Introduzione
Lo studio precedente dal titolo la sinistra e il moderno predominio dell’economia terminava ponendo l’esigenza d’individuare meglio quei nuovi bisogni “che stranamente, pur essendo tali nel modo più reale e più pieno, non si traducono ancora in ‘domanda’ d’interesse anche economico”. Ci riallacciamo adesso a quello studio, cercando di avvalerci più direttamente dell’elaborazione “trimestralica” sul tema delle implicazioni – se ci si passa l’ardita espressione – economiche-filosofiche di una concezione dell’uomo come “ente naturale-storico”, che fu appunto alla base di tale elaborazione. Per questa via, come si vedrà, si giunge a riproporre la stessa esigenza. Restiamo quindi in obbligo di provarci poi a dire, in proposito, qualcosa di più. Ci si vorrà perdonare se alcune citazioni fatte e argomentazioni svolte nello studio precedente sono qui ripetute, lungo linee di ragionamento simili ma non identiche. Si vede che siamo rimasti particolarmente colpiti dalle une e che ci teniamo a insistere sulle altre.
Il tema della “società opulenta” (in inglese “Affluent Society”) fu dibattuto in profondità dalla Rivista Trimestrale (1962-70), dalla Scuola Italiana di Studi Politici ed Economici (1968-72) e dai Quaderni della Rivista Trimestrale (1972-83)(1). Per “opulenta” s’intendeva – in linea generale e di principio – una società in cui il bisogno umano, e con esso il lavoro teso a soddisfarlo, ristagnano sul livello qualitativo storicamente dato. Conseguenze: -complicazione assurda dei modi per soddisfare un bisogno umano che è ormai, a quel livello, essenzialmente saturato; -necessità allora di “indurre” ulteriori consumi allo stesso livello, per dare comunque sbocchi alla produzione, cosicché non il consumo ma la produzione diviene, di fatto, il fine dell’attività economica; -involuzione dell’attività economica in forme abnormi e contraddittorie; -decadenza degenerativa dei costumi e dei rapporti sociali; -crisi del governo politico e dell’ordinamento giuridico della società. Non si può fare a meno di osservare che se tali conseguenze, in linea di fatto, erano già gravi allora, quando appunto si aveva ragione di definire la società vigente come “opulenta”, sono oggi – quando nuove definizioni vengono usate per processi economici e sociali nuovi ma radicati in quelli di allora - catastrofiche.
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Nel saggio La posizione del consumo nella teoria economica (RT n.1/1962), Claudio Napoleoni esordisce citando i seguenti brani, rispettivamente di Smith, Ricardo e Menger:
“Il consumo è il solo fine e scopo di ogni produzione; e non ci si dovrebbe mai prender cura dell’interesse del produttore, se non in quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del consumatore”(2). “Nessuno produce se non allo scopo di consumare o di vendere, e non vende mai se non con l’intenzione di comprare qualche altra merce che possa essergli immediatamente utile o che possa contribuire alla produzione futura. Producendo, dunque, egli diviene necessariamente o il consumatore dei propri beni, o l’acquirente e il consumatore dei beni di qualcun altro”(3). “Il punto di partenza di ogni indagine economica è dato dai bisogni umani. Senza bisogni non esisterebbe alcuna economia, alcuna economia sociale, alcuna scienza relativa ad esse. I bisogni sono la causa fondamentale, l’importanza che la loro soddisfazione ha per noi, la misura fondamentale; la sicurezza della loro soddisfazione, lo scopo finale di ogni economia umana”(4). [Nel Menger, l’A. nota un passo avanti, dato dal riferirsi al consumo non immediatamente, ma attraverso il concetto di bisogno].
Ma allora, osserva l’A., se veramente, nella costruzione della teoria economica, “si vuole che il consumo adempia al suddetto ruolo di fine, occorrerebbe che esso fosse definito indipendentemente dalla produzione, in modo da essere una categoria realmente autonoma. [Al contrario] nella teoria economica, quale si è svolta sino a oggi, il consumo è stato concepito, pur nella varietà delle diverse dottrine, in modi che escludevano la possibilità stessa di una sua definizione come categoria autonoma dalla produzione, [e ciò] sta alla radice delle difficoltà che il pensiero economico ha incontrato, e non superato, dall’epoca classica a quella contemporanea”(5)).
Dopo aver supportato questa sua tesi attraverso un esame del modo in cui il consumo è stato considerato – e delle contraddizioni che ne sono derivate – nella “tradizione principale” (classica e moderna) della teoria economica, in quella “eterodossa” (da Malthus a Keynes) e infine in Sraffa, l’A. conclude il saggio sostenendo la necessità, per la coerenza dell’indagine economica, di riprendere in esame e ridefinire i concetti di produzione e di consumo.
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Il citato saggio di C. Napoleoni – molto articolato e ovviamente ben più complesso di quanto abbiamo qui potuto accennare – può essere considerato un primo approccio della RT al problema della “società opulenta”, sul terreno del discorso economico. Ulteriori saggi seguirono nella stessa RT, sia di Claudio Napoleoni che di Franco Rodano e di altri, sempre su tale problema. F. Rodano lo approfondì, sotto profili storici, sociali, politici e filosofici, specialmente nei saggi Il processo di formazione della società opulenta (n. “/1962), Il pensiero cattolico di fronte alla società opulenta (n. 3/1962)(6), Società opulenta e politica rivoluzionaria (n. 22-23/1967), Considerazioni sulla dialettica sociale dell’opulenza (n. 28-30/1969). Lo stesso F. Rodano riprese la ricerca nel primo corso (1968-69) di storia del pensiero politico da lui tenuto alla SISPE, scavandone ancor più gli aspetti “antropologici”: quelli inerenti cioè all’auto-consapevolezza che l’uomo ha avuto e ha di sé e delle proprie operazioni fondamentali. Ai fini del presente articolo, riteniamo utile provarci a richiamare, molto sinteticamente, alcuni passaggi essenziali delle argomentazioni svolte da F. Rodano in quel corso(7).
Partendo da un’interpretazione, diversa da quella corrente, di alcuni versetti della Lettera ai Filippesi di S. Paolo(8), F. Rodano giunge alla conclusione che il messaggio cristiano avrebbe potuto aprire la strada a un’auto-coscienza umana e a una società diverse da quelle storicamente affermatesi lungo i secoli, attraverso i processi contraddittori sboccati nella modernità di stampo capitalistico. Quella che è prevalsa è stata (ed è) una ricezione del messaggio cristiano in termini di immediata tensione all’assoluto: alla “rapina dell’assoluto” da parte dell’uomo, come si esprime F. Rodano. Questa tensione “davvero incomportabile” – dice – nasce “dal convincimento che il limitato, il definito, il caratterizzante siano negatività, e che quindi, sul piano esistenziale, non vi possano essere dignità e bellezza della condizione dell’uomo come essere determinato […]. Quando avviene ciò, allora lo sbocco nella tensione all’assoluto è inevitabile”(9).
Non crediamo che F. Rodano conoscesse l’esperienza e gli scritti di sorella Maria, dell’eremo di Campello, ma non possiamo fare a meno di rilevare l’assonanza del citato brano dell’uno con la critica dell’altra a quelle “persone spirituali” che “considerano difettosa, contaminata la vita umana, e cercano come perfetta la via soprannaturale”(10). F. Rodano conosceva bene e apprezzava, invece, Péguy, che si era espresso in modo del tutto analogo: “Perché non hanno il coraggio d’essere col mondo, credono d’essere con Dio”(11). La “rapina dell’assoluto” è insomma legata a un sostanziale rifiuto, da parte dell’uomo, della propria finitezza e determinatezza, sentite come un fardello da cui liberarsi. E in questo modo è sofferta quindi, con particolare acutezza, la manifestazione più tangibile e coinvolgente del carattere finito e determinato dell’essere umano, vale a dire il lavoro. Ma poiché scrollarsi di dosso il lavoro non è possibile per tutti gli uomini (che in realtà, malgrado ogni loro ribelle insofferenza, finiti e determinati sono e restano), si ripiegò socialmente, nel mondo “signorile”, sul raggiungimento di questo obiettivo da parte di alcuni e a danno degli altri. Almeno negli uni, l’uomo si pensa ed è pensato come realizzato; gli altri, condannati a lavorare per sé e per i rimanenti, non sono veramente uomini e non possono esserlo. La società signorile, con la sua tensione alla “rapina dell’assoluto”, porta dunque allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e all’alienazione di gran parte del genere umano. Successivamente, la soluzione borghese della crisi della società signorile – che non l’ha superata ma solo rovesciata, “uccidendo” il signore – ha esteso a tutti il lavoro alienato. F. Rodano sostiene che, invece, dal messaggio cristiano avrebbe potuto prendere avvio una società ispirata al riconoscimento, da parte dell’uomo, della propria “creaturalità”, ossia all’umile e gioiosa accettazione della finitezza come propria condizione istitutiva e definitoria. Nei versetti citati – sottolinea – S. Paolo dice che Cristo, incarnandosi, “prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto come uomo”.
“E qual è questa condizione di uomo? Qual è questa forma per cui Cristo diviene servo? Le due cose, infatti, coincidono. La condizione di “uomo” è la condizione di “servo”; non di schiavo, poiché lo schiavo è il servo del padrone terreno, è un servo deformato. Nel legare, in pieno mondo signorile, la parola “servo” alla parola “uomo”, sta la concretizzazione sociale del primo grande attacco all’ideologia signorile […]. La condizione dell’uomo è il servizio. L’uomo è servo di Dio, come direbbe Paolo in termini teologici; in termini laici – filosofici e politici – l’uomo è servo dell’umanità. Ma che differenza c’è poi tra l’espressione laica e quella teologica? Nel Vangelo l’amore del prossimo non è forse l’amore di Dio, e viceversa? E per converso, l’amore di Dio fuori dell’amore del prossimo, non è una delle tante forme di “rapina”? Dunque l’ “uomo” è “servo”: servo dell’umanità. Quella dell’uomo – ripeto – è una condizione di servizio”(12).
Da qui, F. Rodano passa a introdurre il tema della crescita storica del bisogno umano, quindi del lavoro – in termini economici, del consumo e della produzione - che sarà poi ulteriormente approfondito nei QRT.
“Se la storia si fosse svolta secondo l’idea per cui l’uomo è servizio, allora evidentemente la mediazione dell’immediato, l’elaborazione del dato, e insomma l’operazione naturale dell’uomo, sarebbe stata ordinata soltanto alla soddisfazione – in termini storici e quindi secondo un processo via via ascendente – del reale bisogno umano nel suo carattere comune: dunque del bisogno dell’umanità storicamente definito, concreto ed effettivo nel momento storico determinato. Né il fatto di porre l’uomo come servo dell’uomo, l’operazione umana come servizio, significa appiattire tutti in forme identiche di lavoro comune; significa invece l’opposto. La proprietà [qui per “carisma”, dote e capacità individuali – n.d.c.], che - se intesa correttamente – non corrisponde ad altro se non alla limitata specificità di ciascuna persona, deve avere tutta la sua esplicazione nel momento produttivo; ma deve essere ordinata al bisogno comune. Il momento comune, a sua volta, va positivamente fondato nel consumo, e le diverse proprietà trovano la loro legge, il loro ordine, nel tendere tutte a consentire appunto tale consumo, ossia la soddisfazione di quel bisogno che storicamente, nel momento dato, si presenta come ciò che all’umanità occorre assolutamente di appagare. Così, le stesse proprietà dei singoli possono crescere e svilupparsi a un livello storico più alto”(13).
A dirla in breve, la complessiva ricerca “trimestralica” muove da un’ipotesi o scelta filosofico-antropologica, sintetizzata nella definizione dell’uomo come “essere naturale-storico”. Naturale sta per finito, determinato, soggetto a limite, come avviene per qualunque essere vivente. Storico significa che è però carattere specifico dell’uomo il vivere la propria limitatezza non in maniera fissistica, bensì nel quadro di un processo di sviluppo teso a spostare in avanti, via via, il limite di volta in volta storicamente dato, la determinazione della propria limitatezza concretizzatasi nella fase storica data. Tale processo di sviluppo si svolge sui due versanti essenziali della vita umana: il bisogno e il lavoro. Sviluppo del bisogno umano è da intendere nel senso che nell’uomo vi è una “spinta continua e mai del tutto arrestabile a crescere, a dilatarsi, ad assumere sempre più realtà entro le proprie categorie e i propri valori”(14). Perciò, una volta appagato il bisogno come si configura a un determinato livello qualitativo raggiunto nella sua crescita, sono poste le condizioni per il passaggio dell’uomo a un livello ulteriore e più alto; e questo passaggio è per lui necessario e vitale. Sviluppo del lavoro umano comporta un concetto di esso come “strumento generico” del bisogno umano, nel senso che il lavoro è capace di svilupparsi a sua volta, parallelamente, per far fronte ai nuovi livelli qualitativi via via raggiunti dal bisogno. Logicamente, se lo sviluppo del bisogno “tira” quello del lavoro, si verifica anche, al tempo stesso, l’inverso.
L’umanità dei Paesi “avanzati” – quelli cioè sotto segno e dominio economico capitalistici – dopo aver sostanzialmente raggiunto e completato, salvo eccezioni, la soddisfazione del bisogno al suo primo livello storico, invece di andare avanti sta attualmente ristagnando su di esso, con le gravi conseguenze di cui si è detto. Come primo livello storico del bisogno umano, l’elaborazione “trimestralica” intende quello della “sussistenza corporea”. E’ un concetto su cui occorre soffermarsi. Nell’aristotelica tripartizione della vita umana secondo le “anime” vegetativa, sensibile e razionale, tale primo livello del bisogno rientra evidentemente nella prima. Un importante economista contemporaneo come John Kenneth Galbraith ce ne dà un’idea molto spiccia, individuandone le seguenti specificazioni assolutamente indispensabili ed elementari: “il cibo, l’abbigliamento, un riparo”(15). Marx lo definisce come ciò che assicura, attraverso il salario, “il sostentamento dell’operaio durante il lavoro, e in più quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non vada estinta”. Si tratta – aggiunge criticando Smith – del minimo indispesabile per una “esistenza animale”(16).
Molti autori sottolineano il fatto che comunque, sebbene a gravissimi costi umani e sociali, una soddisfazione progressivamente più ampia fino a dimensione “di massa” di questo bisogno – che essi identificano come il bisogno umano tout court – è stata raggiunta per impulso del capitalismo moderno. Scrive ad esempio Fernand Braudel che nella fase pre-capitalistica la gente, prevalentemente contadina, era “accanita a produrre il pane quotidiano, e tanto più ostinatamente quanto più difficile – e per ciò stesso essenziale – diventava ottenerlo. Il pane è l’ossessione della vita, l’insicurezza che prevale su ogni altra […]. Se si tiene conto che alle fasi in cui aumenta il prezzo dei cereali corrispondono impennate impressionanti della mortalità, si capirà come questo evento profondo, drammatico, inevitabilmente ricorrente, immobilizzi l’Europa, la tenga ancorata alle fatiche quotidiane”(17).
E il Galbraith, nel libro citato in nota:
“Il nuovo mondo industriale […] benché fosse, in base a un metro moderno, un mondo crudele e oppressivo, rappresentava tuttavia un grande passo in avanti rispetto a tutto quello che l’aveva preceduto. Per migliaia d’anni […] l’umanità non aveva conosciuto alcun fondamentale e duraturo mutamento del suo tenore di vita. Le cose andavano ora un po’ meglio, ora un po’ peggio, senza che emergesse una qualsiasi durevole tenenza di fondo. Adesso, con l’industrializzazione, le condizioni basilari della vita migliorano: per quanto potesse esser dura la schiavitù della fabbrica, essa era però quasi certamente migliore […] della precedente vita nei villaggi, incessantemente trascorsa in casa, al telaio, o nella solitaria, mal retribuita fatica dei campi”(18).
Come abbiamo visto poco sopra, quello che secondo la linea di pensiero “trimestralica” è il primo livello storico del bisogno umano, è ridotto da Marx a bisogno animale; ma nel quadro – occorre precisare – della sua critica alla società capitalistico-borghese. Il bisogno “di sussistenza”, cioè, è visto da Marx come “animale” finché e in quanto l’uomo è alienato; in sé, “mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane” (19). Tornando alla ricerca “trimestralica”, la questione è posta da F. Rodano nei seguenti termini:
“L’uomo ha evidentemente un bisogno di sussistenza corporea: può esso venir definito solo come naturale? Che valore ha questa parola? […] In realtà, qualunque bisogno dell’uomo non è mai puramente naturale, ossia non può essere riferito all’uomo in maniera immediata. Se così fosse, si avrebbe veramente, per l’uomo, un livello di bisogno indistinguibile da quello animale. Ma a veder bene, anche al suo primo gradino, al livello cioè della sussistenza corporea, il bisogno umano è già a carattere storico, ossia mediato dal lavoro. In altri termini, è bisogno di un essere che non si limita a sussistere, ma che, per sussistere, deve svilupparsi, deve trasformare l’immediatezza del dato naturale” (20).
Si può ritenere che i rapidi progressi delle capacità produttive compiuti sotto segno capitalistico – dalla smithiana fabbrica degli spilli in poi – grazie alla divisione del lavoro, e ai correlati incrementi della sua produttività, consentiti dall’applicazione della scienza e della tecnica ai processi industriali e post-industriali, abbiano riguardato e riguardino bisogni umani ulteriori rispetto a tale “primo livello” o “gradino”? Il passaggio – nei Paesi capitalistici – della produzione e del consumo (quasi generalizzato) dai tessuti di cotone alla plastica, dalla ferrovia all’aereo, dal telegrafo al cellulare plurifunzionale, può essere considerato un reale “salto di qualità”?
Non crediamo che a queste domande possa darsi una risposta soddisfacente se ci si impelaga in considerazioni – per così dire – merceologiche, aggiungendo al “cibo, vestizione e riparo” del Galbraith altre specificazioni del bisogno umano come il trasporto, la comunicazione, ecc. e mettendo in rilievo che dai modi in cui tutte venivano soddisfatte fino a due secoli e mezzo fa ai modi attuali, ce ne corre parecchio. Il punto non è questo. Ciò che occorre vedere è se gli esiti produttivi vigenti siano poi tali da poter essere orientati ad appagare realmente i nuovi bisogni umani in via di emersione (ormai, anzi, diffusamente percepiti). Per decidere su questo, è a nostro avviso dirimente un metro di valutazione che si rifaccia al rapporto tra produzione e consumo: si tratta cioè di vedere se, allo stato degli atti, la prima sia finalizzata al secondo (come nei brani di Smith, Ricardo e Menger che abbiamo visto citati da C. Napoleoni) o se non accada il contrario.
Ora, la crescente pressione esercitata dalle imprese, destinandovi buona parte dei loro investimenti, a sempre più martellanti e insopportabili campagne pubblicitarie finalizzate a “indurre” il consumo, a imporre “sul mercato” i propri prodotti, è chiaro segno che il tipo corrente di produzione è in eccesso, che il mercato è saturo, insomma che si sta ristagnando e imputridendo sul livello del bisogno umano ormai storicamente raggiunto, consolidato e colmato. Paradossalmente, è proprio nel quadro di tale ristagno, e nell’inavvertito ribadimento di esso, che alcuni economisti credono di poter rilevare – analizzandolo anche con un certo timore – non solo un processo di sviluppo, ma di frenesia dello sviluppo innescata dai progressi compiuti dalle “Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione” (TIC, sigla inglese ICT). Dominique Foray, ad esempio, parla di “economia del cambiamento permanente”: di un’economia, cioè, incentrata sul cambiamento stesso in quanto tale e, per di più, sulla sua continua accelerazione, vale a dire sul cambiamento permanente al quadrato. La scienza economica – osserva il Foray – ha gravi difficoltà a trovare criteri e metodi atti a misurare questo inusitato fenomeno. Sui meccanismi sociologici che lo accompagnano e sollecitano, adduce effetti di “isteresi” legati alla crescita di una categoria di lavoratori la cui attività è finalizzata non alla produzione ma, appunto, al cambiamento. Sono gli “agenti del cambiamento”, a proposito dei quali cita un brano di A. P. Carter:
[…] la crescita continua di questa categoria di impieghi traduce un impegno a persistere nel cambiamento […]. Il cambiamento interviene perchè alcuni agenti – ingegneri, venditori e dirigenti – lo provocano. Coloro che hanno realizzato cambiamenti coronati da successo tendono ad amplificare l’attività dedicata alla preparazione di nuovi cambiamenti. L’esperienza genera la capacità. L’abilità negli ambiti della progettazione, della vendita o della gestione è un bene che può produrre un flusso importante di benefici […], l’impiego continuo di individui capaci di risolvere una certa classe di problemi posti dal cambiamento e dalla necessità di adattarsi ad esso determina il cambiamento stesso”.
Così stando le cose – conclude il Foray –
“uscire da un’economia ad elevata intensità di innovazione può essere difficile quanto entrarvi! E il problema di come uscirne può effettivamente risultare rilevante in più di una situazione” (21). In effetti, siamo di fronte a un falso sviluppo, e non è certamente in esso che può consistere il “salto di qualità” di cui si diceva.
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Per rispondere alle domande avanzate poco sopra, riteniamo si possa partire dalla seguente considerazione. Posta la tripartizione delle attività economiche in settore privato, settore pubblico e “terzo settore”, non sembra infondato dire che il primo può essere “indotto” a produrre in funzione dei nuovi bisogni umani emersi ed emergenti, il secondo tende a farlo in parte e in modi ancora insufficienti, mentre il terzo si propone consapevolmente di farlo e lo fa con qualche apprezzabile risultato. Se così è, per definire meglio i nuovi bisogni può essere d’aiuto prendere a campione, appunto, alcune delle molteplici attività del “terzo settore”. E’ quanto ci proveremo a vedere, fra l’altro, in un successivo articolo.
NOTE
(1) Da ora in poi useremo, rispettivamente, le sigle RT, SISPE, QRT.
(2) La ricchezza delle nazioni, trad. it. UTET 1948, p. 601.
(3) Principles, Cambridge 1951, p. 290.
(4) Principi fondamentali di economia politica, trad. it. Laterza 1925, p. 1
(5) P. 26
(6) Questi due saggi sono stati ripubblicati, a cura e con introduzione di Marcello Mustè, nel volume Franco Rodano: Cristianesimo e società opulenta, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002.
(7) La cui registrazione è stata pubblicata, a cura dello scrivente, in Lezioni di storia ‘possibile’, Marietti 1986, e in Lezioni su servo e signore, Editori Riuniti 1990.
(8) Fil. 2, 5-11.
(9) Lez. st. possib., cit, p. 62.
(10) Cfr. L’ineffabile fraternità (recante il carteggio completo tra sorella Maria di Campello e don Primo Mazzolari, a cura di Mariangela Maraviglia), Qiqajon, Bose 2007, p. 54.
(11) Citato ivi.
(12) Lez. st. possib, cit., p. 87.
(13) Ivi, p. 100.
((14) F. Rodano: Contratti e costo del lavoro: al nocciolo delle questioni. Imprese e sindacati, partiti e istituzioni, QRT n. 71-72/1982, p.111.
(15) Storia dell’economia, trad. it. Rizzoli 1997.
(16) Manoscritti economico-filosofici del 1944, trad. it. Einaudi 1968, p.11.
(17) Espansione europea e capitalismo. 1450-1650, trad. it. Il Mulino 1999, p. 32.
(18) P. 102
(19) Manoscritti cit., p.75.
(20) Lez. servo e signore cit., p.33.
(21) L’economia della conoscenza, trad. it. Il Mulino 2006. La citazione del Carter è tratta da Change as economic activity, Brandeis University 1994.