Introduzione
Da infima “ancella” che era nell’antichità, l’economia è diventata in epoca moderna, col capitalismo, signora e padrona delle nostre vite. Questo rovesciamento è patito anche, in diverso modo, dalle sinistre, siano esse “moderate” o “radicali”. Viene qui pubblicata la prima parte di uno studio dove si cerca di affacciare alcune idee forse utili per un’auspicabile dislocazione dell’economia al suo ruolo giusto (non più capitalistico) di dimensione umana essenziale, integrata alle altre con pari dignità.
Sorte singolare quella dell’economia, sia in quanto parola e concetto, sia in quanto dimensione della vita umana. Sta di fatto che nel corso dei secoli, dall’antichità alla modernità, ha subito un totale rovesciamento di ruolo e d’importanza. Nelle pur ricche e articolate letterature antiche (almeno in quelle che noi conosciamo meglio) non esistono scritti o trattati che possano essere fatti rientrare in ciò che oggi intendiamo per scienza economica. Soltanto in un autore come Aristotele, attento osservatore di ogni aspetto della realtà naturale e umana, e precisamente nella Politica, si trovano alcune argomentazioni espressamente dedicate all’economia. E questa vi è confinata al ruolo, del tutto subordinato e ancillare, di “amministrazione della famiglia”(1) (o della “casa”, conformemente alla nota etimologia della parola che usiamo ancora). Ora, la famiglia descritta da Aristotele – non necessariamente ricca, ma fornita delle articolazioni adeguate a una moderata agiatezza – è composta dal padre, dalla madre, dai figli, dai servi e dal patrimonio. Il capo-famiglia ha perciò quattro figure o funzioni, in successione gerarchica: di coniuge, di padre, di padrone (A. scrive “despota”) e, appunto, di amministratore(2). Le ultime due sono strettamente legate, così da poter essere considerate unitariamente. Si tratta infatti di procurare - di “acquisire”(3) - dal patrimonio o dall’esterno (noi diremmo “sul mercato”) quanto è necessario al mantenimento della famiglia e al tempo stesso di sovrintendere ai lavori servili, siano essi “fattivi”, tesi cioè a trasformare risorse già possedute dalla famiglia (e solo questi lavori appaiono accostabili al nostro concetto di produzione), siano “attivi”, volti cioè ad approntarle più direttamente (a “servirle”) per il conviviale consumo della famiglia stessa.
L’economia si colloca dunque, nella concezione aristotelica, all’infimo gradino della struttura familiare. A sua volta la famiglia – in quanto sede e organo degli “atti di tutti i giorni”(4) – è condizione preparatoria di una sana e ordinata vita degli uomini, se “liberi”, come cittadini, partecipi delle decisioni e delle attività della “polis”. Ne deriva che delle due istituzioni fondamentali della società aristotelica, quella familiare è subordinata a quella, suprema e “architettonica”, della politica. Quindi, in conclusione, l’economia sta all’ultimo posto nell’istituzione sociale di livello inferiore. Tutti sanno che, al contrario, nel mondo moderno l’economia è venuta ad occupare, in chiave capitalistica, una posizione e a svolgere un ruolo di assoluto predominio, e che almeno da Smith in poi la scienza economica non solo si è affermata come imprescindibile, ma ha avuto un massimo sviluppo. Rilevazioni, teorie e “modelli” economici si sono susseguiti e si susseguono ramificandosi in numerose discipline specialistiche, mentre non c’è governo che non metta indirizzi di politica economica al centro dei propri programmi e non ricorra sistematicamente alla collaborazione di esperti in tale campo. Innumerevoli sono stati e sono, difatti, gli economisti che alternano attività scientifica di ricerca e docenza a incarichi di governo nazionale e internazionale. Solo per fare qualche nome fra i tanti, di epoca recente: John Kenneth Galbraith, oltre a insegnare nelle università di Princeton, Cambridge e, come “Professor emeritus”, di Harvard, ha partecipato attivamente alla vita politica e istituzionale degli Stati Uniti(5); Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia, è passato da incarichi universitari a quelli di consulente di Bill Clinton, poi di “Senior vice-president” e di “Chief economist” della Banca Mondiale. Ma si possono menzionare anche persone più vicine a noi, come i più stretti collaboratori di Romano Prodi e Prodi stesso.
Tra coloro che hanno teorizzato con maggior chiarezza, nel secolo XIX, questo ruolo dominante raggiunto nel mondo moderno dall’economia, per impulso e nei modi del capitalismo, è da annoverare senza dubbio Marx. Proprio perché sosteneva che ci si era dedicati abbastanza a “interpretare il mondo” ma che era tempo di “cambiarlo”(6), si mise a studiare assiduamente l’economia, e con alti costi personali(7), tanto da diventarne uno dei grandi classici. Dopo appassionate meditazioni e ricerche svolte, nel 1844-45, «per sciogliere i dubbi che mi assillavano […] - ci narra in un brano famoso della Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) – il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forze determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza […]. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle forze di produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo»(8).
Già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, del resto, Marx aveva sostenuto, più brevemente, che «la religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc., non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale»(9). Meno singolari appaiono le vicende delle molteplici formazioni complessivamente assumibili come le espressioni politiche delle reazioni di larghi strati sociali ai pesanti costi umani della logica economica capitalistica. Anche se i nomi, le configurazioni, gli strumenti teorici e pratici di tali formazioni sono stati e sono assai vari e diversi, le indicheremo qui, nel loro insieme, ricorrendo al termine, storicamente ricco, di “sinistre”. Sempre semplificando molto, caratterizzeremo sinteticamente le loro diversità sottolineandone la fondamentale dicotomizzazione in due grandi indirizzi o tendenze (e persino “habitus mentis”), per i quali useremo rispettivamente le correnti denominazioni di sinistre “moderate” e “radicali”.
L’indirizzo “moderato” è segnato essenzialmente - riteniamo – dall’accettare il “modello capitalistico” dello sviluppo economico, lasciando da parte come mera “filosofia” ogni ipotesi di alternative ad esso; dal prefiggersi allora di “regolarlo”, o almeno “emendarlo”, promuovendone l’ efficienza possibile nella situazione data, cosicché possa lasciare spazio a politiche redistributive capaci, al tempo stesso, di stimolarne la crescita e di condizionarla socialmente. Massimi risultati conseguiti per questa via appaiono gli assetti di “welfare” europei, soprattutto scandinavi. Più generalmente, vanno rilevati i periodi di compromissorio equilibrio tra la logica capitalistica e le ragioni della società e dell’uomo, raggiunti anche per più di un decennio in contesti di democrazia dispiegata e quindi di forte pressione organizzata della “società civile”, grazie a condizioni congiunturali favorevoli. Si pensi ad esempio agli anni Cinquanta–Sessanta in Italia. Il compromesso allora raggiunto – sotto segno politico di centro-sinistra(10) – tra le rivendicazioni sociali e le “compatibilità” delle imprese “fordiste”, in tanto poté portare a più elevati livelli medi di vita e ai cosiddetti “consumi di massa”, in quanto poggiava sul triplice sostegno degli aiuti americani al nostro come ad altri Paesi europei (“Piano Marshall”), del basso costo delle materie prime e del petrolio, e soprattutto del responsabile dosaggio degli aumenti del costo del lavoro adottato dagli stessi sindacati. Ma appena tali condizioni favorevoli vennero meno, il compromesso entrò in crisi e tornò a discoprirsi con evidenza, dagli anni Settanta, la fondamentale “incompatibilità tra capitalismo e democrazia”(11).
Su scala mondiale – come è ben noto - il sistema capitalistico “rovesciò il tavolo”, avviando quel trend di spregiudicato recupero della propria logica esclusiva, che era destinato a sfociare nel generale allineamento alle politiche “neo-liberiste” affermatesi anche per impulso di dirigenti politici di rilievo come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Quanto all’indirizzo “radicale”, esso appare animato invece, con maggior o minore chiarezza e coerenza, dal rifiuto del capitalismo. Va però osservato che quando non si limita ad auspicare “alternative” non meglio precisate, può essere indotto a ripercorrere in termini nuovi la vecchia (e, una volta, illustre) strada dell’utopia, come è evidente ad esempio nelle posizioni “anti-sviluppiste” sostenute da autori come Serge Latouche e da Dichiarazioni come quella dell’”International Network for Cultural Alternatives to Development” (INCAD) datata 4 maggio 1992, tra le cui proposte di globale «decrescita conviviale» figura quella di ««ridurre il reddito pro capite nei Paesi del Nord al livello del 1960»(12) . Proprio quello “stato di declino” che secondo Smith è invece “pura melanconia”.
Un’altra tendenza che affiora a più riprese nel corso storico dell’indirizzo “radicale”, è quella di ritenere che la fase capitalistica in atto sia l’ultima. Ve ne sono esempi di diverso rilievo ed efficacia politica. Rudolf Hilferding – il quale, sviluppando alcune anticipazioni di Marx, teorizzò il processo di finanziarizzazione dell’economia durante la fase di globalizzazione accelerata avutasi negli ultimi decenni dell’Ottocento e ai primi del Novecento – era convinto di trovarsi di fronte a un “nuovo capitalismo” in procinto di auto-sopprimersi: «La funzione socializzante del capitale finanziario – scrisse Hilferding in Il capitale finanziario – facilita enormemente il superameno del capitalismo. Una volta che il capitale finanziario abbia assoggettato a sé i più importanti rami produttivi […] la società non avrà che da impadronirsi del capitale finanziario servendosi in ciò del proprio consapevole organo esecutivo: lo Stato»(13).
Se è lecito accostare nomi grandi ad altri meno grandi, ricordiamo che Lenin teorizzò le contraddizioni interne al trend capitalistico finanziarizzato, espansivo e conflittuale del primo Novecento in termini di Imperialismo come fase suprema del capitalismo(14) e vide nella rivoluzione russa del ’17 l’inizio del rovesciamento definitivo del capitalismo stesso su scala globale. Dopo la seconda guerra mondiale Paul Sweezy, analizzando l’affermarsi del capitalismo “statalista”(15) – sostenuto cioè, come puntualizza Silvano Andriani, dall’«intervento diretto dello Stato nel processo di accumulazione, anche attraverso la gestione di imprese pubbliche» - fu indotto a sua volta a «considerare il capitalismo finanziario superato per sempre e il modello statalista come l’incarnazione definitiva del capitalismo».
Esso era invece la risposta - osserva S.Andriani – che lo stesso capitalismo stava dando alla sua crisi, in pratica alla crisi del processo di globalizzazione da esso generato e crollato con la grande depressione degli anni trenta. La storia ha dimostrato e sta dimostrando che il modello statalista era anch’esso solo una fase dello sviluppo capitalistico, pronta a essere superata dal rilancio della globalizzazione e della finanziarizzazione»(16). Un esempio attuale dell’abbaglio di cui stiamo parlando, è quello di studiosi a giudizio dei quali l’”economia della conoscenza”, alias “capitalismo cognitivo”, ci starebbe aprendo quella «possibilità di una transizione diretta al comunismo» che sarebbe prefigurata nel c.d. Frammento sulle macchine di Marx(17). Come risulta da qualcuno degli esempi addotti, se da una parte l’indirizzo “moderato” incentiva la professionalità, generando schiere di specialisti in economia e altro, sinceramente desiderosi di “migliorare” l’esistente “per quel che si può” (ma restando dunque entro una visione riduttiva dei problemi sul tappeto), dall’altra l’indirizzo “radicale”, accanto ad elaborazioni e personalità teoricamente e politicamente decisive, può dar luogo anche a posizioni che, sebbene si sforzino con altrettanta sincerità di condurre a loro volta analisi approfondite, non riescono a liberarsi di presupposi ideologici del tutto anacronistici e persino, oramai, un po’ comici.
Ma quel che soprattutto vorremmo mettere in evidenza, è il fatto che ambedue gli indirizzi – “moderato” e “radicale” - sono accomunati da una pari subalternità alla corrente assimilazione dell’economia in quanto tale al capitalismo; quindi da una pari sottomissione, come se fosse un comandamento divino, a quel ruolo dominante dell’economia su ogni altra dimensione dell’umana vita associata, che è carattere pressoché definitorio dell’età moderna. Ambedue gli indirizzi, insomma, non si accorgono di assolutizzare in linea di principio (ideologicamente, “filosoficamente” o come altro si voglia dire) quello che è soltanto un evento storico: cioè il fatto innegabile che la dimensione economica ha raggiunto una pienezza di dispiegamento e di articolazione per impulso del capitalismo. Ambedue trascurano di considerare – in altre parole – che se il capitalismo ha portato per mano l’economia nella sua vigorosa crescita degli ultimi due secoli o due e mezzo in alcune nazioni del mondo, non sta scritto da nessuna parte che ciò debba continuare all’indefinito: non è detto cioè che l’economia, pervenuta all’età adulta, non possa svincolarsi dalla tutela del capitalismo cominciando legittimamente a camminare (per più retti sentieri) sulle proprie gambe di dimensione autonoma della vita umana, correlata con pari dignità a ciascuna delle altre.
In conseguenza di questa incapacità, nel caso di specie, di vedere (e criticare) storicamente le cose, avviene che, su terreno “moderato”, ci si acconcia con tutta tranquillità a “stare” nel capitalismo, ritenendo (giustamente) assurdo e impensabile allontanarsi dall’economia; su terreno “radicale”, viceversa, la repulsione al capitalismo porta in sostanza al rifiuto di ogni economia propriamente tale. Porta allora a contrapporsi, in definitiva, alla stessa organizzazione della società in sistema (alla società in quanto fondata comunque su una logica strutturale), dal momento che liquidare una dimensione essenziale di sistema (di qualsiasi possibile sistema) significa liquidarle tutte. In altre parole, l’indirizzo “radicale” – una volta identificata, non diversamente dall’indirizzo “moderato”, l’economia data con l’economia in quanto tale – viene a concepire, al limite, l’uscita dal sistema capitalistico come uscita da qualunque ordinamento razionale della società.
Un esempio assai chiaro e assolutamente “di vertice” della seconda linea e del suo esito ci è dato, di nuovo, da Marx, al quale però, ben più che la qualifica di “radicale”, si addice quella di rivoluzionario(18). Nei Manoscritti – testimonianza massimamente tesa e densa di quella “ricerca” il cui sbocco è enunciato dallo stesso Marx nel citato brano del ’59, e che sono essenziali per la comprensione della sua intera opera – si legge che la “proprietà privata” (termine equivalente, nel contesto, a quello di economia(19) «è l’espressione materiale e sensibile della vita umana estraniata»(20). Analoga tesi è sostenuta a proposito del lavoro: «Lo studio della divisione del lavoro e dello scambio [cioè dell’economia] è di grande interesse, perché l’una e l’altro costituiscono le espressioni visibilmente alienate dell’attività e della forza essenziale dell’uomo come attività e forze essenziali proprie del genere umano [costituiscono cioè le espressione alienate del lavoro, della cui reale essenza l’uomo, in quanto “ente generico”, in quanto essere capace di universalità, è destinato a riappropriarsi fuori dell’alienazione, “sopprimendone” la divisione e la finalizzazione al mercato].
L’affermazione che la divisione del lavoro e lo scambio riposano sulla proprietà privata [cioè sono strutture portanti dell’economia] non è altro che l’affermazione che il lavoro è l’essenza della proprietà privata [dell’economia]: ed è un’affermazione che l’economista non può dimostrare, e che noi vogliamo provare per lui. Proprio nel fatto che la divisione del lavoro e lo scambio appartengono alla struttura della proprietà privata [alla struttura dell’economia], proprio qui risiede la duplice prova tanto del fatto che la vita umana ha avuto bisogno [si noti il tempo storico], per realizzarsi, della proprietà privata [dell’economia], tanto dell’altro fatto che ora [n. cors.] essa ha bisogno della soppressione della proprietà privata »(21). Ha bisogno cioè – come ci pare esatto interpretare – che l’umanità pervenga, nella pienezza del “comunismo”, a uscire dall’economia. E difatti, la terza e più alta forma del “comunismo” è vista appunto da Marx:
«come soppressione positiva della proprietà privata [dell’economia] intesa [che l’umanità è ormai pervenuta a intendere] come autoestraniazione dell’uomo, e quindi [il comunismo si definisce] come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo [pervenuto alla sua forma più alta] d’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo(22); è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’affermazione, tra la libertà e la necessità [n. cors.], tra l’individuo e il genere(23). E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione»(24).
A quest’ultima proposizione, e particolarmente all’affermazione che il “comunismo” nella sua forma più alta è la soluzione dell’antitesi tra la “libertà” e la “necessità”, crediamo sia accostabile e collegabile in modo pienamente congruo (lasciando da parte la distinzione cara a molti, ma a nostro avviso fuorviante, tra un “giovane Marx” e un Marx “maturo”), un brano del terzo volume del Capitale, citato spesso: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna [il lavoro umano catturato e alienato nelle strutture dell’economia]; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale [dell’economia] vera e propria»(25).
Nel prosieguo di questo brano Marx configura due stadi, logicamente e cronologicamente successivi, del passaggio dalla “necessità” alla “libertà”. Dapprima lo stadio che nella Critica al programma di Gotha è descritto, più dettagliatamente, come “prima fase della società comunista” e che qui è enunciato come lo stadio in cui, pur essendo ormai intervenute una massima espansione delle “forze produttive” e, sulla base di essa, la “libertà”, non può tuttavia consistere, ancora, se non nel fatto che «l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa»(26).
Ma questo primo stadio – aggiunge subito Marx – non è ancora il raggiungimento della vera e compiuta “libertà”; quindi esso «rimane pur sempre un [n. cors.] regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il [n. cors.] vero regno della libertà»(27). Nella Critica al programma di Gotha Marx descrive la “fase più avanzata della società comunista” in termini sostanzialmente analoghi, diffondendosi appena un po’ di più: quel tanto che gli basta per essere coerente con la sua dichiarata volontà di astenersi dal “preparare menù per le cucine dell’avvenire”. In questa fase – scrive – «dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro è diventato non solo mezzo di vita ma anche il primo bisogno di vita; dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza – soltanto allora può il ristretto orizzonte giuridico borghese essere oltrepassato e la società può scrivere sulle bandiere: Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!»(28).
Se questi importanti brani di Marx or ora citati, e vari altri analogihi, non significano prospettare e definire l’”auto-appropriazione dell’uomo” come uscita dall’economia, si dica cosa significano. Come uscita – giova ribadire – non solo dall’ economia capitalistica, che schiaccia ed esautora ogni altra dimensione umana, ma dall’economia in quanto tale, cioè in quanto elemento strutturale di ogni possibile organizzazione della società in sistema. In definitiva – possiamo ora tornar a sottolineare col conforto, appunto, di Marx – è precisamente la strutturazione della società in sistema, qualunque essa sia, a esser vista come allenatrice dell’uomo e delle sue operazioni. Al suo posto si ipotizza un’amorfa socialità (o convivenza sociale) in cui ognuno può perseguire, nelle proprie “libere” attività, obiettivi “liberamente” scelti e il cui senso è soltanto – come abbiamo visto esprimersi Marx alla lettera – uno «sviluppo della capacità umane che è fine a se stesso».
A questo punto è necessario aprire una parentesi per rispondere a una possibile obiezione. Sta di fatto – ci si potrebbe opporre – che nel corso del Novecento si sono avuti, con richiamo alle idee di Marx e nel dichiarato intento di applicarle, vari tentativi di edificare sistemi sociali fuori del capitalismo e che alcuni di essi, a cominciare da quello sovietico, hanno segnato profondamente le vicende del secolo. Poiché non ci accontentiamo della sbrigativa risposta che essi hanno finito per fallire ovunque, ma nemmeno possiamo qui impegnarci, evidentemente, in analisi dei “socialismi reali” a livello di quelle intraprese da tempo ad opera di non pochi storici (alcune delle quali serie, oneste e di tutto rispetto), ci limitiamo a qualche sommaria osservazione attinente al discorso che stiamo provandoci a portare avanti.
Cadute le aspettative di un rapido estendersi della rivoluzione ai “punti più alti” del capitalismo, già Lenin si trovò a dover fare i conti con le ragioni dell’economia e ripiegò – come è noto – sulla parziale e controllata ripresa del mercato interno detta “Nuova politica economica” (NEP). Morto Lenin, fattosi chiaro che l’unica strada realistica era ormai lo sviluppo e il consolidamento del “socialismo in un solo Stato”, il realistico Stalin (e statista di grande levatura) si accinse all’opera immane di costruire quasi dal nulla un sistema economico-sociale capace di reggere il confronto col “campo capitalistico” .
L’industrializzazione a tappe forzate della Russia mediante i “piani quinquennali”, l’edificazione in breve tempo di una struttura economica a onniestensiva, programmatoria direzione statuale, riuscirono a trasformare il Paese in una grande potenza mondiale, che nei primi anni Quaranta seppe resistere vittoriosamente (non dimentichiamocelo mai) al poderoso attacco delle armate tedesche, fino a battere definitivamente il nazismo in concorso con gli USA di Roosevelt. Certo, questi risultati non poterono essere raggiunti se non per impulso e sotto la tensione di una forte volontà politica, che comportò costi umani estremamente pesanti, paragonabili – ma con l’aggiunta di vari zeri – a quelli del “Terrore” con cui Robespierre salvò la Rivoluzione francese nel momento del suo maggior pericolo. Ma se il “Termidoro” russo ebbe luogo soltanto a parecchi decenni di distanza da Lenin e da Stalin, ciò fu dovuto essenzialmente – riteniamo – al fatto che in Russia si era riusciti comunque a edificare un sistema. Alla “resa dei conti”, tuttavia, si doveva arrivare, e vi si arrivò nel 1989, fallito l’estremo tentativo intrapreso da Gorbaciov per salvare l’essenza “socialista” del sistema stesso aprendolo alla democrazia interna e al mercato internazionale. Lasciamo da parte ogni considerazione sulla sostanziale vacuità delle giustificazioni ideologiche, scolasticamente marxiste e in definitiva pretestuose, del “socialismo” sovietico come preparatorio della transizione al “comunismo” (che certo Marx non immaginava così sanguinosa e protratta).
E’ piuttosto da sottolineare – a nostro avviso – che per quanto Stalin cercasse di rivendicare le ragioni dell’economia (in uno dei suoi ultimi scritti dichiarò che una società socialista senza una sua base economica sarebbe stata «una cosa abbastanza allegra»(29), tuttavia il sistema sovietico fu costruito negando alcune categorie economiche essenziali portate a pienezza moderna dal processo capitalistico, a cominciare dalla propulsiva dinamica dell’iniziativa imprenditoriale. Quello sovietico fu insomma un sistema mancante di alcuni assi portanti dell’economia moderna in sé considerata, e per tale mancanza era destinato a risultare perdente nel lungo confronto col sistema capitalistico. Analoga sorte, sebbene con evoluzioni più o meno diverse, toccò, per analoghe ragioni, agli altri tentativi “socialisti” intrapresi in varie parti del mondo. Riassumendo molto brevemente il discorso interrotto da questa parentesi, eravamo arrivati a sostenere che, a nostro avviso, una volta postulata senza vaglio storico-critico l’identità capitalismo=economia, delle due l’una: o si accetta il capitalismo per tenere ferma l’economia, o ci si scollega da questa per contrapporsi a quello. “Tertium non datur”.
Eppure – va sottolineato con forza – l’esigenza, anzi la necessità di superare il capitalismo, e di farlo prima possibile, c’è. E’ un’esigenza, una necessità che si pone ormai non solo dal punto di vista di una universale ripresa di respiro sul piano sociale e umano, ma anche da quello di una riemersione della stessa economia dal “cul de sac” in cui è venuta a trovarsi. Si è parlato e scritto abbastanza, ci pare, sull’artificiosità crescente dei consumi “indotti” o meglio imposti; sul rischio che la strabocchevole offerta di prodotti a tecnologia sofisticata fino all’assurdo finisca per saturare ogni ragionevole domanda; sul mortale squilibrio tra lo sviluppo di alcune aree del mondo e la persistente, tendenzialmente cronica arretratezza di altre; sull’insopportabile contrasto, all’interno delle stesse aree “avanzate”, tra sottili strati ultra-ricchi e ampie fasce povere della popolazione; tra vincenti e perdenti nel dislivello sociale derivante dal “digital divide”; sui devianti, pericolosi oltreché non di rado scandalosi eccessi della “finanziarizzazione”; sul rapido succedersi di “crisi cicliche” che induce gli economisti, nell’esaminare quella in atto, a prefigurare già quella «prossima ventura»(30); sulle imminenti catastrofi ecologiche e su tante altre cose ancora.
Alcuni economisti segnalano inoltre un processo in corso, davvero impressionante. Si tratta del fatto che la cosiddetta “economia della conoscenza” (attualmente settore di punta dello sviluppo economico capitalistico, in via di affermazione così rapida e intensa da indurre a vedervi un ulteriore “cambiamento di pelle” del capitalismo stesso) sta portando ad assumere non più tanto l’innovazione, quanto l’accelerazione dell’innovazione a principale metro di valutazione delle operazioni imprenditoriali o almeno di quelle, appunto, più “avanzate”. Anzi la sta portando a divenire, in sostanza anche se al limite, fine a se stessa. Ad esempio Dominique Foray sottolinea, richiamandosi anche ad A.P.Carter, «il ruolo sempre più importante del cambiamento come attività economica autonoma» e parla di un «nuovo regime caratterizzato dall’innovazione permanente». Elemento trainante di questo processo sono «le tecnologie dell’informazione come fonte di sconvolgimenti permanenti». Si è così arrivati a un «paradosso della produttività», la cui chiave
«[…] è da ricercarsi non tanto nei tempi necessari all’organizzazione economica e sociale per adattarsi progressivamente all’innovazione (che comunque consentirebbe di prevedere la soluzione dei problemi in un periodo relativamente breve), quanto in questa economia del cambiamento permanente, che erode incessantemente le basi delle variazioni di produttività: si vedono computer ovunque, certo… ma non sono mai gli stessi! Il ritorno al sentiero di crescita regolare sembra essere continuamente spostato in avanti».
Sul piano delle “risorse umane” tutto ciò determina – prosegue D.Foray - «effetti di isteresi, legati alla crescita della classe di lavoratori non direttamente legati alla produzione, gli “agenti del cambiamento”». Segue una citazione da A.P.Carter:
«[…] la crescita continua di questa categoria di impieghi traduce un impegno a persistere nel cambiamento […]. Il cambiamento interviene perché alcuni agenti – ingegneri, venditori e dirigenti – lo provocano. Coloro che hanno realizzato cambiamenti coronati da successo, tendono ad amplificare l’attività dedicata alla preparazione di nuovi cambiamenti […]. Mentre la quantità di soluzioni e di idee nuove può fluttuare, l’impiego continuo di individui capaci di risolvere una certa classe di problemi posti dal cambiamento e dalla necessità di adattarsi ad esso, determina il cambiamento stesso».
Così – conclude il Foray - «uscire da un’economia ad elevata intensità di innovazione può essere difficile quanto entrarvi! E il problema di come uscirne può effettivamente risultare rilevante in più di una situazione»(31). Già nell’ambito di un discorso che vuol essere puramente scientifico, queste osservazioni e rilevazioni sono fatte –come si sarà notato – usando più di una volta dei punti esclamativi. In effetti bisogna riconoscere – con l’ovvia avvertenza che un conto sono le “nuove tecnologie”, un altro l’uso che se ne fa - che siamo di fronte a un fenomeno davvero inaudito, eccedente ogni umana razionalità e tendente ad avvitare l’attività economica in forme impazzite.
A questo punto bisogna cominciare – ci sembra evidente – a porsi il problema, certo non da poco, di come riequilibrare la collocazione e il ruolo dell’economia: non più “ancilla” come nell’antichità ma nemmeno “domina” come nella modernità; piuttosto una delle fondamentali dimensioni e condizioni delle attività umane. Non ci si può chiedere quali operazioni politiche e di politica economica siano adeguate a un tale obiettivo. Possiamo solo tentare qualche accenno di carattere molto generale a mutamenti e sviluppi di concetti e d’idee, atti a orientare l’opinione pubblica e la stessa elaborazione culturale nel senso a nostro avviso desiderabile. Ricordiamo in primo luogo – come una sorta di premessa a quanto ci proponiamo di dire – che non tutti concordano sulla liceità o sulla esattezza del termine stesso di capitalismo e che molti di coloro che si pronunciano a favore, lo fanno con esitazioni, con riserve, sottolineando difficoltà e problemi semantici. Scrive ad esempio Michel Beaud:
«Portatore di tracce di una storia complessa – in cui rientrano l’epopea della banca e dell’industria, l’evoluzione delle condizioni di lavoro e di vita del mondo operaio, le lotte operaie e sindacali e la loro repressione, gli studi di storici e di specialisti delle scienze sociali, i dibattiti ideologici e politici -, bandiera per alcuni, emblema di un sistema da distruggere per altri, il termine “capitalismo” reca in sé molteplici implicazioni e si presta a un uso rischioso. Alcuni autori liberali, come Friedrich von Hayek, e certi ambienti imprenditoriali ne rifiutano l’utilizzo, preferendogli definizioni più generali, quale per esempio quella di “economia di mercato”. Altri, al contrario, lo considerano un vocabolo di uso corrente che permette di indicare una larga gamma di economie moderne. Per altri ancora, all’interno di particolari tradizioni teoriche, si tratta di un concetto che risponde a definizioni elaborate utili nell’analisi economica e sociale.
Per quanto mi riguarda, ero lontano dall’avere una chiara coscienza di tutto questo quando cominciai a parlare di “capitalismo”. La mia preoccupazione è sempre stata quella di comprendere il mondo, le evoluzioni in corso, ciò che non funziona e perché, e come porvi rimedio. Presto, quel termine mi è sembrato designare rilevanti realtà del nostro tempo, la cui conoscenza è in grado di illuminare dei processi essenziali, di identificare problemi e di riflettere sui rimedi. E’ un vocabolo insostituibile nella misura in cui è l’unico capace di indicare chiaramente tali realtà: rifiutarne l’uso significa rinunciare a prendere in considerazione aspetti importanti del mondo contemporaneo. Detto ciò, occorre aggiungere che si tratta di un termine difficile da maneggiare, dato il peso delle implicazioni ideologiche e politiche, di carattere sia apologetico sia critico, che rendono imprevedibile il modo in cui viene inteso»(32).
Un altro brano molto significativo ci pare il seguente, di Fernand Braudel:
«Visto che ciascuno propone una propria definizione della parola “capitalismo”, provocando non pochi inconvenienti e rendendola sempre più oscura, alcuni storici (ci riferiamo a Lucien Febvre, Herbert Heaton, Heinrich Bechtel) hanno proposto, tempo fa, di bandire il vocabolo. Ma non si rischia che la parola, cacciata dalla porta, rientri subito dalla finestra? Si tratta di una parola complicata, fonte di molte controversie e per giunta fabbricata, intorno al 1900, ad uso e in funzione di una causa ben precisa (in quegli anni, infatti, essa appare e si afferma negli ambienti del socialismo tedesco). Anticiparne l’applicazione significa poi rischiare un anacronismo, proprio come accade per le parole industria o funzionari, quando vengono usate per lo stesso periodo del passato. Ma abolire il termine capitalismo, in verità, non ci libererebbe dalle controversie che non solo ha prodotto m spesso ha ereditato, né dalle dispute che suscita anche quando non gli sono strettamente pertinenti. Accettiamo dunque il termine senza entusiasmo e senza ipocrisia. Se lo controlleremo da vicino, potrà esserci di grande utilità»(33).
Ai fini del nostro discorso riteniamo sufficiente – e congruo anche con quanto osservato finora – la breve definizione di capitalismo, che troviamo in un saggio di Franco Rodano, come «quel sistema la cui dimensione economica è caratterizzata dal fatto che il fine delle imprese (la massimizzazione del reddito di impresa) divine fine generale del sistema»(34).
Non c’è dubbio che il capitalismo, dove si è affermato, ha progressivamente condotto a un aumento di ricchezza complessiva, consentendo di soddisfare più stabilmente, anche – fatte le debite proporzioni sociali - a livello “di massa”, bisogni primari come il cibo, l’abbigliamento, un riparo. Erano questi – ci ricorda J.K.Galbraith - «i tre elementi fondamentali che all’epoca costituivano il tenore di vita della stragrande maggioranza degli uomini»(35). Si cominciava così a uscire, in alcuni Paesi europei, da quelle sofferenze millenarie, da quelle calamità endemiche – peste, fame, carestie – che il Manzoni chiamava le “rugiade del Medioevo”. Si cominciava a ridurre le dimensioni del pauperismo (quindi a poterlo controllare in qualche modo, sebbene spesso vessatorio e forcaiolo); un fenomeno che in vari Paesi e periodi si era tradotto su vasta scala in accattonaggio a ondate incessanti, anche trans-europee e sistematicamente organizzate sotto segni religiosi, tanto da far dire a Martin Lutero:
«I principi e le autorità cittadine dovrebbero vigilare affinché siano interdetti gli itineranti, i fratelli di S, Giacomo, e tutti i mendicanti stranieri, o almeno che siano tollerati con ordine e misura, cosicché non sia consentito a questi imbroglioni, col pretesto di questuare, di andar vagabondando a commettere le loro scelleratezze, il cui numero è oggi assai grande»(36). «Io ho calcolato che ogni anno vengono nel medesimo luogo cinque o sei ordini di mendicanti, ciascuno più di sei o sette volte; aggiungi i comuni accattoni, gli inviati di S. Antonio e i pellegrini, e ne risulta che ogni città viene tassata ogni anno più di sessanta volte»(37).
E’ parimenti fuori discussione, tuttavia, che i predetti miglioramenti furono ottenuti a costi molto elevati, all’esterno e all’interno dei Paesi dove il capitalismo si stava impiantando. Da una parte, allo sterminio di intere popolazioni (America centrale e meridionale), alla rapina di uomini (tratta degli schiavi dall’Africa) e di materie prime (dall’Asia) attraverso le varie “compagnie delle Indie”, subentrò nel secolo XIX la dominazione diretta (coloniale) su mezzo mondo. Dall’altra parte va messo nel conto lo sfruttamento intenso sino alla ferocia, nelle fabbriche, di uomini donne e bambini, già famiglie di piccoli coltivatori trasferitisi nelle città industriali spesso forzatamente, come nel caso dell’esodo di contadini dalla Scozia, dove “le pecore mangiarono gli uomini”. Su ambedue gli aspetti – esterno e interno – la “letteratura” è immensa, prima e dopo la Situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels(38). Parecchi autori sostengono comunque – e crediamo non a torto – che, tutto sommato, il bilancio fu positivo . Scrive ad esempio il Galbraith:
«Il nuovo mondo industriale […], benché fosse, in base a un metro moderno, crudele e oppressivo, rappresentava tuttavia un grande passo in avanti rispetto a tutto quello che l’aveva preceduto. Per migliaia d’anni […] l’umanità non aveva conosciuto nessun fondamentale e duraturo mutamento del suo tenore di vita: le cose andavano ora un po’ meglio, ora un po’ peggio, senza che emergesse una qualsiasi durevole tendenza di fondo. Adesso, con l’industrializzazione, le condizioni basilari della vita migliorano: per quanto potesse essere dura la schiavitù della fabbrica, era però quasi certamente migliore […] della precedente vita nei villaggi, incessantemente trascorsa in casa, al telaio, o nella solitaria, mal retribuita fatica dei campi […]. Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli uomini e le donne che affluivano nelle città industriali e nelle fabbriche dell’Inghilterra e della Scozia meridionale avevano in generale l’impressione di un miglioramento della loro vita. I vantaggi offerti dai villaggi e dal lavoro a domicilio da cui fuggivano – cordialità paesana, paesaggio rurale, vegetazione intatta e un’aria universalmente, straordinariamente pura – erano quasi certamente più attraenti per i commentatori posteriori che non per chi doveva vivere in tale realtà»(39).
Osservazioni di questo tipo, del resto, sono in sintonia con opinioni già espresse parecchio tempo prima non solo da apologeti del capitalismo, ma anche da suoi critici, come John Maynard Keynes, che aveva scritto nel 1931:
«Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza – diciamo duemila anni prima di Cristo – fino all’inizio del diciottesimo secolo, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento radicale»(40).
Un poco più dettagliatamente, un autore moderno come il già citato F. Braudel, in un libro dedicato ai progressi economici fatti dall’Europa durante un periodo anteriore solo di un secolo alla nascita del capitalismo propriamente detto, scrive che:
«dal 1460 al 1650 la popolazione europea è certamente aumentata, passando forse da 60 a 80 o a 90 o a 100 milioni di individui. Ma si trattava di una popolazione contadina, ferocemente radicata nel proprio suolo, poco mobile, accanita a produrre il pane quotidiano e tanto più ostinatamente quanto più difficile – e per ciò stesso essenziale – diventava ottenerlo. Il pane è l’ossessione della vita, l’insicurezzza che prevale su ogni altra durante il periodo di cui ci occupiamo. Per sopravvivere, ogni uomo ha bisogno di un ettolitro e mezzo di cereali (frumento, granturco, segala, orzo) all’anno […] Se si tiene conto che alle fasi in cui aumenta il prezzo dei cereali corrispondono impennate impressionanti della mortalità, si capirà come questo evento profondo, drammatico, inevitabilmente ricorrente, immobilizzi l’Europa, la tenga ancorata alle fatiche quotidiane […]»(41).
“Il cibo, l’abbigliamento, un riparo”, dice il Galbraith parlando – come si è visto poco sopra – dei bisogni primari dell’uomo, che con l’avvento del capitalismo cominciarono a essere soddisfatti in modo meno aleatorio e socialmente più esteso. Marx, riferendosi polemicamente alla tendenziale riduzione dei salari al minimo per massimizzare il profitto, considera bisogni primari quelli la cui soddisfazione è necessaria ai fini del «sostentamento dell’operaio durante il lavoro e in più quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non vada estinta» e li riporta, in questa loro figura, alla smithiana simple humanité, cioè – interpreta e commenta - al livello della mera «esistenza animale»(42). Lo stesso Marx, però, dopo aver insistito nel definire come “funzioni animali” «il mangiare, il bere, il procreare e tutt’al più ancora l’abitare una casa e il vestirsi», aggiunge che esse, fuori della condizione alienata cui è ridotto l’operaio, «sono anche funzioni schiettamente umane»(43).
Se si prescinde dal contesto critico in cui Marx fa quest’affermazione, si deve a nostro avviso togliere quell’”anche” e dire semplicemente che i bisogni primari e la loro soddisfazione sono funzioni schiettamente umane. Ma se sono tali, si deve prendere atto altresì che, stante il carattere storico dell’uomo e della sua esistenza, questi bisogni e la loro soddisfazione non sono concepibili se non nel quadro di un processo di sviluppo.
«L’uomo – afferma Franco Rodano – ha evidentemente un bisogno di sussistenza corporea: può esso venir definito come naturale? […] In realtà, qualunque bisogno dell’uomo non è mai puramente naturale, ossia non può essere riferito all’uomo stesso in maniera immediata. Se così fosse, si avrebbe veramente, per l’uomo, un livello di bisogno indistinguibile da quello animale. Ma a veder bene, anche al suo primo gradino, al livello cioè della sussistenza corporea, il bisogno umano è già a carattere storico, ossia mediato dal lavoro. In altri termini, è bisogno di un essere che non si limita a sussistere, ma che, per sussistere, deve svilupparsi, deve trasformare l’immediatezza del dato naturale»(44).
A questo punto potrebbe esser posto il problema di che cosa intendere materialmente (o magari merceologicamente) per bisogni “di sussistenza” e per prodotti finalizzati a tali bisogni. Come si è appena visto, Marx dice che “il mangiare, il bere, il procreare”, nonché “l’abitare una casa e il vestirsi” sono “funzioni animali”, ma anche “schiettamente umane”. A un secolo di distanza – intervenuta, grazie anche alla riscoperta e interpretazione crociane del Vico, una più piena consapevolezza della necessità di storicizzare le analisi delle attività e dei processi umani fuori da impalcature dialettiche o di altro tipo - un autore come F. Rodano, molto attento al tema di cui stiamo occupandoci, può parlare dei bisogni della “sussistenza corporea” come del “primo gradino” del bisogno umano.
Ora, sotto segno capitalistico non si sono prodotti soltanto, a costo economico minore e in quantità maggiore, cereali, cotone o laterizi. Si sono anche inventati e diffusi su larga scala, nel corso di due secoli e mezzo, beni come le macchine e le navi a vapore, le ferrovie, l’elettricità, il telegrafo, il telefono, la radio, le automobili, gli aeroplani, le lavatrici, la televisione e così via, fino ai computer, ai cellulari e alle molte altre cose (forse troppe) dei nostri giorni. Anche tutto questo può esser fatto rientrare nel concetto di “bisogni primari” o “di sussistenza corporea”, per quanto considerati in senso lato e visti in un’ottica storico-dinamica? Riteniamo che il problema, almeno su di un piano di discorso molto generale, non sia questo. Si deve piuttosto cercar di vedere e di capire se e fino a che punto tale tipo di bisogni e correlate attività produttive, tale grande insieme di produzioni e di consumi (in molti rami però, oramai, sempre più “indotti”, secondo la logica dell’”affluent society” e contro ogni razionale rapporto tra produzione e consumo), in una con ogni loro probabile e anzi certa evoluzione, esauriscano il bisogno umano in quanto tale, ossia in ogni sua possibile e necessaria forma. In altre parole, si tratta di vedere se ogni ulteriore sviluppo della produzione e del consumo nel quadro del predominio capitalistico dell’economia sulle restanti dimensioni della vita umana, possa essere congruo con la totalità del progrediente e pluridimensionale bisogno umano.
Ovvero, rovesciando “in positivo” il ragionamento, si tratta di vedere se non possano esservi, anzi non siano già pressantemente in atto, bisogni umani vitali appartenenti a sfere alle quali non è in grado di arrivare, o di farlo in maniera adeguata, l’economia di tipo capitalistico. Non diciamo quindi – giova sottolinearlo – l’economia “tout court”, ma quell’economia che in epoca moderna, col capitalismo, si è fatta padrona e signora delle nostre vite. Completiamo allora il quesito: si tratta di vedere e capire se si pongano bisogni essenziali appartenenti a sfere cui l’economia capitalistica rimane estranea, ma per una sufficiente soddisfazione dei quali è necessaria, in integrato concorso con le altre dimensioni dell’attività umana a cominciare dalla politica, l’economia. Un’economia – insistiamo a scanso di equivoci – non più capitalistica perché non più fagocitante, appunto, le altre dimensioni; nel mantenimento però e anzi nel riequilibrato incremento di tutte le articolazioni in cui l’economia stessa si è dispiegata storicamente, in epoca moderna, per impulso del capitalismo: iniziativa imprenditoriale, accumulazione, profitto, mercato, finanza e quant’altro. A nostro avviso, la risposta non può non essere affermativa. Ci pare evidente che i bisogni storicamente ulteriori di cui stiamo parlando si pongono come necessari e vitali; e ciò, sia pure per esigenze e a livelli diversi, per tutti i popoli della terra, siano essi “avanzati” o no. Quali sono dunque questi bisogni che stranamente, pur essendo tali nel modo più reale e più pieno, non si traducono ancora in “domande” d’interesse anche economico? Sebbene siano sotto gli occhi di tutti, acutamente sentiti da tutti, focalizzati in mille dibattiti, convegni, manifestazioni, “forum” e quant’altro, converrà ricordarli brevemente.
(continua)
NOTE
(1) I, 1253b
(2) Ivi
(3) Ivi
(4) Ivi, 1252b
(5) Ad es. nella Storia dell’economia (trad. it. di Fausto Ghiaia – Rizzoli 2004) J.K. Galbraith torna spesso a sottolineare le esperienze personali pratico-politiche di cui si alimentano molte sue argomentazioni.
(6) Tesi su Feuerbach, XII
(7) [Alla mia opera] «ho sacrificato la salute, la felicità e la famiglia» - Lettera a Sigfrid Mayer, 30 aprile 1867
(8) Trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti – Ed. Riuniti 1971, p.4
(9) Trad. it. di Norberto Bobbio – Einaudi 1968, p.112 (10) Il primo governo “organico” di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, fu varato nel dicembre 1953, dopo un lungo e tormentato processo “di avvicinamento”
(11) E’ il titolo di un saggio di Franco Rodano sui Quaderni della Rivista Trimestrale n. 55-56/luglio-ottobre 1978. Lo si può leggere adesso in questo sito, nella sezione “La lezione di Franco Rodano”
(12) Cfr. Serge Laouche: Come sopravvivere allo sviluppo – Trad. it. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati –Boringhieri 2005, p. 86-87.
(13) Il capitale finanziario – Feltrinelli 1961, p. 487 (brano citato da Silvano Andriani ne L’ascesa della finanza – Donzelli 2006, p.18)
(14) E’ questo, come è noto, il titolo di una delle sue opere più importanti, pubblicata nell’aprile del 1917
(15) Cfr. The Present as History – Montley Review Press, New York 1959
(16) Op. cit., p.20
(17) Cfr. Carlo Vercellone in Capitalismo cognitivo – Manifestolibri 2006, cap. 2,, in particolare a p. 40
(18) Cfr. Federico Engels: Sulla tomba di Marx, in AA:VV.: Ricordi di Marx – Ed. Rinascita 1951, p. 7-9
(19) «Si vede facilmente la necessità che l’intero movimento rivoluzionario trovi la propria base tanto empirica che teoretica nel movimento della proprietà privata, per l’appunto dell’economia». Op. cit., p. 112
(20) Ivi
(21) Vi, p. 149
(22) Per una migliore comprensione di questo passo, cfr. ivi, p. 110
(23) Nella traduzione citata è scritto “specie”; tuttavia la parola “genere” – del resto comunemente usata in altre traduzioni – ci sembra più congrua al concetto marxiano dell’uomo come capace di universalità
(24) Ivi, p. 111
(25) Trad. it. di Maria Luisa Boggeri – Ed. Riuniti 1968, p. 933
(26) Ivi
(27) Ivi
(28) Trad. it. di Ileana Pasqualini – Ed. Simonà e Savelli, Roma 1968, p. 38
(29) Problemi economici del socialismo nell’URSS – Trad. it. Ed. Rinascita 1952, p. 28
(30) S. Andriani – op. cit., p. 78
(31) Dominique Foray: L’economia della conoscenza – Trad. it. di Francesco Saraceno, Il Mulino 2006, p. 52-54. La citazione da A. P. Carter è tratta da Change as Economic Activity, Brandeis University, Dep. of Economics, Working Paper n. 333
(32) Storia del capitalismo – Trad. it. di Giuliana Picco, Mondatori 2004, p, 14
(33) Espansione europea e capitalismo (1450-1650) – Trad. it. di Graziella Zattoni Nesi, Il Mulino 1999, p. 46
(34) Alla radice della crisi cit., p. 7, n. 4
(35) Op. cit., p. 70
(36) Delle buone opere – VII, 1
(37) Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca – 21
(38) Trad. it. di Raniero Panzieri – Ed. Riuniti 1972
(39) Op. cit. , pp. 102, 131
(40) Cfr. Essays on Persuasion – London 1931. Trad. It. Ed. Il Saggiatore, p. 275 (brano citato da Pier Angelo Toninelli: Lo sviluppo economico moderno, Marsislio 2005, p. 34)
(41) Op. cit., p. 32
(42) Manoscritti, p. 11
(43) Ivi, p. 75
(44) Lezioni su servo e signore – Ed. Riuniti 1990, p. 33