Da quando morì Enrico mi sono sempre astenuto dal commentare i giudizi politici e personali, anche i più aspri, espressi sul suo operato. A questo mi ha indotto, forse più che l’ovvio riserbo, il percepire che ci sono tuttora verso di lui (anche da parte dei giovani) stima e affetto diffusi, non scalfiti dalle critiche e dal passare del tempo.
Mi sono anche astenuto dall’intervenire sui nodi più discussi del suo impegno alla guida del Pci, come il passaggio del compromesso storico da strategia nazionale ad accordo di governo con la Dc, come la rottura coraggiosa ma incompiuta con il comunismo, come le aspre polemiche che hanno diviso il Pci dal Psi di Craxi: temi che suscitano interrogativi importanti per la storia come pure per le nostre prospettive odierne.
Non riesco a tacere, tuttavia, il senso di dolore personale e più ancora di sconcerto politico che mi è venuto dalla lettura di alcune pagine-chiave del libro di Piero Fassino "Per passione", che è un'autobiografia dignitosa e stimolante e un'utile fonte di analisi sociale e politica di Torino e dell'Italia.
Anch'io ho passione, e cito perciò una sua metafora che mi ha fatto rabbrividire. Il contesto è così descritto nel libro (pp. 156-161): da un lato Craxi, il quale "interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia" e quindi "una gran voglia di modernizzazione", e dall'altra un Pci "che di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi ai richiami del passato e si esilia in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola". La sorte, evidentemente, è segnata, e Fassino sprigiona così la sua fantasia descrittiva: "Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica".
Un uomo fortunato, quindi, per quel che gli è accaduto tempestivamente a Padova. Non commento il carattere lugubre e macabro della metafora, poiché ciò spetta ai lettori, forse meno di me emotivamente coinvolti. Sul piano politico, però, unendo passione e ragione (e concordando ovviamente sul carattere negativo della rottura avvenuta allora nella sinistra e sulle reciproche responsabilità), è doveroso porsi due domande.
Una riguarda la partita in gioco: è proprio vero che lo scacco matto era imminente, e che non c'era altra via di uscita? La mia impressione è che, sebbene Craxi segnò punti a favore subito dopo la scomparsa di Enrico, come il referendum sulla scala mobile (avviato, come riconosce Fassino, tra molte esitazioni dei nostri dirigenti), negli anni successivi cominciò il declino della sua politica, che si concluse poi drammaticamente con il danno maggiore: la scomparsa del Psi. In quegli anni furono avviate invece, con grande travaglio, le successive trasformazioni del nostro partito, che pur con perdite e affanni mantiene un ruolo sostanziale nella sinistra italiana. Forse, ciò è accaduto anche perché nei decenni precedenti non abbiamo compiuto soltanto "la traversata del deserto", ma anche una costruzione democratica di rapporti sociali diffusi, e perché continuità e discontinuità (quando dalle due abbiamo scelto il meglio!) hanno contribuito entrambe a salvare e trasformare (in modo ancora insufficiente) questo partito.
L'altra domanda coinvolge giudizi politici su quel tempo, e ancor più sulle scelte che si stanno compiendo oggi: è proprio vero che Craxi era modernizzante e Berlinguer passatista? E come collocarsi ora, quando le coordinate degli anni ottanta e novanta risultano in gran parte superate?
Nel Psi, intuizioni e intenzioni moderniste ci furono certamente, come la Conferenza programmatica del 1982 che nelle idee di Martelli volle coniugare "meriti e bisogni". Nei Congressi del Psi l'arredamento diventò avveniristico, il "made in Italy" fu propagandato nel mondo, soprattutto nel campo della moda, e le televisioni moltiplicate e accaparrate. Ma scienza e scuola ristagnarono e l'innovazione tecnologica progredì scarsamente. Le istituzioni più che riformate furono occupate, poste al servizio di gruppi e partiti e spesso corrotte. Non sta a me ricordare, per contro, che come risultato di un confronto politico asperrimo Enrico percepiva e soffriva il rischio di un isolamento (anche interno) e più ancora di una stagnazione delle idee. Dopo aver sollevato la questione morale, intesa non nel senso giudiziario bensì come riforma dei partiti e della politica (1981) e dopo lo strappo con il sistema sovietico (1982) Enrico negli ultimi anni ha riproposto con slancio il tema dello sviluppo sostenibile e del governo mondiale, il ruolo della scienza e della tecnologia, la questione dell'etica pubblica.
Tali questioni hanno assunto con la crisi del neoliberismo, dell'assetto culturale caratterizzato dal "pensiero unico" e ora del dominio di un solo paese, una priorità programmatica pregnante e urgente. Nel nostro passato, più che in altre esperienze che si vorrebbero riproporre come modelli, ci sono tracce da seguire, e nel nostro futuro ci deve essere più coraggio e più innovazione. Anch'io ripeterei volentieri la formula fassiniana "modernizzazione più diritti", se cercassimo insieme di darle qualche contenuto unitario, costruttivo e mobilitante.