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3 domande per 4 urbanisti
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Silvia Macchi, Rossella Marchini e Antonella Sotgia hanno posto tre domande a quattro urbanisti: Giancarlo Paba, Anna Marson, Vezio De Lucia, Dino Borri. Il servizio è stato pubblicato su L’Insostenibile – pagine di movimento rossoverde, nel numero 4, ottobre 2003. Se ne può discutere, anche su Eddyburg.

“Quando l’ingegnere, ci avverte Bourdieu, parla di case è un tecnico, ma un ingegnere che critica pubblicamente la politica del governo diventa un intellettuale”. Quando ingegneri e architetti si occupano di città - come tecnici e come intellettuali- diventano urbanisti. Si è urbanista ( per fortuna) in modo differente; per formazione, esperienza, collocazione- certo - ma soprattutto per la propria capacità di leggere quello che nelle città avviene e, conseguentemente, declinare i singoli elementi della sua trasformazione. Cercare di capire come gli urbanisti (e le urbaniste) oggi leggono la città è un buon metodo per comprendere, anche, come il sapere di cui queste persone sono portatrici riesca, o meno, ad intercettare pratiche e comportamenti di altre persone (i cosiddetti movimenti) che hanno fatto della città il campo principale del loro agire. Abbiamo così pensato di interrogare alcuni colleghi per scoprire se esistono altre possibilità di comprendere, accompagnare e raccontare l’abitare la città come, per dirla con Marx, sogno di una cosa. Le domande sono state montate in modo volutamente ambizioso, a partire dal convincimento che spesso noi urbanisti, con il pretesto della verità delle norme e delle procedure tecniche, stronchiamo desideri ed esigenze concrete della moltitudine che rinomina la città a partire da inedite forme di progettualità sociale.

Organizzate intorno a tre ambiti problematici - la relazione tra urbanistica e città, tra abitare e costruire, tra piano e risarcimento sociale - altrettante domande sono state poste a quattro urbanisti (e urbaniste) che sappiamo costantemente impegnati a riflettere sull'intreccio di competenza tecnica e tensione politica che compone la loro pratica professionale, dentro le amministrazioni come nelle università, tracciando piani come scrivendo libri, seduti accando ai sindaci come in mezzo alle assemblee cittadine. Le loro risposte si configurano come un'apertura di dibattito, un dispiegamento di questioni su cui riflettere insieme. L'urbanistica, certo, è politica; ma come definiamo la politica? L'urbanistica è progetto di città; ma con chi e/o per chi lo disegniamo? L'urbanistica è un sapere tecnico; ma i suoi strumenti sono adeguati al nostro progetto? e quali strumenti per quale progetto? Insomma, non abbiamo cercato l'ennesimo decalogo dell'urbanista di sinistra e, per fortuna, non lo abbiamo trovato. Ciò che invece ci viene offerto è una direzione di lavoro. Non per un’ altra città, ma o ltre questa città.

1. L'Urbanistica e la Città

Desideri e necessità reali di chi abita la città, giorno dopo giorno, sembrano aver finalmente ritrovato la parola. Le città sono oggi attraversate da movimenti -e conseguentemente da pratiche- che pongono concretamente il problema del diritto alla città a partire da quello della cittadinanza. L’urbanistica, con il pretesto della legittimità, sanziona tutto questo. Quale, allora, lo spazio disciplinare dell’urbanistica nei processi di democrazia partecipativa?



Giancarlo Paba - Ciò che chiamiamo convenzionalmente “urbanistica” è da sempre due cose insieme (talvolta separate, talvolta mescolate): disciplina e immaginazione, regolazione e utopia, tecnica e sogno. Credo che in questa fase storica il pensiero e la pratica dell’urbanistica debbano recuperare il versante irrequieto, radicale, alternativo, “politico” della propria tradizione. Ritornare ad essere – come è positivamente capitato in passato – una cultura di opposizione e uno strumento di promozione delle cittadinanze diminuite, difettive, differite (dagli stranieri ai bambini), per le quali la vita non è una quieta condizione di partenza ma un progetto, e la città è ancora un orizzonte, una speranza, un obiettivo.

Anna Marson - Troppo spesso l’urbanistica trascura, in quanto considerati in qualche modo secondari rispetto alla città delle funzioni economiche, problemi evidenziati dai movimenti: la disponibilità di spazi pubblici vivibili e non soggetti a funzioni rigidamente predefinite, un ambiente costruito che sappia accogliere persone con progetti di vita e disponibilità economiche diverse, il diritto di accesso all’acqua, all’aria, a spazi non edificati. Si tratta di temi sui quali la disciplina urbanistica è nata, a cavallo fra ‘800 e ‘900, e che sembravano essere stati resi obsoleti dal “progresso”. I nuovi movimenti urbani ci ricordano che non è così, e che il progetto della modernità occidentale sembra oggi pesantemente fallito rispetto alle illusioni di qualche decennio fa.

Diversa è la questione della democrazia partecipativa, domanda che ha trovato nuova energia a partire da Porto Alegre. Rispetto al problema procedurale di “come” partecipare, è emersa un’esperienza abbastanza diffusa e consolidata di pratiche in campo urbanistico: contratti di quartiere, contratti di fiume, città dei bambini, piani partecipati, progetti integrati di sviluppo locale, agende 21 ecc. E’ sviluppando queste esperienze che l’urbanistica può concorrere alla diffusione dei processi di democrazia partecipativa..

Vezio De Lucia - E’ bene chiarire subito che non esiste l’urbanistica come corpo disciplinare concluso, una volta per sempre. L’urbanistica non è una scienza esatta. L’urbanistica è politica. Il bello dell’urbanistica, se così posso dire, è che la sua modesta base tecnica è adattabile a ogni situazione politica. Perciò, ogni partito, ogni amministrazione esprime, più o meno consapevolmente, una sua politica urbanistica. Importante è saper costruire quella politica.

Dino Borri - L’urbanistica è stata come “disciplina” – sono un po’ riluttante a usare questo termine, per un campo di saperi e di pratiche di cui ho sempre preferito il lato meno strutturato e più utopistico e insorgente – innovata sensibilmente negli ultimi anni dall’ampliarsi della partecipazione sociale. Ne è testimonianza ad esempio la rilevanza ormai acquisita dal “sapere comune” nell’allestimento di piani e progetti urbanistici, spesso in contrapposizione a un “sapere esperto” né efficiente né efficace e soprattutto incapace di misurarsi con le sfide sociali e ambientali emergenti. Ne è testimonianza anche l’attenzione sociale per la qualità dell’”azione” sempre più affiancata quella tradizionale e tecnica per la qualità della “decisione”.

L’urbanistica può d’altra parte essa stessa contribuire, con la promozione di migliori ambienti di vita non solo urbani, al dispiegarsi di forme migliori di consapevolezza civica e ambientale, può contribuire a processi di educazione ambientale, in un rapporto interattivo tra expertise e senso comune. In fondo, anche se forse con un po’ di retorica e di mitologia, guardiamo da sempre alle sapienti costruzioni e alle bellezze di luoghi e città dove più la democrazia si è inverata, dove conflitti sociali anche aspri sono rientrati nel complesso fluire istituzionale delle politiche, di un coordinamento di azione sociale e azione individuale.

2. L'Abitare e il Costruire

I movimenti non sembrano pensare ad un’altra città quanto, piuttosto, attraverso pratiche di progettualità sociale, a costruire forme di resistenza e, in alcuni casi, di esodo dalla città in cui siamo costretti a vivere. Come e in che misura l'urbanista potrà intrecciare i suoi saperi con quelli di questi nuovi protagonisti insorgenti per far sì che la città diventi il luogo dove l’abitare preceda il costruire?



Giancarlo Paba - Come architetti e urbanisti possiamo incidere sui rapporti tra desideri e opportunità (per riprendere un ragionamento di Jon Elster). Nei processi partecipativi, e nelle pratiche dirette di costruzione del proprio spazio di vita, i nuovi abitanti selezionano i propri modelli di abitazione tra le opportunità a disposizione, utilizzano le tecniche conosciute, adattano i propri desideri alle possibilità concrete esistenti e standardizzate. Noi possiamo allargare il campo delle opportunità a disposizione degli abitanti, disseminando le innovazioni, facendo circolare da un’esperienza all’altra le soluzioni migliori, facendo precipitare nelle pratiche partecipative gli stessi risultati innovativi della ricerca (bioarchitettura e biopianificazione). Tornare a fare gli architetti e gli urbanisti, non i “facilitatori”.

Anna Marson - Ogni disciplina è tuttavia fatta di persone, oltre che di un sapere condiviso sedimentato nel tempo: urbanisti (e urbaniste) con idee implicite sul ruolo del tecnico e del rapporto fra sapere tecnico e società a volte molto diverse. Intrecciare i propri saperi con quelli dei nuovi protagonisti insorgenti richiede:

- il riconoscimento dell’importanza dell’interazione diretta con i più diversi portatori di interesse collettivo (versus l’interesse al diritto privato), non delegabile a un qualsivoglia partito;

- la pratica del metodo dell’ascolto, e l’interesse a riconoscere energie sociali utili per la costruzione di scenari alternativi finalizzati al benessere degli abitanti;

- la legittimazione della ‘conoscenza comune’, non tecnica, come conoscenza specifica e situata degna di essere considerata con attenzione e pari dignità delle conoscenze disciplinari.

Tutto ciò non è così facile: in particolare, i partiti sono onnipresenti alle spalle dei committenti (assessori o altro) delle azioni di pianificazione pubblica, e sono generalmente interessati a vietare o limitare il ruolo dell’interazione diretta tra urbanisti e diversi portatori d’interesse, per riservare a sé l’esclusiva della mediazione.

Vezio De Lucia - Mi pare che ci sia in questa domanda un pregiudizio contro la città. Se è così, non sono d’accordo. Perché esodo dalla città? Già nei secoli scorsi si diceva che la città rende liberi. Secondo me, il problema, oggi, è la conservazione o la rivendicazione della dimensione pubblica della città, compromessa dall’esasperazione privatistica, dalla logica dei padroni in casa propria, dal condono, dall’accantonamento dello stato sociale, eccetera. Qui non è possibile approfondire il tema della periferia portato all’attualità dalla tragedia di Rozzano. Credo che non sia sfuggito ai lettori dell’Insostenibile l’allineamento acritico e generalizzato di tanti intellettuali alla campagna contro l’edilizia pubblica. Un brutto segno.

Dino Borri - Preoccupa l’incapacità collettiva di rielaborare la città contemporanea per adeguarla alle complesse sfide socioambientali che la investono. Dalla megalopoli al villaggio si è di fronte a modelli in crisi, per le tante povertà, i tanti inquinamenti, le tante violenze solo in parte visibili. Senza pensare a una palingenesi, è realistico mettere in conto il fatto che città e campagne – dove ancora ne esistono – debbano cambiare fortemente, intrecciare meglio artificio e natura, rigenerarsi, essere capaci di preservare le diversità, attrezzarsi a convivere con gravi problemi di carenza di risorse e di conflitti socioculturali.

I saperi tecnici possono e devono essere stimolati a una più complessa progettualità (non quella delle soluzioni illusoriamente definitive ma quella di più adeguate rappresentazioni dei problemi con cui si deve convivere creando via via anche piccoli spazi di azione) da queste forme di resistenza sociale, che il più delle volte rivendicano maggiore giustizia sociale e ambientale, una vita più semplice, meno distruttiva, tutte cose che migliorano la qualità dei processi urbani e che devono informare ogni tecnica per non renderla inconsapevole e devastante.

L’abitare precede il costruire dove una vita leggera si fa strada, dove rappresentazioni e esigenze del mondo meno materiali delle attuali si fanno strada e le persone che lavorano in vario modo alla organizzazione delle città sanno farsene intrigare.

3. Piano e Risarcimento Sociale

Nella città contemporanea assistiamo a fenomeni sempre maggiori di costruzione di nuove culture dell’abitare. Tali culture, attraverso continui processi costituenti, concretizzano un ideale di comunità aperta e solidale che tende alla costruzione dell’alternativa come risarcimento sociale. Ha ancora senso pensare al piano urbanistico come opportunità per costruire l’alternativa e vendicare le forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale?

Giancarlo Paba - È in atto uno scontro tra città fortezza e città aperta, tra recinzione e apertura dello spazio pubblico, tra strategie di securizzazione e sorveglianza da una parte e reinvenzione della dimensione collettiva della città dall’altra parte. Come sempre possiamo scegliere di stare da una parte o dall’altra: progettare case protette e blindate o nuove residenze collettive, trasformare le fabbriche abbandonate in un recinto commerciale o riprogettarlo come struttura aperta alle nuove culture e ai nuovi stili di vita, immaginare soluzioni urbanistiche per una città permeabile e aperta o progettare gated communities, abbandonarci ad una “sociologia ed estetica della constatazione” della città diffusa (come ha scritto efficacemente Gregotti su Repubblica una paio di giorni fa) o provare di nuovo (come ha sempre tentato di fare l’urbanistica di opposizione) a trasformare la città esistente.

Anna Marson - Il piano urbanistico non è mai stato uno strumento per “costruire l’alternativa”, anche se l’idea di città promossa era diversa da quella prodotta dallo sviluppo edilizio selvaggio. Il piano si è (quasi) sempre posto il problema di come mitigare le domande di rendita privata con la produzione di una serie di beni collettivi liberamente fruibili e con indici di edificazione tali da garantire condizioni di vita decenti.

Rispetto alle “forme di sfruttamento imposte dal nuovo ordine economico mondiale” alcuni piani recenti propongono la rivalutazione e la salvaguardia del patrimonio territoriale locale come forma di resistenza e di autonomizzazione, nella produzione di ricchezza, dall’omologazione dilagante. Non più quindi un semplice “risarcimento sociale”, ma una progettualità, anche sociale, alternativa.

Vezio De Lucia - Allo stato delle cose non vedo alternative al piano urbanistico come strumento fondamentale per la difesa degli interessi collettivi e degli strati sociali sfavoriti. Non è certo un caso che, con il pretesto della modernizzazione, della semplificazione, eccetera, sono proprio i portatori degli interessi fondiari a patrocinare il superamento dell’urbanistica tradizionale. Da questo punto di vista, mi sembra esemplare l’azione condotta a Bologna dalla Compagnia dei Celestini, un’associazione formata da giovani urbanisti che ha denunciato i gravi difetti dell’urbanistica bolognese, anche prima di Guazzaloca. I Celestini hanno puntualmente dimostrato che i nuovi strumenti d’intervento (accordi di programma, piani di recupero, eccetera), che avevano l’obiettivo di migliorare la condizione urbana, hanno invece determinato un suo sistematico e netto peggioramento. Così è dovunque. Attenti perciò a non favorire un’oggettiva convergenza dei movimenti antagonistici con le strategie degli energumeni del cemento armato, come li chiamava Antonio Cederna.

Dino Borri - Le culture contemporanee dell’abitare sono plurali, com’è stato d’altra parte sempre, fatte di una pluralità che riguarda anche risorse, diritti. Si va da modi opulenti nelle città del nord del mondo a modi di povertà estrema nelle megalopoli del sud diseredato le cui baraccopoli sono terribili forse più degli affamati villaggi rurali che le hanno per fuga generate. Spesso proprio nelle forme di abitare più difficili e povere, alle periferie di immense città dalle impressionanti storie, comunità si creano continuamente, vitali e in qualche misura solidali pur nelle difficoltà e conflittualità che le percorrono per le tante durezze.

Il piano urbanistico tradizionale, costruito sulla città sociale moderna, non ha più molto da dire a queste realtà e deve sostituirsi con politiche e progettualità assai più sensibili, plurali, fragili, incerte. D’altra parte il vecchio piano, se è in crisi nella megalopoli povera la cui crescita e il cui sviluppo sono profondamente diversi da quelli della città industriale europea che quel piano tradizionale ispirò, è pure in crisi nella città opulenta del nord del mondo dove il dilagare di una appropriazione capitalistica degli spazi e dei luoghi e di una massiccia deregolazione domandano nuove forme di controllo e progetto, nuove relazioni tra spiriti pubblici e spiriti privati.

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