In un formato abbastanza sintetico un programma di lavoro per rendere il mondo più vicino a quanto ci piacerebbe che fosse. A Tomaso non è dispiaciuto
Città, territorio, urbanizzazione, territorio urbanizzato, habitat dell’uomo. La città è la forma che ha assunto, in una determinata fase della storia dell’umanità, l’insediamento della società (delle società) sul territorio: una forma caratterizzata dalla spiccata densità della popolazione, dalla forte intensità delle relazioni tra i suoi abitanti, e dalla parallela consistenza delle trasformazioni fisiche e antropiche del suolo (al limite “la repellente crosta di cemento e asfalto” A. Cederna).
Nel tempo, la contrapposizione tra città e territorio rurale, dove dominava ancora la natura e le trasformazioni erano lente, si è affievolita. IL processo di espansione della civiltà urbana si è esteso molto al di là dei confini delle città, investendo parti via via più ampie del territorio del pianeta Terra. In gran parte del mondo, la condizione urbana, un’espressione di Manuel Castell per indicare una situazione socio-economica, politica e culturale, oltre che fisica, investe e comprende il territorio. Il termine “territorio urbanizzato” può volta per volta essere adoperato sia per indicare questa condizione, che travalica i confini della città tradizionale, che per identificare l’area interessata dal processo di urbanizzazione e trasformazione fisica del suolo.
Gli esseri viventi continuano a insediarsi in modi diversi e non sempre secondo quella densità di relazioni che contraddistinguono la città. Ma gli insediamenti sono sempre il risultato di un rapporto particolare tra essere umano e la natura circostante, con tutte le implicazioni che questo comporta. Per enfatizzare l’importanza di questo rapporto, nel parlare della città, del territorio e degli insediamenti umani in generale, si può usare l’espressione “habitat dell’uomo” di Piero Bevilacqua.
2. Il blocco edilizio: l’appropriazione privata della rendita urbana
“Il blocco edilizio” è il titolo di un geniale saggio di Valentino Parlato (il Manifesto, 1970, oggi su eddyburg), e di una realtà sociale, tutta italiana, che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente il territorio e la società che lo abita. Questa analisi della produzione edilizia e delle stratificazioni che ne fanno parte o ad esso subordinate, mette in luce la saldatura tra interessi privati, (grandi e piccoli, industriali e commerciali), poteri pubblici e rendita immobiliare che caratterizzano l’affare casa in Italia e detta legge nelle scelte urbanistiche e di pianificazione del territorio.
Allo stesso livello di analisi, si pone la successiva analisi di Walter Tocci sul trionfo della rendita, nell’età del finanzcapitalismo (L’insostenibile ascesa della rendita urbana, 2008, oggi su eddyburg. Questo saggio mette in luce le ulteriori trasformazioni avvenute nella città neoliberista con finanziarizzazione dell’economia, che ha rafforzato l’intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare, a scapito del salario e del profitti.
L’esistenza della rendita immobiliare e della sua continua crescita in relazione alle trasformazioni quantitative e qualitative delle diverse porzioni della città esprime una caratteristica peculiare e un’anomalia di fondo. La rendita, quando gli interessi ad essa legati sono dominanti, fa si che il perimetro della città si allarghi indipendentemente dalle reali necessità delle comunità che ci vivono e che i suoli edificabili a fini privati prevalgano su quelli destinati ad usi collettivi. L’anomalia sta nel fatto che gli attori che provocano gli aumenti di rendita, in virtù delle trasformazioni apportate nell’area, sono generalmente collettivi e spesso pubblici, mentre l’appropriazione del suo effetto (l’incremento della rendita) è individuale e generalmente privato.
3. il conflitto di fondo: città della rendita o città dei cittadini
Dalla definizione della città come habitat dell’uomo, e peso che ha nelle sue trasformazioni l’appropriazione privata della rendita, nasce il conflitto di fondo che caratterizza la città. Occorre domandarsi se le sue trasformazioni (fisiche, funzionali, proprietarie, fruitive) devono essere dominate dalla logica dell’accrescimento dei benefici economici ottenibili attraverso la loro privatizzazione, oppure da quella del suo miglioramento qualitativo in relazione ai bisogni della società che la abita?
4. Che cosa deve essere la “città dei cittadini?
Se vogliamo combattere davvero la città della rendita non possiamo fermarci agli slogan: dobbiamo raccontare che cosa vogliamo nel concreto. Dobbiamo esprimere un’ immagine chiara di ciò che vogliamo. Proviamo subito a farlo, ma rendiamoci subito conto che il nostro racconto sarà parziale: sappiamo quello che vorrebbero le persone che hanno avuto modo di esprimere le loro esigenze, non sappiamo che cosa vogliono i giovani di oggi, e gli abitanti di domani e come dobbiamo comporre queste esigenze con quelle già note. Proviamo a elencare alcuni requisiti, già emersi nelle esperienze degli adulti e degli anziani, delle donne e dei bambini, degli operai e degli impiegati.
Una città bella perché equa: una città in cui siano presenti tutti i luoghi e i servizi necessari al di là dell’uscio della propria abitazione, distribuiti sul territorio in modo che siano raggiungibili da tutti quale che sia il loro reddito. Una città nella quale , accanto alle aree trasformate e rese artificiali c’è la maggiore quantità possibile di suolo naturale per mantenere l’adeguato approvvigionamento di acqua, cibo, e contatto con la natura. Una città senza barriere né recinti, fisici o sociali che siano: che faciliti le relazioni tra le persone e i gruppi sociali diversi, in cui l’identità delle singole parti non cancelli né impedisca il colloquio tra le diversità, e anzi lo stimoli. una città che consenta agli esseri umani di mantenersi in salute, facendo fronte all’inquinamento sempre più grave e a una produzione di cibo, la cui qualità oggidipende dal quanto ciascunopuò spendere. Una città che consenta agli altri essere viventi, animali e piante, di vivere in armonia con gli umani. Una città capace di razionalizzare la propria produzione di merci per tornare a dare alle merci un valore d’uso più che di scambio e consentire una riduzione degli sprechi e dei rifiuti. Una città capace di decidere del proprio futuro attraverso la pace e il dialogo, seppure lungo e strenuante, e aperta alla collaborazione e cooperazione con i territori vicini e non in competizione con essi.
5. Le regole necessarie per trasformare il territorio
La città e le sue trasformazioni possono essere il risultato di una somma di eventi individuali oppure possono essere guidate da una o più politiche pubbliche. La prima soluzione, almeno a partire dall’epoca dell’affermazione del capitalismo si è rivelata fallimentare.
D’altra parte si è rapidamente compreso che la vita urbana richiedeva una forte integrazione tra la collocazione sul territorio delle diverse sedi per la vita e le attività degli uomini e gli strumenti della connessione fisica.
È nata così l’esigenza di far precedere le singole trasformazioni del territorio (insediamenti residenziali, industriali, commerciali, strutture per i servizi collettivi, infrastrutture per il trasporti delle persone, delle merci ecc.) da un inquadramento complessivo generalmente costituito da una rappresentazione fisica del territorio e delle trasformazioni desiderate) e da un testo normativo, capaci nel loro insieme di trasmettere ordini o divieti ai singoli utilizzatori/trasformatori del territorio.
La prima legge urbanistica italiana degna di questo nome è quella dell’ agosto 1942.
Essa statuiva, o confermava da leggi precedenti, alcuni principi di notevole rilievo, che si sono in gran parte smarriti nel tempo: il primato del pubblico sul privato nelle decisioni sulle trasformazioni del territorio, la multiscalarità, la facoltà del pubblico di espropriare le aree necessarie all’espansione senza riconoscere ai proprietari l’aumento di valore dei loro beni.
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando l’esigenza di ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto e governare la trasformazione della struttura economica da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale, avrebbero richiesto il massimo impiego della pianificazione urbanistica e territoriale, queste invece furono totalmente abbandonate.
La struttura generale della legge è rimasta pressoché immutata, salvo le importanti modifiche intervenute dopo l’istituzione della Repubblica e nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Gli standard urbanistici
Un progresso decisivo nella legislazione urbanistica italiana (purtroppo molto meno nella prassi) è stata l’introduzione degli standard urbanistici: cioè della regola che ad ogni abitante spettasse il diritto di godere dell’uso di una determinata porzione di spazi pubblici e di uso pubblico (6 agosto 1965). Questo evento va segnalato con una forte sottolineatura per molte ragioni:
1. perché è la prima affermazione, nel sistema legislativo italiano, del “diritto alla città” (Henri Lefebvre, 1967), bandiera per i movimenti che a partire da quegli anni hanno operato per il miglioramento della condizione urbana, attraverso la richiesta di servizi e spazi ad uso collettivo ed accessibili a tutti da sottrarre alla logica della rendita;
2. perché è un risultato raggiunto grazie all’incontro fecondo tra forze sociali -esprimenti esigenze diverse (donne, studenti, classe operaia, intellettuali), ma confluenti - di radicali mutamenti nell’organizzazione dell’habitat dell’uomo;
3. perché costituivano un primo passo verso l’affermazione che la città e un “bene” e non una ”merce”, caratterizzata da una logica “comune” e non “individuale;
3. perché poneva alcune basi essenziali per il miglioramento concreto delle condizioni di vita di tutti gli abitanti della città.
6. La città e la società del benessere
Quella che abbiamo sommariamente decritta –e si è affermata in Italia dal dopoguerra in avanti raggiungendo il suo più elevato grado, negli anni Settanta e Ottanta - può essere definita la “città del benessere”. Essa è uno degli elementi di una società che gode anch’essa dello stesso attributo.
Città del benessere e società del benessere sono il frutto della medesima politica, della quale abbiamo a lungo goduto i frutti senza renderci conto che, se ci sono dei frutti, devono esserci delle radici e chi le annaffia e le nutre, a che se in una parte del mondo ci sono dei guadagni in un’altra parte ci sono delle perdite.
Vivevamo nel mondo del capitalismo (quello privato in una parte del mondo e quello di Stato in un’altra: in modo differenziato sotto molti profili al di qua e al di là della “cortina di ferro” e a seconda del differente grado di maturazione del capitalismo e dei suoi conflitti, ma sostanzialmente in modo migliore che nel resto dl mondo.
Là dove si era consolidata la città del benessere, e si abitava meglio, quelle stesse lotte che avevano contribuito a raggiungere questo risultato avevano condotto a ottenere risultati importanti e positivi (per chi poteva goderne) anche su altri terreni: il lavoro, la condizione delle donne, la tutela della salute e della vecchiaia e quella dell’ambiente.
Si trattava della città e della società nelle quali il compromesso tra i diversi gruppi sociali antagonisti (a partire dalle classi) segnava la conclusione di ogni conflitto.
Ma la storia insegna che il sistema capitalistico non è regolato da una logica dialettica perfetta. Il conflitto tra “tesi” e “antitesi” non si risolve in una “sintesi”, che assorbe e compensa gli interessi dell’una e dell’altra: essa si è di fatto risolta non “risolvendo” le contraddizioni, ma “esportandole”.
Ecco allora che, quando il bilanciamento tra la forza contrattuale della classe sfruttatrice nei confronti della classe sfruttata diminuiva, ecco allora che la prima allargava i confini dell’area dello sfruttamento. Ecco allora manifestarsi le varie fasi dello sfruttamento ad altri paesi, altre regioni, e altri settori, prima di allora esclusi, o solo relativamente coinvolti, nell’area del sistema capitalistico.
7. A Lampedusa
Una mattina ci siamo svegliati, e le contraddizioni del nostro modello di sviluppo sono diventate palesi, anche se moltissimi tentano ancora di evitare il confronto con la realtà. Centinaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.
La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perché fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. E’ la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.
Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza in una selva di palazzoni o una marea di villette).
Questo sviluppo, da un obiettivo è diventata una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.
8. I nostri doveri nei confronti del mondo
Il primo passo che dobbiamo compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.
Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.
Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).
Politica estera: una politica indipendente e incerniera sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.
9. Un nuovo modello di sviluppo
Esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.
La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.
Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende. Così come ci sono stati tentativi di riabilitare la parola stessa nei suoi momenti di crisi, per esempio durante il momento di presa di coscienza ambientale, di preoccupazione per la scarsità di risorse e lo sfruttamento sfrenato della natura.
Se questa coscienza ha introdotto l’importante concetto di “limite alla crescita”, la nozione di sostenibilità - che invece ha vinto - ha matrici diverse. Infatti, quest’ultimo concetto è avvolto da una “modernizzazione ecologica”, dove l’innovazione tecnologica riveste un ruolo centrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimento radicale sul limite della crescita si crede fermamente di poter interiorizzare la cura per l’ambiente.
10. Lo sviluppo: una credenza
La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte. Ma, come scrive Gilbert Rist, l’egemonia dello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un’illusione semantica, attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario” che ha trasformato una credenza in senso comune, e facendo credere nella possibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza.
Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree e progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo. Queste contraddizioni non sono esportabili all’esterno del suo core (la società nord-atlantica), ma colpiscono il suo stesso bacino sociale e le misure adottate dai governanti sono tali da aggravare la crisi anziché mitigarne gli effetti.
Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.
Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli. Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.
Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.
11. Una nuova visione del lavoro
Un nuovo modello di sviluppo richiede una revisione del concetto e visione del lavoro.
Nell’economia capitalistica, esiste una immensa quantità di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perché il Mercato non li considera utili (non producono né profitto né rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico, ai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazioni di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche.
Il lavoro è qui inteso come l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere (K. Marx). Il lavoro, quindi, deve essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione soltanto alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.
Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avviene nel sistema capitalistico.
12. E nell’immediato che fare?
In una simile nuova economia la distribuzione delle risorse tra le possibili opzioni alternative avverrebbe (e noi speriamo, avverrà) in modo del tutto diverso che nell’attuale Mercato (l’oligopolio costituito da un gruppo di poche decine di padroni del mondo delle finanze). Ma nel frattempo occorre porsi due domande:
1. come reperire le risorse finanziarie necessarie per soddisfare l’enorme domanda insoddisfatta di lavoro di cui abbiamo detto, retribuendo adeguatamente la forza lavoro che dovrà esservi impiegata?
2. come difendere quello che di positivo è rimasto?
13. La spesa militare come risorsa finanziaria
La risposta alla prima domanda è facile. Basta pensare alla gigantesca mole di risorse impegnata per realizzare opere inutili e spessissimo anche dannose, la cui realizzazione è motivata solo, o prevalentemente, da interessi economici dei promotori e realizzatori. E basta pensare alla quantità di risorse, non solo finanziarie, dissipate per convincere il consumatore che questo prodotto è utile ed è diverso da quest’altro Basta infine alla dimensione degli sprechi causata dalla “obsolescenza programmata” degli oggetti d’uso corrente.
Ma vogliamo porre l’accento su un’altra spesa gigantesca, e per di più terribilmente nociva per l’umanità: le spese militari.
L’Italia nel 2017 spenderà per le forze armate almeno 23,4 miliardi di euro (64 milioni al giorno), più di quanto previsto. Quasi un quarto della spesa, 5,6 miliardi (+10 per cento rispetto al 2016) andrà in nuovi armamenti (altri sette F-35, una seconda portaerei, nuovi carri armati ed elicotteri da attacco) pagati in maggioranza dal ministero dello Sviluppo economico, che il prossimo anno destinerà al comparto difesa l’86 per cento dei suoi investimenti a sostegno dell’industria italiana. La sovrapposizione delle competenze di due ministri (Difesa e Sviluppo economico) aiuta a comprendere le ragioni dell’opacità delle informazioni provenienti dalle fonti ufficiali italiane (I dati che qui riportiamo provengono dall’istituto di ricerca svedese SIRTI).
Le spese militari italiane sino in aumento costante dal 2.000. Nell’ultimo decennio italiane sono cresciute del 21 per cento – del 4,3 per cento in valori reali – salendo dall’1,2 all’1,4 per cento del Pil.
Il 70 % della spesa è costituita dalle spese per il personale, in massima parte costituito da graduati. Ciò aiuta a comprendere l’ampiezza del blocco sociale favorevole al mantenimento della spesa militare ai suoi attuali livelli. C’è infine da osservare che gran parte della spesa per armamenti l’Italia è tributaria di fornitori stranieri.
Questi dati (cui bisognerebbe aggiungere quelli sui numerosi coinvolgimenti di contingenti militari italiani in guerre in altri paesi) rendono stupefacente il fatto che il tema della lotta per la pace sia scomparso dall’attenzione della sinistra.
14. La pianificazione come tutela della città dei cittadini
In attesa di elaborare e rivoluzionare il sistema economico-sociale in cui viviamo (ciò che significa anche sconfiggere alla radice “la città della rendita”) occorre orientare e plasmare il più possibile il sistema in cui viviamo. Lo scopo è chiaro: una tensione verso la “città dei cittadini” attraverso la difesa delle conquiste sociali già ottenute (ma sempre a rischio), della salvaguardia delle risorse ambientali in cui viviamo sfruttando le conoscenze già in possesso, e una promozione dei valori della pace, partecipazione, e diversità culturale.
Alcune questioni che la pianificazione si deve fare immediatamente carico, sapendo che ciascuna di esse richiede una lotta contro la rendita e i poteri che la difendono:
1. sovranità e qualità alimentare. I cambiamenti climatici in corso e il deterioramento dell’ambiente naturale pone l’alimentazione come una sfida non solo per i paesi poveri, ma anche per quelli ricchi. L’Italia deve difendere la propria relativa autonomia alimentare non come “marchio Italia” ma come pratica per sostenere una popolazione in salute. L’accesso a tutti a una alimentazione sana e di qualità deve diventare una priorità non solo per le politiche sociali, ma anche per le politiche economiche e territoriali. Il “ritorno alle terra” sentito da molte nuove famiglie e individui dovrebbe essere incoraggiato e sostenuto.
2. la salute ambientale, dalla tutela della qualità dell’aria e dell’acqua, alla difesa da erosioni, alluvioni e terremoti attraverso una politica di vera prevenzione e non di emergenza, come quella che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi decenni.
3. Una nuova stagione di politiche pubbliche urbane e territoriali nelle quali siano posti al centro il valore d’uso e un’idea ampia di cittadinanza ponendo l’attenzione sugli standard (aggiornati e ampliati per rispondere ai nuovi bisogni) e al connesso sistema degli spazi e servizi pubblici, nonché sulle “piccole opere” di manutenzione, ri-uso e cura dell’esistente.
IB, ES, 10 novembre 2017