«Il libro Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna (Pentragon, 2017), a cura di Ilaria Agostini e con la prefazione di Tomaso Montanari, raccoglie una serie di contributi (oltre che della curatrice, di Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano) sul progetto di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna, approvato senza sostanziali modifiche nel dicembre dello scorso anno (1). Tutti i testi sono focalizzati sulla strumentazione urbanistica comunale (sulla quale si concentra in sostanza la strategia della legge) e sugli aspetti in essa presenti attraverso i quali – si sostiene – viene operato “un irresponsabile salto di scala fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica” (Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia-Romagna del 12 dicembre 2016) e “l’eclissi del ruolo pubblico nella trasformazione delle città e dei territori” (Agostini, Caserta).Quali gli aspetti che portano i diversi interventi a questa conclusione?»
Un altro aspetto critico evidenziato nel testo riguarda la disposizione relativa agli standard urbanistici differenziati (art. 9) che attribuisce al Piano urbanistico generale la facoltà di individuare ambiti nei quali gli interventi di ristrutturazione urbanistica e di addensamento e sostituzione urbana possono cedere aree per le dotazioni territoriali (artt. 3, 4, 5 del DM 2.4.68) in quantità inferiore non solo a quanto già prescritto dalla Regione fin dalla LR 47/78 (30 mq/ab) ma a quanto previsto dallo stesso decreto ministeriale (18 mq/ab). La deroga, consentita qualora sia dimostrato che il fabbisogno di attrezzature è soddisfatto all’interno degli ambiti o in aree contermini, è inserita “in attuazione della seconda parte dell’articolo 2-bis, comma 1, del DPR n. 380 del 2001”. Sempre in attuazione del medesimo articolo anche i limiti di altezza e densità del DM 2.4.68 possono essere derogati (“i permessi di costruire convenzionati relativi agli interventi di ristrutturazione urbanistica e gli accordi operativi che regolano interventi di addensamento e sostituzione urbana – si afferma nel progetto di legge – non sono tenuti all’osservanza dei limiti di densità edilizia e di altezza degli edifici”) (3). Si osserva che l’art. 2-bis del DPR 380/2001 (4) consente alle Regioni di prevedere deroghe al DM e impone che, in questo caso, le Regioni dettino disposizioni specifiche, il ché “non può certo significare, come invece pretende l’art.9, lettera c) del disegno di legge regionale – osserva Losavio – la liberazione da ogni prescrizione di densità, altezza degli edifici e distanza tra loro, la soppressione cioè di ogni limite, di ogni obiettivo criterio ordinativo per l’insediamento edilizio urbano”. L’art. 9 citato prevede quindi nella disciplina del territorio urbanizzato sia la sottrazione alla competenza comunale della regolamentazione a monte di parametri di riferimento per gli interventi di ristrutturazione urbanistica e per gli accordi operativi (“…non sono tenuti all’osservanza…), sia la facoltà del Piano urbanistico generale di disattendere l’obbligo relativo alla quantità minima inderogabile di aree pubbliche richieste dal decreto ministeriale (e anche di concedere a operatori privati l’utilizzo di aree pubbliche destinate a servizi diminuendo quindi la dotazione già esistente) e di ridurre la quantificazione delle aree pubbliche prevista fino ad oggi dalla legislazione regionale e fino ad oggi da quasi 50 anni seguita nella formazione dei piani comunali (5).
Se si considera che anche le stesse indicazioni relative ai contenuti strategici del Piano urbanistico generale, formulate nella cartografia di piano in modo “ideogrammatico”, sono da specificare - e quindi modificabili - in sede di accordi operativi senza che ci sia variazione al PUG (art 24), si deve concludere che l’elasticità/indeterminatezza delle disposizioni del Piano da una parte e il significativo ruolo della negoziazione (accordi operativi) dall’altra, riducono entro confini circoscritti la funzione pianificatoria del Comune relativa all’assetto urbano: il “DDL – osservano Alleva e Quintavalla - sottrae loro [ai Comuni] ogni capacità di intervento e di progettazione della città pubblica, quella che un piano urbanistico dovrebbe delineare a partire dall’idea che il territorio è un bene comune. Questo sistema […] aggraverà i processi di separatezza delle classi sociali all’interno del contesto urbano”. Rimanendo nell’ambito della disciplina del territorio urbanizzato, le critiche contenute nel libro si incentrano anche sul corposo ricorso a incentivi volumetrici e premialità varie (Rocchi) e l’esiguità delle disposizioni per i centri storici all’art. 32 (“che nulla dice sull’argomento”, Cervellati), che al comma 5 elenca i principi ai quali si deve conformare la disciplina e subito in sequenza successiva, al comma 6, la possibilità di derogare (attraverso accordi operativi) ai principi appena stabiliti “per motivi di interesse pubblico” (“compare – sottolinea Berdini – il passepartout, e cioè l’interesse pubblico, concetto molto elastico e discrezionale che ha fin qui prodotti infiniti lutti al territorio e al paesaggio italiano”).
Un terzo tema affrontato nel libro è il contenimento del consumo di suolo – che il progetto di legge pone come obiettivo primario – e l’effettiva risposta a tale obiettivo dell’articolato di legge. Il progetto di legge dispone (art. 6) che la pianificazione possa prevedere un consumo di suolo complessivo all’esterno del perimetro di territorio urbanizzato “pari al tre per cento della superficie del territorio urbanizzato […] esistente alla data di entrata in vigore della […] legge”. Poiché, in sintesi, gli elementi di riferimento per il consumo di suolo sono :
consegue che “il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione” (da Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia-Romagna del 12 dicembre 2016, riportata nel libro). L’esemplificazione grafica del potenziale processo di progressiva urbanizzazione (Righi) riportato nel libro è particolarmente efficace; nello stesso intervento viene messa in evidenza la scarsa incisività concreta dei contenuti strategici del Piano urbanistico generale (espressi in forma ideogrammatica e modificabili dagli accordi operativi) a fronte delle proposte progettuali degli accordi operativi e quindi il ridotto potere di intervento/controllo dell’ufficio di piano (del Comune singolo o dell’unione di Comuni), al quale spetta entro 60 giorni dalla presentazione del progetto verificare la conformità al PUG e valutare la sussistenza dell’interesse pubblico: un “concetto molto elastico e discrezionale ” osserva Berdini.
Queste tre principali riflessioni critiche al progetto di legge della Regione Emilia-Romagna sono inserite, nel testo, in un quadro di riferimento che ne evidenzia le dissonanze tra obiettivi dichiarati e disposizioni normative (Dignatici) e ne valuta il rapporto con l’evoluzione del quadro legislativo e disciplinare (Salzano: I grandi tornanti della storia dell’urbanistica italiana; Marson: Il consumo di suolo nelle legislazioni regionali; Foschi: Il paesaggio e il Codice, la Regione e le Soprintendenze), con il contesto economico e finanziario (Bonora) e agricolo (Bevilacqua), con le presunte “fonti documentarie” (cioè il disegno di legge Lupi 2005 e il documento ANCE Emilia-Romagna 2016, Agostini).
Tuttavia, le riflessioni del libro, seguendo le logiche del progetto di legge, hanno come oggetto esclusivo la disciplina del piano comunale relativa alle politiche edilizie nel contesto urbano e non si soffermano sul fatto che la proposta di legge non attribuisce al Piano urbanistico generale alcuna competenza su aspetti disciplinari che esulino dal mero aspetto edilizio: in base al “principio di competenza” il Piano urbanistico generale ha infatti, per il progetto di legge, il compito di “delineare le invarianze strutturali [non definite: sembra siano solo gli aspetti urbano/edilizi elencati all’art. 32] e le scelte strategiche di assetto e sviluppo urbano di propria competenza”, con l’obbligo di dotarsi della “tavola dei vincoli” (derivanti da altri piani o leggi o atti amministrativi) nella quale le componenti ambientali, paesaggistiche ecc. sono riassorbite nel ruolo di vincolo (all’edificazione).
La Regione Emilia-Romagna dispone di un corposo patrimonio di pregresse esperienze di pianificazione (la pianificazione della Regione non parte da zero) e di materiali conoscitivi, di un coerente percorso legislativo in materia di disciplina territoriale a partire dal 1978: sulla base di questi elementi avrebbe potuto esprimere attraverso la nuova legge la strategia maturata da queste esperienze per la pianificazione regionale futura (con una prospettiva - insieme disciplinare e politica, attenta ai processi in atto -, sulla modalità di lettura e di gestione del territorio). Una legge che si assume la responsabilità di esprimere la Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio, avrebbe potuto e dovuto (come in parte già presente nella vigente legge regionale 20/2000 e in recenti leggi di altre regioni) dare una formulazione esplicita degli indirizzi e delle politiche territoriali sulle quali si sarebbero dovuti strutturare gli strumenti di pianificazione, e avrebbe potuto, a questo scopo, indicare le modalità di lettura e sistematizzazione delle diverse componenti del patrimonio territoriale regionale. Niente di tutto questo. Sulla laconicità della proposta di legge in merito alle politiche territoriali, sulla mancanza di obiettivi programmatici per un progetto di territorio regionale inserito nel quadro dei problemi oggi emergenti (non riconducibili ai soli problemi delle semplificazioni procedurali e del contenimento del consumo di suolo attraverso la rigenerazione urbana, unici temi concretamente affrontati, in modo discusso e discutibile, dalla proposta di legge), il libro Consumo di luogo non si esprime, concentrando ed esaurendo la sua attenzione sull’aspetto – politicamente rilevante, ma non unico – della lesione, insita nella disciplina urbano/edilizia della proposta di legge, del principio della riserva della potestà urbanistica ai comuni, e sugli altri aspetti esaminati. Ma questo vuoto, questa constatazione dell’“assenza del territorio” nella proposta di legge urbanistica emiliana e nel dibattito critico che ne ha riguardato i contenuti, richiede una riflessione e l’esigenza di chiedersi quali siano, oggi, i contenuti e il ruolo della “pianificazione”, quali contributi possa o debba dare e su quali temi si debba responsabilizzare attraverso le sue specifiche competenze disciplinari.
La pianificazione oggi: problemi di carattere generale
La pianificazione di un qualsiasi contesto territoriale non può astrarre dalla presa d’atto che ogni singolo luogo, oltre a essere esso stesso portatore di problemi specifici, è coinvolto in problemi trasversali alle diverse realtà territoriali. Realtà territoriali che non costituiscono (o non costituiscono più) ambiti circoscritti non interessati da problemi che non li toccano direttamente, ma tasselli di un’unica realtà territoriale e umana dalla quale si riverberano in tutte le direzioni problemi e coinvolgimenti. Poiché si parla di pianificazione (6) ci si riferisce a problemi che hanno una diretta ricaduta sul territorio e sulle politiche “spaziali” che lo riguardano, e quindi rientranti in un ambito disciplinare ristretto rispetto al più vasto quadro dei problemi che coinvolgono le politiche sociali ed economiche con implicazioni solo marginali sugli assetti spaziali. Politiche “spaziali” e politiche economiche e sociali hanno tra loro linee di contatto e rapporti di interdipendenza che rendono artificiose le operazioni di distinzione, ma la distinzione risulta utile per concentrare l’attenzione sulle specifiche responsabilità e competenze di campi disciplinari autonomi. In ogni caso va assunta la consapevolezza (e le responsabilità conseguenti) che la pianificazione è politicamente rilevante per dare risposte a problemi ambientali e sociali.
I problemi “generali”, manifestatisi già a partire dalla fine del secolo scorso, che nella fase attuale, agli inizi del terzo millennio, coinvolgono le diverse aree del pianeta con una urgenza che travalica qualsiasi possibilità di deroga da parte delle politiche di pianificazione, in qualsiasi ambito territoriale, riguardano sostanzialmente la conservazione delle risorse ambientali e la garanzia di una produzione agricola che assicuri il soddisfacimento del fabbisogno alimentare. Il quadro delle condizioni che rendono oggi non differibile il problema della conservazione delle risorse ambientali (acqua, aria, suolo, biodiversità), dalle quali dipende la possibilità di permanenza della vita (degli uomini) sulla terra, così come oggi è ampiamente documentato (cambiamenti climatici, alterazione processi idraulici, contaminazione acque superficiali e falde acquifere, fenomeni di inquinamento marino, riduzione della diversità biologica), costituisce il punto di arrivo (e conferma) della lunga ondata delle analisi/previsioni che hanno avuto inizio con le valutazioni dei Limiti dello sviluppo degli anni ’70 e successivamente del Rapporto Brundtland ’87 (che introdusse la strategia/obiettivo dello sviluppo sostenibile basato sul mantenimento e l’uso oculato delle risorse ambientali).
Strettamente dipendente dalla conservazione delle risorse (in particolare suolo, acqua, biodiversità) è la continuità della produzione alimentare, anch’essa “risorsa” non comprimibile per le esigenze di vita delle popolazioni. Dalle teorie di Malthus della fine ‘700 relative al tema specifico del rapporto popolazione/risorse alimentari alle successive elaborazioni dei Limiti dello sviluppo fino alla progressiva messa a fuoco dei problemi connessi alla sicurezza alimentare del Rapporto Brundtland e dei successivi documenti della FAO, il problema della produzione agricola a fini alimentari è risultato sempre più emergente nel contesto del “problema demografico”. Se l’aumento della produzione agricola (la “rivoluzione verde” della seconda metà del ‘900) ha fino ad oggi differito il problema del rapporto popolazione/alimenti (a scala globale), oggi le dinamiche di crescita demografica a livello mondiale e la permanenza e aumento (7) della sottoalimentazione di vaste sacche di popolazione (aggravata da mutamenti ambientali - modifiche climatiche - e indotta da condizioni di povertà e disuguaglianze connesse e generatrici di instabilità politiche, demografiche, sociali) implica la necessità non differibile di perseguire un quadro di politiche finalizzate alla sicurezza alimentare che corresponsabilizza e coinvolge tutte le diverse parti del pianeta.
I due temi (risorse ambientali e alimenti) coinvolgono in modo trasversale tutti i paesi indipendentemente dalla loro specifica situazione: il degrado o la perdita di risorse ambientali, da qualunque parte abbia origine, ha ricadute (già oggi percepibili) a livello planetario (acidificazione degli oceani, inquinamento delle falde acquifere, modifiche climatiche, perdita di suolo ecc.) (8); d’altra parte la sicurezza alimentare di tutti i popoli nel loro complesso e di ogni singolo popolo (9) dipende sia dalle politiche di circolazione e commercio dei prodotti alimentari sia dalla quantità complessiva della produzione agricola per alimenti, che a sua volta è direttamente connessa alla quantità di terreni idonei all’uso agricolo, terreni la cui estensione sulla superficie terrestre non è più praticamente aumentabile e che dovrà supportare anche i futuri previsti incrementi demografici (10).
Precede ed è implicita nella attribuzione di questi compiti al “piano” una prospettiva olistica nella disciplina della pianificazione: il piano, a qualunque scala territoriale si riferisca, non è assemblaggio di settori di intervento fra di loro comunicanti ma sostanzialmente autonomi (insediamenti urbani, territorio rurale ecc.) ma governo di un’area antropizzata nella quale i processi naturali, demografici ed economici rientrano in un processo unitario gestito dall’uomo nel quale sono interdipendenti le aree cosiddette “urbanizzate” e quelle “non urbanizzate”. Se consideriamo in particolare l’area europea – ma il discorso è estensibile a molte altre aree, nel presente e nel passato (15) – l’intero territorio nelle sue evoluzioni geografiche/storiche è il prodotto di interventi antropici che attraverso il controllo (e spesso la modifica) dei processi naturali, l’attività agricola e la formazione di agglomerati insediativi hanno dato luogo di fatto a un unico ambito “urbanizzato” (vocabolo qui utilizzato in modo estensivo e non letterale per definire un ambito territoriale interamente controllato, gestito e modificato dall’azione dell’uomo in funzione delle sue esigenze insediative). Oggi la medesima valutazione si estende a una realtà globale nella quale gli interventi sul singolo territorio vanno commisurati a ricadute che esulano dai confini locali.
Dato il rapporto che subordina la sussistenza degli insediamenti umani alle risorse della terra e dati gli esiti dei processi in atto, che minano le possibilità future, diviene necessario ribaltare il tradizionale criterio di pianificazione per cui sono le aree “urbanizzate” (le città, gli insediamenti antropici di qualunque tipologia e denominazione) che si ridefiniscono secondo le loro logiche interne (o secondo logiche demografiche/economiche i cui processi evolutivi seguono traiettorie trasversali ai confini amministrativi) modificando via via perimetri, usi e modalità d’uso del territorio “esterno”, per assumere invece la consapevolezza che i processi di crescita degli spazi fisici destinati agli insediamenti vanno di fatto subordinati alla sussistenza degli ambiti territoriali nei quali si rigenerano le risorse ambientali e si producono le risorse alimentari. Il governo – attraverso piani e strategie fortemente incisive (16) – di questi ambiti e processi territoriali, costituenti il sistema organico garante delle possibilità di sopravvivenza, deve quindi precedere e condizionare le espansioni degli spazi fisici interessati dagli insediamenti e conseguentemente condizionare i criteri di formazione dei piani, finora concentrati prioritariamente sulla programmazione delle future espansioni urbane – spesso non rapportate ad analisi delle richieste abitative e delle effettive disponibilità del patrimonio edilizio esistente – (17).
Il controllo rigoroso degli spazi da interessare con le urbanizzazioni diviene tanto più necessario quanto più aumenta il carico demografico e quindi la necessità di garantire la sussistenza delle popolazioni. Diviene necessario valutare la programmazione delle trasformazioni insediative in rapporto al “piano” delle aree “esterne” (intese come sistema di aree con un ruolo primario e dinamiche non comprimibili, e non come aree con diversa tipologia residenziale o di servizi all’urbano espulsi all’esterno degli abitati), e non più viceversa. Si manifesta sempre più funzionale alla gestione dei problemi attuali una pianificazione che, con una precisa assunzione di responsabilità, qualunque sia il livello del piano, introietti e ponga in primo piano e componga in un organico quadro territoriale/funzionale/paesaggistico aspetti delegati nel nostro Paese alle discipline parallele dalle quali discendono le tutele differenziate di competenza statale (18) - richiamate di solito dalla pianificazione urbanistica per gli aspetti vincolistici nei riguardi dell’edificazione - e non per la loro funzione reale e potenziale di conformazione/costruzione del territorio (19). È altresì necessario che nel quadro della tutela delle risorse il piano assuma la tutela dei suoli destinabili alla produzione alimentare come un obiettivo del governo del territorio (20), obiettivo rapportato a una programmazione agricola non subordinabile a dinamiche urbano/edilizie locali ma rapportata ai più concreti problemi della sostenibilità ambientale e della sicurezza alimentare che nella loro concretezza e urgenza e nelle loro ricadute coinvolgono tutti paesi e le loro interazioni.
Problemi di scala locale
L’attività di pianificazione (la disciplina urbanistica) è in genere prevalentemente rivolta al governo dei fenomeni che coinvolgono il particolare ambito territoriale oggetto del piano, in quanto i singoli luoghi, con le loro diverse realtà locali, sono caratterizzati dalla complessità di processi evolutivi che coinvolgono i diversi scenari delle loro identità (21). I diversi scenari, tra loro interconnessi, danno luogo a “domande” spesso tra loro contradditorie, alle quali la pianificazione è chiamata a dare risposte, anche se parziali e in ogni caso oggetto di verifiche e correzioni di tiro. Risposte mirate al raggiungimento di obiettivi che le stesse comunità interessate, attraverso le loro espressioni amministrative e partecipative (22), devono formulare come quadro di riferimento per la “qualità di vita” sul quale impegnare gli interventi operativi futuri. Obiettivi che pur se soggetti a verifiche/precisazioni rappresentano, per il periodo di tempo al quale si riferiscono, il patto fra amministrazione e cittadini i cui contenuti non sono negoziabili per interessi particolari.
Anche nella pianificazione relativa agli aspetti specifici delle realtà locali (demografia, tutela dei paesaggi, strutture sociali, fabbisogni abitativi, assetti occupazionali) emergono richieste alla scala locale che rimandano a temi di carattere “generale”. Una costante che si ritrova, pur con le differenze dovute alle differenze dei luoghi e delle comunità, è la richiesta di “città”. La vistosità del fenomeno del progressivo accelerato inurbamento della popolazione, qualunque sia la morfologia della urbanizzazione risultante, (con parallela produzione di molteplici analisi e interpretazioni relative ai contenuti dei vocaboli “città, metropoli, suburbanizzazione, periferie”) evidenzia le forme attuali dell’inarrestabile processo verso la “città” – fin dalle più lontane origini espressione dalla insopprimibile necessità dell’uomo, “animale sociale”, di sviluppare attraverso l’intreccio delle interrelazioni la complessità della vita sociale (economie e culture) e delle potenzialità individuali –. Indipendentemente dalla dimensione, morfologia e dinamiche evolutive che attraversano gli insediamenti, il processo di costruzione della città passa dall’agglomerazione di individui (e di scambi economici) alla realizzazione di una rete di spazi comuni/servizi/luoghi di rappresentanza (la “città pubblica”) nei quali si definisce nel tempo una specifica identità della comunità locale, e attraverso i quali vengono introiettate – anche attraverso processi conflittuali – le differenze portate da nuovi cittadini, nuove generazioni e nuove culture, in un divenire continuo che mette continuamente in discussione i confini sociali e culturali consolidati e contemporaneamente rafforza il senso e il ruolo della “città”. La città non è data una volta per tutte, non è il congelamento di luoghi, tradizioni, culture ma il continuo fluire di persone, idee, confronti/scontri, stili di vita interagenti con il passato ma non coincidenti con esso: la richiesta di città è la richiesta di continua ridefinizione dei processi sociali ed economici e delle loro contraddizioni e di ininterrotto progetto delle risposte e di riformulazione dei diritti. In questa accezione qualsiasi processo di agglomerazione (qualunque sia il termine che la qualifica) esprime la città, o l’attesa di città, o la città in divenire: cioè porta in sé, implicita, la richiesta della “città pubblica” come momento di ridefinizione dei processi di convivenza, città pubblica che nei diversi luoghi assumerà morfologie differenti in rapporto alle diverse identità locali e ai diversi problemi locali.
Questa richiesta della “città pubblica” implicita e latente negli inurbamenti interpella le competenze specifiche della pianificazione (in quanto disciplina rientrante nelle politiche pubbliche finalizzate agli interessi – alle aspirazioni – generali, cioè riguardanti la generalità delle componenti sociali) per quanto concerne la salvaguardia e continua articolazione e crescita del sistema di spazi pubblici, di servizi e attrezzature (23), ramificati nel tessuto urbano, aperti alla condivisione e coesistenza di tutte le diverse componenti della comunità nelle loro differenze; sistema di spazi ai quali la comunità, nelle sue diverse espressioni anche conflittuali, dà forma, significato e contenuti, trasformando gli spazi fisici in “luoghi” delle relazioni, contemporaneamente identitari e nello stesso tempo ricettori dei flussi di nuovi utenti, di attività innovative, di interessi differenziati e culture diverse. La “città pubblica” nelle sue diverse espressioni in quanto struttura morfologica e funzionale dell’insediamento (qualunque sia la terminologia con la quale lo si denomina), alla quale è connessa la trasformazione dell’agglomerato insediativo in “città”, dialoga con le diverse parti e tipologie del tessuto urbano all’interno delle quali si pone come luogo dell’incontro, del confronto, delle proposte e dei processi di discussione sulla gestione e utilizzo del territorio urbano, e della messa a fuoco dei problemi specifici delle singole parti (24).
La vita della comunità anche nel suo modificarsi (25) è profondamente innestata nel suo “spazio” di riferimento (anche se i singoli sono interconnessi al “mondo” attraverso forme di comunicazione che non necessitano dello spazio urbano, anche se la mobilità fra luoghi diversi caratterizza ampi segmenti di popolazione, anche se i poli di sviluppo economico tendono a essere riposizionati nel territorio in funzione di strategie sovralocali): esiste un rapporto biunivoco tra la vita sociale e la morfologia urbana così come tra gli insediamenti residenziali e le economie presenti. I processi di carattere economico o culturale – oggi e probabilmente sempre più in futuro inseriti in un orizzonte di connessioni “globali” – quando calano in un luogo si “territorializzano”, acquisiscono fisionomie specifiche raccordandosi alle preesistenze locali, e si traducono in morfologie urbane, culture identitarie, economie/tipologie occupazionali locali con relative politiche di difesa (26) , che esprimono e sviluppano una intrinseca progettualità urbana e sociale. Da qui la necessità di uno specifico quadro disciplinare per il contesto urbano e le progettualità locali, improntato alla consapevolezza che gli interventi concernenti le dinamiche delle urbanizzazioni sono costruttivi nella misura in cui, dall’interno della specifica originalità dei luoghi, si rapportano al quadro dei problemi generali in una dialettica continua di interrelazioni. E ancora, la necessità di una progettualità degli spazi pubblici urbani che corrisponda alla loro funzione di essere congiuntamente luogo emblematico della identità locale (o delle diverse identità che attraversano la comunità locale) e luogo emblematico della città intesa come categoria di spazi/interessi aperti alle identità plurali dei flussi di persone che la attraversano o che la vivono in fasi transitorie della loro vita.
L’urbanizzazione è il processo di territorializzazione di persone, economie, culture che si stratificano nel tempo e costituisce la componente spaziale di politiche che rivedono progressivamente le modalità con le quali recepire le preesistenze e programmare il futuro . Intesa in questo modo l’urbanizzazione, in quanto componente spaziale di politiche e culture – locali e generali – succedentisi nel tempo, è contemporaneamente documento degli assetti fisici che l’hanno conformata (a partire dalle componenti ambientali), la cui viscosità permane attraverso le modifiche, e documento delle culture che hanno inciso sui suoi assetti sociali; allo stesso modo i processi futuri si evolveranno a partire dal quadro espresso dalle culture attuali. Non va cioè sottovalutato il fatto che la conformazione spaziale dei luoghi e dei servizi pubblici (risultante e segno concreto delle differenze specifiche dei singoli insediamenti e dei processi sociali e culturali che li hanno attraversati) è fortemente pervasiva della cultura di un luogo e che i suoi processi di trasformazione – di conservazione, di qualificazione o di degrado – incideranno profondamente sulle forme di coesistenza urbana (oltre a esserne il prodotto e l’espressione).
Gli obiettivi del piano territoriale
I temi affrontati dalla pianificazione territoriale vertono oggi come in passato su obiettivi posti dalla
comunità e dalle sue articolazioni amministrative (enti istituzionali, portatori di interessi o di culture emergenti…) relativi all’ambito territoriale circoscritto oggetto dell’intervento di pianificazione. I contenuti della pianificazione agiscono contemporaneamente sul territorio come spazio fisico (definizione di ambiti e di modalità d’uso), sulla qualità di vita degli abitanti (individuazione di standard relativi alle attrezzature pubbliche, all’edilizia sociale, alle infrastrutturazioni; regolamentazione degli insediamenti e delle attività produttive; gestione del patrimonio storico e salvaguardia attiva dei paesaggi) e sulle modalità attuative degli obiettivi (formule prescrittive; negoziazioni pubblico/privato; proposte/progetti “dal basso”). In tutti gli aspetti oggetto di pianificazione (organizzazione dello spazio, risposte a fabbisogni sociali, modalità attuative degli obiettivi) il “piano” nella fase di elaborazione agisce in concorso e confronto con le discipline settoriali connesse e con i contributi partecipativi oltre che con le politiche perseguite, e nella successiva fase di attuazione è soggetto alle articolazioni indotte dalle modalità operative e gestionali. Articolato è quindi il quadro delle competenze e dei coinvolgimenti ai quali è affidato il processo di piano.
La complessità di questo processo e i problemi contingenti che lo condizionano non deve tuttavia offuscare la consapevolezza che nel momento attuale, e con l’attuale grado di conoscenza di alcuni problemi emergenti, alcune scelte debbano “preesistere” e costituire il “supporto” dell’intelaiatura del piano: scelte che possono risultare formulate – a parole – con espressioni in un certo senso convenzionali e astratte, ma concretissime nel loro risvolto sul territorio, ciascuna di esse portatrice di ricadute territoriali impegnative e di comportamenti che rimandano a contenuti e obiettivi definibili etici:
Questi aspetti di fondo, e in un certo senso preliminari e prodromici alla attività di pianificazione specifica dei diversi livelli o tipi di piano, emergono come richieste non eludibili della situazione ambientale e sociale attuale. Nei diversi momenti della storia e nei diversi territori l’organizzazione e la gestione del territorio ha risposto a problemi specifici che nel tempo non si sono ripetuti uguali; i processi evolutivi hanno comportato la necessità di affrontare problemi sempre diversi: la consapevolezza dei caratteri originali e dei problemi specifici del momento attuale consentono anche una maggior lucidità nella rilettura del passato e delle ragioni alla base delle sue specifiche e differenti fisonomie; se viene meno la riflessione e la consapevolezza delle emergenze di fondo del momento attuale, la pianificazione rischia di essere una operazione di tecnica urbanistica e amministrativa non in grado di cogliere e perseguire gli obiettivi - non arbitrari - che l’oggi richiede. La fase storica attuale, e il quadro di conoscenze che ne abbiamo, ha portato in primo piano la consapevolezza del problema ambientale, il tema delle povertà/disuguaglianze e la richiesta di città intesa come luogo delle opportunità e del confronto sulle modalità dell’urbanizzazione e sui problemi sociali in essa confluenti: problemi comuni e trasversali ai diversi paesi, pur nella diversità dei luoghi e delle culture, e che nei diversi paesi richiedono risposte specifiche e anche, forse, il superamento di visioni troppo localistiche.
Al piano compete concretizzare obiettivi di fondo e scelte di futuro nelle loro implicazioni spaziali; un quadro certo (pur soggetto al progressivo aggiustamento connesso agli esiti dei monitoraggi e al divenire delle conoscenze), con chiare definizioni degli ambiti territoriali e del loro ruolo raccordato a obiettivi generali di interesse pubblico, consente l’irradiarsi nel tempo della complessità di forme di progettualità e delle reti degli usi da parte dei diversi “attori” del territorio (singoli, gruppi, comunità, enti) in autonomia ma in coerenza con obiettivi definiti di carattere generale. In assenza di un quadro territoriale organizzato in funzione degli obiettivi di fondo, o in presenza di formulazioni regolamentari tanto generali da lasciare aperto un incontrollato ventaglio di interventi
– o con l’introduzione di criteri di pianificazione (come vengono avanti, nel nostro paese, con forme progressivamente più estese ed incisive) che subordinano la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni (e quindi si presuppone le finalità di interesse pubblico) a proposte insediative avulse da un quadro territoriale organico (31) - non si avrebbe un progetto di territorio né un quadro di impegni e confronto con le comunità interessate, e tantomeno un progetto rapportato all’obiettivo di un processo ambientalmente e socialmente sostenibile (32).
Il governo del territorio
L’espressione “governo del territorio” implica una prospettiva nella quale viene considerato il complesso delle azioni (strategie politiche e discipline pianificatorie) incidenti sul territorio in funzione di obiettivi che a seconda della tipologia dei beni considerati e delle disposizioni di riferimento vengono di volta in volta individuati come “tutela dal rischio idrogeologico”, “tutela delle acque dall’inquinamento”, “tutela del paesaggio”, “valorizzazione del patrimonio naturale”, “assetto e incremento edilizio dei centri abitati”, “costruzione di alloggi di carattere economico e popolare”, “sviluppo sostenibile”, “ordinato sviluppo del territorio”, ecc., obiettivi dei quali alcuni (la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) sono oggetto della legislazione esclusiva dello Stato (33), altri della legislazione concorrente Stato/Regioni (art. 117 Cost.).
La presenza di discipline diversificate per finalità e per ente competente, che agiscono tuttavia sul medesimo oggetto – il territorio – , comporta la necessità di una effettiva interrelazione fra i momenti conoscitivi e programmatici dei diversi ambiti disciplinari. Interrelazione che non può limitarsi d una stratificazione di strumenti distinti per ambito di competenza, ciascuno dei quali interferisce con gli altri attraverso vincoli ripresi spesso acriticamente dagli strumenti sottordinati e intesi come condizionamento all’attività edilizia (che sembra essere il principale oggetto di attenzione dei piani), ma deve confluire in uno strumento di pianificazione nel quale le discipline di tutela o rigenerazione delle componenti ambientali e paesaggistiche si completano nel quadro degli usi del territorio e delle trasformazioni urbanistiche che, in coordinamento e coerenza e concorso con le tutele, delinei i processi territoriali futuri [in assenza di questa simbiosi gli usi e le trasformazioni del piano galleggiano come attributi casuali senza il supporto sostantivo del territorio]. L’approfondimento di una tipologia di piano che riassorba in modo organico i diversi contributi disciplinari e ancor più la lungimiranza di atti normativi (nazionali e regionali) che colgano la complessità dei processi territoriali nelle loro interazioni, all’interno e con l’esterno dei perimetri di riferimento, è oggi necessaria per una pianificazione territoriale aperta ai problemi generali e concretamente costruttiva.
La finalità pubblica oggetto delle discipline concernenti la pianificazione – perché in ogni caso si tratta di discipline mirate all’interesse pubblico – riguarda temi che per la loro specifica natura interessano orizzonti temporali differenti. Alcuni temi (reti idrauliche, acque profonde, ecosistemi, beni culturali e paesaggistici) riguardano ambiti territoriali, conformativi della fisonomia del territorio, per i quali le discipline specifiche sono finalizzate ad assicurare processi evolutivi mirati al consolidamento o rigenerazione del loro specifico ruolo ambientale e/o paesaggistico, e quindi mirati al mantenimento nel tempo di processi o morfologie territoriali (naturali e antropiche), e per questo spesso definite “invarianti” (anche se gli stessi processi naturali o antropici che ne mantengono il ruolo ne escludono il carattere dell’invarianza o la circoscrivono ad aspetti specifici, differenti per i differenti oggetti). Per queste strutture territoriali, alla cui permanenza nel tempo sono connessi i processi ambientali e il mantenimento dei fondamenti identitari che supportano la continuità insediativa e la qualità di vita delle popolazioni, la pianificazione agisce con orizzonti temporali di lunga durata. Altri temi, quelli connessi all’avvicendamento delle obsolescenze insediative e occupazionali, delle emergenze e delle dinamiche sociali, comportano la necessità di riorganizzare assetti consolidati con cadenze temporali a volte ravvicinate.
In un medesimo contesto territoriale sono compresenti sia ambiti che rimandano a temi di respiro geografico/storico e a obiettivi generali sia ambiti soggetti a contingenze temporali e avvicendamenti più rapidi – il ché rientra nella logica della giustapposizione (e interazione) di fenomeni territoriali diversificati. Tuttavia a questi orizzonti temporali differenziati non può corrispondere una analoga scansione temporale nella disciplina pianificatoria, sia nella fase progettuale che nella fase operativa/gestionale: in tutti gli ambiti la finalità dell’interesse pubblico implicita nella pianificazione rende necessarie strategie di intervento continuative e costantemente affinate: che provvedono alla salvaguardia e al mantenimento di processi naturali in un quadro di profonde modifiche ambientali, al perseguimento di politiche agricole coerenti con gli obiettivi della sostenibilità e con il contesto delle economie mondiali, al miglioramento della qualità di vita negli agglomerati insediativi oggi attraversati da problemi sociali inediti. Gli interventi per la salvaguardia nel tempo di assetti storico/fisiografici (per esempio le attività connesse agli equilibri idraulici, o ai dissesti idrogeologici, o alla valorizzazione di siti storici) non sono (o non possono essere) meno incisivi o più discontinui delle modifiche colturali e delle politiche agricole o degli interventi nei tessuti urbani. In tutti i casi le azioni (e l’impegno decisionale e di lavoro connesso) e le scansioni temporali degli interventi devono rispondere a criteri di tempestività e continuità per confluire nella prospettiva della preservazione e vivibilità di un territorio (ambientale e sociale) che nella sua interezza rientra nel patrimonio della comunità locale e nel patrimonio della più vasta comunità umana. Prospettiva che è difficile definire nella articolazione dei suoi diversi contenuti, ma verso la quale, pur faticosamente e in presenza di conflittualità diffuse (fra paesi, fra emergenze diverse nei diversi paesi, fra gruppi sociali, fra diverse esigenze di inclusione, fra diverse prospettive occupazionali, fra diritti privati e diritti collettivi), le situazioni ambientali e sociali attuali, e l’interdipendenza tra i diversi territori (34), chiedono di procedere.