Siglati gli accordi sulle misure contro la crisi, sulla Nato e sull'Afghanistan, messo sul tavolo il contrasto fra l'amministrazione americana e la coppia Sarkozy- Merkel sull'ingresso della Turchia nella Ue, del primo viaggio di Barack Obama in Europa si continuerà a discutere a lungo quanto al profilo dell'Europa che ne viene fuori e ai rapporti fra Europa e Stati uniti, nella doppia cornice della strategia del dialogo con il mondo musulmano inuagurata dal presidente americano e dell'evidente spostamento sul Pacifico dell'asse geopolitico ed economico globale. La valutazione dello stato di salute della eternamente a- venire Unione europea è evidentemente complicata, oltre che dalla crisi, dalla clamorosa virata impressa da Obama alla politica americana rispetto agli anni di Bush, che il viaggio in Europa ha ribadito, sia sul fronte della politica economica sia sul fronte della politica estera. Finita la religione del mercato e sepolto il programma dello «scontro di civiltà», anche il discorso europeo (e la retorica europeista) devono trovare nuovi argomenti: i confini fra modello sociale europeo e modello individual-liberista americano si fanno meno netti e si prestano meno di prima a essere usati ideologicamente da una parte e dall'altra, oltre che di americanizzazione della politica europea bisognerà magari cominciare a parlare di una certa europeizzazione della politica americana, l'antiamericanismo che negli ultimi decenni abitava il campo della sinistra tende adesso, come già si vede, a spostarsi (o meglio a tornare, se si tiene conto del suo andamento nel secolo scorso) nel campo della destra. E il vecchio continente, se per un verso è destinato a un ruolo minore in un multipolarismo che fa asse sul Pacifico, per l'altro verso può ritrovare un ruolo cruciale, in linea con la sua vocazione originaria, come terra di confine fra civiltà occidentale, mediarientale e asiatica.
C'è materia di riflessione in abbondanza per le sinistre europee, radicali e moderate, che all'appuntamento con questo tornante politico e storico arrivano quasi tutte politicamente disastrate e culturalmente disarmate, e all'appuntamento con la prima crisi economica globale arrivano prive di quella strategia comune su scala continentale che sarebbe la prima condizione per affrontarla: strette dunque fra la necessità di «più Europa» e la realtà, nella maggior parte dei casi, di governi di destra che hanno in mano le leve del controllo pubblico sull'economia indispensabile per gestire la crisi e i suoi costi sociali. Si può parlare, in questo quadro poco confortante, di una eccezione spagnola? L'esperimento Zapatero regge all'impatto con la crisi? Come si posiziona rispetto alla svolta obamiana? E può funzionare come riserva di idee per quelle sinistre europee moderate che negli ultimi due decenni si sono fatte affascinare più dal modello liberista blairiano che da quello liberal-liberatario spagnolo? Poche ore dopo che a Praga l'incontro di Obama con Zapatero si apriva con il «Sono contento di poterla chiamare amico» di Obama e si chiudeva con il «non dobbiamo chiederci che cosa può fare Obama, dobbiamo chiederci che cosa possiamo fare per aiutarlo» di Zapatero, mettendo così fine ai cinque anni di gelo fra il premier spagnolo e George W. Bush, a Roma un seminario fra il Centro per la riforma dello Stato e il presidente della Fondazione «Ideas» del Psoe Jesus Caldera (presentato pochi giorni fa sul «manifesto« da Aldo Garzia) si poneva queste domande, cercando di rilanciare il confronto con il laboratorio spagnolo fin qui poco praticato dalla sinistra italiana ai livelli ufficiali. E si capisce perché, ascoltando la piana ostinazione con cui Caldera, appellandosi alla necessità, per la sinistra europea, di riscoprire «la coerenza con i propri valori», ribadisce gli ingredienti fondamentali della ricetta spagnola: diritti, libertà dal dominio diretto e indiretto, laicità, tolleranza, rispetto delle diversità, equità sociale sostenuta da azioni positive, keynesismo, redistribuzione. Una ricetta socialista classica, corretta da forti iniezioni di liberalesimo, che secondo Caldera resta l'unica base giusta e possibile anche per dare alla crisi una risposta non «dolorosa», come recita il mantra di tutti gli altri governi europei, ma improntata a criteri di protezione sociale (e non di protezionismo economico), e per salvare ciò che va salvato del modello sociale europeo. Forse non è abbastanza per dare soluzione ai troppi tormenti d'identità delle altre sinistre europee, ma certo l'esperimento spagnolo è materia imprescindibile per ripensare il rapporto fra democrazia, libertà e lavoro che la crisi politica ed economica ci riconsegna aperto.E forse qualcosa ci dice anche sul tema, oggi tanto sbandierata in Italia da destra, della leadership carismatica, se Caldera può serenamente rivendicare «l'influenza politica e morale» di Zapatero e giudicare altrettanto serenamente che Berlusconi non può rivendicare carisma alcuno, «all'estero è considerato uno senza vergogna».