1. LA POLITICA E LA PIANIFICAZIONE
1.1. Le derive della politica
L’ultimo ventennio, e in particolare l’ultimo decennio, del XX secolo è stato segnato da una crisi profonda dei poteri pubblici: essa ha in qualche misura riguardato l’insieme di quella parte del mondo con la quale l’Italia ha maturato il più alto tasso di affinità complessive, e che, per brevità, potremmo chiamare l’area nord-atlantica, per essa intendendo non già quella del relativo trattato militare ma, a un dipresso, la somma dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale.
Questa prima, sommarissima, affermazione, non vuole alludere a differenze nello stato di salute dei poteri pubblici tra tale area e il resto del mondo, relativamente al quale troppo poco sanno gli estensori di queste righe per permettersi anche soltanto la più approssimativa operazione comparatistica, la quale del resto sarebbe del tutto irrilevante rispetto alla possibilità di sviluppare i ragionamenti che si vogliono proporre. Essa vuole solamente collocare il caso italiano nel contesto sovranazionale al quale per molteplici aspetti incontrovertibilmente appartiene, per rimarcare omologie, e per evidenziare diversità, che, le une e le altre, possano essere considerate significative.
Si intende infatti sostenere che se da un lato la crisi dei poteri pubblici è stata ed è avvertibile in tutta l’area di cui s’è detto, e presenta anche analoghe motivazioni e dinamiche, in Italia essa si è prodotta in termini e con ritmi più accentuati.
Nel complesso, si può asserire che tale crisi dei poteri pubblici è stata prodotta (al di là di altri specifici, contingenti motivi, comuni, ma più spesso propri di ogni singolo Paese) da un rapido smarrimento del loro ruolo, del loro significato, delle loro ragioni: in altri termini, dalla perdita d’identità e di senso della politica.
L’insieme dei fenomeni reali riconducibili alla voce “globalizzazione”, e, ancor più, l’ideologia (nell’accezione di “falsa coscienza”) della stessa “globalizzazione”, hanno prodotto un comune sentire per cui quasi ogni aspetto della vita dell’umanità, e di ogni singolo individuo, appare determinato, e comunque dominato, dalle supposte “leggi naturali” dell’economia, concepita come una sorta di immane sistema neurovegetativo, nonché dalle altrettanto ineludibili e autoreferenziali esigenze della “tecnica” (oppure, in una visione minoritaria, e tutt’altro che autenticamente ed efficacemente antagonistica, da centri decisionali remoti, impersonali, irresponsabili).
Nel mentre iniziavano a prodursi siffatti processi reali, e a proporsi le loro più corrive letture, implodeva e crollava il sistema economico-istituzionale in cui si era per la prima volta inverata, o aveva preteso di inverarsi, la più radicale ipotesi di trasformazione strutturale dello stato delle cose esistenti formulata in epoca moderna: l’insieme dei Paesi, del cosiddetto “socialismo realizzato”, del blocco legato all’Unione sovietica. E non venivano evidentemente avvertite come controtendenziali né la sussistenza di qualche piccolo Paese “socialista”, più o meno “esotico”, né la continuità delle forme politiche del regime cinese, nonostanti i rilevanti successi macroeconomici conseguiti dallo stesso nel medesimo ultimo ventennio, forse in conseguenza della progressiva omologazione, promossa dalle stesso regime, delle forme economiche di quel paese a quelle prevalenti nel resto del mondo.
L’evento ha avuto, manifestamente (lo si può avvertire oggi ben più che nell’immediata contiguità con il suo prodursi), effetti sulla psicologia, cioè sugli atteggiamenti, gli orientamenti, i comportamenti, delle masse, assai più vasti che quelli di “falsificazione” di quella specifica ipotesi di trasformazione, o addirittura soltanto dei termini concreti in cui la si era voluta inverare. E ciò, parrebbe, in termini più accentuati nei Paesi in cui più forte e più larga era stata la presenza, sociale e culturale, delle formazioni politiche che a quella specifica ipotesi di trasformazione si erano richiamate, anche se, come in Italia, in forme e con elaborazioni originali, e crescentemente autonome.
Tale evento, infatti, ha concorso, ben più di quanto non inducesse a ritenere la risibilità delle elucubrazioni di chi l’aveva immediatamente identificato con la “fine della storia”, al costituirsi di un diffuso sentire di generalizzata sfiducia nei confronti di qualsiasi ipotesi di trasformazione (strutturale o meno) dello stato delle cose esistenti, di generalizzata sfiducia nella possibilità stessa della politica, intesa come azione cosciente, individuale e collettiva, di influire sullo stato delle cose esistenti, di governare, almeno in parte, gli eventi, o quantomeno i loro esiti.
Così, ha scritto non un “politologo”, ma un romanziere, critico letterario, giornalista, Alessandro Baricco [1], “la politica cessa di essere invenzione del possibile e diventa gestione del necessario”. Ma, ha proseguito, “se devi scegliere il pilota di un aereo che va praticamente da solo, finisce che accondiscendi alla scemenza, e scegli quello che ha la faccia simpatica, la pettinatura che ti va e un bel modo di fare. Per cui diventa fondamentale il ruolo dei media. L’apparenza diventa (quasi) tutto.”
In realtà, l’elettore, nelle democrazie dell’area atlantica, non reagisce soltanto così alla percepita irrilevanza di una politica che non pone più in alternativa (per continuare a usare la metafora dell’aereo) né le mete, né le rotte, né gli scali intermedi, e quasi neppure più i servizi a bordo: reagisce, crescentemente, astenendosi dal votare.
E reagisce in quest’ultimo modo, negli ultimi anni, in diversi Paesi europei (in Inghilterra, in Germania, in Austria, e in termini particolarmente rilevanti in Italia), l’elettore di sinistra: ovviamente, essendo storicamente caratteristica della sinistra (di tutte le sinistre storicamente datesi) la volontà (e la convinzione della possibilità) di concretizzare i propri valori e principi nella vicenda umana attraverso l’azione cosciente, individuale e collettiva, organizzata, cioè attraverso la pratica politica, anziché confidare nella bontà, o nell’ineluttabilità, degli esiti prodotti da qualsivoglia “mano invisibile”.
Per il vero, anche una parte, più o meno consistente, dell’elettorato di destra reagisce alla “globalizzazione” (ai suoi fenomeni reali e alla sua ideologia) negativamente: con angosce che cercano risposta nei localismi, se non in etnicismi (cioè in identità costruite in contrapposizione all’”Altro”). E ciò in non pochi Paesi europei occidentali: nei quali, tuttavia, l’espressione politica di tali atteggiamenti resta minoritaria e isolata (con la non casuale, parziale eccezione del partito di Haider), oppure viene mediata, e sostanzialmente egemonizzata, dai tradizionali, consolidati partiti democratici conservatori.
Non così in Italia, dove il collassare della Democrazia cristiana, e l’esaurirsi dell’equivoca anomalia dell’”unità politica dei cattolici”, se ha recato nella coalizione cosiddetta di “centrosinistra” l’apporto di una componente di indubbia, storica dignità culturale e politica, ha per converso consentito il costituirsi, sull’altro versante, di un blocco politico che ha del tutto rinunciato a metabolizzare in senso democratico le tensioni reazionarie, così come, in genere, ad applicare un suo filtro di valori agli interessi in gioco, e quindi a mediarli, indirizzarli e guidarli, per puntare invece a interpretare e a rappresentare direttamente le emozioni della “gente”.
Ma anche la sinistra (ci si riferisce qui alla “sinistra di governo”: altri sono i problemi e i limiti della cosiddetta “sinistra antagonista”), in Italia ben più che negli altri Paesi europei occidentali, immersa in un presente disancorato dalla storia, deprivatasi di principi e valori, ha finito con l’assumere come suo obiettivo una “modernizzazione” priva di qualificazioni, incapace di trasmettere messaggi significativi e di aggregare grandi interessi collettivi. Salvo periodicamente dichiarare la necessità di riproporre “valori”, e magari anche proclamarne qualcuno: ma ridotto a “parola-feticcio”, astratta, disincarnata.
In buona sostanza, la “sinistra di governo”, rifiutata (o, e qui sta forse una parte della genesi del problema, frettolosamente abbandonata a seguito di accadimenti esogeni) la visione palingenetica, o, se si preferisce, la radicale ipotesi di trasformazione strutturale dello stato delle cose esistenti, alla quale comunque si era richiamata per svariati decenni la sua componente più robusta, non ha saputo elaborare un suo programma, ovvero un suo insieme sistemico di progetti, che fosse capace, tutt’assieme, di mostrarsi inveramento dei valori storicamente costanti (anche se diversamente, e talvolta conflittualmente, declinati) della sinistra, o, se si vuole, delle sinistre (“liberté, egalité, fraternitè”? “giustizia e libertà”? “la libertà individuale come impegno sociale”?), e di incrociare gli interessi, materiali e immateriali, di vasti strati sociali, di masse di individui.
La “sinistra di governo”, o, meglio, il “ceto politico” da essa espresso, ha quindi finito con il praticare comportamenti da un lato sempre più autoreferenziali, dall’altro lato di assecondamento di pulsioni episodicamente emergenti e di contrattazione con interessi settoriali frammentatamente esprimentisi. Privo di una vera identità programmatica, e di una robusta strategia, tale “ceto politico” ha finito con il “giocare di rimessa”, facendosi sostanzialmente dettare l’agenda degli argomenti dagli avversari, e comunque da altri soggetti, nella presuntuosa e arrogante certezza di supplire a tutto con una superiore capacità tattica: riuscendo soltanto a dar prova di un tatticismo esasperato, nel quale si manifestava l’assenza di maturate, profonde convinzioni in merito a pressoché ogni argomento. Gli esempi si sprecano, a partire da quelli più clamorosi: dal volonteroso tentativo di mettere mano d’intesa con “questa destra oggi realmente esistente” alla Costituzione repubblicana del 1948, concorrendo ad alimentare l’opinione che essa sia un “ferrovecchio”, al considerare fungibili, in tale contesto, il “semi-presidenzialismo alla francese” e il “premierato all’inglese” (o all’israeliana, o, perché no, alla tedesca?), all’incredibile e indigeribile pasticcio (che ci si accinge a riproporre) della riforma “federalista” della Repubblica, ignara dei più maturi approdi dell’elaborazione costituzionalista negli stati federali europei più consolidati, al grottesco e patetico episodio dello spendersi senza residui per un referendum produttore di una legge elettorale iper (pur se casualmente) maggioritaria, per scoprirsi (quasi) favorevoli al sistema proporzionale puro nei successivi quindici giorni.
1.2. L’ideologia “mercatistica”
Nel complesso, la prassi della “sinistra di governo” può essere ricondotta (nei migliori dei casi) alla categoria del “pragmatismo”. Ma, ha scritto Ralf Dahrendorf [2], “il pragmatismo è conservatorismo sotto la veste dell’azione. Esso conserva l’esistente, nel mentre che dà l’impressione di movimento”, e, a ogni buon conto, “talvolta il comportamento pragmatico è necessario, ma chi cerca di fare di necessità virtù conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare”, mentre “la teoria e qualcosa di più che un piacevole lusso”.
Sotto il profilo della teoria, è giocoforza constatare che la “sinistra di governo”, palesemente priva, soprattutto in Italia, nelle sue componenti quantitativamente più consistenti, di robusti e diffusamente metabolizzati anticorpi concettuali che non derivassero da un banale e superficiale “anticapitalismo” (come la cosiddetta “sinistra antagonista”, ma forse paradossalmente ancor più di parti di quest’ultima), si è arresa alla dilagante “ideologia mercatistica”.
Si può anche ammettere, pur se talvolta si è indotti a dubitarne, che la “sinistra di governo” italiana sia eccettabilmente consapevole del fatto che condizione indispensabile al funzionamento del mercato come regolatore della produzione/distribuzione di determinate categorie di beni è l’esistenza di un preciso sistema di regole giuridiche, poste dal potere politico al fine di consentire al mercato stesso di esplicare, negli ambiti a esso propri, le proprie capacità autoregolatrici. Si è indotti a dubitarne quando ci si riferisca non solamente alle regole volte a disciplinare i comportamenti degli attori del mercato, ma anche a quelle volte a stabilire limiti, per così dire, sostanziali a tali comportamenti, o interventi riequilibratori (a esempio quelle volte a impedire il formarsi, o alla decostruzione, di posizioni monopolistiche od oligopolistiche), e ancor più quando ci si riferisca alle regole volte a perseguire l’internalizzazione delle esternalità (cioè l’integrazione nel meccanismo di formazione dei prezzi di tutti i costi inerenti i processi di produzione/distribuzione dei beni).
Non pare invece rinvenibile la consapevolezza, tutt’altro che estranea al pensiero economico liberale classico, dell’esistenza di beni non “mercatizzabili”, in quanto “beni collettivi indivisibili”, o in quanto “beni esistenziali” (i beni che non hanno valore perché sono valori), o in quanto non sostituibili (ovvero fungibili), o non riproducibili (tipicamente, le cosiddette “risorse esauribili”, e i cosiddetti “beni posizionali”).
Ciò perché relativamente a tali beni il “valore di scambio”, cioè il prezzo, non è un indice di valutazione appropriato, non potendo formarsi secondo i meccanismi riconosciuti propri, per l’appunto, del mercato. Il quale mercato, infatti, per quanto ottimamente regolato, non è in grado di misurare, oltre alle scarsità relative, anche le scarsità assolute. Come non è in grado di provvedere all’allocazione intertemporale delle risorse, dato che le generazioni future non possono agire nel mercato attuale.
Sulla base di tale consapevolezza si era riconosciuto, nell’ambito del pensiero liberale, rientrare nell’ambito necessario delle determinazioni politiche sia esprimere giudizi di valore su quei beni che il mercato non è in grado di valutare soddisfacentemente, sia regolare, con riferimento ai propri codici, la produzione (per quanto possibile) e la distribuzione/fruizione dei medesimi beni. Non escludendo la possibilità che i giudizi di valore politici siano tradotti negli indici di valutazione propri del mercato (i prezzi), avendo però ben chiaro che in tali i casi i prezzi non esprimono i valori dei beni considerati, e che, a ben vedere, più che di una traduzione si tratta di una simulazione.
E si era riconosciuto che configurare in siffatti termini l’ambito necessario delle determinazioni politiche, escludendone debordamenti intromissori nell’ambito del mercato, ma anche intrusioni del mercato nei codici valutativi delle determinazioni politiche, significava che tali determinazioni dovevano discendere da un “progetto di società” [3].
Non è chi non veda quanto sia arduo trovare traccia di un tal genere di consapevolezze e di convinzioni nel dibattito (o nel chiacchiericcio?) quotidiano della “sinistra di governo” italiana, o in sottotraccia nei suoi programmi e progetti (quando li ha). Anzi: si ha sovente la sensazione che il riproporle comporti, ai suoi occhi, l’automatica ascrizione alla categoria dei “passatisti” [4]. Quanto alla “destra” italiana, o “centrodestra”, o “casa delle libertà” (sedicente “liberale”, “liberista”, talvolta “libertaria” e perfino “libertina”) che dir si voglia, è ovviamente consigliabile lasciare perdere ogni ricerca.
2. LE RAGIONI DELLA PIANIFICAZIONE
2.1. La pianificazione e la qualità sociale
Si è affermato prima che le determinazioni politiche espressive dei giudizi di valore sui beni non “mercatizzabili” devono discendere da un “progetto di società”. Ma lo strumento principale per definire e perseguire un “progetto di società” è la “pianificazione”, non intesa come (velleitaria) predeterminazione rigida del futuro, ma - lo ha ottimamente chiarito, a suo tempo, Pasquale Saraceno [5]- come processo continuo e come momento operativo del “progetto di società”: Cioè come un quadro prospettico, coerente e sistemico (costantemente aggiornabile e ricalibrabile) con il quale confrontare (e nel quale collocare) le determinazioni specifiche che maturano nel processo decisionale politico.
Nella vulgata contemporanea, lo stesso termine “pianificazione” è associato (soltanto) al “socialismo realizzato”. Mentre, ha scritto Giorgio Ruffolo [6], “la pianificazione - detestata, non a caso, dai pragmatici dell’intrallazzo come dai rivoluzionari della chiacchiera - sta dalla parte dell’ordine vitale e della libertà. E’, nel mondo complesso delle società moderne, la tecnica della libertà e la forma della ragione”.
Quanto poi alla pianificazione territoriale e urbanistica, della quale d’ora in avanti esclusivamente ci si occuperà in queste note, lo stesso Ruffolo ha affermato [7] che essa “fornisce il solo quadro coerente entro il quale una politica di arricchimento sociale può essere efficacemente perseguita”, per cui “l’abbandono dell’impegno riformatore in questo campo costituisce uno degli aspetti più gravi e caratteristici della crisi attuale della sinistra”.
La pianificazione territoriale e urbanistica, infatti, ha quali suoi oggetti tipici “risorse esauribili”, “beni posizionali”, beni non riproducibili (o assai limitatamente riproducibili), beni non sostituibili (o assai limitatamente sostituibili). Sua precipua finalità dovrebbe essere quindi valutare tali risorse e tali beni secondo codici “non mercatistici”, cioè secondo giudizi di valore qualitativi, esprimenti la coscienza sociale (almeno maggioritaria), e coerenti con il “progetto” che la società (attraverso i processi decisionali politici) pone per se stessa.
Per cui può asserirsi che la pianificazione territoriale e urbanistica dovrebbe avere la “qualità” (secondo la percezione e consapevolezza che storicamente di essa si forma e si esprime) come suo obiettivo, e che essa ritrova nella definizione e nel perseguimento della “qualità” (che è un valore, e che pertanto, come s’è detto, non può essere misurata dal mercato) la sua ragion d’essere.
“Qualità” intesa, in ogni caso, come “qualità sociale”: giacché tali sono le “qualità” strutturali e formali del territorio, e del sistema insediativo, e delle articolazioni dell’uno e dell’altro, e tali le loro qualità funzionali (l’efficacia e l’efficienza dei sistemi relazionali, e di ogni altro servizio), come tali sono le “qualità” ricercate e realizzate a fini di “equità”.
I connotati materiali essenziali dell'insieme del territorio e delle sue componenti (sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera) costituiscono senza dubbio, come s’è già detto in via generale, “risorse esauribili”, e hanno a che fare con beni non riproducibili (o scarsamente riproducibili) e non fungibili (o scarsamente fungibili). Compito essenziale è prioritario della pianificazione territoriale e urbanistica è garantirne la preservazione da fenomeni di alterazione irreversibile e di intrinseco degrado, in termini atti a perseguire la conservazione, o il ripristino, o la ricostituzione, di situazioni di equilibrio, anche dinamico, sia reciproco tra le componenti naturali e i loro processi evolutivi e/o autoriproduttivi, sia tra il contesto ambientale e la vita umana, considerata come fruizione del primo a scopi di mantenimento degli individui e di perpetuazione della specie, di produzione di beni mediante azioni intenzionali di trasformazione, di insediamento (ciò che con termine sintetico si denomina “tutela dell’integrità fisica del territorio”).
Parimenti costituiscono “risorse esauribili”, e hanno a che fare con beni non riproducibili (o scarsamente riproducibili) e non fungibili (o scarsamente fungibili), i connotati conferiti all'insieme del territorio, e/o a sue componenti, dalla vicenda storica, naturale e antropica. E parimenti è compito essenziale è prioritario della pianificazione territoriale e urbanistica garantire la preservazione delle testimonianze materiali di tale vicenda storica, l'identificazione delle regole che vi abbiano presieduto e la conservazione delle caratteristiche, strutturali e formali, che ne siano espressioni significative, in quanto risultato della permanenza di tali regole ovvero di particolari eventi o azioni umane, attraverso attività di manutenzione, restauro, ripristino, degli elementi fisici in cui, e per quanto, tali caratteristiche siano riconoscibili, nonché attraverso utilizzazioni coerenti con esse (ciò che con termine sintetico si denomina “tutela dell'identità culturale del territorio”).
Così operando la pianificazione territoriale e urbanistica (frutto di determinazioni politiche) adempie al proprio compito di “valutare” secondo codici, correttamente, non “mercatistici”, tali risorse e tali beni, i quali, come frequentemente si sente dire, sono “patrimonio dell’umanità”: di quella presente e di quella futura. Per cui cosi operando la pianificazione territoriale e urbanistica si conforma a finalità di “equità”, anche intergenerazionale. Ponendo le premesse ineludibili per il perseguimento di uno "sviluppo sostenibile", inteso, conformemente alla definizione data da Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, "uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri".
In proposito, si può notare che se, come dianzi già s’è ricordato, la maggior parte dei potenziali compratori di “risorse esauribili” non può presentemente accedere al mercato, in quanto individui non ancora nati (le generazioni future) incontrano difficoltà ontologiche a fare sentire la propria presenza nel mercato attuale, occorre per converso riconoscere che i medesimi individui incontrano pari difficoltà a esprimere le proprie preferenze negli attuali processi decisionali politici. Cosicché diverse possibili determinazioni degli indici di valutazione delle “risorse esauribili”, e (quindi) delle loro allocazioni tra fini alternativi, e dei loro percorsi di utilizzazione, sono necessariamente contenuti di diverse opzioni politiche, le quali possono, anche in termini estremamente diversificati, assumere l’obiettivo di garantire fruibilità di tali risorse alle generazioni future, e presumere (non più che presumere) i valori che le generazioni future a esse attribuirebbero. Resta comunque il fatto che i processi decisionali politici possono attribuire alle “risorse esauribili” valori correlati (anche) alle utilità che esse possono avere per le generazioni future, mentre il mercato non può farlo.
Vale la pena, inoltre, di considerare quei beni, i cosiddetti “beni posizionali” (spesso coincidenti con beni di cui già s’è trattato sotto altri connotanti profili, e comunque di norma non riproducibili), la cui disponibilità non può essere che assai limitatamente accresciuta senza comprometterne la qualità, cioè diminuirne il valore (“d’uso”, o “intrinseco”, o “teleologico” che dir si voglia) per i fruitori (ma anche il prezzo, cioè il “valore di scambio” che i medesimi, o parte di essi, sono disposti a corrispondere per la fruizione di tali beni, ove si pretenda di farne regolare dal mercato la disponibilità).
Tipicamente, hanno tali caratteristiche i beni culturali (nell’accezione più vasta e pregnante del termine), la cui elevata intensità di fruizione comporta degrado della qualità della medesima fruizione, e quindi del valore (sia “d’uso” che “di scambio”) riconoscibile dal fruitore (e ciò anche a prescindere dal degrado oggettivo della “identità culturale” del bene, e financo della sua “integrità fisica”, che quasi sempre consegue da una sua elevata intensità di fruizione).
Ma lo stesso ragionamento può farsi relativamente al bene costituito dalla libera, agevole, celere mobilità sul territorio, e in particolare nelle città, e della correlativa accessibilità d’ogni punto del primo e delle seconde. La mobilità e l’accessibilità, com’è noto, diminuiscono, e quindi perdono qualità e valore, in conseguenza della crescita della medesima mobilità, e quindi dell’affollamento e della congestione dei luoghi.
I bisogni (o desideri) di “beni posizionali” non possono essere soddisfatti, quindi, mediante la crescita della loro disponibilità, in quanto essa contraddirebbe la natura stessa di tali beni, e dei correlativi bisogni (o desideri). Il mercato, ove operi nei limiti perciò posti alla crescita, può soltanto escludere dal consumo dei “beni posizionali”, attraverso i prezzi, la più gran parte della domanda. Ne consegue che l’alternativa risiede solamente nel “razionamento”, politicamente deciso, pianificato e programmato, dei medesimi beni. E anche che, così operando, la pianificazione si conformerebbe a finalità di “equità” sociale.
Alle quali finalità di “equità” sociale la pianificazione si conforma (pure in forme e in termini anche marcatamente diversificate, in relazione alle diverse opzioni politiche che legittimamente si confrontano) anche laddove assolve ai suoi compiti, per così dire, più tradizionali.
Si pensi alle scelte di attrezzamento dei sistemi insediativi con dotazioni di spazi per l’erogazione di servizi pubblici e per la fruizione collettiva quantitativamente consistenti e di elevato livello di qualità (formale e funzionale), cioè di arricchire la disponibilità di “beni pubblici”, vale a dire di quei beni che, come scrive Amartya Sen [8], “gli esseri umani non consumano separatamente, ma insieme”, e che costituiscono “alcuni dei più importanti fattori di capacitazione umana”. E la ricchezza di “beni pubblici” risponde a principi di “equità” sotto due intrecciati profili: da un lato è atta a soddisfare in termini percentuali progressivamente crescenti bisogni delle quote della popolazione meno dotate di capacità economica nel mercato, da un altro lato sono fruibili in termini universalistici, essendo tutti i cittadini, almeno tendenzialmente, posti nei loro confronti sullo stesso piano.
2.2. La pianificazione e il rule of law
Si suole dire che è compito specifico, e primigenio, della pianificazione territoriale e urbanistica regolare (per dare loro ordine e coerenza) le trasformazioni del territorio. Il che implica dettare regole al cui rispetto devono essere tenuti tutti gli agenti di tali trasformazioni: i soggetti privati (nell’ambito del sistema economico esistente nell’area atlantica, e ormai in quasi tutto il mondo) e anche i soggetti pubblici quando esercitino il ruolo di agenti delle trasformazioni, e non quello (che è, o dovrebbe essere, riservato a quegli specifici soggetti pubblici che sono le istituzioni democratiche rappresentative) di decisori dei contenuti della pianificazione territoriale e urbanistica.
Così configurata, la pianificazione territoriale e urbanistica è figlia della “cultura” del rule of law, dello “stato di diritto”.
Vero è che sono stati, e sono, frequentemente riproposti istituti tendenti a consentire che i soggetti pubblici esercitanti il ruolo di agenti delle trasformazioni possano “derogare” dall’obbligo del rispetto delle regole poste dalla pianificazione territoriale e urbanistica, od ottenere che tali regole siano variate con procedure straordinarie. Ma, anche in tali casi, seguendo predeterminati moduli procedimentali, il mancato rispetto dei quali determinerebbe l’illegittimità delle trasformazioni effettuate. Non è quindi negato il principio per cui alle regole dettate dalla pianificazione territoriale e urbanistica debbono attenersi tutti gli agenti delle trasformazioni del territorio. Fermo restando che, come ha sostenuto la Corte dei conti [9], “è di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio”.
Ma anche in un altro senso la pianificazione territoriale e urbanistica è figlia della “cultura” del rule of law, dello “stato di diritto”.
I soggetti pubblici competenti al “governo del territorio” (concretamente: i detentori del potere decisionale) non possono assumere determinazioni “caso per caso”, ma sono tenuti a collocare ogni determinazione in strumenti regolativi complessivi (per l’appunto, gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica), da formarsi secondo procedure regolate, trasparenti (cioè conoscibili, controllabili e giudicabili dai cittadini, nonché dalla magistratura) e partecipate (potenzialmente dalla generalità dei cittadini).
E la giurisprudenza ha chiarito che gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica sono sindacabili dalla magistratura, oltre che per vizi procedimentali, anche nel merito, ma ciò esclusivamente, preminente restando per il resto la discrezionalità (da non confondersi con l’arbitrio) tecnica, politica e amministrativa dei pianificatori, “sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà”, ovvero per “irragionevole disparità di trattamento”.
3. LE CRITICHE ALLA PIANIFICAZIONE TRADIZIONALE
3.1. Verità...
Già quanto si disse della “pianificazione” (in generale, non soltanto di quella territoriale e urbanistica) intesa non come (velleitaria) predeterminazione rigida del futuro, ma come quadro prospettico, coerente e sistemico, e costantemente aggiornabile e ricalibrabile, con il quale confrontare (e nel quale collocare) le determinazioni specifiche, dovrebbe rendere chiaro che non si intende difendere, e rilanciare con forza, “le ragioni della pianificazione”, attraverso una piatta riproposizione dei modi concreti in cui spesso, e forse prevalentemente, nel nostro Paese, segnatamente negli anni ’70 del XX secolo, si è tradotta in atti e provvedimenti l’attività pianificatoria territoriale e urbanistica, con peculiare riferimento a quella comunale, unica o quasi, del resto, a essere di fatto praticata.
Tale attività (laddove si è prodotta da più tempo: giacché è bene non dimenticare mai che in vaste parte del Paese non s’è prodotta affatto, o ha iniziato a prodursi in termini relativamente recenti) è consistita perlopiù nel formare una sequenza di piani generali, con più o meno ampi intervalli temporali tra l’entrata in vigore dell’uno e l’avvio della formazione del successivo, ogni volta ricominciando daccapo con lo svolgimento di miriadi di ricerche e di analisi, e secondo procedimenti, prima di redazione tecnica, quindi di decisione politico-istituzionale, che portavano all’entrata in vigore di ognuno dei piani a distanza di sette/otto anni (se non di più) dall’avvio delle relative operazioni. Che portavano, perciò stesso, all’entrata in vigore di piani largamente privi di attinenza con il territorio del quale avrebbero dovuto regolare le trasformazioni e le utilizzazioni, per non dire delle dinamiche demografiche, sociali ed economiche che si erano nel frattempo prodotte, e che erano in quel momento effettivamente in atto. Conseguendone il ricorso alla prassi nefasta di procedere, da subito e per tutto il periodo di validità d’ognuno dei piani, a dare risposta a ogni (autentica o supposta) esigenza della società definendo decine (o centinaia) di varianti puntuali o settoriali, con ciò stesso negando la più essenziale valenza della pianificazione territoriale e urbanistica generale, cioè la sistemicità, ovvero la capacità di definire sistemi di coerenze complessive.
Va soggiunto che la definizione di raffiche di varianti parziali sortiva effetti particolarmente devastanti in ragione del loro poter investire, modificandolo, ognuno dei contenuti del piano generale: conseguenza ovvia dell’essere considerati questi ultimi tutti perfettamente omologhi, cioè non gerarchizzati.
E che tale pratica poteva trovare motivazioni di assoluta ragionevolezza nella pretesa di molti piani generali, soprattutto a partire dagli anni ’70 del XX secolo, di ipostatizzare a tempo indeterminato, o comunque per almeno un decennio, l’assetto, il disegno, di ogni parte del territorio considerato, definendolo tutto, indifferenziatamente, nei più minuti dettagli, sotto il profilo sia fisico che funzionale. Per cui si localizzavano puntualmente nei piani generali le fermate degli autobus (e magari si definivano le caratteristiche delle relative pensiline), e si destinavano puntualmente singole unità di spazio a “scuola materna” piuttosto che a “istituto tecnico”, oppure a “uffici amministrativi” piuttosto che a “servizi bancari”, e si definivano esattamente le dimensioni dei singoli, e non accorpabili né frazionabili, lotti nelle aree destinate alle attività produttive, magari ritenendo, con ciò, di determinare l’insediarsi di aziende appartenenti a specifici settori merceologici.
Per converso, e per le più svariate ragioni (molte delle quali riconducibili alle carenze a ai fenomeni già segnalati), molte delle previsioni dei piani generali, e in particolare quelle “strategiche”, cioè costitutive dell’assetto territoriale voluto, o irrinunciabilmente funzionali alla sua realizzazione, restavano inattuate.
Infine, l’intero processo decisionale di formazione dei piani vedeva la partecipazione dei cittadini pressoché totalmente ridotta all’esprimersi (mediante la presentazione di osservazioni od opposizioni alle scelte dei piani, o altrimenti) degli interessi delle singole proprietà immobiliari, o tutt’al più di interessi settoriali e corporativi, la voce dei quali comunque soverchiava sempre quella dei soggetti portatori di interessi generali, o almeno diffusi.
3.2. ...e mistificazioni
Il fatto è che i limiti e le carenze della pianificazione tradizionale, come concretamente e diffusamente praticata (quelli ora sommariamente rammentati, e altri ancora), sono stati, già tre o più decenni or sono, messi in luce e denunciati proprio da coloro che, consapevoli delle irrinunciabili ragioni della pianificazione territoriale e urbanistica, intendevano innovare, perfezionare, arricchire la sua pratica. E che, per contro, decenni di sordità e di inadempienze dei soggetti istituzionali, e delle formazioni politiche, cui competeva decidere e praticare le innovazioni, i perfezionamenti, gli arricchimenti concretamente possibili, nel contemporaneo rifluire di larga parte dei portatori delle specifiche competenze disciplinari e tecniche, e delle loro organizzazioni più rappresentative, nella passività avalutativa e in sterili accademismi, hanno potentemente concorso al costituirsi e al diffondersi della communis opinio per cui la pianificazione territoriale e urbanistica è, tutt’assieme, inefficace e inefficiente, inutilmente oppressiva e incapace di produrre, nei tempi necessari, risposte alle esigenze sia individuali che sociali.
In quest’ultimo contesto, la massima responsabilità dev’essere attribuita alle regioni, solamente alcune delle quali, e solamente nella seconda metà degli anni ’90 del XX secolo, si sono almeno cimentate nel ridefinire, rispetto al modello tracciato dalla legge urbanistica statale del 1942, e ancor più rispetto al “modello materiale” consolidatosi successivamente, i contenuti tipici, le efficace, i procedimenti formativi, degli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica, pur avendone tutte competenza primaria sin dai primi anni ’70 del XX secolo.
Nell’insieme, a ogni buon conto, si può giudicare quella che è intercorsa come una colossale operazione di mistificazione.
I soggetti cui competeva promuovere la capacità dei cittadini in quanto tali di esprimere le proprie “visioni” dell’assetto desiderato del territorio in cui vivevano, cioè in primis le formazioni politiche ma anche gli enti locali, magari lamentandosi del diffuso disinteresse sociale, si sono affannati a registrare i più immediati, talvolta anche miopi, interessi dei proprietari immobiliari, se del caso facendo mostre di dispiacersi del loro incombere.
Assai raramente i comuni, e meno ancora gli altri enti locali, si sono dotati dello strumentario tecnico, umano e organizzativo idoneo per passare dalla saltuaria produzione di piani a una pratica continua di pianificazione, cioè di definizione di scelte pianificate, loro attuazione, controllo, “monitoraggio”, verifica delle trasformazioni (territoriali e urbanistiche, ma anche demografiche, sociali, economiche), aggiornamento sistematico delle scelte. Meno che meno hanno preteso e realizzato drastiche contrazioni dei tempi di definizione, tecnica e politico-istituzionale, degli strumenti della pianificazione, e ancor più raramente i soggetti istituzionali sovracomunali (regioni e province) hanno stabilito e praticato modalità di controllo degli strumenti di pianificazione sottordinati rigorosi quanto necessario, ma non intromissivi e “impiccioni”, e (quindi) celeri quanto doveroso.
Quasi mai la realizzazione, o l’attiva promozione, delle trasformazioni “strategiche” definite dalla pianificazione territoriale e urbanistica è stata sentita e praticata come un obiettivo non rinunciabile dell’interezza del soggetto istituzionale competente, cioè della totalità, in virtuoso sinergismo, delle sue articolazioni organizzative, e delle sue possibilità di investire, indirizzare, mobilitare risorse, finanziarie e d’ogni altro genere.
E, su questi bei fondamenti, si è dedotto, o lasciato dedurre, e diffusamente finire con il ritenere, che la pianificazione territoriale e urbanistica sia un inservibile ferrovecchio.
4. LE SCORCIATOIE, LA RINUNCIA, L’ABBANDONO, LE CONSEGUENZE
5.1. Gi istituti eversori
Sui medesimi bei fondamenti, il legislatore nazionale (volonterosamente seguito e imitato da quelli regionali) inizia a produrre una serie di istituti eversori non già di singole scelte della pianificazione territoriale e urbanistica, ma della sua stessa logica, dei suoi connotati distintivi ed essenziali, delle sue stesse fondamentali ragioni.
Si comincia verso la fine degli anni ‘70, prevedendo, con il terzo comma dell’articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, che ove la localizzazione o i tracciati delle “opere pubbliche di interesse statale, da realizzare dagli enti istituzionalmente competenti” non siano conformi agli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, questi possano essere variati, conformemente ai progetti delle predette opere, mediante il solo raggiungimento di un’intesa tra l’amministrazione statale competente e le regioni interessate, le quali sono tenute solamente a sentire “gli enti locali nel cui territorio sono previsti gli interventi”. Per il vero, tale disposizione, dopo poco più di tre lustri, è sostituita da quella dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n.383, secondo la quale, nei medesimi casi, si deve invece convocare una “conferenza di servizi” alla quale devono partecipare le regioni e tutti i comuni territorialmente interessati (è misteriosa la mancata citazione delle province, alle quali una legge nazionale di principi di quattro anni prima, la legge 8 giugno 1990, n.142, aveva riconosciuto rilevanti competenze pianificatorie) e che, ove si concluda all’unanimità, produce l’effetto di variare, conformemente ai progetti delle opere, la pianificazione territoriale e urbanistica: l’omaggio reso all’orgoglio municipalistico dei comuni non rende certamente la disposizione più coerente con la logica della pianificazione.
Si prosegue con la legge 3 gennaio 1978, n.1, che, con il quarto comma dell’articolo 1, consente di variare con semplice voto del consiglio comunale le specifiche destinazioni, date dalla pianificazione, di “aree per la realizzazione di servizi pubblici”, senza limiti e criteri, per cui si videro spazi di verde pubblico tramutati in insediamenti di edilizia economica e popolare.
Per tutto il corso degli anni ’80 del secolo scorso si succedono le “emergenze naturali” (terremoti, frane, alluvioni, mareggiate, invasioni di alghe e di mucillagini marine, e via disastrando) e le “emergenze provocate” (i campionati mondiali di calcio, le “Colombiadi”, e via producendo “grandi eventi”) e le “emergenze storiche” (l’arretratezza economica del mezzogiorno, lo stato disastrato della rete ferroviaria): a ognuna delle “emergenze” corrispondono provvedimenti legislativi speciali che si premurano di ammettere trasformazioni del territorio in deroga alla pianificazione territoriale e urbanistica, ovvero procedure iper-semplificate, “negoziali”, comunque verticistiche e opache, di variazione della medesima pianificazione [10].
All’inizio del decennio successivo, l’articolo 27 della legge 142/1990 disciplina in via generale, con l’ottimo intendimento di facilitare “la definizione e l’attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti”, l’istituto dell’”accordo di programma”: peccato che si senta il bisogno di disporre che esso può comportare variazioni della pianificazione comunale, apportabili con semplice voto del consiglio comunale di ratifica dell’adesione del sindaco all’accordo stesso.
Lo stesso anno l’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n.241, stabilisce, altrettanto in via generale, che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”, ovvero quando “l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche”, viene di regola convocata una “conferenza di servizi”. Il fatto è che alcune disposizioni di altre leggi (alcune precedentemente ricordate) correlano al raggiungimento di intese l’automatica variazione degli strumenti di pianificazione. E che successive modificazioni e integrazioni della legge 241/1990 (le più rilevanti delle quali apportate dalla legge 15 maggio 1997, n.127) hanno disposto che, in taluni casi, le determinazioni della “conferenza di servizi” tengano luogo delle richieste intese anche quando siano state assunte non all’unanimità ma, per quel che riguarda i comuni, le comunità montane e le province, anche soltanto con il consenso della maggioranza degli enti locali interessati appartenenti a queste tre categorie, purché i loro abitanti, secondo i dati dell’ultimo censimento ufficiale, costituiscano la maggioranza di quelli delle collettività locali complessivamente interessate dalla decisione.
Nel frattempo, l’articolo 16 della legge 17 febbraio 1992, n.179, aveva introdotto l’istituto dei “programmi integrati di intervento”, proponibili da soggetti pubblici o privati relativamente a zone in tutto o in parte edificate o da destinare anche a nuova edificazione, al fine della loro riqualificazione urbana ed ambientale, e approvabili, con procedure iper-semplificate, anche se in contrasto con le disposizioni della pianificazione [11].
Ancora, l’articolo 11 del decreto legge 5 ottobre 1993, n.398, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n.493, ha introdotto i “programmi di recupero urbano”, i quali “sono costituiti da un insieme sistematico di opere finalizzate alla realizzazione, alla manutenzione e all’ammodernamento delle urbanizzazioni primarie, con particolare attenzione ai problemi di accessibilità degli impianti e dei servizi a rete, e delle urbanizzazioni secondarie, alla edificazione di completamento e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti, nonché all’inserimento di elementi di arredo urbano, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, al restauro e al risanamento conservativo e alla ristrutturazione edilizia degli edifici”, sono “proposti al comune da soggetti pubblici e privati, anche associati tra di loro”, e possono essere approvati, anche se difformi dalle disposizioni della pianificazione, con la procedura prevista per gli “accordi di programma”.
Successivamente, il decreto del Ministro dei lavori pubblici 21 dicembre 1994 ha regolato i “programmi di riqualificazione urbana” (PRU), e il decreto del Ministro dei lavori pubblici 8 ottobre 1998 ha regolato i “programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio” (PRUSST). In entrambi i casi è consentito che i progetti degli interventi siano inseriti nella pianificazione, variandola, e comunque (almeno potenzialmente) alterandone le coerenze sistemiche, con procedure concertative interistituzionali straordinarie. Per di più, i provvedimenti citati adombrano più o meno lauti finanziamenti pubblici per interventi di qualsivoglia tipo, sortendo l’effetto di indurre (e quasi costringere) tutti i soggetti concertanti ad assentire anche alle ipotesi più fantasiose, dissennate, devastanti: le quali, una volta assentite, sono destinate a non essere mai del tutto accantonate.
Infine (per ora) il comma 203 dell’articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n.662, ha regolato gli istituti della “programmazione negoziata” (“intesa istituzionale di programma”, “accordo di programma quadro”, “patto territoriale”, “contratto di programma”, “contratto di area”), tre dei quali (l’“accordo di programma quadro”, il “patto territoriale” e il “contratto di area”) possono produrre variazioni della pianificazione territoriale e urbanistica con la procedura prevista per gli “accordi di programma”.
Non si potrebbe commentare meglio di quanto faccia un recente documento che, dal suo canto, contesta radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancora più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata [12]: “dopo che la legislazione precedente aveva introdotto strumenti che portavano a compimento il disegno del sistema di pianificazione, il legislatore ‘inventa’ altri strumenti che permettano non di dare attuazione alla pianificazione stessa, ma di discostarsene ‘in variante’ rispetto alle previsioni di piano”.
Ma non basta ancora: il decreto del Presidente della Repubblica 20 ottobre 1998, n.447 [13], ha disposto che qualora il progetto di un qualsiasi “impianto produttivo di beni e servizi” sia in contrasto con lo strumento urbanistico, o comunque richieda una sua variazione, purché sia “conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro”, e “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all'insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”, si possa convocare una “conferenza di servizi”, la cui “determinazione costituisce proposta di variante sulla quale [...] si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale”.
Non può non essere evidente a chiunque come una siffatta disposizione prefiguri una prassi di continua variazione degli strumenti di pianificazione, a semplice richiesta dei promotori di impianti produttivi, i quali, acquistato che si siano un qualche lotto in zona agricola (ai valori dei terreni agricoli), se lo faranno destinare a insediamenti produttivi. Ammesso, e assolutamente non concesso, che una siffatta prassi non lederebbe diffusamente, gravemente e irreversibilmente l'”integrità fisica” e l'”identità culturale” del territorio, non può dubitarsi che essa vanificherebbe ogni sforzo diretto a conferire un assetto razionale ed efficiente al sistema insediativo e a quello relazionale (o della mobilità che dir si voglia).
4.2. L’elusione
Il ricorso agli istituti eversori non resta confinato nell’eccezionalità, ma diviene prassi ordinaria quasi ovunque.
Non si nega esplicitamente la necessità della pianificazione generale, anzi si proclama, con dosi variabili ma comunque massicce di ipocrisia, la volontà di darvi corso, ma rinviandone la definizione complessiva, con progressivi slittamenti, a un orizzonte temporale che, come quello geografico, si ridisloca mano a mano che si procede verso di esso.
La parola d’ordine del “pianificar facendo”, coniata nella Capitale, si rivela come la pratica più frequentata da miriadi di comuni italiani, appannandosi in ciò quasi ogni distinzione di appartenenza ai grandi schieramenti politici dei relativi gruppi dirigenti.
Alcuni connotati di questo modello comportamentale sono ricorrenti.
La pubblicizzazione, di norma condita con profluvi di parole d’ordine retoriche, suggestive, accattivanti, di elaborati variamente denominati, ma richiamanti comunque il termine “piano”, che non soltanto sono privi (e non potrebbero non esserlo, stante l’indeterminatezza dei loro contenuti) di qualsiasi rilevanza esterna, cioè direttamente, o anche indirettamante, conformativa, o condizionatrice, delle trasformazioni territoriali, ma sono pure privi di reale, impegnativa obbligatorietà nei confronti delle successive decisioni della stessa amministrazione locale che li ha elaborati e pubblicizzati (forse anche perché sovente si omette di sottoporli al dibattito e al voto del relativo organo decisionale).
L’omissione di qualsiasi stima attendibile dei prevedibili fabbisogni di spazi per le diverse funzioni, e meno che mai delle preventivabili concrete domande di spazi, e quindi di qualsiasi predeterminazione delle quantità di spazi (edificati, o variamente sistemati) da mettere in gioco nelle scelte di pianificazione.
L’enfatizzazione di ogni “grande (o meno grande) evento”, e di ogni “occasione”, per decidere, con procedure straordinarie, miriadi di trasformazioni, le cui coerenze con qualsivoglia disegno complessivo sono tanto meno dimostrabili, e, per contro, contestabili, quanto più il disegno complessivo è generico e impreciso. Miriadi di trasformazioni la più gran parte delle quali hanno, di norma, scarsa attinenza con lo specifico “evento”, con la specifica “occasione”, e molte delle quali, comunque, sono scontatamente destinate a non realizzarsi in tempi effettivamente correlati al prodursi dell’”evento”, o dell’”occasione”, ma che sono tutte poi destinate a condizionare irreversibilmente le scelte della pianificazione (se e quando verrà).
La contrattazione di parte delle suddette trasformazioni, e di altre ancora, purché di massiccia entità, sempre al di fuori di ogni ragionamento globale sullo stato della città e sulle sue prospettive, con “attori” privati, cioè, concretamente, con i detentori della proprietà degli immobili interessati, di volta in volta sottolineando la “strategicità” delle trasformazioni stesse nel disegno generale voluto (generico, e mai definitivamente deciso nelle forme e secondo i procedimenti ordinari di legge), ovvero enfatizzando la rilevanza delle contropartite ottenute in un supposto interesse generale.
A proposito di questo modello comportamentale ha scritto Vezio De Lucia[14]: “Bisogna [...] considerare che l’affermazione dell’urbanistica contrattata è andata di pari passo con la diffusione degli strumenti di pianificazione specialistici e di settore: piani di bacino, piani paesistici, piani dei parchi, piani dei trasporti. In verità, per ora siamo solo alle buone intenzioni, ma è innegabile che si tratta di una novità importante, grazie alla quale si potranno offrire alla collettività garanzie di tutela di diritti e di interessi vitali: la difesa del suolo, la qualità estetica e ambientale del territorio, il godimento della natura, migliori condizioni di mobilità. L’insieme delle pianificazioni specialistiche e di settore tende a coprire gran parte del territorio, in particolare gli spazi aperti. Che cosa resta fuori? Restano fuori soprattutto i luoghi destinati o da destinare a trasformazioni urbane. In buona sostanza, lo scenario si scompone in un diffuso sistema di vincoli e di tutele, mentre le aree più pregiate, quelle del business, della contrattazione, dei piccoli e grandi affari sono oggetto di decisioni al riparo da sguardi indiscreti. Si opera, insomma, con procedimenti discontinui che frammentano e disarticolano lo spazio. Si sta rinunciando, in qualche città si è già rinunciato, all’idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio, all’universitas del patrimonio territoriale”.
Ottimamente detto. Ma è legittimo il sospetto che De Lucia sia, una volta tanto, un po’ troppo ottimista. E non soltanto perché, quanto a copertura del Paese con i piani specialistici finalizzati alla tutela della sua integrità fisica e identità culturale siamo, come lui riconosce, soltanto alle buone intenzioni (e in larga parte del Paese un po’ più indietro), quanto soprattutto perché l’affermarsi della prassi, e della “cultura”, della contrattazione delle trasformazioni urbane con i detentori della proprietà immobiliare, nel contesto di una diffusa “ideologia mercatistica”, potrebbe portare a intaccare anche quelle parti del territorio che si dovrebbero stimare “messe al sicuro” dall’apparato della suddetta pianificazione specialistica, il cui rapporto di effettiva, non formale, inderogabile sovraordinazione rispetto alla pianificazione ordinaria, essenzialmente comunale, è tutt’altro che consolidato, laddove la comparazione, tutta privatistica, tra i costi in termini di minore “valore aggiunto ambientale” (che ormai in qualche modo hanno imparato ad apprezzare anche i più ottusi “palazzinari”) e i benefici in termini di tradizionale profitto, e ancor più di tradizionalissima rendita, faccia, magari soltanto nel breve termine, pendere la bilancia a favore dei secondi.
L’esempio della lottizzazione romana di Tor Marancia, che invade, per ora soltanto con la localizzazione delle attrezzature scoperte, l’ambito del parco dell’Appia Antica, suona come una sinistra conferma dell’ora espresso sospetto.
4.3. L’abbandono teorizzato
Ogni ipocrisia (che comunque, diceva La Rochefoucault, “è un omaggio reso dal vizio alla virtù”) viene abbandonata nel “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali” del Comune di Milano [15].
I primi cinque capitoli della prima parte di tale “Documento” costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio.
Non poche delle posizioni affermate, infatti, mettono in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano. La più spettacolare di tali affermazioni è senza dubbio quella per cui nel “continuo confronto tra ragioni”, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, “lo stato [inteso come il complesso dei soggetti istituzionali] ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci”. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leniniana memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di “stato minimo” mai avanzate dall’”anarchismo reazionario”, o “liberismo libertario”, costituente uno storico, robusto e rigoglioso filone della destra nordamericana.
Nel complesso, l’intera elaborazione risponde a una concezione integralmente (si sarebbe tentati di dire integralisticamente) “mercatistica” della società e dei rapporti intersoggettivi.
L’assillo con il quale tutta l’elaborazione si confronta, e che infine ritiene di risolvere, consiste nella duplice (e potenzialmente contraddittoria) necessità di fornire agli operatori immobiliari “certezze che garantiscano gli investimenti” e flessibilità per “adeguare le norme [e conseguentemente i programmi di investimento] ai possibili mutamenti del mercato”.
Nel tessuto di questa dialettica di interessi (che talvolta si trasfigurano terminologicamente in “diritti”) compiutamente facenti capo ai proprietari e agli operatori immobiliari, può tutt’al più insinuarsi, pare, qualche domanda non “mercatistica”, alla quale (la si denomini o meno, a questo punto un po’ pomposamente, “interesse generale”) competerebbe ai soggetti pubblici istituzionali tendere a dare (magari parziale, parzialissima) risposta, attraverso la “negoziazione”, con i proprietari e gli operatori immobiliari, delle caratteristiche e dei requisiti delle trasformazioni territoriali da progettare e attuare.
Insomma: ai soggetti pubblici istituzionali si affida il compito di usare il potere politico di cui dispongono per soddisfare, nella misura in cui non intacchino sensibilmente gli interessi dei soggetti capaci di esprimersi sul mercato, le domande, residuali, si deve supporre, invece incapaci di esprimersi nei termini che il mercato riconosce.
In concreto, il “Documento” si sforza, dichiaratamente, di proporre un modello di attività pianificatoria che, nel soddisfare al meglio gli interessi (innanzitutto, ed egemonicamente) dei proprietari e degli operatori immobiliari, assuma sincreticamente le valenze perciò più funzionali sia del modello di attività pianificatoria “britannico” sia di quello “continentale”.
Si riconosce, infatti, che l’elevata flessibilità del “modello britannico” discende dalla latitudine, anzi dalla quasi assolutezza, della discrezionalità delle determinazioni delle pubbliche amministrazioni in ordine alle trasformazioni del territorio, fondata a sua volta nella tradizionalmente riconosciuta appartenenza al potere pubblico della facoltà di operare tali trasformazioni, ma si esclude di sussumere sia l’ampiezza di tali poteri discrezionali, sia, soprattutto, il suo presupposto.
Al contrario, si propone di assumere i presupposti del “modello continentale”, cioè il riconoscimento (più o meno ampio) dell’inerenza al diritto di proprietà degli immobili della facoltà di operarvi trasformazioni, fino a configurare il piano come (null’altro che) “il piano delle norme che riconoscono i diritti reali — e non attesi — d’uso del suolo”. Detto altrimenti: il piano dovrebbe divenire “una sorta di catasto, un archivio degli usi del suolo che si aggiorna continuamente con le nuove norme introdotte dai progetti di trasformazione approvati”.
Giacché nel modello proposto “il piano regolatore generale perde le sue valenze strategiche”, e “programmi e visioni [...] si traducono nelle linee guida e nelle strategie che l’amministrazione esprime nel piano strategico, approvato dal governo locale come [mero] documento politico”.
In tale modello, si aggiunge, “la cerniera tra il documento legale delle norme e il documento politico delle strategie è costituita dai progetti di trasformazione. Il controllo dei progetti diventa una valutazione delle conseguenze che l’attuazione di un progetto comporterebbe sulla situazione esistente, e una valutazione della coerenza di quelle conseguenze con le strategie dell’amministrazione. Ogni progetto, coerente con le strategie, una volta approvato si configura come una variante delle norme esistenti, e diventa esso stesso parte delle norme”.
In pratica: il piano generale (“sorta di catasto”) attribuirebbe a ciascun immobile, o complesso di immobili, il “valore” (“di scambio”, ovverosia il prezzo presumibilmente traibile) connesso alla sua trasformabilità fisica e funzionale (effetto che nel “modello britannico” discende soltanto dall’intervenuta definizione dei piani/progetti operativi), garantendo ai relativi proprietari le ambite “certezze” (irreversibili, cioè non intaccabili da diverse scelte di trasformabilità, le quali devono essere preventivamente “negoziate” con gli stessi proprietari). A partire dalle acquisite “certezze” le concrete trasformazioni effettuabili sarebbero definite dai singoli progetti, attraverso, per l’appunto, la “negoziazione” con la pubblica autorità istituzionale, la quale ne valuterebbe la coerenza con le proprie strategie, salvo convincersi, negoziando, che queste ultime devono essere mutate, e alla quale spetterebbe poi di registrare nel piano generale i nuovi (e superiori, si può facilmente preconizzare) “valori” assegnati dai progetti decisi.
In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sarebbe quella di assicurare la (crescente) valorizzazione (nel senso dell’attribuzione di “valori di scambio”) degli immobili, e la minimizzazione del rischio d’intrapresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
Entro tale cornice, si è tenuti a ritenere, la pubblica autorità istituzionale può “negoziare” ben poco: l’ottenimento di qualche metro quadrato in più di attrezzature per la fruizione collettiva, anche a favore dei portatori di domande “non solvibili”, sempre che ci riesca. Anche in quanto la prevista “negoziazione” tra il "pubblico" e il "privato" verrebbe a essere pesantemente falsata dall’avere il "pubblico" a che fare con un "contraente obbligato", cioè con la proprietà in essere degli immobili interessati.
Nel corso di un seminario sul “modello di pianificazione” ora descritto [16], il più autorevole estensore del “Documento”, Luigi Mazza, ha sostenuto che i concreti committenti del “Documento” stesso, cioè gli amministratori comunali milanesi, o quanto meno quelli tra loro che sono espressione di “Comunione e Liberazione”, non hanno affatto una concezione “debole” del potere politico, e non sono affetto disposti ad una sorta di piatta soggiacenza alle domande dei “privati”. Ammesso, e per quel che mi riguarda tutt’altro che concesso, che ciò sia, non sarebbe rilevantemente modificato un quadro che comunque vedrebbe il governo del territorio affidato a una continua “negoziazione” tra due sole parti, la proprietà immobiliare e i concreti detentori del potere politico, al di fuori di un quadro sistemico di regole definite secondo procedure trasparenti e partecipate. In altri termini, in luogo del rule of law, dello “stato di diritto”, si affermerebbe una sorta di ritorno alla concezione del princeps (“democratico” soltanto in quanto periodicamente eletto, secondo la logica della “democrazia di mandato”) legibus solutus, per cui quod principi placuit, legis habet vigorem.
5. LA NECESSITÀ E LA PRATICABILITÀ DEL GOVERNO PUBBLICO DEL TERRITORIO
5.1. La pianificazione come cultura e come metodo
Si sono già esposte le ineludibili ragioni della pianificazione territoriale e urbanistica, ma si sono anche riconosciute le (parziali) verità delle critiche rivolte alla pianificazione tradizionale, cioè alla pianificazione come in concreto più diffusamente praticata, sinora, soprattutto in Italia. E si è contestato che ai limiti e alle carenze della pianificazione tradizionale si possa, o si debba, rispondere con l’introduzione di istituti eversori della logica stessa, e delle essenziali ragioni, della pianificazione, oppure con il sostanziale (teorizzato o semplicemente praticato) abbandono della pratica della pianificazione, e comunque del governo pubblico del territorio.
Si intende ora esporre le fondamentali risistematizzazioni e le più rilevanti innovazioni della pratica e degli istituti della pianificazione territoriale e urbanistica, e in genere del governo pubblico del territorio, grazie alle quali si ritiene che l’una e l’altro possano rispondere pienamente alle proprie ragioni, ovviando ai limiti e alle carenze riscontrate. Proponendosi, su questa base, di affermare come un coerente rilancio della logica, del metodo e della pratica della pianificazione territoriale e urbanistica, e del governo pubblico del territorio, sia essenzialmente un problema di ricostruzione di una solida, consapevole e diffusa “cultura politica” all’altezza dei più maturi approdi già storicamente raggiunti dal pensiero politico dell’area atlantica, o quantomeno dell’Europa occidentale.