Siamo al contraccolpo della spallata fallita. Scampato il pericolo della bocciatura parlamentare, Berlusconi e Bossi, Tremonti e Sacconi dilagano. L'università è sfigurata, la stampa libera ha un bavaglio che la soffocherà, il lavoro è messo in riga, pronto per il nuovo che avanza grazie a Marchionne e Bonanni. Può darsi sia il crepuscolo del piduismo in salsa berlusconiana, anche se la popolarità della cricca al potere non scema. Di certo è un tramonto velenoso. Devastante. Cupo come l'ultima macabra stagione del fascismo repubblichino, al quale il protagonismo dei Gasparri e dei La Russa rimanda.
Ci stiamo avvitando con rapidità vertiginosa in una crisi generale di inedite proporzioni. I dati sulla povertà di massa, la disoccupazione giovanile e la precarietà del lavoro dipendente mettono nero su bianco il senso di un'intera fase storica durata almeno due decenni, nel corso della quale i poteri forti hanno riconquistato con gli interessi il terreno perduto con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. Ma se la destra trionfa, ciò accade anche per l'inerzia e l'inconsapevolezza del progressismo democratico.
Torniamo alla mancata spallata del 14 dicembre. Tutti facevano il tifo per Gianfranco Fini, inopinatamente assurto al rango di eroe dell'Italia democratica. Chi sia Fini ce l'hanno ricordato in questi giorni i documenti pubblicati da WikiLeaks sulle vicende seguite all'assassinio di Calipari. Ma perché tanta voglia di illudersi? Perché tutto questo bisogno di dimenticare? Forse perché non c'è molto altro in quei paraggi (parliamo del Palazzo) in cui riporre qualche speranza. Questo è il punto. C'è più o meno mezzo Paese che sogna un nuovo 25 aprile ma non sa a che santo votarsi.
La si giri pure come si vuole, ma questo fatto suona come il più impietoso atto d'accusa nei confronti del Partito democratico. Che non solo non è in grado di rappresentare l'ansia di liberazione che pervade quello che un tempo chiamavamo «popolo della sinistra», ma ne impedisce l'espressione, ne frustra le potenzialità, ne devia l'energia verso sentieri interrotti. La stessa scena dell'incontro tra gli studenti e il presidente della Repubblica lo dimostra. Si va al Quirinale perché non si scorge in nessuna delle forze politiche presenti in Parlamento chi voglia davvero ascoltare e raccogliere le ragioni della protesta. Dire tutto questo sarà poco corretto politicamente, ma le cose stanno in questi termini e la verità non va sottaciuta. È questo il nodo oggi al pettine. Venticinque anni di radicamento dell'ideologia neoliberale hanno stravolto la «sinistra moderata», che ora non riesce a prendere congedo dalla gestione reazionaria della crisi sociale e civile del Paese: dalla logica dei tagli alla spesa, del primato dell'impresa, della privatizzazione dei beni comuni. Anche l'ultimo ignominioso capitolo della distruzione dell'università pubblica sta dentro questo discorso.
La destra si è ripresa tutto il potere reale: il comando sull'economia e sul lavoro, il controllo delle risorse, il monopolio del discorso pubblico. Ma ancora oggi, come se nulla fosse, chi dovrebbe contrastarla ciancia di modernità e di merito, di guerre democratiche e di libero mercato.
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Sul filo di lana, sale sui tetti e urla nell'aula del Senato. Crede forse che la nostra memoria si sia a tal punto indebolita da cancellare il ricordo delle cose dette e scritte in tutti questi anni e ancora negli ultimi mesi in tema di università, dalla legge sull'autonomia che ha trasformato gli atenei in aziende al famigerato 3+2, dall'idea delle Fondazioni universitarie alla proposta di aprire i consigli di amministrazione alle imprese, dalla messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori all'idea della concorrenza tra università, come se si trattasse di fabbriche di salumi e non di una istituzione chiamata a svolgere un servizio pubblico fondamentale per l'intera cittadinanza?
Come uscirne? È senz'altro giusto dire che il Pd «dovrebbe sbrigarsi» e impegnarsi nella «battaglia generale» per la salvezza della democrazia italiana. È altrettanto sensato augurarsi che lo stesso coraggio dimostri la Cgil, che ancora tituba, rimandando a tempi migliori la proclamazione dello sciopero generale, come se tempi migliori potessero sopraggiungere senza mobilitare nello scontro tutte le forze ancora disponibili. Ma intanto questi giorni hanno impartito una lezione che sarebbe diabolico non imparare a memoria.
Due mesi fa il segretario generale della Fiom a piazza san Giovanni disse con chiarezza che quel maestoso movimento di popolo cercava un interlocutore politico che ne raccogliesse esigenze e domande. Le forze della sinistra erano in quella piazza, ma in Parlamento le parole di Landini sono rimaste senza risposta. Poi sono insorti gli studenti e il mondo del precariato universitario. Anche in questo caso la sinistra era nelle lotte, ma ciò non ha impedito che la controriforma dell'università divenisse legge dello Stato. Tutto ciò, ci pare, significa una cosa soltanto. L'unica speranza qui e ora riposa sul conflitto di classe, operaio e sociale, sulla forza dei movimenti e sull'unità delle forze del cambiamento: sulla loro capacità di imporre al Paese un'agenda politica e precisi obiettivi di lotta.