suo nascere. La domanda è cioè questa: siamo sicuri che il municipalismo - storicamente così solido in Italia - sia di per sé la base culturale e sociale del leghismo attuale?

Se si va a rileggere Teoria della rivoluzione di Pisacane, si vedrà che il rivoluzionario che si suicidò per non cadere nelle mani dei contadini aizzati dai Borboni immaginava una nazione italiana singolarmente simile a quella che decenni dopo, come ha raccontato Karl Marx, disegnò per la Francia la Comune di Parigi. La nazione sarebbe stata formata da autonomi comuni; le leggi nazionali, per diventare tali, avrebbero dovuto essere approvate da ogni singolo comune; i deputati della convenzione o congresso nazionale erano revocabili in ogni momento e dotati di un mandato imperativo, e lo stesso doveva valere per i consiglieri comunali; il potere esecutivo veniva assegnato a uno o più membri di queste assemblee; il suffragio era ovviamente universale; il potere legislativo era a sua volta elettivo, e così via. Il punto di divisione tra Pisacane e Mazzini (che il rivoluzionario napoletano stimava come un maestro) era appunto nella forma da dare al futuro Stato unitario: centralista per il primo, federalista (in quel modo radicale) per il secondo. Ma perché Pisacane era tanto convinto che l'Italia-nazione, frammentata da secoli, avrebbe dovuto essere federalista e municipalista? Non temeva le «forze centrifughe»? È una bella domanda. Si può rispondere: perché era «ideologico», sotto l'influenza dei primi comunisti, ecc. Oppure: lui, che era meridionale, un fratello nell'esercito borbonico, ben consapevole della forza della reazione dopo la controrivoluzione napoletana di fine '700, cercava un modo perché l'unità del paese nascesse dalla società, dalle sue tradizioni, da interpretare in modo rovesciato. Perse, e quindi in un certo senso aveva torto. Perciò la corrente federalista fu presto abbandonata dal nascente movimento operaio. Viceversa, l'universalismo cosmopolita andò in pezzi, insieme alla Seconda Internazionale, quando i partiti socialisti votarono i crediti di guerra, nel '14, nei rispettivi parlamenti nazionali; e quello della Terza Internazionale, dopo il '17, fu affondato dalla teoria staliniana del «socialismo in un paese solo». La storia del movimento operaio, per tutto il '900, fu quella di una lotta per affermare diritti e democrazia nel recinto degli Stati-nazione e allo stesso tempo della aspirazione, salvo eccezioni frustrate, a diventare un movimento inter-nazionale (e non è casuale che l'espressione corrente fosse «internazionalismo» e non «universalismo» o «cosmopolitismo proletario»).

Il messaggio della Conquista è evidentemente che rileggere la storia serve a orientarsi. Ad esempio, trovo che «regalare» alla Lega il municipalismo italiano è un errore. I leghisti non sono i tutori dell'autonomia delle comunità locali; sono piuttosto, come molti hanno detto in questi anni, gli organizzatori della competizione nel mercato globale non delle comunità del nord Italia, ma di una macro-regione definita su base economica, innanzitutto, e la cui base etnico-nazionale viene inventata allo scopo: la Padania. Si può dire che i leghisti sono i sadici che obbligano lavoratori e comunità del nord a sfruttare se stessi e a cercarsi dei nemici: nei migranti, che pure sfruttano, nelle merci cinesi, nei banchieri tedeschi, e così via all'infinito. Viceversa abbiamo l'esempio pratico di comunità, anche del nord, che sanno ribellarsi a questo comando, come i vicentini contro la base o i valsusini contro la Tav: comunità democratiche, anzi neo-democratiche, capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Penso che Pisacane si troverebbe a suo agio, al Presidio No Dal Molin.

Ed è talmente forte questa tradizione municipale in Italia che la stessa Costituzione all'art.114 scrive: «La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi». La Repubblica nella visione dei costituenti partiva dal basso, dall'unità di base della cittadinanza, i comuni, anche se poi i poteri decisivi venivano affidati allo Stato. Che in Italia è nato male ed è cresciuto peggio, tra il fascismo e i quarantacinque anni di Democrazia cristiana. Perciò ritrovarsi a Teano (dal 23 al 26 ottobre) e limitarsi a «difendere» lo Stato nazionale dall'aggressione leghista rischia di essere autolesionista. Come se la sinistra avesse paura delle autonomie sociali e cittadine e chiedesse allo Stato di mettere ordine nel caos. Il nostro passato ci suggerisce altre possibilità, più adeguate a un mondo in cui gli Stati-nazione hanno sempre meno peso (come sostiene Ulrich Beck in Potere e contropotere nell'età globale), l'economia ne smembra e riorganizza i territori in micro-nazioni più aggressive (dal nord Italia alle Fiandre), e cioè che la via più praticabile per ridare la parola ai cittadini comincia - anche se ovviamente non finisce - dai municipi.

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