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«Venezia non è dei veneziani, è del mondo» Lo ricordi l'Unesco, che dovrà decidere se lasciare i veneziani della città insulare e della Terraferma arbitri unici del destino della città. È questione di grande rilievo, ma l'arbitro invocato ha il potere di rappresentare il mondo?La Nuova Venezia, 23 Maggio 2017

Si sta avvicinando la data (sarà tra il 2 e il 12 luglio) in cui un’Assemblea generale dell’Unesco dovrà decidere se i propositi del governo italiano e delle amministrazioni locali riguardo al futuro di Venezia sono tali da garantire un’accettabile tutela dei valori storici, culturali e ambientali di Venezia e laguna. Nel frattempo si avvicina la data di un referendum (il quinto) sulla separazione amministrativa dei comuni di Venezia e di Mestre. Le due scadenze ripropongono un problema serio che tocca la gestione dei beni privati o pubblici che possono avere un interesse comune: fino a che punto gli abitanti di un luogo hanno il diritto di farne l’uso che vogliono? Fino a che punto il resto della nazione (o dell’intero pianeta) hanno il diritto di interferire con la volontà e gli interessi di chi in un luogo abita e lavora?

Una giornalista del Guardian inglese mi ha posto pochi giorni fa una domanda che mi viene spesso rivolta: ritengo io che sia giusto separare le amministrazioni di Venezia e Mestre? Naturalmente il problema vero è se sia corretto che gli abitanti della terraferma possano, con la loro maggioranza, interferire sulla gestione della Venezia insulare. Non dovrebbero essere i veneziani che ci vivono a decidere sul numero degli alberghi in città? Ma i veneziani usufruiscono ormai quasi tutti dei proventi del turismo, anche di quello di massa. Se fosse per loro, tutte le case potrebbero diventare di affitto turistico, perché rendono molto, e i loro negozi potrebbero vendere ricordini e maschere da carnevale.
Al Guardian ho detto: Venezia non è dei veneziani, è del mondo. Se io possiedo un quadro di Tiziano, questo non mi autorizza a cambiare le sfumature di un colore o a rimuovere un pezzo della tela: io sono solo il custode di un bene comune. Per la stessa ragione non ho il diritto di mettere un tetto al Fontego dei Tedeschi, che è un edificio del Cinquecento costruito a copia di un caravanserraglio orientale. Ma i veneziani, come si comporterebbero? Sarebbero capaci di andare contro i loro interessi pecuniari immediati in favore di un interesse culturale mondiale? Ne dubito molto. Senza citare gli spropositi del sindaco Brugnaro, basta dare un’occhiata alle delibere del sindaco precedente, Giorgio Orsoni, residente sul Canal Grande: vendite continue di palazzi per uso alberghiero, tolleranza di moto ondoso, proliferare di B&B reali e finti.
Per la tutela dei valori culturali, storici e ambientali sarebbe azzardato rivolgersi ai residenti. I residenti sceglieranno sempre, salvo una minoranza altruistica, le risposte che portano più quattrini nelle loro profondissime tasche. I pretesti e le scuse non mancano, anche fintamente democratici: “Tutto il mondo ha diritto a venire a Venezia, e poi non si saprebbe dove mettere i tornelli, e poi se la casa è mia io l’affitto a chi voglio, e le navi da crociera creano posti di lavoro”.
Allora? Esiste una via per impedire che ignoranza e cupidigia trasformino un patrimonio di bellezza infinita e irripetibile in un ammasso di bancarelle e cartelloni pubblicitari? La risposta: non si può togliere agli abitanti il diritto di legiferare sul territorio, ma si può creare un organismo mondiale che valuti il loro comportamento, che suggerisca soluzioni ai problemi moderni e incoraggi scelte corrette, che metta in primo piano i valori della storia, della bellezza. Un organismo simile, in verità, esiste già ed è l’Unesco, con la sua lista dei beni Patrimonio dell’Umanità. Occorre potenziarlo e farne un vero guardiano dei patrimoni mondiali. Nessuna delibera dovrebbe diventare attiva se non dopo l’approvazione di quell’organismo (pensiamo per esempio all’Arsenale...). Si tratterebbe certamente di una diminuzione di autonomia per gli enti locali. Ma forse l’autonomia bisogna sapersela meritare, e il resto del mondo non può assistere passivamente alla distruzione di una delle testimonianze più alte della sua storia. *

Paolo Lanapoppi è Vicepresidente Italia Nostra, sezione di Venezia

«Mantovani, Fincosit e Condotte contrari al salvataggio per avere più spazio nei futuri (e costosissimi) lavori di mantenimento al sistema di dighe mobili. Stanno tornando i "soliti nomi". la Repubblica, 23 maggio 2017, con postilla

Con il nuovo Piano industriale di Thetis che dovrà essere predisposto per il rilancio della società in base a quanto deciso pochi giorni fa dall’Assemblea dei soci, si riaprono i giochi anche per i lavori e le manutenzioni del dopo-Mose all’Arsenale. Se infatti, sotto la spinta determinante del commissario del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo - con l’appoggio indiretto anche del provveditore alle opere pubbliche Roberto Linetti e del Comune, presente con l’assessore alle aziende Michele Zuin, visto che la partecipata Actv è in Thetis con circa il 6 per cento del capitale - si è fermato lo smantellamento della società di ingegneria e tecnologia ambientale e la deriva dai licenziamenti, l’opposizione arriva dall’interno.

A opporsi infatti all’approvazione del bilancio consuntivo 2016 e soprattutto alla predisposizione del nuovo Piano industriale in assemblee sono state le imprese private storiche del Consorzio, come Mantovani soprattutto, ma anche Condotte e Fincosit che detengono circa il 25 per cento delle quote. Tra i soci, con una quota di minoranza, c’è anche la stessa società dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Ma è soprattutto la Mantovani la più ostile al “salvataggio” di Thetis perché la vede - se rilanciata - come una possibile concorrente nella partita ancora tutta da giocare dei lavori di manutenzione e infrastrutturazione che seguiranno l’entrata in funzione effettiva del Mose.

Per essere in pista, infatti, la Mantovani ha creato da pochi mesi una nuova società: la Sereco (acronimo di Serenissima Costruzioni). Il percorso che ha portato alla nascita della Sereco attraverso il conferimento del ramo d’azienda da parte di Mantovani prevede il trasferimento di 172 lavoratori, più almeno altri 22 tra quelli oggi in Cigs e che hanno sottoscritto il verbale di conciliazione.

Come si ricorderà alla fine dell’anno scorso l’azienda aveva chiesto il licenziamento per 170 lavoratori che poi invece, con mediazione di sindacati e governo erano stati ammessi alla Cassa integrazione straordinaria. La Mantovani ha dunque tutto l’interesse a tirarsi fuori da Thetis avviandola alla messa in liquidazione, per poi candidarsi con la “sua” Sereco ad un nuovo ruolo da protagonista all’Arsenale.

Come la genovese D’Appolonia - che ha avuto tra l’altro l’incarico per la predisposizione del nuovo Piano regolatore del Porto di Venezia, con uno staff di circa 700 tra ingegneri e professionisti, distribuiti in 20 uffici operativi in tutto il mondo - che si era già fatta avanti informalmente per acquistare Thetis, quando la volontà era quella di mettere in vendita la società portata all’Arsenale dalla Tecnomare e poi passata sotto il controllo del Consorzio Venezia Nuova.

postilla


Non si sa quanto questa macchina infernale costerà per essere completata. Non si sa se funzionerà, non si sa quanto costerà per la sua manutenzione. Non si riesce a capire perché nonostante tutto continui a succhiare quattrini. Non sarebbe giunta l'ora di fare un lungo e argomentato elenco di quanti hanno promosso, sostenuto, propagandato questa ignobile truffa, nonostante le reiterate, argomentate, documentate denunce? possibile che nessuno sia mai punito, o almeno additato al pubblico ludibrio, per questa gigantesca truffa?

«Appuntamento il 18 giugno, quando i NoGrandiNavi allestiranno 60 seggi, ambientalisti contro lo scavo del Vittorio Emanuele: “Impatto devastante”». La Nuova Venezia, 21 maggio 2017 (m.p.r.)

«Sarà un mese di “campagna elettorale” serrata: saremo in tutti i mercati, i campi, le feste, le sagre perché non solo il 18 giugno vogliamo vincere, ma vogliamo che la partecipazione sia altissima, per non dare a alibi a nessuno». A parlare è Tommaso Cacciari, portavoce del Comitato NoGrandiNavi, nell’annunciare - nel corso di un’assemblea pubblica in sala San Leonardo - l’appuntamento con il referendum fai-da-te che gli ambientalisti hanno organizzato per domenica 18 giugno.

Il quesito è chiaro: «Vuoi che le grandi navi da crociera restino fuori dalla laguna di Venezia e che non vengano effettuati nuovi scavi all’interno della laguna stessa? ». Tradotto: “No” allo scavo del canale Vittorio Emanuele per portare le grandi navi in Marittima, via Canale dei Petroli e Marghera, al quale stanno lavorando Porto e ministero Infrastrutture, con il sostegno del sindaco Brugnaro, dopo l’arrivo alla presidenza del Porto di Pino Musolino, l’abbandono dello scavo del Contorta prima e del progetto Tresse poi. “Sì”, invece, al progetto firmato da Duferco e Cesare De Piccoli (ieri a San Leonardo), per uno scalo in bocca di porto al Lido, l’unico sinora ad aver ottenuto il via libera dalla commissione Valutazione di impatto ambientale, ma che vede contrario il Porto e il vicino comune di Cavallino Treporti.
«Allestiremo 60 seggi tra Venezia e Mestre e naturalmente lo scrutinio delle schede sarà pubblico, a partire dalle 20, in campo Santa Margherita», prosegue Cacciari, «poi il 24 settembre, ci sarà a Venezia una grande manifestazione nazionale, alla quale hanno già aderito No Tav della Val di Susa e Terra dei fuochi. Sarà una grande festa, se non insisteranno su un progetto deleterio come il Vittorio Emanuele, altrimenti sarà più… incisiva». «Bloccheremo le navi», chiosa Luciano Mazzolin.
Sessantamila euro di multa.

Il Comitato lancia al contempo anche una campagna di raccolta fondi, per pagare le spese legali dei ricorsi contro i 60 mila euro di multa che la Capitaneria di porto ha fatto arrivare ai 30 manifestanti che due anni fa si tuffarono nel canale della Giudecca, bloccando il transito delle navi lungo il canale marittimo. Duemila euro a testa di sanzione già all’incasso, mentre altrettanti sono attesi per una seconda protesta in acqua.
Le ragioni del “no”.

Ieri in sala San Leonardo, il Comitato No Grandi Navi ha poi messo in fila i perché dell’opposizione allo scavo del Vittorio Emanuele, contro il quale è già stato presentato un esposto, chiedendo che il progetto Duferco-De Piccoli vada al Cipe per il finanziamento e la realizzazione. Se il Porto considera lo scavo, la semplice manutenzione di un canale portuale già esistente, gli ambientalisti replicano che risale al 1925, quando le navi erano più piccole e che oggi bisognerebbe scavare sei milioni di metri cubi di fanghi, «con effetti devastanti per la morfologia della laguna per l’erosione dei fondali prodotta dal dislocamento delle navi». Sotto accusa anche la commistione tra navi passeggeri e merci nel canale dei Petroli, il rischio chimico per la vicinanza con la zona industriale interessata dal’impianto Cracking Versalis. Infine, le interferenze con il Mose.

L'Università IUAV di Venezia e il MIT di Boston d'accordo con il condono permanente della legge Falanga e per la sanatoria dell'abusivismo del MoSE.«Accordo tra università di Architettura e Mit di Boston per riconvertire la distesa di cemento a S. Maria del Mare a Malamocco». La Nuova Venezia, 19 maggio 2017

Venezia. Una distesa di cemento sulla spiaggia di Santa Maria del Mare per costruire gli enormi cassoni del Mose. E un villaggio per gli operai che ci hanno lavorato. Opere impattanti, che dovevano essere smantellate. «È tutto provvisorio, alla fine dei lavori sarà tolto», prometteva allora il padre-padrone del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Al contrario, la grande gettata in cemento è sempre lì – costa troppo smantellarla – e il villaggio diventare qualche altra cosa. Qualcuno già pensava a un possibile villaggio turistico, il primo nell’isola. Dieci anni dopo la costruzione e le polemiche, il commissario del Consorzio Venezia Nuova che si occupa della parte tecnica, l’ingegnere torinese Francesco Ossola, ha firmato una convenzione della durata di tre anni con l’Università Iuav per il riuso di quei luoghi.

Il protocollo d’intesa riguarda una collaborazione tra Iuav e una parte della prestigiosa università di Boston, Il Mit. Una Summer school aperta a studenti e docenti dal titolo «Reinventing places, Venice Mose. Studio in un sito temporaneo tra mare e laguna». Una specie di concorso di idee sul «che fare» di quell’area un tempo tra le più belle della laguna, da quasi dieci anni trasformata in grande cantiere. Prima per la costruzione dei cassoni di fondo, poi per la posa delle paratoie e il montaggio delle cerniere. Adesso adocchiata da Porto e Comune per farci una sorta di «mini off-shore», cioè una banchina per il porto dagli alti fondali. Un nuovo porto commerciale in mare a Malamocco, dunque.
Ma perché la convenzione con Iuav? L’Università di Architettura è stata negli anni tra i consulenti e i collaboratori del Consorzio. Dal Daest di Francesco Indovina ai progetti richiesti agli esperti, alle collaborazioni degli ex rettori Marino Folin e Carlo Magnani, a cui era stato commissionato uno studio per l’«abbellimento» delle opere già realizzate in laguna. Lo scandalo e gli arresti avevano bloccato tutto. E i commissari del Consorzio avevano messo nero su bianco che le spese sarebbero state ridotte e tagliati i costi non direttamente legati alla salvaguardia. Decine di milioni di euro nell’èra Mazzacurati.
Adesso invece si legge nella Convenzione che «il Consorzio Venezia Nuova intende «applicare e sviluppare metodologìe di ricerca nell’analisi delle trasformazioni urbane, con particolare riguardo ai luoghi interessati da cantieri provvisori». Un workshop che dovrebbe servire per pensare, sia pure con anni di ritardo, a come «rimediare» ai danni provocati dai cantieri della grande opera, sanzionati anche dall’Unione europea. Danni che il Consorzio avrebbe dovuto pagare con le opere di compensazione, il cui costo però (circa 500 milioni) è stato messo a carico dello Stato.
«Ma i tempi sono cambiati, questo seminario costerà poco e noi ci proponiamo di parlare con gli abitanti di Pellestrina e di cercare possibili soluzioni progettuali per il futuro di questi luoghi», dice Laura Fregolent, docente Iuav che insieme al rettore Alberto Ferlenga si occupa del progetto. I corsi prenderanno il via il 29 maggio e per ospitare docenti e studenti saranno rimesse a nuovo le casette usate in questi dieci anni per ospitare gli operai dei cassoni del Mose. Ma qualcuno storce il naso. Perché del progetto fanno parte anche esperti del Mit, che vent’anni fa aveva contribuito all’approvazione del progetto Mose con un «panel» di esperti di cui facevano parte anche i veneziani Andrea Rinaldo e Paola Malanotte.

Un autorevole e rispettato amministratore, iscritto al partito di Renzi e Franceschini (il partito preferito nelle parole e nei fatti, dal sindaco Brugnaro), sembra decidere che in un partito così lui non ci sta. La città guadagna una speranza. La Nuova Venezia, 18 maggio 2017

«Se le cose in città vanno avanti così, non rinnoverò la tessera Pd». L’annuncio, accompagnato da una lunga nota polemica e accorata, è del presidente della Municipalità di Venezia Giovanni Andrea Martini e il “cuore” del disagio è per lui la vicenda Grandi Navi a cominciare «dall’accordo annunciato, in occasione della visita del ministro Franceschini, tra Governo, Comune e Autorità portuale per la soluzione del Canale Vittorio Emanuele come scelta risolutiva per il problema delle grandi navi». Ricorda tra l’altro Martini: «Il programma con il quale ci siamo presentati alle elezioni per il Consiglio di municipalità nel 2015 riportava “no agli scavi e fuori le grandi navi dalla laguna”. Lo stesso programma con cui è stata eletta la nostra segretaria comunale nel 2016 parla chiaramente di “niente nuovi scavi in laguna”. Siamo la Municipalità di Venezia, un’istituzione che dal partito deve essere riconosciuta e ascoltata».

E rincara la dose: «Credo che occorra fare chiarezza. Non possiamo che ringraziare la segretaria comunale, attenta e in sintonia su questi temi, ma abbiamo constatato l’assenza al suo fianco dei rappresentanti più vicini a Renzi prima e a Gentiloni adesso. Abbiamo assistito sgomenti all’accordo dichiarato tra Franceschini, Brugnaro e Musolino sul Canale Vittorio Emanuele senza nemmeno un passaggio per il partito locale. Come possiamo riconoscerci nelle posizioni del Pd nazionale che decide senza fare ascolto? È sotto gli occhi di tutti che non c’è alcuna interlocuzione col partito nazionale, che sembra operare senza conoscere, o, peggio, senza essere messo nelle condizioni di conoscere la realtà. A questo punto, un chiarimento è necessario». Manifestando «l’intenzione, se non ci saranno evoluzioni concrete - scrive ancora Martini - di non rinnovare la tessera del partito, di un partito che sembra aver perso o di voler perdere contatto con la realtà locale. Sono certo che tutto si chiarirà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi e questo può accadere se i parlamentari del partito si faranno, cioè, portavoce del malessere della città, se manifesteranno il loro dissenso per la soluzione Canale Vittorio Emanuele e qualsiasi altro canale che possa condurre le navi in laguna».
Getta acqua sul fuoco il segretario comunale del Pd Maria Teresa Menotto: «Comprendo la posizione di Martini, anche se la ritengo un po’ eccessiva. Non c’è dubbio, però, che un maggior dialogo tra Pd veneziano e nazionale, anche con i suoi membri al governo, sia necessario». Più netto il capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi: «I tre punti qualificanti del Pd sulla questione Grandi Navi sono sempre stati la difesa dell’home port di Venezia, la tutela della capacità economica e dei posti di lavoro e la sostenibilità ambientale degli interventi che dovranno superare la valutazione d’impatto. Mi sembra che li stiamo rispettando».

L'edizione online de il manifesto dell'11 maggio rinvia a un articolo del maggio 2016, che ricorda la pesante testimonianza del provincialismo culturale di Venezia. Mentre papa Francesco predica e pratica il dialogo, l'incontro e la sintesi tra le religioni il suo chierichetto Brugnaro (e i suoi referenti nel patriarcato), colgono ogni occasione per ribadire la loro cecità; e noi per ricordarla. il manifesto, 11 maggio 2017

«Biennale Arte. Ultimatum del comune di Venezia contro il padiglione islandese: l'artista Christoph Büchel ha trasformato santa Maria della Misericordia in una moschea e le polemiche in città sono divampate»

«La moschea è chiusa, lì pregavano», ci dice in tono intimidatorio un’anziana signora a cui chiediamo di indicarci la chiesa di Santa Maria della Misericordia. Il padiglione islandese alla Biennale di Venezia invece esiste. Anche se forse resterà aperto ancora per poco. Entro il 20 maggio (2016) gli artisti che hanno realizzato il progetto dovranno presentare al Comune un nulla osta della curia che autorizzi la discussa installazione «in un luogo di culto cattolico» o la chiesa-moschea chiuderà i battenti a pochi giorni dalla sua apertura al pubblico. «Abbiamo seguito alla lettera tutte le procedure come ogni altro padiglione. Questo immobile è di proprietà privata dal 1973», risponde alle accuse uno dei giovani che ha contribuito alla realizzazione dell’opera. Eppure questa moschea è già un caso senza precedenti sulla stampa locale e per i partiti xenofobi che spadroneggiano in Veneto. Quest’opera però va ben oltre le solite puerili polemiche: si tratta di un misto tra arte e religione che sfida i pregiudizi di una città in cui i musulmani hanno sempre avuto il loro spazio mentre ora sono relegati a Marghera e Mestre. Solo lì sorgono le uniche due moschee locali.

«Chiuderemo presto, abbiamo avuto varie visite della polizia», chiosano l’artista svizzero Christoph Büchel e la curatrice Nina Magnusdottir che hanno lavorato al progetto con la comunità islamica locale. Da una chiesa sconsacrata (anche se la curia smentisce), adibita a magazzino, è nata un’installazione magica che sfrutta con intelligenza il corpo della vecchia chiesa, il suo altare e le parti retrostanti, adibite a sala per le abluzioni e ufficio dello sheykh. Soprattutto il venerdì, visitatori musulmani e lavoratori che passano la loro giornata nei negozi veneziani si dirigono verso la moschea-installazione per una preghiera. Per questo l’opera è un successo che va al di là della sua funzione d’uso artistica e acquista valore nello spazio urbano.

«Le polemiche sono alimentate per fare politica», ci spiega uno degli ideatori. All’ingresso dell’antica chiesa, dove già dalla porta si vedono magnifiche calligrafie arabe tra cui i novantanove nomi di dio, chi vuole proseguire la visita verso l’altare deve togliersi le scarpe come in una moschea vera. E così l’islamofobia in Laguna ha preso la forma di scarpe che calpestano i tappeti della moschea e di visitatori che fomentano l’odio in un luogo che riporta in vita una chiesa abbandonata nella città antica di Venezia.

«Già nel Seicento, Venezia era una città aperta al pluralismo religioso, una sala di preghiera si trovava nel palazzo oggi conosciuto come Fondaco dei Turchi», continua l’artista. A pochi passi da qui, a Cannaregio sorge il ghetto ebraico: le restrizioni imposte agli ebrei nel Cinquecento vennero estese negli anni anche ai musulmani. La sfida riguarda non solo Venezia ma anche Reykjavik dove la comunità islamica sta facendo grandi passi avanti per integrarsi nel tessuto urbano.
Questa installazione sfida i limiti dell’arte, denuncia l’arretratezza nell’integrazione di milioni di musulmani in Italia che, anche a Milano, aspettano l’approvazione di gare d’appalto per la costruzione di nuove moschee.

Ogni occasione è buona per privatizzare gli spazi pubblici, oltre ogni decenza. La barbarie non è solo quella che si veste di stracci a uccide con spadoni e scimitarre, è anche quella che indossa abiti scuri e toilettes preziose e adopera come armi le ricchezze accumulate, la volgarità delle messe in scena e la complicità degli amministratori pubblici. La Nuova Venezia , 12 maggio 2017

«Biennale è anche duello di mondanità tra feste, cocktail,cene di gala. Un giardino di limoni e suonatori di tamburi per Pinault,tavole di specchi e peonie per Fendi. Non soloinstallazioni alla Biennale: anche feste, dinner, cocktail».
È l’arteall’ora di cena, o poco prima, ma soprattutto dopo, quando le file degli invitatisi scompongono per ricomporsi altrove, in formazioni inedite, talvolta audaci,in ogni caso biennalesche. A nessuno, infatti, è sfuggita la carezza daasteoridi tra il gruppo Lvmh di Bernard Arnault e François Pinault che si sonospartiti i giorni della settimana (il martedì al primo, ieri sera all’altro) ele celle frigorifere dei fioristi rubacchiandosi disinvoltamente anche qualcheospite.
Il filmato di Manuela Pivatolia
Il sagrato della chiesa di SanGiorgio trasformato in un guardino di limoni sul bacino di Piazza San Marco,per accogliere a rombo dei tamburi (che si sentivano fino in città) gli ospitidella riservatissima festa organizzata da Francois Pinault, in occasione dellaBiennale. L'articolo sulle curiosità, anche mondana, della Biennale

Lì dove, martedìsera, Vuitton ha messo in campo l’artiglieria pesante - la mostradedicata a Pierre Huyghe all’Espace della maison in calle Vallaresso e poi lacena nel Salone da ballo del Museo Correr e quindi un’ultima coppa di champagne(Ruinart) all’ultimo piano del T Fondaco per festeggiare il Padiglione dellaFrancia - ieri sera ha brillato Pinault, che festeggia il suo Damien Hirst, giàda un mese a Palazzo Grassi e Punta della Dogana.
Lì dove il presidente e Ceo di Fendi, PietroBeccari, ha incantato i suoi ospiti disponendoli intorno a due lunghissimitavoli foderati di specchi sui quali si riflettevano i teleri della Scuola diSan Rocco, ilbretone ha risposto prendendosi la FondazioneCini e ha accolto i suoi ospiti a San Giorgio al ritmo prodotto da suonatoribretoni di tamburo: disposti davanti alla chiesa, martellavano su vecchi bidonidi metallo producendo musica e ipnosi.
Lì dove l’uno ha fattodecorare la sala del Tintoretto con una serra di peonie bianche, l’altro harisposto a colpi di agrumi. Sessanta piante diaranci e limoni, disposte su tre file: un corridoio spettacolare per lapasserella degli arrivi.

Erano in 1300, mercoledì sera da Pinault, tra artisti, galleristi, tra cuiGagosian che gli esperti definiscono il più potente al mondo, direttori dimusei, la famiglia al completo con Salma Hayek e Francois-Henri.Charlotte Casiraghi, Farah Diba, Adrien Brody, Bianca Brandolini d’Adda. Pertutti, ostriche e formaggi serviti in cassettine di legno prima, tra suoni diviolini e il confortante calore delle stufe.

Erano in duecento da Fendi, più altri trecentoal Correr, più altri cinquecento al T Fondaco, quindi i conti sono pari. Chi c’era daentrambe le parti dice che non ci sono paragoni, salvo tacere chi dei due abbiasuperato l’altro. L’arte della mondanità, scivolosa anch’essa, esige quel fairplay che consente di fluttuare (fin che ce n’è) da un posto all’altro come soloin laguna è dato di fare. I parsimoniosi non se ne perdono una, oggi conBulgari e Venetian Heritage alle Gallerie dell’Accademia, con l’americano MarkBradford a Palazzo Ducale, a Ca’ Corner della Regina da Prada e, domani, giùnei Piombi del Ducale con lo stilista Domenico Dolce. Stefano Gabbana, invece,resta a casa.
Fra i molti eventi organizzati a Venezia in concomitanza con l’apertura della Biennale d’arte, uno dei più importanti è stato l’inaugurazione di una retrospettiva, dedicata all’artista americano ...(segue)

Fra i molti eventi organizzati a Venezia in concomitanza conl’apertura della Biennale d’arte, uno dei più importanti è stato l’inaugurazione di una retrospettiva,dedicata all’artista americano MarkTobey, presso la Peggy Guggenheim collection. Durante la cerimonia, largo spazio è stato dato all’intervento diFrancesca Lavazza, direttore responsabile dell’immagine del marchio dellaomonima azienda, che ha parlato subito dopo il direttore del museo e prima della curatrice scientifica dellamostra.

La signora Lavazza, che si è presentata come “donna, mecenate e imprenditrice” (equindi in un certo senso simile a Peggy!), ha tenuto a ribadire che la sua ditta non è solo uno sponsor della mostra, che hadefinito “intima ed elegante”, ma un “globalpartner “ della fondazione Guggenheim. Secondo il modello introdotto da Tom Krens, durante la sua ventennale econtroversa direzione che ha trasformato il museo da tempio dell’arte moderna amarchio da sfruttare in franchising in ogni

parte del mondo, il global partner non eroga contributi occasionali per un singolo evento, ma si impegna a una collaborazione a lungo termine, ottenendo in cambio rilevanti benefici in termini di visibilità e di immagine, nonché di uso degli spazi fisici di proprietà della fondazione.

Fra i partners si annoverano grandi corporations come Delta airlines, BMW, Armani e Deutsche Bank. Quando, dopo quindici anni di collaborazione, nel 2014 Deutsche Bank ha disdetto l’accordo, al suo posto è arrivata Lavazza, impegnata sul fronte internazionale in una aggressiva campagna di penetrazione nel mercato nordamericano, e su quello nazionale nel peggioramento delle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti. Lavazza non ha mai reso noto l’entità della donazione/investimento, ma sembra difficile possa trattarsi di cifre molto diverse da quelle erogate da UBS, la banca svizzera altro attuale global partner, e che consistono in quaranta milioni di dollari. D’altronde, come ha detto Francesca Lavazza, che nel 2016 è stata anche “eletta” membro del board dei trustees della fondazione,” se l’Italia è la culla della cultura, Lavazza non può non avere nel proprio DNA una innata sensibilità per l’arte”. E forse è per dare prova di questa sensibilità che nei suoi manifesti pubblicitari deforma quadri come il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo o usa l’immagine dell’edificio di Frank Lloyd Wright come tazzina da caffè e coffee station.

Se la fondazione Guggenheim e la Lavazza s.p.a sono due entità private, due grandi corporations che uniscono le loro forze per aumentare i rispettivi giri d’affari e sono quindi libere di sottoscrivere gli accordi che vogliono, diversa invece è, o dovrebbe essere, la situazione quando uno dei contraenti è una pubblica istituzione, come la fondazione Musei civici di Venezia con la quale Lavazza ha in corso una collaborazione.

L’accordo, sottoscritto nel settembre del 2015, prevede il coinvolgimento dell’azienda nella promozione “sia dei grandi eventi – dal carnevale alle feste del Redentore – sia, più in generale, dell’immagine della città lagunare, che con i suoi straordinari tesori artistici e le sue incomparabili bellezze architettoniche rappresenta un patrimonio unico al mondo”. “Vogliamo contribuire a promuovere un territorio culturale ricchissimo”, aveva dichiarato all’epoca, Francesca Lavazza,

La fondazione Musei civici, oltre a ricevere un contributo destinato ad attività di restauro e conservazione delle collezioni, potrà “associare l’attività museale ad un brand di rilevanza internazionale valorizzando le collezioni e le attività scientifiche” (!), mentre per Lavazza l’accordo sottolinea ulteriormente la volontà di investire in una città “simbolo della cultura e dell’arte italiana nel mondo”. Come immediato ritorno dell’investimento l’azienda aveva ottenuto la possibilità di utilizzare l’area dell’Arsenale nord per attività ed esposizioni temporanee. Ed è alla Tesa 113 dell’Arsenale che, nel 2015, si è svolto “il primo degli appuntamenti che Lavazza offre alla città”, una mostra di “straordinarie fotografie accomunate dal filo conduttore del caffè”.

A buon titolo, quindi, Francesca Lavazza ha potuto concludere il suo intervento alla Guggenheim dicendo «per noi la location di Venezia è molto importante, qui passano milioni di persone alle quali possiamo far conoscere il nostro caffè … grazie a questa mostra, possiamo davvero essere come brand e ambassador della cultura italiana, ma anche offrire il nostro caffè a tutti i visitatori del museo».

Ecco perché i veneziani proprietari immobiliari non sono tanto contrari al turismo che sta cancellando la loro città e cacciando i veneziani non proprietari. la Nuova Venezia online, 6 maggio 2017

Il business Biennale Arti Visive di Venezia è un affare da almeno 30 milioni di euro che «plana» sulla laguna nella settimana d’oro per il turismo culturale. Quella che prenderà il via martedì prossimo – con il primo giorno di vernice di «Viva Arte Viva», l’edizione numero 57 della Mostra internazionale - e si chiuderà di fatto tra sabato e domenica con l’inaugurazione e l’apertura al pubblico

Prezzi invariati ma alti. «I prezzi dei servizi legati alle esposizioni del periodo Biennale sono invariati rispetto a due anni fa - spiega - anche per la decisione coraggiosa della curatrice della Biennale di limitare solo a 23, su oltre un centinaio di richieste, le mostre collaterali, rispetto alle oltre 50 del suo predecessore. Chi non riesce a ottenere il prezioso marchio della Biennale ed è una grossa organizzazione internazionale, molto spesso rinuncia alla mostra». Per concedere il marchio del Leone su una mostra la Biennale chiede circa 23 mila euro (+Iva) e dunque il taglio deciso da Macel (con esclusione anche di esposizioni curate da critici illustri) significa per le casse della Fondazione guidata da Paolo Baratta la rinuncia a qualche centinaio di migliaia di euro. Ma l’affare rimane, con oltre un centinaio di mostre che apriranno dalla prossima settimana e i prezzi restano alti.

Spazi in affitto fino a 50 mila euro al mese. «Ormai si affitta tutto se può avere una disposizione espositiva e una discreta collocazione - spiega De Grandis - e si va dai 10 mila euro al mese per l’affitto di un piccolo negozio ai 50 mila euro per un’esposizione che prenda due piani di palazzo magari affacciato sul Canal Grande. Le chiese usate a fini espositivi costano mediamente circa 20 mila euro al mese. A pesare poi ci sono anche i costi di guardianìa. Una persona regolarmente stipendiata come guardasala per tutta la durata di una mostra durante la Biennale può costare circa 125 mila euro lordi, con un costo medio di 30 mila euro, visto che in genere le persone sono almeno due».

Anche 40 mila euro per le cene di gala. Non è finita, perché un Paese con il proprio padiglione o gli organizzatori di una mostra collaterale devono pensare anche al catering per le inaugurazioni. «Si va dai 3 mila euro circa per chi si accontenta di prosecco e patatine per tutti - spiega ancora De Grandis - a chi spende anche 40 mila euro per una cena di gala in un bel palazzo veneziano». Per una cena da inaugurazione il prezzo a commensale varia dai 60 ai 150 euro in base alle ambizioni di chi ospita.

Fino a 100 mila euro per gli allestimenti. Altra voce che incide sul bilancio di una mostra è quella di trasporti e allestimenti. «Per quelli più spartani e in spazi più ristretti - commenta ancora de Grandis - si possono spendere circa 15 mila euro, che possono arrivare sino a 100 mila per una mostra in grande stile in un grande palazzo, magari allestita da un «team» di esperti. Poi c’è l’immagine e la comunicazione e se ne vanno così dai 15 ai 30 mila euro, anche qui in base alle esigenze di «grandeur», con chi prenota anche le fiancate di vaporetto per farsi pubblicità. Una voce aggiuntiva sono i trasporti passeggeri. I taxi per i giorni della vernice sono già introvabili, prenotati da tempo. Ma chi ne vuole uno fisso a propria disposizione deve mettere in preventivo di spendere circa 150 euro all’ora, e non sono pochi quelli che lo fanno.

Fino a 700 mila euro per partecipare. I conti finali sono presto fatti. «Il costo complessivo della partecipazione di un Paese che si dota di un proprio padiglione alla Biennale - conclude De Grandis - va da un minimo di 100 mila a un massimo 700 mila euro. Un investimento in cui alcuni Paesi orientali da cui pensano di rientrare “imparando” come poi organizzare una Biennale a casa propria, come sta avvenendo. E poi c’è il prestigio di essere a Venezia. Il giro di affari complessivo della settimana della vernice della Biennale? Certamente non inferiore ai 30 milioni di euro, senza contare l’indotto per alberghi, ristoranti e affittanze turistiche». Per questo tutte le categorie, a cominciare dagli albergatori, amano «questa» Biennale.

Dalla miseria intellettuale dei ricchi mercanti costosi schiaffi alla miseria materiale del mondo. «Mostre, installazioni e performance nell’intensissima settimana della vernice Dalla gigantografia di 135 metri quadrati sui migranti al breakfast alla A Plus A». la Nuova Venezia online, 4 maggio 2017

VENEZIA. All’ombra generosa della Biennale arriverà il diamante più raro del mondo, di colore lilla e del valore di due milioni di euro, montato su un anello dal nome che pare quello di un sommergibile - LILAC TI22 - pezzo fortissimo della mostra “Antipode” alla Fondazione Querini Stampalia per soli cinque giorni, dal 9 al 13 maggio.
All’ombra (anche) godereccia della Biennale, l’arte sarà cucinata, servita e mangiata direttamente in galleria, alla A plus A, dove, dal 10 al 12 maggio, dalle 10 alle 12, “The Breakfast Pavillon” offrirà la prima colazione insieme agli artisti Olaf Nicolai, Anne Sophie Berger e Nicole Wermers.
Ogni scusa sarà buona per imbastire mostre, inventare happening, creare eventi, suggerire performance, esibire artisti, invitare gente e sperare di essere invitati, nel delirio che accompagnerà l’apertura della 57 esima Esposizione Internazionale d’Arte (10, 11 e 12 maggio la vernice, cerimonia di premiazione e inaugurazione sabato 13), massima rappresentazione di cultura che si fa salotto, estro e futuro, tutto insieme.
Fioriranno così cose curiose come “Univers” di Flavio Favelli, dall’8 al 14 maggio, un negozio metafisico in Fondamenta Sant’Anna, a Castello; o rassegne che hanno titoli da romanzo, come “Sono stato rapito centinaia di volte” dell’artista Gosha Ostretsov che evidentemente nel frattempo è stato rilasciato visto che lunedì 8 sarà nel giardino di Palazzo Nani Bernardo a ricevere i suoi ospiti.

All’ombra (anche) godereccia della Biennale, l’arte sarà cucinata, servita e mangiata direttamente in galleria, alla A plus A, dove, dal 10 al 12 maggio, dalle 10 alle 12, “The Breakfast Pavillon” offrirà la prima colazione insieme agli artisti Olaf Nicolai, Anne Sophie Berger e Nicole Wermers.
Ogni scusa sarà buona per imbastire mostre, inventare happening, creare eventi, suggerire performance, esibire artisti, invitare gente e sperare di essere invitati, nel delirio che accompagnerà l’apertura della 57 esima Esposizione Internazionale d’Arte (10, 11 e 12 maggio la vernice, cerimonia di premiazione e inaugurazione sabato 13), massima rappresentazione di cultura che si fa salotto, estro e futuro, tutto insieme.

Fioriranno così cose curiose come “Univers” di Flavio Favelli, dall’8 al 14 maggio, un negozio metafisico in Fondamenta Sant’Anna, a Castello; o rassegne che hanno titoli da romanzo, come “Sono stato rapito centinaia di volte” dell’artista Gosha Ostretsov che evidentemente nel frattempo è stato rilasciato visto che lunedì 8 sarà nel giardino di Palazzo Nani Bernardo a ricevere i suStrariperà, esonderà e occuperà un intero campo la più grande immagine mai esposta in laguna - 135 metri quadrati - del fotografo francese Gérard Rancinan, già vincitore di sei World Press Awards e protagonista della mostra “Revolution” negli spazi di Bel Air Fine Art vicino alla Guggenheim. Una fotografia sul tema dei migranti che, sorvolata da un drone, sarà srotolata l’11 alle 11, e si annuncia come pugno nello stomaco.

Tra un padiglione e un invito, s’intrecceranno cose delicate, come la mostra “Veni Etiam, Naturalia e Mirabilia”: il sogno dell’antico sapere - inaugurazione alle 18 del 9 maggio - in parte nello Studio Mirabilia di Gigi Bon, a San Samuele, e in parte in vetrina alla libreria Lineadacqua. O come le sculture fatte con corda di canapa e stoppa dell’artista Laura Rambelli che il 9 maggio, dalle 15 alle 18.30, al Museo Andrich di Torcello, sotto il titolo “Fatalità” si esibirà in una performance con la musica di Naomi Berrill e i costumi di Ilaria Biggi.

E ancora la mostra di Luca Campigotto “Iconic China” a Palazzo Zen, dal 10 maggio; l’installazione “Evocative Surfaces” di Beverly Barkat a Palazzo Grimani, con preview il 9; la mostra “Le Désir” alla Galerie Alberta Pane che inaugura il 12; i tappeti per “Woven Forms” a Palazzo Benzon, dal 9 maggio.

Poi c’è l’arte che si conta: le sette monumentali opere del giapponese Kan Yasuda adagiate sul praticello all’inglese dell’Aman Venice dal 10 maggio; i 650 tubi in alluminio di Emil Lukase e gli 8.500 aquiloni neri di carta e bambù di Jacob Hashimoto dal 12 maggio a Palazzo Flangini, aquilone più aquilone meno.

Strariperà, esonderà e occuperà un intero campo la più grande immagine mai esposta in laguna - 135 metri quadrati - del fotografo francese Gérard Rancinan, già vincitore di sei World Press Awards e protagonista della mostra “Revolution” negli spazi di Bel Air Fine Art vicino alla Guggenheim. Una fotografia sul tema dei migranti che, sorvolata da un drone, sarà srotolata l’11 alle 11, e si annuncia come pugno nello stomaco.
Tra un padiglione e un invito, s’intrecceranno cose delicate, come la mostra “Veni Etiam, Naturalia e Mirabilia”: il sogno dell’antico sapere - inaugurazione alle 18 del 9 maggio - in parte nello Studio Mirabilia di Gigi Bon, a San Samuele, e in parte in vetrina alla libreria Lineadacqua. O come le sculture fatte con corda di canapa e stoppa dell’artista Laura Rambelli che il 9 maggio, dalle 15 alle 18.30, al Museo Andrich di Torcello, sotto il titolo “Fatalità” si esibirà in una performance con la musica di Naomi Berrill e i costumi di Ilaria Biggi.

Un vero gioiello ecosostenibile. Tutti possono goderne: basta pagare 15mila euro per una settimana di relax: solo un decimo del vostro salario, se guadagnate almeno 140 milioni di euro all'anno. Tutti gli altri fuori: vedano con Google earth. la Repubblica online, 26 aprile 2017

La nuova vita di Santa Cristina, isolotto che uno dei discendenti della famiglia Swarowski ha trasformato in un eden di lusso e sostenibilità. Un ritiro che ospita fino a 16 persone, da affittare per intero, a un prezzo accessibile per un gruppo. Per gustare la città dei dogi in una prospettiva slow

Dove la natura incontra il lusso. Questa è l'Isola di Santa Cristina, nuova meta esclusiva vicino Venezia. Un'isola privata che ha l'ambizione di diventare ecosostenibile e completamente autosufficiente in pochi anni. Si trova nella parte nord-orientale della laguna veneta, immersa nel blu. Persino il Carnevale qui può trovare il suo silenzio. Oggi è gestita da Renè Deutch, figlio della seconda moglie del re dei cristalli Swarovski, che ha donato a questo luogo incantato una nuova vita, recuperandone bellezza e risorse. È un business esclusivo che risponde anche alle esigenze del presente: il pianeta, l'ambiente, la qualità della vita e la ricerca della pace interiore. Lui che di yoga se ne intende, ha visto le potenzialità di un luogo perfetto per ritrovare sé stessi e vivere una vacanza in armonia con lo spazio circostante.

Chi subisce il fascino della città galleggiante e dei suoi eventi - dal Festival del cinema alla Biennale d' arte - avrà qui la sua tregua: un ritiro a cinque stelle all’interno di una villa che conta nove camere (due stanze matrimoniali, cinque doppie e due singole), con un bagno personale in legno e marmo. La libreria che raccoglie i testi di viaggio di famiglia, illuminata da un lampadario di cristallo, unico elemento firmato Swarovski. La cucina è aperta alle incursioni dei migliori chef della zona, come Ruggero e Massimiliano Bovo della trattoria Il Gatto Nero, prediletta dai vip. Le location variano tra dentro e fuori: dal grande salone con il camino alla terrazza esterna, fino all’altana dalla quale si può godere della vista di tutta l’isola, consigliata al tramonto. Una grande piscina e il lago attualmente in fase di bonifica, destinato al recupero delle specie ittiche tipiche della laguna, per una pesca ecosostenibile. Tutto intorno il frutteto biologico, ulivi e vigneti, da cui si producono il vino rosso biologico e l’acquavite Ammiana.

Santa Cristina si affitta per soggiorni di minimo tre giorni con un prezzo abbastanza accessibile: duemila euro al giorno per l'uso riservato dell'intera isola. Se si è in sedici, numero massimo del gruppo di persone che possono essere ospitate, il prezzo diviso è di 375 euro a persona, per i tre giorni. Il pacchetto è unico, le camere pertanto non possono essere affittate una per una, come in un normale albergo. L'isola di Santa Cristina mette a disposizione uno yacht privato firmato "Ammiana" (dal nome delle isole dimenticate Ammiana, da cui ha origine Santa Cristina, un tempo sede di monasteri) - che può accompagnare gli ospiti in interessanti escursioni. Nei dintorni ci sono le bellissime e romantiche Burano, Murano e Torcello. Se il cielo è limpido, dalla barca si possono scorgere le Dolomiti. Venezia, con il suo patrimonio artistico, è distante appena venti minuti. Attraversare la laguna, patrimonio Unesco, significa anche osservarne la flora e la fauna: si possono incontrare cormorani e aironi e riconoscere la salicornia, una pianta alta quasi 40 centimetri tipica dei terreni ricchi di sale.

Questa prevalentemente è la vacanza dedicata a chi ama lo yoga, la natura, lo sport, la qualità della vita in generale. Luogo ideale per trascorrere il Natale in tranquillità, location top per matrimoni eco-chic. Anche il birdwatching qui diventa un’avventura extra-lusso, con l’uso dei cannocchiali di casa Swarovski. Un sogno dove l’inconsueto e ricercato equilibrio tra acqua, natura e silenzio si riflettono in un cambiamento interiore, come fosse il risultato di una profonda meditazione.

Secondo uno studio della Università veneta Cà Foscari, questo sarebbe uno dei più suggestivi e incontaminati tratti della laguna: i ricercatori l'hanno definita una interessante "anomalia" ambientale, “una sorta di valle da pesca in miniatura,

localizzata però non nei pressi della gronda, ma in mezzo alla laguna stessa. Secondo gli studiosi, il buon grado di conservazione ambientale, fa di Santa Cristina un luogo di elevato interesse naturalistico e scientifico, nonché un privilegiato laboratorio sul campo tuttora attivo.

Lo scandalo infinito. Ma al di lò del fiume di soldi finiti nel troiaio della corruzione, amcor più grande lo scandalo dell'oceano di soldi dissipato per un'opera inutile e dannosa. L'Espresso, 17 aprile 2017

Dopo le dimissioni il commissario straordinario Magistro si confessa con l'Espresso. E svela il sistema delle dighe mobili: costi aggiuntivi, finanziamenti in ritardo e un processo penale che ha colpito solo la punta dell'iceberg. Risultato? L'inaugurazione slitta almeno a fine 2021

Luigi Magistro, commissario governativo uscente del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), ha tre costole rotte per una brutta caduta. Non c’è molto da fare. Si aggiustano da sole. Nel frattempo, sono dolori. C’è un parallelismo parziale con quello che è stato il lavoro di Magistro negli ultimi due anni e quattro mesi. Anche il Mose presenta guasti e procura dolori. Ma non si aggiusta da solo. Ci vogliono interventi, saldature, sostituzioni. È chirurgia infrastrutturale di precisione e costa soldi. Chi li metterà?

Le imprese socie del Cvn, il Golem privato creato dai soldi pubblici che sta costruendo le dighe mobili a salvaguardia della laguna, non intendono provvedere di tasca propria. Lo Stato latita, paralizzato da due imperativi categorici opposti. Il primo dice: basta emorragie finanziarie in laguna. Il secondo, per dirla con Luciano Spalletti, è: famo ’sto Mose.

Mentre a Roma sfogliano la margherita, Magistro si è dimesso a fine marzo, come ha anticipato la Nuova Venezia. Nelle motivazioni ufficiali date dal commissario c’è scritto «motivi personali», una causale che copre parecchio terreno. Fatto sta che l’ex protagonista di Mani Pulite, colonnello della Finanza, direttore dei Monopoli di Stato e dell’Agenzia delle Entrate, 57 anni, ha quasi finito di lasciare le consegne agli altri due commissari straordinari del Consorzio: Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino, e Giuseppe Fiengo, avvocato dello Stato.

A quanto trapela da ambienti dell’Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, Magistro non sarà sostituito. Accetta di parlare con L’Espresso a una condizione. «Non vorrei che ci fosse una lettura negativa della mia uscita», dice. «I miei due colleghi sono persone molto capaci e ho lavorato benissimo con loro».

Ma se Magistro ha lavorato bene, come ha fatto, è difficile dare una lettura positiva. Nella triade dei commissari era soprattutto lui quello che, per formazione e storia, doveva fermare la corsa dei costi provocata da anni di corruzione. Era il gatto che doveva impedire ai topi di ballare. La controprova è arrivata poche ore dopo le sue dimissioni quando le imprese del Cvn, composto dalla padovana Mantovani, dai romani del gruppo Mazzi e di Condotte e da piccole aziende locali, hanno chiesto allo Stato 366 milioni di costi aggiuntivi. Il motivo? Ritardi nei finanziamenti pubblici.

Non è l’unico contenzioso, tutt’altro. Le stesse imprese che, manager più manager meno, sono responsabili del disastro hanno avviato una decina di liti contro lo Stato e contro i rappresentanti del governo. E viceversa. Soltanto nell’ultimo bilancio, Magistro, Fiengo e Ossola hanno chiesto agli azionisti del Cvn oltre 100 milioni di danni per un lungo elenco di malversazioni, dalle fatture false utilizzate a scopi corruttivi ai 61 milioni di euro per i leggendari massi importati dall’Istria e pagati come pepite d’oro.

«Non so nemmeno io quante cause abbiamo in piedi», dice Magistro. « So che da quando sono commissario i soci del Cvn mi hanno impugnato tre bilanci su tre: 2014, 2015 e 2016. Con i tempi della giustizia italiana ci vorranno dieci anni per sapere se ho ragione io oppure loro. Bisogna chiedersi se questo tipo di intervento dello Stato, in un contesto in cui la funzione pubblica non ha una grande forza, sia efficiente. Una cosa è il commissariamento della Maltauro per l’Expo 2015, con un appalto da 42 milioni di euro che andava portato a termine in tempi rapidi per una manifestazione limitata nel tempo. Altra cosa è il Mose, un sistema enorme, con moltissime imprese e con una prospettiva di gestione a lungo termine».

Una squadra che si vendeva le partite

Cantone ha spiegato con efficacia la posizione del governo sulla vicenda delle dighe mobili a margine di un incontro tenuto a Vicenza che aveva come tema principale il lancio della Pedemontana veneta, un’autostrada da 3,1 miliardi di euro. Il numero uno dell’Anac, negando che ci siano stati contrasti dietro l’uscita di Magistro, ha sottolineato che la priorità è «fare ripartire il sistema» e «siglare un nuovo patto con le imprese». Non sarà semplice.

Magistro è entrato in carica a dicembre del 2014 dopo il commissariamento del Cvn voluto dal governo Renzi sull’onda dei 35 arresti di sei mesi prima e firmato dall’allora prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
Per avere un’idea di quello che è stato il suo lavoro e il suo ruolo bisogna immaginare un allenatore mandato a guidare una squadra di calcio che si vendeva le partite e che deve concludere a tutti i costi il campionato senza possibilità di cambiare formazione, mentre i giocatori fanno causa sia al mister sia a quello che ha messo i soldi: il contribuente, in questo caso.

Non pochi soldi, bisogna aggiungere. Il prezzo delle dighe mobili è arrivato a 5,493 miliardi di euro ma l’insieme delle opere deliberate per la salvaguardia della laguna veneta raggiunge quota 8 miliardi. Di questa somma, restano da investire ancora 500-600 milioni.

Il sistema delle dighe mobili è stato lanciato a fine anni Ottanta, durante la Prima Repubblica. Ma i soldi veri sono arrivati a partire dall’inizio del secolo, con la legge obiettivo del governo Berlusconi e una previsione di completamento nel 2011. Due anni dopo, nel 2013, quando il Mose aveva già sforato la consegna, la magistratura ha incominciato a colpire i protagonisti del sistema, a partire dal manager di Mantovani, Piergiorgio Baita. La seconda ondata di arresti nel 2014, con il coinvolgimento del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, dei politici locali e nazionali e dei controllori del Magistrato alle acque, non hanno certo accelerato i tempi.

Fino allo scorso mese di marzo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio aveva fissato al 30 giugno il termine delle opere alle quattro bocche di porto. Niente da fare anche stavolta.

Pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo cronoprogramma ufficiale, con un annuncio congiunto firmato dai commissari e dal Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto (nuovo nome dato dalla coppia Renzi-Delrio allo storico Magistrato alle acque).

Il termine dei lavori alle bocche di porto è stato spostato in avanti di sei mesi (31 dicembre 2018). La realizzazione degli impianti definitivi passa al giugno 2020 e la consegna delle opere è fissata al 31 dicembre 2021. L’inizio della gestione, che costerà almeno 80 milioni di euro all’anno rispetto ai 20 previsti, parte quindi dal Capodanno 2022.

Sono date attendibili? No, perché al momento mancano 221 milioni sui 5.493 di prezzo chiuso fissato dopo anni di revisioni che hanno più che raddoppiato i preventivi di spesa dai 2,4 miliardi originali. La somma non è stata stanziata nemmeno nell’ultima Legge di bilancio e, se il finanziamento non esiste, le date sono virtuali. In questo modo, lo Stato presta il fianco alle rivendicazioni delle imprese private che possono accollare la colpa dei ritardi alla parte pubblica.

Inoltre, in assenza di una linea di finanziamento per la manutenzione, tutto il sistema rischia di pagare pesantemente in termini di costi aggiuntivi. Un esempio? Le dighe di Treporti sono già in acqua da tre anni e mezzo con una manutenzione prevista ogni cinque anni. È molto probabile che debbano essere revisionate prima che il sistema entri in funzione.
Se entrerà in funzione.

Catastrofe nucleare

Il nuovo rinvio nel completamento del Mose è stato rivelato all’opinione pubblica in poche righe di comunicato che solo i media locali hanno riportato. Ma perché il Mose è in ritardo? Di chi è la colpa e chi dovrà pagare il conto di questo ennesimo rinvio?

Il Mose ad alto rischio può affondare Venezia

Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test

L’attenzione del governo, dal Mit all’Anac, nei confronti del Mose è parsa in calo di recente e questo ha forse influito sulla scelta di Magistro, anche se lui non conferma. Delrio, oberato dalla crisi Alitalia, ha delegato il grosso dei controlli al nuovo Provveditore, Roberto Linetti, nominato alla fine di novembre del 2016. Cantone si è concentrato sullo scandalo degli appalti Consip.
Intanto Magistro e i suoi due colleghi hanno dovuto affrontare la maggiore crisi tecnica da quando si parla di Mose quando L’Espresso ha anticipato la perizia metallurgica firmata dall’ex docente padovano Gian Mario Paolucci per conto del Provveditorato. In nove pagine Paolucci ha esposto i rischi, molto elevati, che le cerniere, lo snodo dove si inseriscono le paratoie applicate ai cassoni, siano danneggiate dal lavoro micidiale dell’ambiente marino.

Magistro, Ossola e Fiengo hanno ordinato una serie di perizie e ispezioni che hanno ridimensionato il problema. In parallelo, è partita una campagna strisciante per dire che la perizia Paolucci è destituita di fondamento, che difetta di informazioni e che, qui si dice e qui si nega, Paolucci ci ha capito poco.

Mose, il gioco trentennale delle perizie

Dopo che l’Espresso ha pubblicato il documento choc che indicava le cerniere delle dighe lagunari a rischio corrosione, i responsabili della grande opera sono corsi ai ripari con una controperizia in tempi record. Una pratica ricorrente nella storia dell'infrastruttura

Il perito metallurgico ferito nell’onore ha incassato con signorilità. Il punto è che, se il perito ha ragione sulle cerniere, è «la catastrofe nucleare», come dice una persona molto vicina al progetto. Non oggi, non domani, forse fra qualche anno, ma il Mose è da buttare.
Politicamente in questo momento nessuno, a destra o a sinistra, si può permettere un disastro che porta la firma congiunta di tutti i partiti esistenti tranne i grillini, troppo giovani per avere partecipato al grande happening lagunare.

Come la stessa perizia Paolucci si augurava, «l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti». Senza mettere in discussione le controperizie, la cronaca non lascia ben sperare. Finora tutto quello che si poteva guastare nel sistema Mose si è guastato.

Il catalogo è questo. I tensionatori si sono già arrugginiti anche se dovevano durare 50 anni e anche se, secondo il professor Ossola, materiali che durano 50 anni non ci sono nemmeno su Marte. Cambiarli tutti costerà 20 milioni. Per sistemare i danni alla porta della conca di navigazione di Malamocco ci vorranno 10-12 milioni di euro. Altri 2 milioni se ne vanno per la lunata del Lido crollata alla prima mareggiata poco dopo il collaudo. Un cassone è esploso nel fondale di Chioggia. Problemi assortiti si sono avuti alle tubazioni e alle paratoie.
Infine, la nave jack-up realizzata dal gruppo Mantovani per trasportare le paratoie in manutenzione dalla loro sede alle bocche di porto al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere e soltanto nelle prossime settimane potrà tornare in azione dopo mesi in officina. Il costo del jack-up è di 52,5 milioni di euro. Il Cvn ne aveva ordinati due (105 milioni in tutto). Il secondo è stato tagliato da Magistro e sarà rimpiazzato da un muletto che costerà intorno ai 10 milioni.

Collaudi e concorsi di colpa

Tutto quello che non ha funzionato era stato regolarmente collaudato dagli esperti convocati dal Ministero delle infrastrutture e pagati decine di milioni.

Sotto il profilo giuridico-amministrativo è un problema gigantesco. Anche se alla conca di navigazione stanno emergendo responsabilità dei progettisti, così come per i tensionatori, il lavoro delle imprese private è passato al vaglio della committenza statale, con esito favorevole.È vero che esistono le coperture assicurative. Ma chiunque abbia avuto un piccolo incidente stradale sa che significa trattare con una compagnia di assicurazioni.

Il vero match è, ancora una volta, fra i commissari del Cvn e i soci del Cvn che, nella peggiore delle ipotesi, puntano a un concorso di colpa. La battaglia sarà durissima e l’ipotesi di Magistro - scontare i costi aggiuntivi dei danni da altre commesse - non sarà di facile realizzazione.

Ma di facile l’allenatore mandato da Renzi, Delrio e Cantone non ha avuto nulla. La squadra gli ha giocato contro fin dall’inizio, chi più chi meno. Fra gli ostili c’è la Grandi Lavori Fincosit del gruppo Mazzi. Con un capitale schermato da due fiduciarie (Istifid e Spafid), dopo l’arresto di Alessandro Mazzi la società si è affidata per qualche mese a un ex boiardo di Stato riconvertito al privato, l’ex Eni, Stet, Autostrade e F2i Vito Gamberale. A gennaio 2016 Gamberale è uscito per cedere il posto all’ex Poste Massimo Sarmi, revocato un mese dopo per incompatibilità con l’incarico alla Milano-Serravalle e sostituito dal manager interno, Salvatore Sarpero.

Più sfumata è la posizione di Mantovani. Il gruppo padovano guidato da Romeo Chiarotto, 87 anni, è stato l’ultimo a entrare nel Consorzio Venezia Nuova rilevando la quota di Impregilo per un prezzo che non è mai stato quantificato in modo esatto. Chiarotto parla di 70 milioni, Impregilo di 50 e nei bilanci della Mantovani se ne vedono 15. Da piccola società di engineering in declino qual era, grazie al Mose Mantovani è cresciuta da 25 miliardi di lire alla fine degli anni Novanta al record di 443 milioni di ricavi nel 2013, seguito dal crollo successivo al commissariamento (186 milioni nel 2015).

Baita, ex azionista di minoranza e manager operativo di Mantovani, è stato il primo a finire agli arresti (febbraio 2013) e il primo a parlare del sistema corruttivo del Mose. Formalmente, è fuori dai giochi intorno al Mose ma forse soltanto formalmente. Chiarotto gli aveva promesso una causa per danni di cui non si è più avuta notizia.

Gestire il mostro

La gestione delle dighe mobili rappresenta un’altra delle difficoltà che la struttura commissariale ha dovuto affrontare senza trovare, al momento, soluzione.

Con Berlusconi al governo, Altero Matteoli al Mit e Galan in regione, il tandem Mazzacurati-Baita aveva predisposto le cose in modo che il business del dopo Mose restasse in house ossia, in parole povere, non uscisse dal perimetro ben presidiato dalle imprese del Consorzio.
Venduta come un affaruccio da poco (20 milioni di euro all’anno che saranno mai?) gestione e manutenzione sono state sottostimate ad arte perché potessero essere affidate alla Comar, un altro consorzio con gli stessi azionisti del Cvn.

Mettere a gara, magari europea, la gestione? Figurarsi. Il principio era che solo i realizzatori delle opere potevano sapere dove mettere le mani alle quattro bocche di porto.

Uno dei primi provvedimenti di Magistro è stato commissariare anche la Comar che, in questo modo, è sostanzialmente uscita dal match. Ma l’idea di conservare la gestione in zona laguna è stata semplicemente trasferita a un’altra società della galassia Cvn. È la Thetis. Controllata dalla Saipem (gruppo Eni) nella fase iniziale del progetto antecedente le privatizzazioni, quando era l’Iri l’azionista di Condotte e nel consorzio c’era ancora Impregilo e non Mantovani, Thetis ha rischiato la chiusura anche quando era pubblica. Poi è stata rilevata dallo studio di ingegneria Mazzacurati e, in fiammante conflitto di interessi, ha prosperato con le commesse che Mazzacurati presidente del Cvn dava a se stesso come proprietario di Thetis.

Mentre Comar aveva pochissimo personale, la Thetis, con sede all’Arsenale, è cresciuta nell’organico fino a oltre 100 dipendenti. Fra questi, c’erano alcuni rampolli illustri come Flavia Cuccioletta, figlia del presidente del Mav Patrizio, che ha patteggiato la pena, o come Eleonora Mayerle, figlia di Giampietro, vice di Cuccioletta.

Magistro puntava a liquidare anche Thetis, dopo Comar. L’obiettivo non è stato raggiunto. Oltre ai figli di padre noto, Thetis ormai è una realtà occupazionale importante, con personale qualificato ed è l’unica società di ingegneria nel centro di Venezia cannibalizzato dal turismo di massa. A difenderla sono intervenuti i sindacati (Filcams-Cgil) e il democrat Nicola Pellicani.

Le mazzette

L’inchiesta penale ha faticato parecchio a districarsi nel sistema delle complicità politiche ad alto livello fra Venezia e Roma. I protagonisti in laguna non andranno neanche a processo. Baita ha patteggiato e, secondo molti, continua a esercitare un ruolo discreto dietro le quinte dell’appalto. Mazzacurati, partito per la California, ha 83 anni ed è stato dichiarato dal medico legale incapace di partecipare al processo a causa di «gravissimi deficit delle funzioni mnesiche a cui cerca di sopperire con la confabulazione ossia inventando la risposta».

Finora fuori dal processo che marcia verso la prescrizione è anche Claudia Minutillo, promossa manager di Adria Infrastrutture dopo essere stata segretaria del governatore forzista ed ex ministro Giancarlo Galan, uno dei pochi condannati eccellenti.

Le cifre sono ancora più eloquenti. A parte gli sprechi e i costi gonfiati che sono ancora da definirsi in termini di danno erariale, il nocciolo finanziario del processo parla di 33 milioni di euro di fatture false utilizzate per tangenti pari a circa metà del valore delle fatture.

Su un investimento pubblico da 8 miliardi di euro, ci sarebbero quindi state mazzette per 15-16 milioni di euro. Più che un processo penale ci sarebbe da distribuire qualche onorificenza al merito di una gestione così onesta, per gli standard nazionali e internazionali. «Credo che queste cifre siano soltanto la punta dell’iceberg», dice Magistro.

Durante la gestione Mazzacurati, il Consorzio produceva costi per circa 40 milioni di euro all’anno scesi a circa un quarto durante la gestione commissariale, con grandi critiche da parte dei soci che hanno accusato i commissari di spendere troppo.

Il solo Mazzacurati, nei suoi anni di regno sul Cvn, ha incassato una somma complessiva di 54 milioni di euro fra emolumenti e una buonuscita da 7 milioni di euro che è anche questa oggetto di contenzioso incrociato fra l’ex presidente, in attesa di ricevere ancora più di 1 milione, e l’amministrazione straordinaria, che vuole farsi restituire tutta la cifra.

Questo elenco di guai senza fine è il motivo per cui gli uomini del governo hanno preferito mantenere le distanze dal Mose, con il risultato forse non voluto di isolare la gestione commissariale. Certo, per l’esecutivo Venezia significa guai. Non a caso il porto offshore per le petroliere, un progetto da 2,2 miliardi di euro già passato per una prima approvazione del Cipe, è stato cancellato dai radar appena uscito di scena Paolo Costa, ex presidente dell’autorità portuale veneziana. «Per fortuna», commenta Magistro. «Il porto offshore non era nemmeno da pensare».

Il commissario uscente chiuderà l’esperienza nei prossimi giorni, subito dopo Pasqua, e si dedicherà a un periodo sabbatico. Il suo commento finale merita di essere riportato. «Quello che ho visto a Venezia non l’avevo mai visto in vita mia. Una spudoratezza totale».
Se lo dice lui.

Durante una conferenza stampa affollata di autorità - sindaco, prefetto, questore, sopraintendenza, giornali locali e nazionali - il 7 aprile 2017 è stato presentato il progetto ... (segue)

Durante una conferenza stampa affollata di autorità - sindaco, prefetto, questore, sopraintendenza, giornali locali e nazionali - il 7 aprile 2017 è stato presentato il progetto per il restauro dei Giardini reali di Venezia, promosso dalla Venice gardens foundation in partnership con assicurazioni Generali.

Il coinvolgimento dei due soggetti privati nell’operazione ha origine in due decisioni adottate dal comune di Venezia, tra il 2014 e il 2015, durante l’amministrazione straordinaria del commissario Vittorio Zappalorto.

La prima è la firma, il 23 dicembre 2014, di un protocollo d’intesa con la Venice gardens foundation onlus un’associazione che “attraverso il sostegno di mecenati” (all’epoca non meglio identificati) si era offerta di occuparsi del restauro dei giardini, dal costo previsto di tre milioni e ottocentomila euro, in cambio della concessione a gestirli per diciannove anni.

L’intesa era stata molto elogiata dai rappresentanti delle pubbliche istituzioni. «Quasi un regalo di Natale per la città» l’aveva definita l’allora sopraintendente Renata Codello che aveva sottolineato «l'affidabilità della fondazione che ha avanzato una proposta di qualità».

La seconda decisione è la chiusura, il 6 marzo 2015, del contenzioso che il comune aveva con Generali, con l’accettazione di fatto di tutte le pretese circa le destinazioni d‘uso delle Procuratie Vecchie - la costruzione di cui la società è proprietaria e che con i suoi centocinquantadue metri di lunghezza delimita l‘intero lato nord di Piazza San Marco - inclusa la possibilità di realizzarvi delle residenze per ricchi, pudicamente denominate foresteria per studiosi.

All’epoca, tra le due decisioni non era emerso nessun collegamento; sembravano solo due dei tanti regali ai privati che ormai non fanno più notizia.

Nel 2016, però, fondazione e Generali hanno sottoscritto un accordo in seguito al quale Generali diventa sponsor unico del restauro dei giardini e mette a disposizione due milioni e cinquecentomila euro per i lavori, mai partiti sebbene l’intesa con il comune ne prevedesse l’inizio nel 2015. Ora i promotori assicurano che saranno completati in tempo per poter partecipare alla prossima Biennale di Architettura, nel 2018.

I termini di questo accordo, che si potrebbe definire una sorta di mecenatismo in subappalto, non sono stati resi noti. Forse i due soggetti privati, l’un dell’altro mecenate, non sono obbligati alla trasparenza, ma lo sono certamente le pubbliche istituzioni grazie alla cui operosità si è arrivati alla situazione odierna e che, invece, non fanno sapere né i criteri in base ai quali il comune ha firmato l’intesa con la fondazione, senza garanzia della effettiva disponibilità dei fondi, né quali benefici la fondazione trasferisce o concede alle Generali in cambio della elargizione in denaro. Nessuna informazione è stata data neppure circa l’eventualità che, in occasione di eventi e cerimonie di rappresentanza, alle Generali sia riservato l’uso esclusivo dei giardini trasformati in prestigiosa porta d’acqua della propria sede.

Al riguardo nulla ha detto Adele Re Rebaudengo, presidente della Venice gardens foundation, che ha calorosamente ringraziato Generali “a nome dei veneziani”. E nulla ha detto Philippe Donnet, amministratore delegato della società, che si è attenuto al ruolo di elegante padrone di casa durante tutta la cerimonia, nel corso della quale, con un’accurata regia i due mecenati, dopo essersi elogiati a vicenda, hanno concesso la parola ai rappresentanti delle istituzioni che hanno fatto a gara nel profondersi in ringraziamenti.

Il direttore dell’agenzia del demanio Roberto Reggi ha esordito dicendo «io rappresento lo stato», ma si è subito corretto aggiungendo «lo stato non ha risorse, quindi grazie al moderno mecenate, grazie a Franceschini, e grazie a Generali».

In quanto rappresentante dello stato, avrebbe dovuto ricordarsi che, dei due milioni e cinquecentomila euro “donati” dalle Generali (cifra inferiore al compenso ufficialmente percepito nel corso del 2016 da Philippe Donnet) il 65 % viene recuperato dalla società come credito d’imposta e il resto è vincolato all’uso deciso dal mecenate. Il che significa che, mentre un contribuente veneziano normale paga l’irpef per comprare armi, l’addizionale regionale per pagare autostrade inutili, l’addizionale comunale per pagare il carnevale e la tassa rifiuti per rimuovere l’immondizia prodotta dai turisti, Generali pagano per mettere a posto il giardino davanti a casa loro. Più che di mecenatismo, quindi, si tratta di un classico esempio di improvement business district, che è il modello a cui ormai si ispirano i pubblici funzionari. Come ha detto la rappresentante della sopraintendenza, infatti, «è stato un percorso molto emozionante, mostra l’importanza del settore privato, è proprio la strada da seguire».

Emozionato si è dichiarato anche il sindaco Brugnaro e molto soddisfatto per il «bel rapporto tra pubblico e privato». Un bel rapporto, grazie al quale il progetto descritto nell’intesa del 2014 è stato in parte modificato, cosicché ora il restauro dei giardini include la costruzione di ventuno (!) bagni. Una dotazione palesemente sovradimensionata per un giardino di cinquemila e cinquecento metri quadrati, ma forse è questo il piano di gestione dei flussi turistici annunciato dal comune.

Sommerso dai ringraziamenti, Donnet non ha risposto come avrebbe fatto Crozza/Marchionne «non voglio che mi si dica grazie», ma ha sottolineato che anche lui si considera cittadino di Venezia, perché vi possiede casa, dando prova di quella concezione medievale della società, secondo la quale il diritto di cittadinanza si basa sulla proprietà, che è il tratto distintivo dei mecenati dei nostri tempi.

Postilla

in fondo, in secondo piano, le arcate delle Procuratie vecchie

La vicenda denunciata da Paola Somma è un anello d’una catena di eventi (criminosi, verrebbe voglia di dire) che inizia da lontano. È utile ricordarle non solo per indicare le responsabilità di chi ha preparato gli eventi che oggi ci colpiscono ma anche per ricordare che la difesa dei patrimoni collettivi richiede un'attenzione continua: ed è anche per questo che ci sforziamo di aggiornare questo sito.

Nella documentazione raccolta sueddyburg il primo anello lo troviamo il 26agosto 2001, in un articolo di Luigi Scano (L’associazione Polis sulle Procuratie vecchie) che denunciava il tentativo delle Assicurazioni generali di utilizzarealcuni piani del complesso della parete Nord di Piazza San Marco per residenze,e racconta gli “errori" della Giunta Massimo Cacciari-Roberto D’Agostinoche, “liberalizzando” il piano regolatore, aprì tra l’altro la strada all’iniziativa delleAssicurazioni. La questione riemerge 14 anni dopo. Lastampa locale dà notizia della riproposizione da parte delle Assicurazioni delloro progetto. Il 9 marzo 2015 Paola Somma domanda,su eddyburg, Di chi èPiazza San Marco? Il 21 Marzo, in una newsletter dell’associazione "Venezia Cambia 2015", Giampietro Pizzodenuncia a sua volta l’iniziativa e riprende l’articolo di Luigi Scano del 2001 (Giùla mani da Piazza San Marco). 1l 25 aprile Enrico Tantucci descrivesu La Nuova Venezia il progetto e riporta la durissima critica di Lidia Fersuoch, (ProcuratieVecchie, spuntano gli alloggi).
Le date successive, e i relativi eventi, sono ancora da scrivere. (e.s.)

Singolare iniziativa dell'università Iuav di Venezia, gestita e partorita durante la recente Biennale di architettura e battezzata oggi, "magna com laude", dal giornale della Confindustria. Una performance splendida per sviluppare il tema drammatico dell'accoglienza. il Sole 24 ore, 3 aprile 2017 , con postilla

Spesso un esperimento virtuoso diventa un bel progetto. Un esempio è Casa Flora (www.casafloravenezia.com), appartamento acquisito da Gioele Romanelli di fianco al suo hotel a Venezia, anch'esso Flora, per farci un spazio nuovo per l'ospitalità. Non un altro albergo però – sarebbe stato il terzo contando anche il Novecento –, non il solito bed and breakfast, piuttosto un appartamento dove sentirsi “veneziani” anche se per poco tempo. Serviva un'idea giovane, fresca, innovativa. E chi, se non degli studenti di design e architettura, poteva suggerirla?

Lo scorso anno, durante la Biennale di Architettura, è stato organizzato un workshop residenziale con sei studenti, due dello Iuav di Venezia, due di Domus Academy a Milano e due della Parsons di New York, i quali, sotto la guida Diego Paccagnella, fondatore di Design-Apart, dell'architetto Matteo Ghidoni e del professor Stefano Micelli, hanno immaginato come trasformare una vecchia casa veneziana in un appartamento moderno e funzionale.

Come prima cosa, hanno suggerito di abbattere le pareti che dividevano gli spazi della zona giorno, per creare un continuum fluido tra salotto e sala da pranzo, con la cucina a vista al centro che ricorda un banco del Mercato di Rialto. La zona notte invece è separata e chiusa dal resto dell'open space. Durante il soggiorno nella casa, i ragazzi hanno visitato alcune aziende partner, tra cui Berto, che ha fatto i letti e i divani, Ex Novo che si occupa di illuminazione e Tm Cucine.
Concluso il workshop con gli studenti, Diego Paccagnella ha ripreso la direzione artistica del progetto coinvolgendo più di 20 artigiani e aziende italiane per arredare la casa. Così Mingardo, recentemente premiato da Wallpaper per un progetto di portabiciclette, ha fatto i guardaroba, le porte in vetro e ferro dei bagni e gli altri oggetti in metallo; Rubelli i tessuti, Xilia le porte e il tavolo da pranzo in radica, Salviati la preziosa collezione di vetri.

Ma si potrebbe continuare a lungo, perché ogni dettaglio è frutto di una ricerca e di una scelta accurata di prodotti italiani, dai cosmetici siciliani Ortigia ai prodotti per i capelli AccaKappa, alle porcellane artigianali Paravicini. Stesso approccio per libri e foto dell'appartamento: i volumi d'arte sono scelti da Bruno, una delle librerie più innovative della città, e le immagini appese, spesso inedite e in bianco e nero, provengono dall'archivio Camera Photo, che ne possiede circa 300mila. Piante e fiori invece non hanno solo funzione decorativa, ma di benessere. Il verde - afferma il fiorista e vivaista Gabriele Bisetto Trevisin che ha curato l'allestimento – assorbe la polvere, l'anidride carbonica, le polveri sottili, migliora persino l'acustica dell'ambiente grazie alla fonoassorbenza. In base alle proprietà, ha scelto piante della famiglia delle aracee, e le ha strategicamente sistemate in soggiorno, in sala da pranzo, nei bagni-serra e persino nei comodini con vaso fatti disegnare da Mingardo perché, al contrario di quel che si crede, addirittura migliorano la qualità del sonno.

Cercare ed esporre l'eccellenza made in Italy in un appartamento è un modo virtuoso per unire ospitalità e design: diventa una show-room da abitare, l'evoluzione della boutique, secondo Paccagnella. Durante il soggiorno a Casa Flora, gli oggetti si usano, si toccano, se ne verifica la funzionalità, si vedono contestualizzati e interpretati, e se piacciono si possono comprare uguali o con le variazioni necessarie.

Gioele Romanelli non voleva creare una dépendance dei suoi alberghi, bensì un luogo dove gli ospiti potessero vivere da veneziani. Ma: dove va un cittadino a fare la spesa o a mangiare bene? Dove fa shopping? Quali sono i ritrovi? Perciò Gioele e la moglie Heiby, che veneziani ricercati sono nella vita quotidiana, hanno selezionato alcune esperienze per gli “abitanti” di Casa Flora. Su richiesta, i fratelli Alberto e Dario Spezzamonte dell'enoteca con cucina Estro preparano a domicilio colazione e pranzi e organizzano corsi per fare il baccalà mantecato, le sarde in saòr e altre ricette tradizionali attualizzate. Insomma all'arrivo, gli ospiti non vengono abbandonati a se stessi, come in una qualunque casa in affitto, ma trovano il taxi di Magillino che li aspetta alla stazione, e una serie di indirizzi collaudati a cui attingere, compreso quello di Gabriele Gemeiner, che viene a casa su appuntamento e fa le scarpe su misura. Senza dimenticare che, scostando le tende, e seduti su una comoda poltrona in vimini, tra le dimore addensate e irregolari, si intravvede il cupolone della Basilica della Salute. Segno che ci si trova nella Venezia più autentica.

postilla

Il progetto è stato elaborato all'Iuav mentre alla Biennale architettura - sia pure nei limiti mercantili della sua gestione - si discutevano progetti ispirati a una visione realisticamente drammatica del mondo di oggi, dei suoi drammi e conflitti, e alla necessità dare risposte alle esigenze dei più poveri, fragili e sfruttati, a partire dagli "sfrattati dallo sviluppo". L'Iuav (o almeno un gruppo dei suoi docenti) stava dalla parte opposta. Evidentemente, in compagnia del Sindaco della loro città l'architetto Luigi Brugnaro, che alla Biennale esponeva il suo progetto dei cento grattaceli a Porto Marghera e nella sua testa preparava già il progetto della "cittadella dei poveri", dove rinchiudere quanti, non essendo benestanti, deturpano con la loro presenza il decoro della città).

A meno che (e in questo caso ci scuseremmo con i promotori dell'iniziativa) non si intenda dare ospitalità ad alcune famiglie siriane reduci dalle macerie di Mossul o di Aleppo, ospitandoli in «una vecchia casa veneziana trasformata in un appartamento moderno e funzionale». (e.s.)

Introduzione ad un lavoro di rigorosa analisi di un fenomeno devastante (per Venezia e non solo), con la proposta dei possibili rimedi. In calce potete scaricare il testo integrale dello studio, aggiornato al marzo 2017

Venezia è una città molto fragile. E’ fragile in senso strutturale perché la sopravvivenza della città costruita sull’acqua richiede la preservazione della laguna che la circonda, ed è fragile nella sua composizione sociale, a causa dell’esodo della popolazione residente. E’ poi fragile perché il patrimonio artistico di cui dispone è molto delicato, deve essere mantenuto e preservato e ciò richiede un grande impegno culturale e finanziario. L’afflusso turistico incentiva l’esodo della popolazione attraverso l’aumento del valore degli immobili; l’esodo è fenomeno di lunga durata, e va affrontato creando condizioni di lavoro e rendendo di nuovo appetibile il vivere in città.


La crescita ininterrotta dei flussi turistici di questi ultimi anni, a livello globale, rende evidente a un qualsiasi osservatore attento che Venezia è una risorsa deperibile il cui uso diventa di fatto “rivale”, nel senso che l’uso di alcuni va a scapito dell’uso da parte di altri e, in questi casi, la soluzione razionalmente più conveniente è quella di introdurre delle limitazioni all’uso della risorsa, renderne l’uso quindi “escludibile”. Si deve fare una selezione se si vuole mantenere la residenza in città.

Una selezione è necessaria anche se può essere difficile in una città come Venezia; si possono fare dei tentativi che vanno gestiti con molta accortezza. Il primo e più facile consiste nel limitare l’accesso alla città in via indiretta, attraverso la costituzione di una ampia zona a traffico limitato e l’istituzione di adeguati parcheggi scambiatori, dove si possa accedere a navette acquee che portino alla città. Questa politica può essere associata alla costruzione di centri di accesso che “anticipino” ai potenziali visitatori aspetti della città rendendo la visita più consapevole e interessante, incentivino l’arrivo di mezzi meno inquinanti (se la politica tariffaria è adeguata) e scoraggino, almeno in parte l’escursionismo di più ridotta permanenza perché comunque allungano i tempi di ingresso.

La gestione degli accessi può generare nuovi introiti (i parcheggi e le infrastrutture connesse) che sono sempre più necessari alla manutenzione della città. Nel seguito queste misure potranno essere rafforzate con una qualche forma di controllo degli ingressi a luoghi simbolo della città, come Piazza San Marco.

Vanno invece fatti pagare i costi collegati al turismo che devono venire internalizzati a livello locale con un efficace sistema di tassazione per cui il turista paga i costi esterni alla stregua dei residenti e si fa carico del mantenimento della città. I turisti che visitano la città in qualità di escursionisti sono difficilmente tassabili; l’unico strumento cui si può fare ricorso è la prenotazione. La prenotazione ha un costo e chi non prenota la visita è fortemente limitato nell’accesso e nell’uso dei servizi (ad esempio il trasporto può divenire molto caro e/o alcuni percorsi possono essere preclusi). Attualmente i turisti escursionisti spendono in città meno di un residente e generano maggiori costi esterni (diseconomie che non vengono pagate).

E’ necessario poi promuovere forme di permanenza di medio periodo che interagiscano con la residenza e creino con essa dei legami positivi; il viaggio e il soggiorno in un'altra città sono ormai scelte di vita usuali da parte delle classi medie occidentali, una irrinunciabile condizione di libertà e di arricchimento. Si deve in altre parole costruire un modello di accoglienza governata che cerchi di intersecare diversi tipi di mobilità della società contemporanea: la mobilità della componente turistica che è necessaria alla vita economica della città, la mobilità delle nuove forme di residenza urbana, la mobilità della componente studentesca che è meno ricca economicamente, ma stabile e aperta alla vita della città, la mobilità dei lavoratori pendolari che pur non pernottando a Venezia costituiscono elementi fondamentali per mantenere in città un moderno ed efficace settore produttivo. Il settore dei servizi deve alimentarsi di eventi culturali, della nautica e dell’acqua, di congressi che interagiscano con lo sviluppo in città, di istituzioni per lo sviluppo dell’istruzione superiore e della ricerca.
A Venezia il turismo non deve essere affrontato come si trattasse di una emergenza che per altro si ripete negli anni. La politica del turismo deve essere fondata su di una strategia consapevole che trasformi il turismo da fonte di conflitto a pilastro dell'economia di una città viva.
Permane ancora il richiamo internazionale della città. In via XXII Marzo si alternano i grandi nomi della moda e del lusso, e tuttavia l’attrattiva della città potrebbe venir meno se il suo spazio non fosse più percepito come l’emblema del bello, ma la città diventasse una qualunque Las Vegas, sempre affollata ma fasulla. Sulla città insistono pressioni molto forti d’interessi privati immobiliari e commerciali che spingono per la trasformazione del centro storico in un insieme di “beni turistici privati” da consumarsi per lo più individualmente. Molti campi, luogo tradizionale di svago dei bambini veneziani e di incontro degli adulti, sono ora appannaggio esclusivo del turismo, le “botteghe” sono trasformate in bugigattoli che vendono souvenir, pacottiglia cinese, pizze al taglio e kebab.

E’ necessario intraprendere una nuova strada. Il governo della città sa che il centro storico di Venezia è un bene unico e quindi non sostituibile, ma deve essere anche consapevole che l’attrattività della città non è garantita: un pasto cattivo, un trasporto pubblico affollato all’inverosimile, servizi inaffidabili e svolti con supponenza deteriorano la qualità del bene Venezia come risorsa economica. La promozione della residenzialità, il mantenimento degli spazi pubblici con la loro diversità, il controllo e la limitazione delle licenze sono tutti provvedimenti che avranno effetti nel medio e lungo periodo, ma che sono necessari per contrastare il rafforzamento della monocultura turistica, e costituiscono la migliore garanzia perché la ricchezza generata dal turismo continui nel tempo. L’attrattività della città è legata all’esistenza di una città viva, non di una città che si sta trasformando rapidamente in un parco tematico, con una qualità dell’offerta in rapido declino.

Qui potete scaricare il file im formato .pdf: Giuseppe Tattara, Per un turismo sostenibile a Venezia

Venduta gratis come Vetrina del "sistema veneto" (esposizioni di automobili sul Canal Grande, decantate dai giornali di ieri) alla trasformazione delle isole, storicamente adibite a spazi e attrezzature comuni) in recinti riservati ai ricchissimi: questo diventa Venezia nell'indifferenza dei suoi abitanti.

Italia Nostra Venezia on line
SANTA CRISTINA,
L'ISOLA EX INCANTATA

La bella isola di Santa Cristina, dietro Burano e dietro Torcello, è da sempre meta di escursioni a remi, a vela al terzo, poi a motore, da parte dei veneziani. Un angolo tranquillissimo di natura veramente lagunare. Troppo bello e troppo lagunare per rimanere a lungo ignorato. Ecco infatti una grande compagnia alberghiera che se n’è accorta. Per 17 mila euro una coppia potrà dimorarci per tre giorni (più altri due in un altro albergo), disturbata solo dalla vista delle “pittoresche” vele colorate dei diportisti locali e da qualche indigeno che laggiù in fondo sta raccogliendo caparossoli o vongole filippine.

L’articolo della Nuova Venezia che riportiamo ricostruisce concisamente ma efficacemente la secolare storia dell’isola. Speriamo soltanto che l’atmosfera incantata dell’insieme sia sufficiente per spingere i piloti di lance e taxi in servizio per l’albergo a moderare la velocità, a far quasi tacere i motori, a non emettere troppi fumi, a non far fuggire tutte le garzette (come sono fuggite dagli alberi in riva alle Vignole, dal Lazzaretto Nuovo, da Sant’Erasmo…).

postilletta
Sembra che Italia nostra si accontenti di poco.


La Nuova Venezia
AMAN, UN RESORT DI LUSSO
NELL'ISOLA DI SANTA CRISTINA

Soggiorno vip: 5 notti a 17 mila euro

Venezia. Anche la piccola isola di SantaCristina, nella laguna nord, diventa ora un resort di lusso “agganciato” all’hotel Aman, il 6 stelle veneziano ricavato sul Canal Grande all’interno di Palazzo Papadopoli - già sede del Provveditorato agli Studi - e dove si sono tra l’altro sposati George Clooney e Amal Alamuddin.

Santa Cristina un tempo era conosciuta come San Marco per via di una chiesa con un monastero di benedettine fondati qui dai Falier (VII secolo). Il nome fu mutato nel 1325, quando vi furono collocate le reliquie dell’omonima santa dopo essere state trafugate da Costantinopoli. Nel 1340, viste le difficoltose condizioni ambientali, alla maggior parte delle monache fu concesso di trasferirsi a Murano. Il complesso continuò in qualche modo a funzionare sino al 1452, dopo che anche l'ultima monaca rimasta, la badessa Filippa Condulmer, passò a Sant’Antonio di Torcello.

Le reliquie di Santa Cristina furono pure portate a Torcello, ma in seguito passarono a San Francesco della Vigna dove riposano tuttora. L’isola fu dunque abitata da alcune famiglie di contadini che la sfruttarono come terreno agricolo.Abbandonata dagli anni Trenta del secolo, l’isola è stata recuperata solo di recente, quando un privato, appartenente alla famiglia Swarovski, l’ha acquistata costruendovi un villino con giardini, orti e valli da pesca. Ora Santa Cristina diventa anche una “dependance” di lusso dell’hotel Aman. Settantacinque acri di aree di pesca biologiche, frutteti e vigneti sono incoronati da una grande villa, con piscina circondata da un deck in legno e vari gazebo, oltre a una altana sul tetto che offre viste panoramiche su un lago privato. Una cappella privata si affaccia su un boschetto abitato da pavoni selvatici, sopra il quale volteggiano uccelli marini. Proposto un soggiorno di cinque giorni - tre notti all’Aman e due a Santa Cristina - a 17 mila 800 euro (+ Iva) per coppia.

«Il progetto Brugnaro-Tacopina è lo stesso che all’epoca non si fece fare all' allora presidente del Venezia, per la netta opposizione del Consiglio comunale all’idea di un centro commerciale privato ». La Nuova Venezia, 17 marzo 2017 (m.p.r.)

Venezia. Che sia la volta buona? Per il sindaco Brugnaro vendere ai privati i terreni del Quadrante di Tessera è l’unica opzione sul tavolo per fare quello stadio di cui si parla da oltre vent’anni: impianto e centro commerciale “Made by Tacopina” e Venezia Calcio, in cambio di soldi per ripianare i debiti dell’immobiliare del Casinò proprietaria dei terreni. Operazione irricevibile per l’opposizione Pd: lo vieterebbe il Piano di assetto territoriale approvato dalla giunta Orsoni. I progetti del Comune. «Sto lavorando con il presidente Tacopina per vendere le aree del quadrante di Tessera dell’immobiliare del Casinò, piena di debiti: i privati fanno stadio, centro commerciale, parcheggi. Non lo facciamo noi, lo fanno loro. Si dice da 20 anni e sto cercando di farlo», ha detto giovedì il sindaco Brugnaro in diretta Facebook, rispondendo alle domande dei redattori della pagina satirica de “Lo Schitto”.

Questione di soldi, chiarisce ora l’assessore al Bilancio e alle partecipate Michele Zuin: «È l’unico progetto fattibile. Cmv, l’immobiliare del Casinò, ha 37 milioni di euro di debiti con il Comune: non ci sono fondi per una nuova sede della casa da gioco e la vendita dei terreni del Quadrante è l’unica soluzione per ripianare i conti e per fare lo stadio. Io l’ho detto da subito che si doveva vendere a fronte dei debiti del Casinò da rilanciare. È anche la Corte dei Conti che ci chiede di tagliare il debito. Ne ho parlato con il sindaco mesi fa, poi è una partita che gestisce esclusivamente lui, in prima persona, con il presidente Tacopina». Questa è l’unica strada individuata dall’amministrazione Brugnaro per far quadrare conti e stadio. Se ne riparlerà tra due settimane, al ritorno del sindaco dal suo viaggio in Brasile.
Il “non si può” del Pd. Ma si può fare uno stadio nel quadrante? No, secondo il capogruppo Pd Andrea Ferrazzi: lo vieterebbero gli strumenti urbanistici e anche l’Ente nazionale per il volo, oltre che l’opportunità politica. «Il Pat, il piano di assetto territoriale, prevede per il quadrante di Tessera una cittadella dello sport e del divertimento, una destinazione direzionale e ricettiva e non è previsto alcun centro commerciale. È escluso perché non ce n’è alcun bisogno: la periferia di Mestre ne è stracolma, hanno impoverito il centro della città», dice Ferrazzi, «lo stesso Pat prevede poi il rilancio del casinò attraverso la realizzazione in quest’area della nuova sede, per renderlo forte e aggressivo sul mercato. Per rilanciare la casa da gioco, strategica per fare cassa per i servizi pubblici, non basta un maquillage, una piccola manutenzione: i casinò funzionano solo all’interno di una cittadella del divertimento». E lo stadio? «Lì non si può fare», insiste il capogruppo Pd, «l’Enac ha già espresso un parere tecnico positivo per il Masterplan 2031 dell’aeroporto, che presuppone vincoli.
Il Quadrante è un’area di pregio, al centro di strade e autostrada, con una fermata Smfr, l’aeroporto, che vale una cinquantina di milioni. La nuova sede del casinò ne costa 20: il Comune venda l’area a privati per realizzare la cittadella, si faccia costruire la nuova sede del Casinò e con la differenza in contanti saldi i debiti della casa da gioco. Il nuovo stadio si può fare sulle aree agricole più a nord: costano molto meno e il Venezia Calcio non dovrà così essere compensato con un centro commerciale del quale non c’è alcun bisogno, anzi».
Ma il Comune può cambiare il Pat: «Tra elaborazione dei progetti, osservazioni pubbliche, risposte alle osservazioni, parere della Regione, voto in Consiglio comunale, nuovo parere in regione passano tre anni». La storia infinita. E si torna alla domanda iniziale: sarà la volta buona? Nella sostanza il progetto Brugnaro-Tacopina è lo stesso che all’epoca non si fece fare all’allora presidente del Maurizio Zamparini, allora presidente del Venezia, prima (sindaco Cacciari) per la netta opposizione del Consiglio comunale all’idea di un centro commerciale privato (di cui poi si è saturata la provincia), poi perché la Regione bocciò il progetto presentato dalla giunta Costa per uno stadio pubblico sull’area, perché non accompagnato da una variante urbanistica. Ne riparlò l’ultima giunta Cacciari con i fratelli Poletti che si dichiaravano «pronti a farlo» e poi sono finiti a processo per bancarotta. Sembrava cosa fatta con la giunta Orsoni e il presidente russo del Venezia Korablin, e anche qui è finita con un fallimento. Ora Brugnaro e Tacopina ci riprovano. e si torna alla domanda iniziale: sarà la volta buona?

La scelta del ministero dell'ambiente: la Laguna sembra salvata dalle manomissioni più pesanti, ma il turismo sregolato di massa continuerà a stravolgere la città storica. Il Sole24ore, 9 marzo 2017

È stato scelto il progetto del nuovo approdo cui far ormeggiare a Venezia le grandi navi da crociera: è il progetto Duferco alla bocca di porto del Lido, a fianco delle paratoie mobili del Mose contro l’acqua alta.

Mesi dopo l’approvazione data al progetto dalla commissione Via, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha firmato il decreto di approvazione ambientale del progetto e ha mandato il decreto al ministro dei Trasporti e infrastrutture, Graziano Delrio, per avviarne la procedura. Costo stimato (con un po’ di ottimismo), 127 milioni. Tempo di costruzione stimato (con un po’ di ottimismo), 2 anni e mezzo.

Inoltre, il ministro Galletti ha bocciato in via formale il progetto concorrente, il cosiddetto Sant’Angelo Contorta e varianti, che era stato proposto anni fa come progetto di riferimento indicato dal Governo e poi era stato modificato con un diverso tracciato dal Comune di Venezia. La questione riguarda le circa 600 grandi navi da crociera che ogni anno entrano in laguna, attraversano il centro città e ormeggiano alla stazione marittima. Quello è l’unico percorso possibile per il pescaggio delle grandi navi moderne attraverso il labirinto di canali che serpeggiano tra i bassifondi della laguna.

Il passaggio di questi colossi del mare è amatissimo dai viaggiatori a bordo e dalle compagnie di navigazione, ma per questioni di gigantismo è odiato da legioni di intellettuali, da coorti di foresti, da quasi tutti i turisti non crocieristi e da diversi abitanti di Venezia.

Nel 2012, Governo Monti, il ministro dello Sviluppo economico, trasporti e infrastrutture era Corrado Passera; quello dell’Ambiente era Corrado Clini. Insieme emanarono un decreto che vieta il passaggio di navi giganti lungo quel percorso, che viene tollerato finché non c’è un’alternativa, alternativa che viene però imposta.

L’Autorità del Porto presentò un progetto sponsorizzatissimo per lo scavo di un vasto passaggio attraverso i bassifondi della laguna per collegare la stazione marittima con il mare aperto attraverso la bocca di porto di Malamocco. Il Comune si aggregò con una variante: il canale avrebbe sfiorato il polo industriale di Marghera.

Un politico storico del Pd veneziano, Cesare De Piccoli, insieme con l’azienda siderurgica e ingegneristica Duferco propose invece un terminale nuovo al limite fra laguna e mare, fuori dalle dighe del Mose, da collegare con la stazione marittima con vaporini a basso impatto ambientale per far arrivare crocieristi e valigie.

Questi e altri progetti furono sottoposti al vaglio della commissione di Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente che promosse solamente il progetto Duferco.

Promozione e bocciature sono rimaste nel cassetto fino all’altro giorno, quando le acque sono state mosse dall’interrogazione parlamentare del senatore veneziano Felice Casson (Pd). Ieri Delrio ha detto che con i ministri Dario Franceschini (Beni culturali) e Galletti «stiamo studiando una soluzione a brevissimo per la regolazione delle crociere a Venezia».

Appena nominato presidente dell’Autorità portuale, il nuovo provveditore al porto Pino Musolino ieri ha espresso perplessità sul progetto approvato dal punto di vista ambientae. Ha detto che la Via è «un requisito di legge, ma è solo un parere sulla compatibilità ambientale, non dà valutazioni di merito. Quelle spettano al Cipe, ai comitati ministeriali, all’Autorità portuale».

Un altro passo per la trasformazione della città in un mosaico di recinti. All’asta per essere "valorizzati " le isole di Sant’Andrea e Vignole, e il vasto complesso dell'Idroscalo. Articoli di Francesco Bottazzo e Alberto Vitucci, Corriere del Veneto e La Nuova Venezia, 10 aprile 2017 (m.p.r.)

Corriere del Veneto
«PROGETTO VENEZIA»
di Francesco Bottazzo

Milano. Fino agli anni Novanta era il luogo dove gli operatori finanziari ci facevano le aste a chiamata, quella Borsa «gridata » che è ancora oggi nell’immaginario collettivo. E non è un caso se in questa stessa sala il governo ha «messo all’asta» la caserma Miraglia delle Vignole, un’isola della laguna veneziana: «E’ un luogo significativo e abbiamo bisogno di trovare investitori», ha spiegato il ministro della Difesa Roberta Pinotti. In realtà l’obiettivo è razionalizzare, ridurre la spesa e valorizzare tutta l’isola. Perché ancor oggi in alcuni edifici ci sono i Lagunari che verrebbero spostati alla caserma Bafile di Mira dove saranno concentrate tutte le funzioni, anche quelle della caserma Matter di Mestre.

«Il sindaco ha accettato il piano a patto che ci rimangano vicini», sorride il ministro. «I lagunari sono i nostri marines e hanno sulla loro divisa il leone di San Marco. Vorrei che con questo accordo le Forze armate si sentissero a casa a Venezia perché per noi la sicurezza è di straordinaria importanza », incalza Luigi Brugnaro. Gli schermi di Palazzo Mezzanotte trasmettono le immagini dell’isola, dell’idroscalo e di quel canale attorno al quale sono stati costruiti tutti gli edifici, alloggi, officine, padiglioni e cavana. Per capire quello che è stato denominato «Progetto Venezia» bastano pochi numeri e un po’ di storia: 197 mila metri quadrati sulla laguna, trenta costruzioni e un canale navigabile di 800 metri di lunghezza e trenta di larghezza (l’idroscalo) da una parte; centro di addestramento militare fin dal 1884, base di partenza degli idrovolanti e di Gabriele D’Annunzio per molte delle sue imprese dall’altra.

Resort e marina la nuova vita dell’isola (ma senza nuovi edifici, i volumi dovranno rimanere quelli di oggi) dopo la gara per la concessione di 50 anni che bandirà Difesa Servizi, la società del ministero che si farà assistere nel ruolo di advisor della Cassa Depositi e prestiti. «Ma sarà un percorso partecipato con una consultazione pubblica per raccogliere idee», precisa Fausto Recchia, amministratore delegato di Difesa Servizi spa. Poi al suono della campanella (l’avvio del bando previsto a giugno) bocce ferme e spazio agli investitori che saranno chiamati a pensare a un’operazione che sfiorerà i duecento milioni di euro. «Venezia può contare su 30 milioni di turisti all’anno, è il posto più sicuro al mondo, ed è molto collegato - riflette Aldo Mazzucco, amministratore delegato della Cdp - Su questi tre pilastri si svilupperà la ricerca di investitori, presumibilmente grandi società di resort che hanno intenzione di puntare su attività convegnistiche e aziende internazionali».

Anche grazie alla posizione privilegiata a dieci minuti dal canale della Giudecca e da una quindicina da Murano. La parola d’ordine e valorizzare: restituire alla fruibilità collettiva luoghi fino a ieri nascosti e chiusi perché occupati dai militari, e far risparmiare il ministero che con l’operazione Venezia riesce a mettere da parte 2,6 milioni di euro all’anno anche grazie alla «chiusura» della caserma Matter di Mestre (con il conseguente trasferimento delle attività a Mira) che verrà modernizzata e probabilmente utilizzata per uffici della Pubblica amministrazione (quali l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza) e case. Il protocollo firmato ieri dal sindaco, dai ministri (Difesa, Infrastrutture e Cultura) e dal Demanio è tra i principali esempi di recupero e «restituzione » al territorio e alle comunità locali di un’area militare di interesse storico-culturale. Il tavolo tecnico costituito subito dopo (e coordinato dal Comune) dovrà individuare le linee guida e le procedure più semplici per eventuali varianti urbanistiche e vigilare sul protocollo.

Gongola il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro quando il ministro ai Beni culturali Dario Franceschini parla di «collaborazioni pubblico-private, riqualificazione dell’esistente e di tutela del patrimonio storico e del paesaggio senza per questo voler dire no a tutto: anche la valorizzazione è una forma di tutela» sottolinea. È la linea su cui si sta muovendo il ministero anche sull’isola di Lazzaretto Vecchio («Stiamo pensando a come intervenire e rigenerare», spiega Franceschini) all’insegna di quello quello che rischia di sembrare uno slogan ma su cui scommette il collega delle Infrastrutture Graziano Delrio. «Venezia deve essere una città viva e abitata, la laguna deve vivere economicamente non solo di turisti». Oggi in mostra c’è la caserma Miraglia delle Vignole, ieri c’era l’isola d Poveglia (su cui l’allora solo imprenditore, e non ancora primo cittadino Luigi Brugnaro aveva previsto un centro per curare disturbi alimentari e un investimento di 40 milioni prima di naufragare sotto le proteste delle associazioni e il dietrofront del Demanio), domani tra gli altri anche gli isolotti (in portafoglio alla Cdp) di Sant’Angelo delle polveri e San Giacomo in Paludo. «Il tema vero del futuro sarà la velocità nel raggiungere gli obiettivi prefissati. La politica, se la vogliamo riformare, deve cambiare ritmo: deve essere meno di parte, più concreta e coraggiosa» sottolinea il sindaco.

La Nuova Venezia
“PROGGETTO VENEZIA”, ALBERGHI NELLE ISOLE
di Alberto Vitucci

«La cosiddetta valorizzazione dei beni demaniali si traduce spesso in una privatizzazione. Con una perdita del bene comune per la collettività».

Un albergo di lusso all’Idroscalo. Resort e casette per turisti nel cuore della laguna, nelle isole di Sant’Andrea e delle Vignole. È questo il destino imminente dei beni demaniali in laguna dopo la firma, avvenuta ieri a Milano del «Progetto Venezia», che riguarda la caserma Miraglia e il complesso dell’isola delle Vignole e di Sant’Andrea, per anni sede dei lagunari.

La chiamano «valorizzazione», in realtà è una privatizzazione di un bene pubblico prezioso, già vista in passato e tentata anche sull’Arsenale dieci anni fa dal governo Berlusconi. Adesso si è mosso mezzo governo Gentiloni per firmare a Milano, nella sede della Borsa italiana, il protocollo d’intesa con il Comune. I ministri della Difesa (Roberta Pinotti), dei Beni culturali (Dario Franceschini), delle Infrastrutture (Graziano Delrio), con il direttore dell’Agenzia del Demanio Roberto Reggi e l’ amministratore di Difesa servizi spa. Fausto Recchia. Insieme al sindaco Luigi Brugnaro.
Cosa succederà al complesso dell’Idroscalo-Sant’Andrea-Vignole? Entro un anno il tavolo tecnico, coordinato dal Comune, dovrà pubblicare il bando per cercare finanziatori del progetto. Si tratta di 197 mila metri quadrati con 43 piccoli edifici da restaurare. Le casette dei militari costruite una trentina di anni fa in riva alla laguna con vista mare, in deroga ai Piani regolatori e alle indicazioni della Soprintendenza. E l’Idroscalo, bacino di 800 metri per 70, ideale per le gare di canottaggio, darsena naturale che non ha bisogno idi interventi per essere «valorizzata». «Il complesso si trova in una posizione privilegiata della laguna», recita il comunicato finale, in perfetto stile da agenzia turistica, «a 10 minuti dal canale della Giudecca e a 15 dalla città (isola, ndr) di Murano, presenta condizioni eccezionali in termini di infrastrutture e spazi navigabili».
Sicuramente un boccone appetibile. Unico modo, dice il sindaco Brugnaro per risollevare l’area che ha bisogno di interventi per 300 milioni di euro. Il Comune riceverà in cambio spazi demaniali come la caserma Matter, mentre i lagunari saranno presto trasferiti nella caserma Bafile a Malcontenta. «Ringraziamo le Forze armate per quello che fanno», ha detto il sindaco. Che ha annunciato: «Con questa operazione riusciamo a valorizzare tre immobili del Demanio e a rinforzare la presenza dei lagunari nel territorio».
Resta il dubbio dello «sviluppo turistico» di un’area tra le più pregiate e belle della laguna. «La presenza del ministero dei Beni culturali è una garanzia», dicono in Comune. Ma sono in tanti a guardare con preoccupazione a quello che si annuncia come un possibile «stravolgimento» di un ambiente unico al mondo. Il Piano regolatore parla adesso di destinazione «turistico ricettiva» per le caserme dell’Idrsocalo. Proprio quello che aveva fatto gridare allo scandalo pochi mesi fa comitati e associazioni su un possibile riuso del Forte di Sant’Andrea. Ma in quel caso non si parlava di albergo, ma di una guardianìa per aprire al pubblico la storica struttura simbolo della Serenissima. La parte nord dell’isola è stata stralciata dal progetto che prevedeva di affidare la gestione del parco alla vicina società della Certosa, unificando Sant’Andrea, Vignole e Certosa con ponti mobili galleggianti.
Adesso i militari hanno deciso, attraverso la società Difesa servizi spa, di «valorizzare» il loro bene. E anche Sant’Andrea e le Vignole est diventeranno presto un’isola turistica. Utilizzo «privatistico» contro cui si batte da anni Italia Nostra anche a livello nazionale. «La cosiddetta valorizzazione dei beni demaniali», aveva detto a un recente convegno il presidente nazionale Marco Parini, «si traduce spesso in una privatizzazione. Con una perdita del bene comune per la collettività».

Facce di bronzo. «Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori, senza gare di appalto, ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare».il Fatto Quotidiano online, 19 febbraio 2017 (p.s.)

Lo scontro avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte.Intanto al processo veneziano hanno fatto irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone.

Come se non fosse successo nulla. Come non ci fosse stato l’allegro balletto del Consorzio Venezia Nuova attorno al Mose, opera da cinque miliardi e mezzo di euro. Come non ci fossero state le accuse di corruzione ai manager delle società che fanno parte della compagine che negli ultimi quindici anni si è spartita i finanziamenti pubblici. Come non ci fosse il commissariamento deciso per bonificare la situazione all’indomani dello scandalo che nel 2014 ha portato in carcere politici, uomini degli apparati dello Stato, tecnici e portaborse.

Le imprese del Consorzio Venezia Nuova chiedono di tornare all’assegnazione diretta dei lavori. Senza gare di appalto. Senza bandi. Senza offerte e ribassi. Ovvero a quel sistema che ha consentito il proliferare del malaffare, per il semplice fatto che non esistevano controlli sulle opere e sui costi, anche perché i vertici del Magistrato alla Acque dell’epoca erano, secondo i corposi capi d’accusa formulati dalla Procura di Venezia, a libro-paga del Consorzio.

In questo tentativo di far tornare indietro la macchina del tempo, le imprese interessate hanno scritto un «Atto di contestazione di inadempimento e intimidazione». Il mittente è il Covela del gruppo Mantovani, di cui è presidente Romeo Chiarotto, titolare del gruppo stesso. Lo ha fatto per conto anche dei consorzi Italvenezia e San Marco, nonché di Astaldi e Itinera.

I destinatari sono i tre commissari Luigi Magistro, Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo, nonché il provveditore interregionale Roberto Linetti (che ha assunto le funzioni dell’ex Magistrato alle Acque), il presidente dell’Anac, l’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone e il prefetto di Roma Paola Basilone, a cui fa riferimento l’amministrazione straodinaria del Consorzio.

La lettera-diffida ricorda che nel 2015 il piano di riparto affidava alle imprese del Cvn lavori per 192 milioni di euro, ma finora ne sarebbero stati assegnati molto meno, circa una novantina. E così le imprese chiedono il rispetto degli impegni presi due anni fa. «E’ una situazione inaccettabile, illegittima, illecita e gravemente lesiva dei nostri diritti».

A sostegno della sua tesi, Chiarotto cita lo statuto del Consorzio che affidava i lavori pro quota-parte alle imprese consorziate.

E cita anche le conclusioni dell’istruttoria europea che una decina di anni fa mise in mora l’Italia per la mancanza di gare pubbliche, salvo poi stabilire che per una serie di interventi andava garantita la continuità ai consorziati, anche perché la responsabilità sul funzionamento dell’opera dev’essere a carico loro. «L’Unione europea – scrive Chiarotto – ha definitivamente escluso che si potesse ricorrere a imprese terze, se non per il subappalto di opere altamente specialistiche per le quali non esistsessero i requisiti tra le imprese consorziate».

Allora la Ue cercò di contemperare una parziale assegnazione diretta con l’obbligo a mettere in gara opere per almeno 720 milioni di euro (obiettivo non ancora raggiunto). Ma se gli appalti tornano ad essere assegnati con il vecchio modus operandi a cui fa riferimento Chiarotto, si riprodurrebbe il meccanismo che tanti guasti ha causato, fino alle aule del Tribunale penale.

E proprio l’Anac, con il commissariamento del Consorzio, voleva porre fine a quel sistema. Anzi, nel 2015 aveva commissariato anche la società Comar, sostenendo che dal 2002 era il braccio operativo del Consorzio per consentire il controllo nell’assegnazione degli appalti. Dopo l’arrivo in autunno a Venezia del nuovo provveditore Linetti, l’ex Magistrato e i commissari avevano progettato di aumentare ancora le quote di lavori da assegnare con gara. Anche per questo Mantovani, Astaldi e Itinera sono uscite alla scoperto.

E’ uno scontro che avviene nello scenario di un commissariamento che le aziende non hanno digerito affatto, perché ha tagliato la catena di potere che orchestrava i grandi affari legati alle paratie mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte. Ma gli arresti hanno costretto le imprese del Cvn a mandare giù il rospo. Adesso, tre anni dopo, cercano di riprendersi parte di quello che hanno perso. Nel Mose del dopo-scandalo ci sono ancora tanti soldi presenti e futuri (ad esempio al gestione del sistema) ed è proprio sulla questione economica che si annunciano gli scontri più aspri.

I commissari hanno deciso da tempo di far causa alle imprese coinvolte nelle inchieste per ottenere un risarcimento di almeno 27 milioni di euro, per inadempienze e pagamenti “in nero”. Si tratta di 18 soggetti diversi, tra cui Mantovani e Condotte. La Procura veneziana ha chiuso da poco il filone di indagine relativo alla vicenda Mose che vede coinvolte direttamente otto imprese (e non le persone fisiche) che hanno lavorato alle barriere mobili o alle opere accessorie per non aver controllato i loro manager che pagavano tangenti per sostenere l’opera a livello politico.

Intanto il processo che si sta svolgendo a Venezia entra in una settimana cruciale. Giovedì l’interrogatorio di due imputati eccellenti, l’ex ministro Altero Matteoli e l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. E nel dibattimento fanno irruzione le agende di Giovanni Mazzacurati. Erano in un magazzino del Consorzio, dentro uno scatolone. Contengono le annotazioni di tutti gli appuntamenti dell’ingegnere, già presidente del Cvn e grande regista della corruzione. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, ma anche gli avvocati difensori vi cercano conferme o smentite di incontri e frequentazioni in odore di tangenti.

Riferimenti

Vedi su eddyburg l'articolo di Armando Danella Venezia, il rischio MoSE, che racconta fatti clamorosi che tutti fanno finta di non conoscere. Inoltre i numerosi articoli nelle cartelle dedicate al MoSE nel vecchio e nel nuovo archivio.

«Flash mob di un gruppo di circa 150 persone residenti a Venezia che, con la maschera da Panda, hanno manifestato per la salvezza della città e criticando un Carnevale che, lamentano, è diventato solo una macchina spenna-turisti.». La Nuova Venezia, 17 febbraio 2017 (p.s.)

I veneziani non vogliono essere una specie in via di estinzione come il panda gigante. Alla vigilia dell'avvio ufficiale del Carnevale, gli abitanti della città lagunare con un flash-mob dal titolo provocatorio «Un pesce di nome panda?» sul sagrato della Chiesa della Madonna della Salute hanno rivendicato il diritto di vivere, e non solo di lavorare, tra calli e campielli, senza subire il peso di un turismo sempre più soffocante.

Centocinquanta persone dai 3 ai 73 anni si sono improvvisate attori, vestiti da panda, per sottolineare, di fronte alla platea internazionale, il diritto economico a poter risiedere in città e a non vedere trasformato ogni palazzo in un nuovo albergo, ponendo fine all'esodo degli abitanti, quantificato in 2,6 al giorno.

Attualmente sono 54.600 i residenti nei sestieri (a fronte dei quasi 175 mila del 1951), mentre risultano 30 mila i pendolari che oggi giorno dalla terraferma giungono in centro storico per prestare la loro opera.

«Facciamo appello alla solidarietà del mondo intero, perché Venezia, con i suoi abitanti e la sua cultura unica, patrimonio dell'umanità - spiega Marco Gasparinetti, uno degli organizzatori dell'evento, promosso dall'associazione 'Veneziamiofuturo' - e non la proprietà privata di qualche lobby».

Un concetto che Gasparinetti chiarisce ulteriormente.«Quello che comincia domani non è più il nostro Carnevale: una macchina mangiasoldi per spennare i turisti undici mesi su dodici: il solo mese di tregua per noi è gennaio - conclude -. Per far girare la macchina mangiasoldi al massimo, bisogna svuotare Venezia dei suoi cittadini e la missione è quasi compiuta. Noi non ci stiamo, non intendiamo rassegnarci a fare le valigie».

La stampa più attenta denuncia i mille pasticci del MOdulo Elettromeccanico Sperimentale, che dovrebbe "salvare" Venezia e la sua laguna. Tutto vero: ma tutti trascurano il rischio più devastante: la risonanza fisica. Ce lo racconta un esperto

Gli ormai frequenti episodi di inconvenienti che si stanno constatando nella fase di realizzazione del Mose rappresentano incidenti di percorso che possono impressionare una opinione pubblica o istituzionale volutamente poco informata ed affascinata da inediti o presunti scoop giornalistici. Una sequenza di notizie che giustamente vengono messe in evidenza da una buona stampa che segnala scenari critici di una attività di cantiere in essere la cui tipologia di incidente può essere ricondotta a correzioni più o meno prevedibili e costose, ma che comunque non scalfiscono l’iter che continuerà a svolgersi con la prosecuzione e conclusione dell’opera.

Sta succedendo, e succederà in seguito, con o senza notizie giornalistiche, azioni della magistratura o controlli amministrativi, quanto era desumibile da tutte quelle critiche scientificamente fondate ed inascoltate esposte fin dal momento del concepimento del Mose (critiche di tipo progettuale, ambientale, procedurale, di cantierizzazione e di gestione) contenute ricordiamo soprattutto nei voti del Consiglio Superiore dei LL.PP (1982 e 1990), nella valutazione negativa di impatto ambientale (1998) e nella forte presa di posizione del Comune di Venezia nel 2006 che questa opera non solo avversava, ma dimostrando tecnicamente i suoi difetti proponeva soluzioni alternative meno impattanti, più funzionali, meno costose, più consapevoli dell’eustatismo in corso e più rispondenti al rispetto di quell’equilibrio idrogeologico ed eco sistemico che gli indirizzi della legislazione speciale indicano.

E va tenuto presente che contemporaneamente a queste connotazioni tecnico-scientifiche cresceva quella vasta area di opinione e di mobilitazione popolare contraria a tale opera che ha conosciuto alti momenti di tensione con occupazioni delle aree di cantiere del Mose, della sede del MAV (Magistrato alle Acque di Venezia), della sala del Consiglio Comunale, delle sede del CVN (Consorzio Venezia Nuova) provocando processi contro i manifestanti con pesanti capi di imputazione. E lo slogan che doveva rivelarsi profetico attribuito al Mose era “ Opera inutile e dannosa utile solo per chi la fa “.

Non c’è da meravigliarsi quindi di cosa ci si può aspettare da una opera di questo tipo, di dimensioni inusitatamente maggiori di quanto avrebbero potuto essere, basata su tecnologie obsolete, concepita con una inutile e pericolosa complessità che ne comprometterà l’efficacia, e con grossi difetti di comportamento dinamico, che ne potranno determinare la perdita di funzionalità operativa. La sua architettura di sistema comporta l’esistenza di una enorme quantità di elementi “ semplici “ interconnessi funzionalmente e soggetti a critiche condizioni ambientali che, nel loro insieme, costituiscono un sistema estremamente complesso, che dovrà operare in situazioni ambientali difficili od estreme, la cui affidabilità necessariamente costituirà un problema nella sua lunga vita operativa e che richiederà una manutenzione continua e costosa. Basti sapere che per garantire la corretta operatività ci sono circa 3000 (tremila) componenti e sottosistemi di comando, controllo, sicurezza e monitoraggio collegati funzionalmente tra loro.

Rimanendo nella logica progettuale del Mose, prescindendo ma confermando che il riconoscimento di quella aprioristica errata impostazione progettuale di carattere idraulico di non voler ridurre permanentemente gli attuali scambi mare-laguna avrebbe impedito la nascita di una simile opera ,si sta assistendo a numerose criticità (paratoie che non si alzano, materiale delle cerniere, detritti nelle sedi di alloggiamento, subsidenza, altezze d’onda che allagano i tunnel, basi di fondazione collassate durante lo zavorramento, ossidazioni delle cerniere/connettori ecc.) che sarebbero tutte meritevoli di approfondimento tecnico che però non è possibile verificare stante la pratica sempre seguita dal CVN e dal MAV di non rendere noti i dati utilizzati durante i lavori di tutti gli elaborati di progetto, con le procedure di analisi, di calcolo, di sicurezza, di collaudo, di certificazione dei materiali ecc, . Sul tema della informazione/trasparenza poi va segnalato che da ormai parecchi anni il Comune di Venezia per precisa volontà politica non si è più dotato di quella struttura della legge speciale deputata a poter fornire alla cittadinanza ogni informazione legata alla salvaguardia ed in particolare a tutto quanto può ruotare attorno al sistema Mose.

Praticamente ancora oggi non è dato conoscere se il progetto esecutivo ha confermato i dimensionamenti del progetto definitivo oppure ci sono state modifiche e di quale entità si tratta; non c’è evidenza delle prove sul modello utilizzate per la progettazione delle paratoie delle tre bocche di porto e di come è stato valutato l’effetto scala ; non sono disponibili i dati del nuovo rapporto meteo che tenga conto della presenza delle lunate aggiunte successivamente al periodo in cui fu redatto il rapporto meteo per il progetto definitivo; non sono noti i criteri di manovra che dovrebbero portare alla decisione di chiusura delle bocche; non si conoscono i costi e le disponibilità finanziarie per la manutenzione e la gestione dell’opera e tanto altro ancora.

Però tutte queste “attenzioni“, questo dilagare di notizie, allarmismi, considerazioni ,smentite,reportage, dichiarazioni, improvvisi interessi sull’andamento dei cantieri del Mose non mettono mai in discussione l’opera, perché alla fine tutto ciò sarà inghiottito e metabolizzato nel proseguimento del Mose.

Si sfugge volutamente da un nodo strutturale che contraddistingue questa opera: affrontare nella sua giusta dimensione quel fenomeno della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza, delle paratoie del Mose. Perché esiste uno studio della società francese Principia commissionato a suo tempo dal Comune di Venezia che ha evidenziato un comportamento di instabilità dinamica della paratoia del Mose che ne impedisce una modellazione numerica ed un dimensionamento affidabile.

Con lo studio di Principia le Autorità competenti sono di fronte alla responsabilità di far continuare l’esecuzione di un’opera la cui funzionalità viene messa in discussione da autorevoli considerazioni tecnico-scientifiche mai smentite.

A fronte di tale studio che viene intenzionalmente omesso dal dibattito nazionale ed internazionale o male interpretato per incompetenza o convenienza si chiede ormai da troppo tempo un approfondimento della materia, quale quella della instabilità dinamica, estrema conseguenza della risonanza sub armonica, il cui riscontro, se esiste come evidenziato dallo studio di Principia nel caso della paratoia del Mose, inficerebbe un’opera interamente finanziata con risorse pubbliche il cui costo di realizzazione sfiora i 6.000 milioni di euro unitamente agli esorbitanti costi di manutenzione e gestione. Praticamente potrà accadere che le paratoie oscillano con ampi angoli facendo entrare acqua in laguna vanificando così l’effetto diga al contenimento della marea.

Se a tutt’oggi questo approfondimento non lo si vuole fare, confronto /verifica che si è insistito doversi fare con tecnici specializzati nella “modulazione numerica di sistemi marini complessi che interagiscono tra loro in moto ondoso “, viene da chiedersi, pensando positivo, se i nuovi gestori del Mose (in primis commissari del CVN e Presidente ex MAV) sono in grado di garantire la discontinuità del tanto vituperato sistema Mose.

Armando Danella 11 febbraio 2017

La forte probabilità di una conclusione catastrofica dell'affare MoSE era stata denunciata da tempo, ma nessuno ha voluto procedere a un confronto serio, delle numerose analisi compiute in più momenti e più sedi. Ed è stato costantemente ignorato il rischio più grave: la "risonanza", un fenomeno che fece crollare ponti. Torneremo sull'argomento. L'Espresso, 5 febbraio 2017

«Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test»

Non serve essere ingegneri. Non serve nemmeno avere giocato al Meccano da bambini per capire l’effetto devastante di un documento intitolato “possibili criticità metallurgiche per le cerniere del Mose”. Sono nove pagine firmate da Gian Mario Paolucci, già docente di Metallurgia all’università di Padova. Il rapporto è stato commissionato dal provveditorato alle opere pubbliche di Venezia, braccio operativo del Ministero delle infrastrutture. L’Espresso è in grado di anticipare i contenuti di un testo che rivela nero su bianco per la prima volta i vizi strutturali delle dighe mobili contro l’acqua alta a Venezia.

I problemi visti finora nelle sperimentazioni, dalla paratoia che non si alza alla proliferazione dei “peoci” (cozze, in veneziano) e parassiti vari sul Mose, sono folklore. Un folklore molto caro, perché richiede extracosti nella manutenzione di un’opera che già in fase di realizzazione ha fatto spendere allo Stato 5,5 miliardi di euro rispetto agli 1,6 miliardi previsti. Ma le criticità denunciate da Paolucci vanno molto oltre l’aspetto finanziario.
La corrosione elettrochimica dell’ambiente marino, come altri tecnici avevano annotato durante i tre decenni dalla prima inaugurazione del prototipo in pompa magna a Riva degli Schiavoni (1988), sta già imponendo un dazio pesantissimo e forse irreparabile sulle parti metalliche saldate ai cassoni in cemento alle quattro bocche di porto della laguna. Le cerniere del Mose, il meccanismo che collega la barriera mobile alla base in cemento, sono ad altissimo rischio (probabilità dal 66 al 99 per cento) di essere già inutilizzabili. Ripescarle per sostituirle o ripararle è di fatto impossibile. In ogni caso, sarebbe costosissimo.

Qualche passo scelto del documento?

«C’è la seria probabilità che la corrosione provochi danni strutturali e dunque il cedimento della paratoia». «Abbiamo l’assoluta convinzione che la protezione offerta dalla vernice non sia totale». La mazzata finale sull’opera da 5,5 miliardi di euro, che il ministro Graziano Delrio vuole inaugurare a giugno del 2018, arriva a pagina cinque.

«Il connettore femmina, dal quale dipende il funzionamento delle barriere mobili, costituisce l’anello debole dell’apparato a causa di un mancato controllo ispettivo per la sua intera vita di 100 anni, a meno di una laboriosa e costosa manutenzione straordinaria. Inoltre, la necessità di effettuare tale manutenzione verrebbe segnalata da malfunzionamenti causati da danni ormai avvenuti e talvolta irreparabili. Cioè, quando è troppo tardi. In questo caso, l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti».

La parola speranza ricorre un’altra volta nel documento. È una parola meravigliosa in molti contesti, ma poco rassicurante se applicata a un’opera di ingegneria idraulica concepita per proteggere una città patrimonio dell’umanità, non per minacciarla e neppure per distribuire mazzette gonfiando costi, com’è accaduto. E a proposito di preventivi gonfiati, il rapporto del professor Paolucci fa scattare più di un allarme. Durante la fase di sperimentazione, i componenti delle cerniere erano fabbricati con materiali di qualità migliore rispetto a quelli impiegati nella produzione di serie.

Il perno di rotazione sottoposto ai test di laboratorio, per esempio, era fatto di ottimo acciaio prodotto dalla Valbruna di Vicenza e lavorato dalla Focs Ciscato di Velo d’Astico. Invece i perni di serie da installare nelle quattro bocche di porto provengono da impianti dell’Europa dell’Est e presentano una lega diversa da quella del prototipo.

Acciaio depotenziato? La risposta spetta ai tre commissari governativi (Luigi Magistro, Francesco Ossola, Giuseppe Fiengo) in carica da due anni alla guida del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), dopo la tabula rasa decisa dal governo sul tavolino di imprese private che si sono spartite i fondi della legge speciale con un uso sistematico di corruzione.

Il processo penale ha stroncato la carriera politica del forzista Giancarlo Galan, governatore regionale per 15 anni e poi ministro, del potente ex assessore Renato Chisso, in un primo tempo confermato da Luca Zaia, e ha coinvolto personaggi del calibro di Altero Matteoli, senatore che ha guidato i ministeri dell’ambiente e delle Infrastrutture, e dell’ex sindaco Paolo Orsoni, accusato di finanziamento illecito e non di corruzione come gli altri.

Guadagnare sott’acqua

La perizia del professor Paolucci è stata ordinata da quello che una volta si chiamava Magistrato alle Acque (Mav), in onore della tradizione antica della Serenissima. Il governo di Matteo Renzi lo ha derubricato a provveditorato alle opere pubbliche dopo lo scandalo delle tangenti del Mose, in onore della tradizione moderna per cui se si cambia nome a un problema il problema è risolto.

I lavori sulle cerniere del Mose sono stati affidati dal Cvn alla Fip di Selvazzano (Padova). L’impresa appartiene al gruppo Mantovani della famiglia Chiarotto, principale azionista del gruppo di aziende riunite nel Consorzio, presieduto da Giovanni Mazzacurati. La realizzazione delle cerniere è stata affidata alla Fip senza gara superando dubbi e critiche di alcuni tecnici che propendevano per le cerniere fuse, più resistenti e durature, invece delle cerniere saldate prodotte dalla Fip. Alcuni tecnici che avevano espresso critiche sono stati allontanati sotto la gestione Mav di Patrizio Cuccioletta, poi accusato di corruzione.

Fino al blitz della Procura, il braccio operativo della Mantovani su incarico del patriarca Romeo Chiarotto è stato Pier Luigi Baita. L’ingegnere veneziano, collaborando con i magistrati dopo l’arresto, ha consentito di scuotere un sistema di potere messo in piedi durante la Prima Repubblica, circa un quarto di secolo prima, e rimasto intatto sotto i governi di qualsiasi orientamento.

Oggi Baita è stato messo da parte e i Chiarotto lo hanno sostituito con l’ex questore Carmine Damiano nel tentativo di scaricare la presunta mela marcia e continuare a fatturare con il Mose. L’affare delle dighe mobili ha trasformato la Mantovani in un gruppo di prima grandezza a livello nazionale, anche se non sempre è andata bene fuori dal Veneto, come si è visto nell’inchiesta sulla piastra per l’Expo 2015 che ha coinvolto l’impresa padovana.

Ma il Mose vale molto di più dell’Expo. Rende in termini di forniture per la costruzione e continua a rendere una volta inaugurato, perché promette altri guadagni con la gestione e la manutenzione, in una banda di oscillazione ancora indefinita tra i 50 e gli 80 milioni di euro all’anno. Nelle previsioni iniziali dovevano essere 20 milioni di euro.

I tre commissari del Consorzio hanno sempre detto che la gestione non andrà in automatico ai costruttori. Di fatto, nel breve termine e con i pasticci tecnici già in corso, non ci sono alternative. E bisogna ricordare che un’altra importante mossa strategica dei commissari governativi, cioè il congelamento dei profitti alle imprese del Cvn in attesa delle decisioni della giustizia, è stata vanificata da una sentenza dell’immancabile Tar del Lazio.

Insomma, se il Mose funziona, bene. Se non funziona, meglio perché ci sarà più manutenzione da fare. Resta sempre più attuale la frase-simbolo coniata dallo spirito brillante di Baita. «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua». Certo, se non funziona affatto o produce danni al delicatissimo sistema lagunare invece di tutelarlo, la questione diventa imbarazzante. La bella opacità dei lavori rischia di trasformarsi in incubo.

Connettore malafemmina

La perizia Paolucci è scritta in modo da essere comprensibile a chiunque e forse proprio la semplicità delle osservazioni è l’accusa più pesante: se un profano può capire il problema, come mai i superesperti non lo hanno capito prima? Ma vediamo di che si tratta.

Il Mose è formato da tre parti principali: i cassoni di ancoraggio in cemento, sprofondati già da mesi alle bocche di porto, le cerniere e le barriere mobili, pronte a sollevarsi per sbarrare la strada all’acqua alta. Per proteggere la struttura dalla micidiale corrosione sottomarina ci sono due sistemi: la verniciatura e la protezione catodica. La verniciatura è soggetta a degrado, scheggiature e danni causati da sabbia e detriti che già si sono verificati. La protezione catodica si realizza attraverso un contatto elettrico con anodi di zinco che si corrodono al posto del ferro e periodicamente vanno sostituiti.

Le cerniere, la parte più delicata, sono dotate di un connettore maschio e di un connettore femmina, due giocattolini da 10 e 26 tonnellate rispettivamente. Il primo è applicato alla barriera e il secondo al cassone. «Paratoia e connettore maschio possono essere riparati e riverniciati con conseguenze solo finanziarie. Il vero problema è il connettore femmina che dovrebbe durare 100 anni senza subire alcuna manutenzione», dice la perizia. Purtroppo, i connettori femmine sono stati tutti inseriti nei cassoni ma «a eccezione di quelli di Treporti, non sono protetti catodicamente perché mancano le relative paratoie dove alloggiano gli anodi di zinco». Il monitoraggio, peraltro, non è stato realizzato neanche a Treporti, dove sono state applicate le paratoie. Nessuno sa se la protezione sia attiva almeno lì.
L’esposizione del connettore femmina («anello debole dell’apparato») alla corrosione a Lido, Malamocco e Chioggia è dovuta ai gravi ritardi nella posa delle barriere che dovevano essere inserite con la nave jack-up, costruita da Comar (Mantovani, Condotte, Fincosit) su progetto Tecnital-Fincosit. Monumento allo spreco da 50 milioni di euro, il jack-up non è mai stato collaudato e giace alla fonda all’Arsenale mentre le dighe vengono applicate con metodi più vecchi, e più lenti.

Processo verso la prescrizione

Oltre a Galan, Baita, Mazzacurati, Orsoni, l’inchiesta penale ha colpito anche il reparto tecnico del ministero delle Infrastrutture, chiamato a vigilare e non soltanto a distribuire incarichi di collaudo per milioni di euro a professionisti e dirigenti statali. I predecessori dell’attuale magistrato alle acque, Roberto Linetti, entrato in carica lo scorso novembre, sono finiti tutti sotto processo. Patrizio Cuccioletta ha patteggiato una condanna a due anni e la Corte dei conti gli ha appena chiesto 2,7 milioni di danno erariale oltre ai 750 mila euro già versati al tribunale penale. Un altro Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva, è ancora a giudizio.

A parte i circa quaranta patteggiamenti, il giudizio contabile potrebbe essere presto tutto quanto rimane della maxi-inchiesta sul Mose e sui manager del Consorzio che sono costati 32 milioni di euro negli anni dal 2005 al 2013. Il record è di 3,2 milioni di emolumenti e lo ha stabilito Mazzacurati nel 2009 cumulando le cariche di presidente e di direttore generale. I tre commissari in carica oggi guadagnano 700 mila euro all’anno in totale.

Il processo penale di primo grado per chi non ha patteggiato potrebbe concludersi in tempi brevi, forse nelle prossime settimane. Ma in appello, a partire dal settembre 2017, scatterà la prescrizione. Fra i salvati, ci saranno Baita, Claudia Minutillo, prima segretaria di Galan e poi manager di Adria infrastrutture (gruppo Chiarotto), e lo stesso Mazzacurati, che non è mai stato nemmeno rinviato a giudizio. L’ex presidente del Consorzio, trasferitosi in California, a quasi 85 anni non sarà in grado di partecipare al dibattimento nemmeno come testimone, essendo colpito da una grave forma di demenza secondo il medico legale Carlo Schenardi. È la conclusione tragica di un’epopea che è nata e rimane sotto una cattiva stella.

«L’idea di eddyburg: raccontare la vitalità veneziana, quella parte della società che non si è arresa, il bisogno di dinamismo di una popolazione trascurata. Abbiamo accennato solo ad alcune realtà associative veneziane: chiediamo l’aiuto dei lettori per arricchire la nostra lista».

«Possiamo salvare Venezia prima che sia troppo tardi?» si chiedeva il New York Times in agosto 2016. Il declino della città amata da gran parte del mondo sembra inesorabile. Le cronache raccontano di una lenta trasformazione verso un parco divertimenti per turisti, ormai perno dell’economia locale. Un’evoluzione che ha suscitato aspre critiche da parte della stampa internazionale e ha portato in luglio l’UNESCO a dare un ultimatum alla città: o si inverte la tendenza o Venezia rischia di non essere più riconosciuta patrimonio dell’umanità. Questo è solo la continuazione di un processo che Venezia vive da decenni e che ha lentamente portato allo spopolamento e alla decadenza della città. Questa tendenza storica si autoalimenta, a causa del continuo emigrare di giovani e famiglie e dall’aumento dei prezzi di case e beni quotidiani. Il processo continua, ma alcuni dei pochi veneziani rimasti tentano di fermare e di spingere indietro.

Nella società veneziana infatti c’è qualcuno che rema controcorrente. «R-esistiamo» diceva lo striscione dei ventenni di Generazione 90. A settembre hanno manifestato insieme a un migliaio di cittadini per dimostrare che la loro pazienza è al limite. Il corteo è stato la valvola di sfogo di una popolazione nuovamente delusa da istituzioni poco lungimiranti, che non immaginano un futuro per Venezia. Un malessere diffuso inonda la città e cresce di giorno in giorno. I pochi veneziani che sono rimasti non vogliono arrendersi alla logica del profitto da turismo imperante in città. Resistono all’esodo che ha portato il numero dei cittadini da 145 mila nel 1960 a meno di 55 mila nel 2016, mentre assistono a giovani coppie costrette a trasferirsi per potersi permettere di comprare una casa.

In città, gli appartamenti vengono affittati a settimana a turisti, un guadagno facile e conveniente, grazie soprattutto ai siti online che permettono di trovare nuovi inquilini ogni giorno. I prezzi gonfiati di negozi e ristoranti rincorrono il turista disposto a pagare più del dovuto e escludono la clientela locale, costretta a frequentare i soliti posti noti solo ai residenti. L’apertura di un nuovo negozio è ormai accolta con diffidenza e rassegnazione dai veneziani, che allo stesso modo scelgono di investire nel profitto più facile: attività rivolte ai turisti. L’apertura di un negozio di souvenir è la normalità, mentre quella di un negozio utile per la vita quotidiana è un miracolo.
I più giovani, già abbattuti dalla situazione nazionale, studiano e cercano lavoro altrove, in città che offrono più speranze di una Venezia che vive solo di attività turistiche e che loro stessi contribuiscono a indebolire. Gli studenti fuori sede che scelgono di studiare nelle famose università veneziane, non hanno i mezzi per fermarsi dopo gli studi: la città non propone agevolazioni negli affitti o sistemazioni apposite, i prezzi della vita sono alti e vi è bassa opportunità di lavoro, data la scarsa presenza di aziende. I veneziani stessi peggiorano questo spopolamento, diventando sempre più arrabbiati e arroganti, scoraggiando l’idea che Venezia sia una città in cui si può vivere, in cui ci si può trasferire e non solo scappare. Queste e altre dinamiche hanno innescato una spirale di rabbia e negatività, accentuata dalla cattiva gestione dell’amministrazione ordinaria e straordinaria dei problemi della città.

La “questione Venezia” è composita: numerosi problemi che devono essere affrontati con approcci diversi. Per questo parte dei veneziani non hanno aspettato una risposta delle istituzioni locali e nazionali, ma si sono attivati personalmente per tentare di riempire quel vuoto lasciato dalle istituzioni e da chi ha la responsabilità di cambiare le cose. Una vitalità alternativa è nata dall’esigenza: associazioni, gruppi, comitati si sono creati spontaneamente per dare dei segnali. I veneziani che hanno deciso di non arrendersi si sono rimboccati le maniche, hanno organizzato i bisogni, hanno steso statuti di associazioni e gruppi per tentare di migliorare la città.

Salvaguardia della laguna e delle sue tradizioni sono gli obiettivi cardine delle associazioni che tentano di proteggere l’unicità di Venezia e della sua conoscenza marinaresca. Così tre ragazzi con la passione per la voga hanno fondato Venice on board, per dare la possibilità di esplorare la città attraverso i canali in barche tipiche. E la più nota delle barche, la gondola, è protetta da El Felze, associazione dei mestieri che contribuiscono alla sua costruzione: dieci abilità artigianali diverse per comporre il simbolo di Venezia dallo scafo alla forcola, dal remo al fregio dorato. Il Caicio fa delle attività culturali svolte galleggiando sull’acqua il suo scopo primario. L’attività culturale veneziana è portata avanti anche dal Forcolaio Matto, giovane artigiano che nel suo negozio in Strada Nuova intaglia forcole e remi, proseguendo il tipico mestiere del remer. Queste e altre associazioni, come Viva voga Veneta e il Nuovo Trionfo si legano per il recupero delle tradizioni marinare, perché siano vissute così come lo erano in origine, promuovendo la conoscenza genuina dell’ambiente insieme ad un turismo più sostenibile.

Le associazioni agricole fanno del rispetto della Laguna e dei suoi prodotti la loro ragione d’essere. La società agricola La maravegia coltiva ortaggi nell’isola di Sant’Erasmo, ispirandosi al principio del “siamo ciò che mangiamo” e consegnando quotidianamente i prodotti ai clienti. Nella piccola isola si possono trovare anche I sapori di Sant’Erasmo dei fratelli Finotello, che coltivano piccoli orti per garantire ai propri concittadini prodotti gustosi e salutari. Le vigne di Sant’Erasmo sono curate dall’associazione Laguna nel bicchiere che dal 1993 si occupa di vini prodotti a Venezia e dintorni, con scopo didattico per gli studenti. L’obiettivo è quello di insegnare il territorio e i suoi prodotti, perché vengano valorizzati e salvaguardati. Attorno a Venezia vi è una produzione a chilometro zero, a dimostrazione che i cittadini si sono impegnati in piccole imprese quotidiane per mantenere la terra fertile e la città viva.

Altra caratteristica della Venezia viva è quella della cultura tradizionale e internazionale. Oltre ai numerosi circoli ARCI sparsi in tutta la città, Venezia ospita l’associazione Awai che tenta di costruire una comunità di artigiani e artisti con centro nel giardino degli Amai. Utilizzando materiali e tecniche diverse, promuovono espressioni innovative e tipiche, con attenzione alle proposte culturali in funzione alla città. I due fondatori di DoppioFondo hanno sfidato il modello di economia dominante e hanno fondato un laboratorio di stampa d’arte nel cuore di città, pensandolo come luogo di scambio e di incontro di persone e culture come lo era tradizionalmente Venezia. Il cambiamento della città è raccontato e denunciato dai fotografi di Awakening, affiggendo gigantografie delle situazioni più critiche della Venezia in trasformazione. La fotografia è anche il modo di esprimersi degli artisti di Isolab, centro di ricerca e laboratorio con obiettivo di diffondere progetti di autori emergenti. Venezia quindi gode di una vitalità culturale diffusa, merito anche del fascino della città che da sempre ispira artigiani e artisti.

A Venezia diversi gruppi si oppongono al declino della città: associazioni e gruppi chiedono un’inversione di marcia alle amministrazioni e una presa di coscienza dell’opinione pubblica. Così il sito Venessia.com utilizza la goliardia per commentare le trasformazioni e paragonarle al passato, tentando di delineare e preservare il cittadino “100% venessiano”. Approccio di protesta e proposta lo hanno anche i ventenni di Generazione ’90 che si battono per non essere l’ultima generazione che ha avuto la possibilità di crescere giocando nei campi di Venezia. Lo stesso obiettivo è perseguito dai Giovani Veneziani, associazione fondata nel 1994 come reazione all’immobilismo delle amministrazioni. La piattaforma civica 25 Aprile si impegna in quotidiana informazione attraverso il gruppo Facebook e iniziative periodiche locali per vigilare sull’operato delle istituzioni locali. Masegni e nizioleti, nata con l’obiettivo specifico di mantenere i nomi delle calli scritte sui tradizionali “lenzuolini” in veneziano e non in italiano, ora si batte per la cura e il rispetto del patrimonio culturale. Altrettanto specifico scopo ha l’associazione Mamme con le rampe: rendere Venezia più accessibile. Grande rilevanza è stata ottenuta da Poveglia per tutti, che si è opposta alla vendita da parte del demanio dell’isola, partecipando all’asta con un’offerta ottenuta grazie a quote versate dalla popolazione cittadina e internazionale.

L’esigenza di protestare contro l’operato delle amministrazioni nel tempo si è espressa in modo più incisivo con il comitato No grandi navi. Questo tenta di fermare l’invasione delle navi da crociera che attraversano la laguna, provocando danni ai fondali e producendo inquinamento. Il comitato No MoSe ha lottato contro la grande opera raggiungendo notevole eco, riuscendo a portare la popolazione in protesta per le strade e interessando la stampa nazionale. Questi due comitati rappresentano la reazione dei cittadini a due importanti cause del malessere di Venezia e allo stesso tempo testimoniano la sordità delle amministrazioni alle volontà popolari.

L’Assemblea Sociale per la Casa, invece, monitora le case di proprietà del Comune di Venezia e la loro cattiva gestione, denuncia gli sfratti ingiustificati e si propone come ente di protezione per le persone coinvolte. L’ASC tenta di rispondere all’esigenza di organizzazione del sistema casa, altra grande problematica veneziana e causa importante dello spopolamento di Venezia.

Venezia si può vantare di una serie di associazioni e gruppi, sintomo di una società interessata e interessante, non disposta ad assistere inerte al declino della città. Vi è una vitalità di base, che si rivolge alle istituzioni e a cui queste devono sempre guardare e riferire. I campi di intervento sono i più diversi, ma gli obiettivi si intersecano e tendono tutti verso la riqualificazione della società veneziana e la salvaguardia della tradizione. Nonostante questo, non sempre i gruppi hanno collaborato in modo organico e ragionato, minimizzando il loro impatto. Una collaborazione prolungata di queste associazioni potrebbe essere di grande utilità alla città, per mantenerla viva e unita. Conoscere le associazioni e i problemi che affrontano è il primo passo per incoraggiare un processo di condivisione per organizzare eventi che potrebbero risollevare l’interesse nazionale e internazionale alla questione Venezia, mostrando la vera faccia della città.

Da questa considerazione nasce l’idea di eddyburg: raccontare la vitalità veneziana, la società che non si è arresa, il bisogno di dinamismo di una popolazione trascurata. Abbiamo accennato solo ad alcune realtà associative veneziane: chiediamo l’aiuto dei lettori per arricchire la nostra lista. Vogliamo raccogliere ogni esperienza utile allo sviluppo positivo della città: mandateci le vostre segnalazioni di associazioni ed eventi per rendere questa rubrica completa. Vogliamo raccontare la Venezia decisa a invertire la rotta: Venezia è viva.

Riferimenti

Sulla trasformazione della città, oltre i materiali raccolti nella sezione di
eddyburg Venezia e la laguna, e a quelli raccolti nel sito SDE a proposito della recente iniziativa Venezia - Amministrare la città, si veda il cortometraggio La città di Guido Vianello del 1974.
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