Sono passati quarant'anni dal terribile terremoto che scosse il Friuli. Gli abitanti con fermezza vollero ricostruire prima le fabbriche, poi le case"Tutto com’era o saremo stranieri"E fu il miracolo della ricostruzione. Corriere della Sera, 4 maggio 2016 (c.m.c.)
«Dopo il terremoto siamo rimasti con poche galline perché il pollaio è stato completamente distrutto. (...) Una si chiama Sammanta, una Odet e l’altra Aquila perché assomiglia a una aquila. Le galline hanno la cresta. E la faccia rossa. La mamma dice che si saranno date al bere per lo spavento del terremoto".
Sono passati quarant’anni da quella sera del 6 maggio 1976 in cui l’«Orcolàt», l’orco malvagio dei friulani che dorme sottoterra e già aveva seminato morte nel Medio Evo e giù giù per i secoli, diede uno scossone di 6,4 gradi della scala Richter al Friuli radendo al suolo 45 paesi tra cui Gemona, Buja e Osoppo, devastandone altri 40 e ammazzando 989 persone. Fu una mazzata tremenda. Seguita tre mesi dopo, l’11 settembre, da una nuova scossa…
Quella doppia carognata dell’Orcolàt non si limitò a uccidere uomini, donne e bambini e a fare danni per molti miliardi di euro d’oggi e a sconvolgere le galline descritte da Francesca, III elementare, in un pensierino ora esposto nello struggente museo «Tiere Motus» di Venzone. Scosse, come avrebbe scritto il nostro Alfredo Todisco, la fede stessa di tanti valligiani: «Se c’è un Dio che muove l’universo, come può permettere che un così immenso castigo colpisca e annienti genti tra le più remote e timorate per antica tradizione: proprio l’opposto di Sodoma e Gomorra?».
Dopo lo scoramento, però, subentrò la forza morale di gente che, emigrando in cerca di fortuna (una foto di friulani che costruivano la Transiberiana e reggono un cartello: «evviva la Siberia») si era guadagnata una tale fama che, come ricordò Gianfranco Piazzesi, i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri».
Dice tutto la petizione dell’agosto ‘77 sottoscritta da tutti gli abitanti del borgo medievale di Venzone, distrutto dal sisma: «Respingiamo con fermezza la tentazione di una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe stranieri nella nostra stessa Patria e che, come dimostra il Belice, non riuscirebbe neppure a garantire tempi di esecuzione più brevi». Spiegherà Luciano Di Sopra, l’architetto che col commissario Giuseppe Zamberletti e il governatore Antonio Comelli («Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case») e tanti sindaci fu tra i protagonisti del «Modello Friuli» cui ha dedicato un libro con Rodolfo Cozzi: «C’era chi teorizzava, tra gli urbanisti, l’abbandono delle zone danneggiate per trasferire la popolazione in una “new town” tra Udine e Pordenone, con l’impiego integrale dei prefabbricati». Un orrore. Già commesso a Gibellina, evacuata per dar sfogo alle strampalate fantasie metafisiche di Gibellina Nuova. E destinato a ripetersi a Monteruscello, il quartiere dormitorio tirato su per gli sfollati di Pozzuoli. E poi, ovviamente, nei villaggi satellite dell’Aquila con lo spumante in frigo ma i materiali marciti in tre anni.
In Friuli no, non accettarono quel modello. «Dov’era e com’era», dissero i friulani. Il motto dei veneziani che nel 1902 avevano voluto rifare il Campanile di San Marco uguale a quello crollato. A costo di passare più inverni nei container. Nel fango. Al freddo. E di pensare alle fabbriche, come dicevamo, prima ancora che alle case. Racconterà Marco Fantoni, che aveva visto crollare i capannoni dove produceva mobili: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lamentarsi. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare l’unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina la produzione ripartì».
A Venzone gli abitanti impedirono alle ruspe di entrare nel borgo distrutto. Buttarono fuori gli «artisti» che vagheggiavano di coprire il Duomo in macerie con una cupola trasparente: omaggio alla pietra che fu. «Lei stia sul suo altare a dire messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi», strillò il sovrintendente al prete, don Giovan Battista Della Bianca. E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti».
«Una scelta di disubbidienza civile», scrive Marisa Dalai Emiliani nel saggio su «Il tesoro italiano eroso dai disastri» nel libro collettivo L’Italia dei disastri curato da Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «mentre si prepara febbrilmente un piano di recupero controllato delle macerie e si inizia, con metodo stratigrafico da scavo archeologico, la catalogazione scientifica del materiale lapideo crollato e recuperato a terra — bifore, stemmi, mensole sagomate, modanature, scalini — isolato per isolato, casa per casa, muro per muro». Un lavoro immenso e certosino.
Durerà dieci anni, la ricostruzione del borgo, prima che l’ultimo degli abitanti possa lasciare le baracche e tornare nella sua casa. E ancor più impegnativa sarà la ricostruzione del Duomo. Ma resterà l’esempio più clamoroso di cosa sia stato il «modello Friuli»: ripartizione dei compiti, efficienza, Stato presente ma non invadente, grande autonomia alla Regione e da questa massima fiducia ai comuni. Senza un «Uomo dei Miracoli» che osasse dire «ghe pensi mi».
Eppure li fecero davvero i miracoli, i friulani. E su tutti gli uomini e le donne di Venzone… «Tutta la cultura accademica», ricorda Dalai Emiliani, chiedeva per quell’antico Duomo in macerie, «la conservazione allo stato di rudere, facendo appello ai principi da poco sanciti nella Carta del restauro». Vincere le ostilità al «dov’era, com’era» da parte della Soprintendenza triestina («prigioniera di stereotipi culturali, alimentati dal terrore e dal rifiuto del possibile “falso storico”») fu dura, per la «Fabbriceria», che riuniva gli esponenti della comunità. Molto dura.
La spuntarono quei testardi abitanti del paese, però. E con l’aiuto di volontari e studenti di archeologia della Cattolica e sotto la guida dell’architetto Francesco Doglioni, «ogni pietra fu numerata e schedata in base alla sua traiettoria di caduta, quindi identificata nella sua collocazione originaria sulla scorta dello sviluppo grafico dei rilievi fotogrammetrici e dotata di una vera e propria carta di identità, con l’indicazione delle misure, della quota, dello stato di conservazione e usura di ogni faccia e un corredo completo di documentazione grafica e fotografica».
Per recuperare i materiali necessari «fu riattivata una antica cava» e per le malte e gli intonaci le sabbie di due corsi d’acqua locali. «Agli scalpellini, eredi dei tagliapietre medievali, si insegnò a lavorare le pietre delle reintegrazioni» ma anche a trattare i 7.650 conci superstiti sdraiati in un grande campo sotto l’occhio del «corpo docente», i mastri muratori del posto e i professori di Architettura di Venezia.
Diciannove anni, ci misero. Ma nel ‘95 il Duomo poteva infine essere riconsacrato. E oggi è lì, bellissimo, a fare coraggio a chi, davanti a certi rovesci della sorte, si sente mancare il fiato. E a ricordare ai turisti e più ancora ai «puristi» sconfitti, di cosa è capace una comunità unita e fiera di se stessa.