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Il testo che pubblichiamo di seguito è stato scritto in occasione di un interessante dossier costruito dal sito Ecopolis Newsletter, di Legambiente - Padova, e ivi pubblicato in sintesi.


Dopo più di vent’anni d’ improduttivi dibattiti, leggi e delibere, Venezia - con il territorio della sua provincia contestualmente soppressa - si ritrova finalmente “Città Metropolitana” in attuazione della Costituzione. Ma nel modo peggiore. Non come progetto condiviso e partecipato ma come esito residuale di un decreto sulla spending review, ora congelato, che prende di mira l’istituzione Provincia con accorpamenti forzati che non rispettano le identità storiche e culturali, le vocazioni socio economiche dei territori e con norme che cancellano livelli democratici elettivi. Un primo passo, forse, per abolire definitivamente un ente previsto dalla costituzione sull’onda di una campagna contro i costi della politica che finisce per colpire i costi della democrazia. Mai era accaduto nella storia repubblicana che le istituzioni fossero trattate con tanta disinvoltura!

E’ accaduto così che vi siano comuni contermini, strettamente legati a Venezia, che rifiutano di aderire ad una città metropolitana dai poteri indefiniti e comuni capoluogo di altre province, come Padova, che chiedono improvvisamente di aderirvi forse per sfuggire a province indebolite e dai confini disegnati da ragionieri privi di cultura.

C’è chi scappa in una direzione, chi nell’altra, chi non sa che strada prendere come se si trattasse di sfuggire a un pericolo. In questo caos proviamo, dal mio punto di vista, a riprendere il bandolo della matassa. Solo all’ultimo momento Venezia è stata inclusa tra le “città metropolitane” previste dalla legge 142 del 1990. Tra le motivazioni che avevano indotto un gruppo di parlamentari veneziani a sostenerne l’inclusione, prevalevano problemi molto specifici interni al comune di Venezia. Si trattava della mal sopportata convivenza tra la Venezia storica e Mestre in un unico comune e dell’aspirazione della porzione orientale della provincia attuale a costituirsi in Provincia del Veneto Orientale. La previsione della costituzione della “città metropolitana” costituì infatti un argomento forte per sconfiggere le crescenti spinte separatiste che si manifestarono in ripetuti referendum in quanto prefiguravano un comune veneziano articolato in sei municipalità, ma non sufficiente ad impedire la secessione del Cavallino.

Nel 93 l’area metropolitana di Venezia viene delimitata dalla Regione prevedendo l’inclusione di soli quattro comuni contermini (Marcon, Mira, Spinea, Quarto d’Altino) in spregio del “Piano Comprensoriale” che, fin dal 1979 individuava due criteri cardine: l’unitarietà della laguna e il ripristino della continuità laguna-terraferma comprendendo in tale ambito l’area centrale della provincia, più Mogliano Veneto e Codevigo. Questa delimitazione era coerente con l’ ordinamento legislativo varato successivamente.

Nel testo unico sull’ordinamento degli Enti Locali, infatti, si stabilisce che nelle aree indicate e tra queste Venezia, “il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all'attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali possono costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenziato”. Il comune capoluogo per l’appunto, non due o tre comuni capoluogo! Non sembra dunque corrispondere a questo criterio l’idea di assorbire ben tre province nella città metropolitana di Venezia. Stretta integrazione dei servizi essenziali è scritto: vi rientrano certamente i servizi pubblici locali che gestiscono l’acqua, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti e l’energia come fanno Venezia e i comuni dell’area vasta con Veritas ma non certo Padova con Hera e neppure Treviso co AIM Vicenza.

La successiva riforma costituzionale rafforza tale previsione. Possiamo accettare che a guidare un riassetto istituzionale siano solo ragioni di risparmio economico? Con la dilatazione territoriale a ben tre province non solo si smarrisce l’identità sociale e culturale (non saprei dare un nome agli abitanti della PaTreVe dice giustamente Eddy Salzano) ma, oltre una certa soglia, s’interrompe il rapporto democratico tra i cittadini e le istituzioni. Undici anni fa, di fronte alla stessa proposta, osservava giustamente Flavio Zanonato: “vorrà pur dire qualcosa l’esistenza di tre amministrazioni comunali, di tre diverse diocesi (almeno quattro N.d.R), di associazioni sindacali ed economiche divise per provincia e se gli stessi quotidiani informano.. con edizioni provinciali distinte..” Cos’è cambiato? Basta un pasticciato e improvvisato decreto taglia province per rispondere a queste obiezioni? Potrà il prossimo governo porvi rimedio? Oppure dobbiamo per forza acconciarci alla logica della riduzione del danno di fronte alla logica autoritaria tipica della tecnocrazia?

Ciò non significa negare la negare la necessità di una specifica pianificazione dell’area centrale del Veneto, quanto mai necessaria. Compito questo che spetterebbe alla Regione d’intesa con i Comuni e le Province. E’ forse l’assenza di una enorme città metropolitana che ha impedito la realizzazione del SFMR e l’auspicato collegamento di Padova, Treviso e Mestre con l’aeroporto Marco Polo? Di considerare l’interporto di Padova come il naturale retroterra del porto senza così prevedere il saccheggio di altre aree lagunari? Di realizzare l’idrovia? Di considerare il territorio della Riviera del Brenta con le sue ville un’area da tutelare?

Quello di cui soffre quest’area e l’intero Veneto è l’assenza di una buona pianificazione urbanistica e di una razionale programmazione economica da parte di una Regione impegnata invece a saccheggiare il territorio per favorire la rendita, a volte se non spesso, d’intesa con i Comuni come nel caso del cosiddetto “bilancere veneto”.

Credo allora che sia necessario distinguere tra il bisogno di programmazione dell’area centro-veneta e il governo della città metropolitana. Nel primo caso si tratta di realizzare “integrazioni funzionali” mentre nel secondo si tratta di costruire “un’istituzione forte” dotata di un Sindaco e di un Consiglio della città metropolitana eletto direttamente dai cittadini se non vogliamo svilire ulteriormente la democrazia. Venezia resta fedele alla propria unicità: una città estremamente complessa, segnata da una crisi profonda al cui interno coesistono realtà disparate, e spesso in conflitto, come il centro lagunare e il declinante polo industriale di Porto Marghera, la città vasta di terraferma, la laguna, le isole, i litorali. Città dalla molte identità, tenuta insieme con gran difficoltà. Città bipolare d’acqua e di terra, arcipelago urbano: ecco, qui sta la specificità di Venezia. Basti questa caratteristica per indicare Venezia come la città che, forse più di altre, ha bisogno di un governo metropolitano. Il Comune di Venezia è, infatti, sovradimensionato per l'esercizio delle funzioni ordinarie e di converso è sottodimensionato per governare le dinamiche economiche. E' troppo grande per rispondere efficacemente alla richiesta dei cittadini di partecipare ad una migliore gestione e fruizione dei servizi alla persona. E' troppo piccolo per risolvere gli angosciosi problemi dei trasporti, della mobilità delle merci e delle persone, per una programmazione razionale delle zone industriali, commerciali e della logistica, per una gestione efficace dei servizi pubblici locali che già oggi sono gestiti a livello di area vasta. E' troppo piccolo per governare in modo unitario il sistema lagunare, disinquinare le sue acque che provengono da un ampio bacino scolante fortemente urbanizzato, per riconvertire Porto Marghera e sviluppare la sua portualità: in sostanza per un uso sostenibile del territorio. Di converso molti Comuni della Riviera e del Miranese hanno spesso la dimensione ottimale per gestire i servizi alla persona ma sono anch'essi troppo piccoli per governare un nuovo modello di sviluppo. Per queste ragioni va ripensato anche l'assetto del capoluogo potenziando le municipalità per giungere in un secondo tempo - quando la città metropolitana sarà a tutti gli effetti costituita come istituzione forte perché dotata di poteri e democratica perché eletta a suffragio universale- ad elevare le stesse a veri e propri Comuni metropolitani. In tal modo si rassicurerebbero anche i Comuni minori che temono di essere fagocitati dal Comune capoluogo. Gli stessi potrebbero fin d’ora costituire “unioni comunali” aderendo così all’idea di realizzare la “Città Metropolitana” in modo flessibile, cioè a “ordinamento differenziato” che favorirebbe un percorso processuale. Niente di nuovo se non fosse che dopo il “piccolo è bello” ora va di moda il “grande è bello” che però mal si concilia con l’esigenza di avvicinare i cittadini ai luoghi della decisione politica.

Proviamo a ragionare. Da oltre trent'anni è in corso nell'area veneziana un massiccio processo di redistribuzione della popolazione dal capoluogo ai comuni limitrofi. Se, da una parte, Venezia perde popolazione, resta comunque la sede delle principali strutture di servizio, oltre che il luogo in cui si localizza una parte rilevante dei posti di lavoro. Aeroporto, porto, centri decisionali istituzionali e amministrativi, le università e le altre istituzioni culturali fanno della città lagunare un luogo in cui si concentrano servizi rari al servizio di una più ampia area metropolitana. Allo stesso tempo molti comuni minori, sempre più connessi all'economia regionale, aumentano la popolazione e le attività manifatturiere ricorrendo ad un sempre più ampio bacino del mercato del lavoro. Questo processo va governato con un'istituzione forte onde evitare il rischio che l'urbanizzazione generata dalla logica della rendita e dall'impresa postfordista, determini un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi . Per invertire le tendenze in atto alla sprawl urbano occorre progettare la metropoli policentrica, cioè con una qualità urbana diffusa, vivibile e bella in ogni sua parte.

Da qui nasce l'esigenza di un governo unitario dell'area metropolitana di Venezia. L'attuale Provincia va quindi sostituita da una Città metropolitana che riassuma in sé funzioni e caratteri oggi variamente distribuiti tra Regione, Provincia, Comune capoluogo, altre amministrazioni. Non, dunque, una Provincia ritoccata, ma un soggetto davvero nuovo. Il suo ambito, a mio parere, deve comprendere i territori del "sistema lagunare" - sotto il profilo geomorfologico – e quelli del "sistema giornaliero", sotto il profilo dell'integrazione socioeconomica. Sbaglieremmo a considerarla riduttiva, una sorta di ripiegamento rispetto alla Patreve, la grande "città centro-veneta", un'area che richiede una specifica pianificazione ed un esercizio coordinato di funzioni, a partire dal trasporto pubblico, obiettivi che possono essere però conseguiti con altri strumenti. D'altra parte l'importanza di una città non è data solamente dal numero dei suoi abitanti. Zurigo, ha 350 mila abitanti, 100 mila persone vivono a Oxford e Cambridge. I punti di eccellenza europei sono rappresentati da città come Strasburgo, Lione, Lille e Francoforte che non superano il milione di abitanti. Secondo tutti gli indicatori internazionali le città sono realmente "grandi" per la maggiore importanza del loro ruolo, per la varietà e complementarietà delle loro funzioni, per l'ampiezza della loro influenza sul territorio. Venezia ha tutte le potenzialità per essere una "grande" città metropolitana.

Perché appassionarsi a questo tema? Il territorio - spiega Focault - prima ancora di essere una nozione geografica, è una nozione giuridico politica e precisamente quel che è controllato da un certo tipo di potere; e se i poteri pubblici sono deboli e frammentati, il territorio è soggetto alle sole regole del mercato e dei poteri forti. Non è quello che noi auspichiamo.

Corriere della Sera 30 dicembre 2012 (f.b.)
«Li nobili et citadini veneti inrichiti volevano trionfare et vivere et atendere a darse piacere et delectatione et verdure in la terraferma et altri spassi, abbandonando la navigatione (…) et facevano palagi et spendevano denari assai». Forse nessuno ha raccontato meglio di Gerolamo Priuli, nei Diarii del 1509, le ragioni che diedero vita alla rete di ville meravigliose sparse per il Veneto.

Un patrimonio straordinario. Unico al mondo. E forse nessuno è riuscito a misurare l'aggressione al territorio intorno a quelle ville quanto una ricerca in via di pubblicazione condotta da un docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali dell'Università di Padova, Tiziano Tempesta. Che con l'aiuto di un laureando dalla cocciuta e generosa pazienza, Luca Checchin, ha monitorato una ad una le 3.782 ville della regione, per l'86% private, per il 62% costruite tra il Seicento e il Settecento, censite dall'Istituto Regionale Ville Venete nel 92% dei comuni della regione. Andando a controllare che cosa è successo negli immediati dintorni, nel raggio di 250 metri.

Un lavoro capillare. Mosso proprio dalla lettura di come Andrea Palladio, cioè colui che ha dato il nome a quel tipo di residenze, intendeva la villa. Immersa nella campagna. Arricchita dall'«arte dell'agricoltura». Un luogo «dove finalmente l'animo stanco delle agitazioni della Città, prenderà ristauro e consolazione, e quietamente potrà attendere agli studi e alla contemplazione». Cosa resta, di quell'idea palladiana dello spazio? Poco. Sia chiaro, restano le ville. Che negli ultimi decenni, anche grazie all'Istituto già citato, sono state in buona parte salvate dal degrado e restituite all'antica bellezza da centinaia di restauri. Troppo spesso, però, come hanno denunciato mille volte tanti studiosi come Salvatore Settis, «la tutela d'un tesoro monumentale si è fermata un centimetro oltre la recinzione, come se il valore di quel tesoro non fosse anche l'essere inserito in un determinato spazio». Si pensi alle collocazioni all'interno di elegantissime anse del Brenta di villa Foscari, detta la Malcontenta, o di Villa Pisani a Stra. Due capolavori architettonici che, collocati in luoghi diversi e assediati da condomini, ipermercati o capannoni, sarebbero irrimediabilmente diversi.

Bene, la ricerca di Tempesta dimostra una volta per tutte, numeri alla mano, a dispetto di chi per un malinteso amor patrio lo nega, che il prezzo pagato all'ubriacatura industriale del Veneto, negli anni in cui veniva esaltato lo spontaneismo anarchico che non doveva essere intralciato da alcuna regola, è stato spaventoso. Nonostante il 48% delle ville sia tutelato da normative nazionali o regionali, «solo in pochi casi la tutela del fabbricato si è estesa anche al contesto paesaggistico in cui esso si trova». Di più: se già il territorio veneto è per il 14,3% «occupato da superfici artificiali», cioè cementificato (una percentuale stratosferica se pensiamo che la regione per il 43,6% è collinare o montuosa), «la superficie artificializzata attorno alle ville è mediamente notevolmente superiore a quella della regione». Quanto «notevolmente superiore»? «L'incidenza attorno alle ville è mediamente pari a 3,4 volte quella dei comuni della regione». Una pazzia.

Puoi vederlo nelle fotografie di villa Trissino Giustiniani a Montecchio Maggiore, davanti a cui troneggiano enormi silos. Di villa Contarini Crescente alla periferia di Padova, che si staglia su giganteschi capannoni. Di villa Franchini a Villorba, che confina direttamente con una delle 1.077 aree industriali (addirittura 14 in media a Comune) della provincia di Treviso, che ospita un quinto del patrimonio di residenze di cui parliamo. Tutte scelte sventurate di tanti decenni fa come gli stabilimenti chimici della Mira Lanza tirati su in faccia a Villa dei Leoni? Magari. L'occupazione delle aree rimaste miracolosamente integre intorno alle ville va avanti, sia pure in modo meno aggressivo di ieri, un po' ovunque. E solo una durissima battaglia degli ambientalisti e degli abitanti ha bloccato ad esempio una nuova e massiccia cementificazione della campagna adiacente alla stupenda Villa Emo di Vedelago.

Spiega lo studio «Il paesaggio delle ville venete tra tutela e degrado» del professore padovano che certo, «sono le modalità stesse di diffusione delle ville nel territorio che possono aver favorito l'agglomerazione degli insediamenti residenziali nei loro pressi». Fatto sta che «considerando la fascia più prossima», cioè quella nel raggio di 250 metri, solo nel caso del 35,3% delle ville la percentuale di aree occupate da villini o condomini «è minore del 20%. All'opposto, nel 35,9% tale percentuale è superiore al 40%». Né sembra «emergere una sostanziale diversità tra le ville sottoposte a tutela e quelle che non lo sono». Anzi, «tendenzialmente in queste ultime la situazione pare essere sia pure lievemente migliore».

Tre anni fa un'inchiesta de «Il giornale dell'arte» firmata da Edek Osser, intitolata «Così l'Italia ha massacrato Palladio» e rilanciata anche da «The Art Newspaper» nel bel mezzo del cinquecentenario palladiano, sollevò un putiferio. Denunciando «una colata di cemento senza regole e controlli» e riprendendo le parole dello studioso Francesco Vallerani, addolorato nel vedere «da un lato un territorio costellato da straordinarie meraviglie architettoniche e paesaggistiche, dall'altro il disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio». Molti, a partire dal governatore Giancarlo Galan, la presero come un'accusa esagerata. Una forzatura. Una specie di congiura mediatica contro il Veneto e i veneti.

Spiega oggi Tempesta che, a proposito di capannoni, «in 111 ville (pari al 2,9%) più del 30% del territorio posto nel raggio di 250 m. è occupato da insediamenti produttivi, e per altre 159 (4,2%) tale percentuale è compresa tra il 20 ed il 30%. Anche in questo caso non emergono differenze sostanziali tra ville tutelate e non». Peggio ancora: «Ad un esame più approfondito si è potuto constatare che non sono poche le ville inserite in zone industriali. Se si considerano le aree urbanizzate nel loro complesso si può constatare che solo il 21,9% delle ville venete si può considerare a pieno titolo inserito in un contesto paesaggistico pienamente agricolo presentando nelle vicinanze una percentuale di superficie edificata minore del 20%. In più delle metà dei casi la percentuale è oramai superiore al 40%». Ecco la sfida di domani: ripulire, risanare, risistemare, recuperare la bellezza. Riportando i capannoni il più possibile lontani da quei tesori che il mondo ci invidia.

Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

Così sul parigino le Figaro il 20 febbraio 1909 il nostro Filippo Tommaso Marinetti lanciava il suo Manifesto del Futurismo. Diventato poi come sappiamo, volenti o nolenti, anche il manifesto della nostra coatta esistenza quotidiana: spiegateglielo voi al precario isterico imbottigliato col furgone nell'ingorgo, che il suo carico di sedie da giardino pieghevoli, che consegnerà quando ormai è buio, " è più bello della Vittoria di Samotracia"! Eppure c'è ancora chi canta il futuro luminoso del bolide sfrecciante, tanto più luminoso quanto più ingrassa i conti correnti degli investitori. Poco importa se sotto le rombanti vetture scompaiono per sempre i pochi ettari di campagna padana scampati all'alluvione sviluppista del Novecento.

Il modello è il cosiddetto "superluogo" ovvero l'atterraggio in spazio vuoto (almeno così lo considerano gli interessi immobiliari) di un formato deciso a tavolino, dove entrano o dovrebbero entrare in sinergia varie attività: una a fungere da ancora, le altre apparentemente aggiunte. In realtà il rapporto è ribaltato: lo stadio, l'aeroporto, la fermata o svincolo della grande linea di trasporto, sono poco più che una scusa. Così come lo sono la cosiddetta domanda del mercato o le ricadute occupazionali. Ciò che conta è la valorizzazione immobiliare e tutto ciò che ne deriva in termini di investimenti finanziari e di interessi privati.

Comunque per comprendere i termini della faccenda, vi invitiamo a leggere il dossier, predisposto dal circolo Legambiente Il Tiglio di Vigasio, scaricabile qui di seguito. Potrete sapere, tra l'altro, che saranno urbanizzati 458 ettari di pianura (7 volte l'estensione di Gardaland), che la superficie commerciale equivale alla somma dei dieci maggiori centri commerciali della provincia, che si prevede la costruzione di una bretella a quattro corsie lunga una decina di km per collegare il sito all'autostrada. Scorrendo le pagine, leggerete i nomi dei promotori e dei loro soci e potrete confrontare questa iniziativa con altre simili, previste dal Piemonte alla Sicilia. Infine, una rassegna delle dichiarazioni dei politici locali.

Buona lettura.

Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Questa volta a opera dei giudici del Tar del Lazio. Ora il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi di nuovo sulla sospensiva ai lavori. E non è finita. Celotto, del Movimento 5 Stelle accusa: "Un grande pasticcio"

Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Per la Pedemontana veneta arriva un nuovo stop. Ancora dal Tar del Lazio: i giudici amministrativi, con una sentenza depositata a inizio febbraio hanno messo di nuovo in pausa l’iter della superstrada a pagamento che dovrebbe collegare Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza. Lo hanno fatto accogliendo il ricorso del sindaco di uno dei comuni interessati, quello di Villaverla, provincia di Vicenza: il primo cittadino aveva fatto ricorso per l’annullamento degli atti di governo e commissariali dell’intero iter amministrativo e i togati gli hanno dato ragione.

Il decreto del 31 luglio 2009 del presidente del Consiglio dei Ministri, governo Berlusconi, per “la dichiarazione di stato di emergenza traffico e mobilità nei territori dei Comuni di Treviso e Vicenza” che aveva dato la stura all’opera e alla sua gestione commissariale, dicono, è illegittima. La stessa conclusione a cui erano già arrivati a inizio gennaio esaminando un altro ricorso, presentato da un privato cittadino: allora il presidente della Regione Veneto aveva parlato di “eccesso di democrazia”. Sentenza che tuttavia a metà del mese era stata ribaltata dal Consiglio di Stato, a cui la Regione aveva fatto immediatamente ricorso. Ora tutto da rifare per questo progetto particolarmente caro al governatore Luca Zaia e agli imprenditori veneti.

L’iter del serpentone di cemento da 92 chilometri (di cui 50 in trincea), un’opera da 2 miliardi e oltre di euro che dovrebbe unire i due rami delle autostrade A4 e A 27 è a dir poco tormentato. Gli imprenditori la vorrebbero perché sperano che serva da volano per implementare l’economia dell’area e per l’indotto che creerebbe, comitati e cittadini la contestano dicendo che si tratta di un’opera inutile e anche dannosa, l’esecutivo Berlusconi con la consueta passione per le procedure di emergenza aveva tolto la competenza al Cipe e la aveva affidata al commissario straordinario. E ora si passa da un ricorso all’altro.

“E’ un vero pasticcio – spiega al Fattoquotidiano.it Francesco Celotto, del Movimento 5 Stelle Veneto, uno dei rappresentanti del Coordinamento pedemontana alternativa – e il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà dare il giudizio di merito sulla sospensiva dei lavori. Poi ci sono altri ricorsi che devono arrivare a giudizio. Questa sentenza del Tar comunque conferma ancora una volta quello che diciamo da tempo: che bisogna resistere alla cementificazione, a un’opera che riteniamo nociva e inutile a quel “Metodo Chisso” che alla fine penalizza la collettività a favore dei privati”.

Celotto si riferisce a Renato Chisso, potente assessore alla mobilità della Regione Veneto. Il project financing con cui dovrebbe essere realizzata la mastodontica opera, denunciano i comitati, è fatto di clausole capestro che alla fine andranno a penalizzare i conti pubblici. I vari ricorrenti chiedono l’accesso agli atti da tempo, ma, dicono, il Commissario e la Regione non ce li fanno vedere.

A Bassano del Grappa ci sarà un’assemblea pubblica per discutere la vicenda. La vicenda, nonostante la rilevanza, per ora sembra rimanere gestita a livello regionale. C’è però chi dice che dell’affare Pedemontana Luca Zaia abbia cominciato a parlare anche a Mario Monti, nell’incontro che ha avuto con lui poco prima che il presidente del Consiglio partisse per gli Stati Uniti.

I giudici danno ragione a un cittadino della provincia di Treviso che aveva presentato ricorso contro i criteri di "emergenza traffico" addotti dal governo Berlusconi per sbloccare l'iter del contestato progetto. Per il Tar la procedura era illegittima. Ora la Regione si appellerà al Consiglio di Stato, ma intanto i comitati gioiscono contro un'opera "che così com'è non serve"

Neanche due mesi fa dava il via ai cantieri con tanto di caschetto giallo in testa. Ora è costretto a battersi con le unghie e con i denti perché uno dei suoi cavalli di battaglia non naufraghi definitivamente. Per Luca Zaia, presidente leghista della Regione Veneto, quella di pochi giorni fa non è stata una buona notizia: il Tar del Lazio ha infatti accolto il ricorso presentato da un cittadino e ha bloccato i lavori della Pedemontana Veneta, il serpentone di cemento che dovrebbe collegare, a pagamento, Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, unendo due rami delle autostrade A4 e A 27.

Un’opera da oltre due miliardi che ora rischia di sfumare definitivamente. Per la gioia di alcuni, vedi i ricorrenti e le decine di comitati che si battono contro la cementificazione, e l’amarezza di altri, in testa proprio il governatore del Carroccio. “Questo è quel male che io chiamo eccesso di democrazia” è stato lo sfogo di Zaia, che ha presentato in tempi record un immediato controricorso al Consiglio di Stato. Appoggiato da una buona fetta del mondo imprenditoriale veneto, dalla Confindustria regionale e dagli artigiani che temono di perdere un investimento “strategico” per il territorio.

Di ricorsi contro questo progetto di cui si parla da anni ne sono partiti molti. C’è quello di una serie di cittadini interessati dagli espropri e quello di tre Comuni, capofila quello di Villaverla, nel vicentino, che andrà a giudizio a fine gennaio. Ad essere stato accolto ora è quello di un sessantenne di Loria, provincia di Treviso, che contestava lo stato di “emergenza traffico” recepito dal governo Berlusconi nel 2009 su input della Regione Veneto allora amministrata da Galan. Mossa pensata per velocizzare l’iter della Pedemontana, ma che non ha convinto i giudici amministrativi.

L’intera articolazione della sentenza emessa a fine dicembre dalla prima sezione del Tar Lazio ruota proprio attorno ai presupposti della “dichiarazione dello stato di emergenza” con la quale il Presidente del Consiglio Berlusconi, il 31 luglio 2009, decretava che l’iter di approvazione del progetto definitivo dell’arteria viaria non era più di competenza del Cipe (Il Comitato interministeriale di programmazione economica) ma del Commissario Delegato di governo, che sarebbe stato nominato di lì a poco.

«Le condizioni del traffico e della mobilità nel territorio interessato – scrive il Tar – non presentavano gli aspetti necessari e sufficienti per legittimare la dichiarazione dello “stato di emergenza”». Da qui l’auspicio che «la competente Pubblica Autorità promani un forte segnale di discontinuità quanto all’uso intensivo, e frequentemente inappropriato, della decretazione d’urgenza». Come dire, speriamo che con il nuovo Governo, la musica cominci a cambiare almeno in queste cose.

Il dispositivo della sentenza è lungo e articolato ma la bocciatura è inequivocabile. Immediata la soddisfazione dei comitati che da anni portano avanti la battaglia e che poche settimane fa, a metà dicembre hanno deciso di unirsi in un soggetto unitario, il “Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa”.

«La cosa che a noi dà enorme fastidio – spiega al Fatto quotidiano.it Giordano Lain del Movimento 5 Stelle di Vicenza – è l’arroganza con cui questi amministratori assumono atti illegittimi nella speranza, poi, di spuntarla in qualche modo. La cosa che balzava all’occhio qui era che l’applicazione della legge quadro era palesemente illegittima. Se ce ne eravamo accorti noi cittadini avrebbero dovuto forse rendersene conto anche i politici che hanno più strumenti noi. Qui bisognerebbe istituire commissioni di consultazioni del territorio, perché sono in ballo più di due miliardi di euro, e hanno un bel dire che si tratta di project financing, perché alla fine è il pubblico che rischia di metterci una fetta più grossa».

Parliamo di finanza di progetto, quella procedura che prevede che i costi dell’opera siano in buona parte a carico dei privati, in cambio dello sfruttamento dei benefici a lavori ultimati. In questo caso i pedaggi. I 5 stelle, che hanno fatto loro la battaglia cominciata dai comitati territoriali contestano il fatto che al pubblico qui in verità toccherebbe sborsare la fetta più consistente. «Oltre al fatto che quest’opera così com’è non serve – dice Francesco Celotto del Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa – il nostro timore è che al pubblico, al contribuente, possa spettare un onere da pagare al costruttore qualora non venga raggiunto un certo volume di traffico, così come era scritto in una bozza di convenzione del 2004».

E per questo, assieme ad altri, i membri del comitato da un anno chiedono la consultazione della attuale convenzione economica stipulata dalla Regione con l’impresa che dovrebbe realizzare i lavori (la italo spagnola Sis). Il Commissario straordinario però, hanno denunciato, nega loro le carte.

Ora però le cose potrebbero cambiare anche su questo punto. Pochi giorni fa l’Eurodeputato dell’Idv Andrea Zanoni, dopo una interrogazione al Commissario UE per i Trasporti ha annunciato che «la Commissione europea contatterà le autorità italiane per ottenere maggiori informazioni sul presunto rifiuto». Nell’attesa che il Consiglio di Stato sbrogli la matassa.

“Per quelli di sotto ci vorrebbe l’olio di ricino”. Il sindaco leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, alla fine è sbottata. Ma la battuta viene dal profondo e rivela l’animo della Lega di oggi: che cerca di reinventarsi come partito di lotta vicino al popolo e al territorio, ma resta salda sulla poltrona e approva a marce forzate contestatissimi progetti.

Un partito che non ama dissensi. Perché i destinatari dell’olio di ricino sono migliaia di veneti che le hanno tentate tutte per bloccare il progetto di Veneto City. Niente anti-politica, anzi, il contrario: un esempio di dissenso acceso, ma democratico e fantasioso. Sempre nelle regole: 11 mila firme raccolte, ricorsi in ogni sede, partecipazione al consiglio comunale, manifestazioni sotto il Comune al suono delle vuvuzelas. Parliamo di un mega centro commerciale-direzionale che occuperà 715 mila metri quadrati – l’equivalente di 105 campi di calcio – con una volumetria di 2 milioni di metri cubi. È dal 2008 che tra Venezia e Padova i comitati si battono contro Veneto City. Ma nelle ultime settimane la battaglia è diventata serrata, perché il destino della campagna veneta si gioca in queste ore. Per cambiare definitivamente il paesaggio di Dolo bastavano tre firme: quelle dei Comuni di Dolo (Lega) e Pianiga (Pdl) e quella del Governatore Luca Zaia (Lega). I comitati non hanno una tessera politica. In tanti contavano sul fatto che Zaia e i leghisti in campagna elettorale avevano professato attaccamento al Veneto, alle sue tradizioni, alla terra.

Ma quando si è arrivati ai fatti, ecco l’amara sorpresa. Raccontano Adone Doni e Mattia Donadel, portavoci del Cat (Comitati Ambiente e Territorio): “La maggioranza del Comune di Dolo ha convocato sedute straordinarie a raffica, perfino la Vigilia e il giorno di Natale, per votare prima del 31”. E i comitati hanno “assediato” il Comune. Hanno cercato di entrare in consiglio. Ma il 20 dicembre il sindaco emette un’ordinanza: “Visto che nelle ultime sedute si è verificata una massiccia affluenza di pubblico e manifestanti presso la sala consiliare si ordina di chiudere al pubblico gli uffici comunali”. Racconta Doni: “Sono rimasti solo 40 posti, ma quando abbiamo provato a entrare li abbiamo trovati già occupati da militanti leghisti”. Così sono partiti esposti al Prefetto e alla Procura. Alla fine il sindaco leghista ha firmato (come quello di Pianiga). Per la gioia dei sostenitori di Veneto City.

Ma di che cosa si tratta esattamente? Nei documenti ufficiali si parla di un polo destinato a riunire “i servizi per l’impresa, l’università e il commercio”. Tutto e niente. Le stime parlano di 30-40 mila visitatori al giorno e 70 mila veicoli. Il progetto prevede torri di 80 metri. E già l’aspetto urbanistico ha attirato critiche, come quelle del prestigioso Giornale dell’Architettura: si parla di “esiti paradossali”, si ricorda “un’affermazione di Zaia alla Ponzio Pilato che «le variazioni urbanistiche passano in Regione a livello notarile se hanno l’ok dei consigli comunali e della Provincia»”, si sottolinea “la necessità di rifondare il rapporto tra uomo e natura nel Veneto”; ma il Giornale rammenta anche che “l’ultimo passo è stato demandato ai sindaci di due comuni che sommano circa 30 mila abitanti, di fronte a un intervento attorno al quale gravita tutto il Veneto. Le 11 mila firme raccolte dai comitati non hanno inciso sull’iter”. La Difesa del Popolo, giornale della diocesi di Padova, ha dedicato al progetto un’allarmata copertina: “In Riviera la città di cemento a(r)mato”, dove si ricorda che anche “le associazioni di commercianti e agricoltori sono contrarie ma tutto procede”.

Per capire davvero il progetto bisogna guardare a quello che ci sta dietro. Veneto City ha tanti santi in paradiso, raccoglie i signori dell’impresa del Nord-Est: da Stefanel (attraverso la Finpiave) a imprenditori che amavano definirsi “progressisti” come Benetton (ma ultimamente si sono lanciati in operazioni contestate come Capo Malfatano in Sardegna). Fino alla Mantovani che ha il monopolio delle grandi opere in Veneto. E la politica? Il centrodestra di Giancarlo Galan, che in questi ambienti ha tanti amici, ha sostenuto l’opera. Il centrosinistra all’inizio sembrava, tanto per cambiare, confuso: “Veneto City deve essere un’opportunità, non un pericolo”, disse Antonio Gaspari, allora sindaco di Dolo (Margherita). Davide Zoggia (Pd), all’epoca presidente della Provincia di Venezia, in pubblico diceva: “Veneto City potrebbe essere costruita altrove”. Ma in una lettera riservata definiva il progetto “di sicuro interesse per l’assetto e lo sviluppo economico di Venezia”. Oggi il Pd, all’opposizione, si dichiara contrario.

Più netta la posizione di Rifondazione e dell’Idv: “Basta con il consumo del territorio, Veneto City è un’idea delirante”, tagliò corto Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione. Per valutare l’impatto di Veneto City bisogna venire qui. Muoversi tra Fiesso d’Artico, Dolo e Mira: “Mi ci perdo anch’io che ci abito da una vita”, racconta Vittorio Pampagnin (ex sindaco di Fiesso, con un passato nel centrosinistra), mentre con l’auto vaga tra bretelle e tangenziali che hanno strozzato interi paesi. Siamo nella Riviera del Brenta, la terra dove Tiziano attingeva i colori per i suoi quadri. Nella campagna veneta cara ad Andrea Zanzotto. Qui dove una volta il paesaggio era segnato dai campanili e oggi svettano ciminiere e capannoni. L’era Galan ha lasciato un’eredità pesante: dal 2001 al 2006 sono state realizzate case per 788 mila persone (la popolazione è aumentata di 248 mila abitanti). Nel 2002 si sono costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. In Veneto la superficie urbanizzata è aumentata del 324% rispetto al 1950. Ben oltre le necessità, come dimostrano migliaia di cartelli “vendesi” appesi a case nuove e mai abitate. Adesso arriva Veneto City. L’ultima parola spetta oggi a Zaia (che ha preferito non parlare con il Fatto), il governatore contadino. Che chiarirà definitivamente da che parte sta.

L’ultima battaglia sul megainsendiamento che cambierà le abitudini a mezzo Veneto si combatterà martedì prossimo in consiglio comunale a Dolo. Anche se si chiama Veneto-City e non Dolo-City. Perché una decisione regionale di questa portata - 2 milioni di metri cubi di cemento! – debba pesare sulle spalle di un sindaco, ultimo anello della catena di comando, potrebbero spiegarlo solo gli amministratori regionali che hanno costruito in 10 anni le condizioni perché avvenisse. L’ultimo arrivato, il presidente Luca Zaia, si chiama fuori dicendo che ha trovato tutte le procedure completate. Una per la verità non lo è del tutto: il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) in cui per la prima volta nel 2008 è stata inserita Veneto City, è stato adottato dalla giunta Galan ma non approvato dal Consiglio. Il quale si è cimentato su questa faccenda martedì 6 dicembre, in una seduta straordinaria chiesta dal centrosinistra. E’ saltato fuori che esiste un’opposizione alla colata di cemento anche nel centrodestra. Chiunque, seriamente intenzionato ad opporsi, avrebbe colto l’occasione per cercare convergenze e far nascere una maggioranza trasversale. Non la capogruppo del Pd Laura Puppato e il vice Lucio Tiozzo, che conducevano il dibattito: invece di chiedere un rinvio in commissione per cercare una sponda o valutare almeno l’ipotesi, hanno preferito andare al voto. Ovviamente perdendo: 18 a 23. Adesso tutti potranno dire che il Pd veneto era contrario, purtroppo è in minoranza e non ha potuto fermare l’operazione.

Contrarietà di facciata, politica dei due forni. Vecchi metodi, che in questa legislatura si sono venuti sommando ad altri disagi verso la conduzione del Pd. Siamo arrivati alla dissociazione fisica: quanto di più dirompente potrebbe esserci, eppure nessuno ne parla. Mauro Bortoli, consigliere di Padova, già segretario provinciale e poi regionale del Pci-Ds, ha scelto un posto lontano dal gruppo per segnalare lo stacco che intende avere. Il Pd occupa l’ala a sinistra del presidente, Bortoli se ne sta in fondo all’emiciclo, neanche fosse in castigo. Scelta considerata bizzarra e invece motivata da ragioni politiche che l’interessato non esita a confermare: «Mi sono impegnato a far nascere il Pd, ci ho creduto fino in fondo, ma oggi non ne sono più tanto contento. E’ rimasto un contenitore dove c’è dentro tutto. Mi rendo conto che la politica è solo propaganda, così me ne sto a latere. Do il mio contributo. Rispondo a me stesso, ho una posizione critica ma non creo problemi. Non ho fondato correnti, non so quanti la pensano come me. Spero che si avvii una discussione».

Tra gli altri articoli sulla vicenda vedi del 9 agosto

Due a zero. Sconfitta doppia per il fronte che si oppone a Veneto City: la mozione contraria al megainsediamento sulla Riviera del Brenta tra Dolo e Pianiga è stata bocciata in aula, al termine di un consiglio straordinario che doveva fare chiarezza e invece ha alimentato la confusione. Fuori dall’aula neanche l’ombra di quei comitati che raccolgono firme e si sono mobilitati contro la colata di cemento. Il cui impatto, si dice, sarà attenuato dallo sviluppo in altezza: ma sempre di 2 milioni di metri cubi si tratta, che se volessimo mettere distesi sarebbero un capannone largo 12 metri, alto 7 e lungo 23 chilometri, come la carreggiata dell’autostrada da Padova Est a Mestre Villabona.

L’assenza del sostegno popolare, che pure esiste nel territorio, è un autogol per l’opposizione che aveva chiesto la seduta straordinaria e la dice lunga sul livello di compromessi e di ipocrisia tenuto da tutti i partiti in questa vicenda. La risoluzione che chiedeva alla giunta di «sospendere la procedura autorizzativa per Veneto City» è stata bocciata con 23 voti (Pdl e Lega), favorevoli in 18(Pd, Udc, Idv e Sinistra), astenuti 3. Questi ultimi sono Nereo Laroni, Carlo Alberto Tesserin e Diego Bottacin. Impossibile riportare il dibattito.

A rischio di inimicarci l’intero Consiglio citiamo per esteso solo gli interventi di Laroni e di Tesserin, per la forza d’urto che hanno avuto. Laroni parte dal dissenso originario di Veneto City tarsformatosi lentamente in consenso attraverso «fluidificazioni successive». E la parola «fluidificazioni», che dice e ripete per indicare il cambiamento d’opinione dei sindaci della Riviera che diventano favorevoli a Veneto City per motivi di cassa, coincide sempre di più con la parola euro. E’ il business che guida Veneto City, la Torre di Jesolo, il Quadrante di Tessera, l’autodromo Motor City di Verona: «Ma noi qui che ci stiamo a fare?», la pianta dura il vecchio Nereo. «La programmazione è compito nostro o di Enrico Marchi, di Giuseppe Stefanel o del giulivo Luigi Brugnaro, persone che legittimamente perseguono i loro interessi, mentre noi ci occupiamo di griglie roventi? Io non approverò nessun documento favorevole a Veneto City se il governo regionale non lo inserisce nella programmazione». Gran soprassalto di orgoglio politico, peccato che il legislatore l’abbia già fatto: Veneto City è stata inserita nel Ptrc dall’assessore all’urbanistica Renzo Marangon nel 2008, naturalmente molto dopo che l’operazione era stata avviata dagli amici del presidente Galan. Il quale il 28 novembre 2005 a domanda rispondeva di non sapere nulla.

Lo smentisce l’appassionato intervento di Tesserin, che da consigliere provinciale di Venezia ricorda all’aula come sia stato nel 2004 il presidente Davide Zoggia, Pd, a spiegare che Veneto City si sarebbe fatta perché c’era l’accordo con la Regione di Giancarlo Galan. E’ un velo di ipocrisia che cade, lasciando nudi i partiti, sia centrodestra che centrosinistra. Chissà perché Giovanni Furlanetto, leghista, pensa di essere fuori dal mucchio nobilitando il voltafaccia della Lega, che ieri si opponeva a Veneto City e oggi la sostiene, con le modifiche che il comune di Dolo ha imposto ai progettisti. Luca Zaia, che non ha partecipato al dibattito, fa sapere che non metterà «mai la firma» su un progetto che arrivi sul suo tavolo senza l’ok di Comuni e Province. Significa che la conferenza dei servizi, appena chiusa per Veneto City, non ha esaurito l’iter.

Postilla

Singolare, per un giornalista veneziano, considerare strano che a una riunione del Consigio regionale, che si tiene nella città storica di Venezia, alle 10,30 di una giornata lavorativa, non partecipassero le mase di cittadini della Riviera del Brenta che da anni si battono in massa contro il turpe episodio di speculazione, promosso da potenti gruppi finanziari cn collegamenti su tutti i versanti dello schieramento politico di destra e di centrosinistra, accettato dai sindaci dell’uno e dell'altro versante per un po’ di euri. Ma i combattivi comitati della riviera del Brenta dicono che la storia non è finita.

DOLO (VENEZIA) - Adesso si chiama Veneto Green City. Sarà la megalopoli del commercio tra Padova e Venezia. Oltre 715 mila metri quadri di uffici, negozi, bar, ristoranti e alberghi spalmati in quel che resta della Riviera del Brenta. Un'operazione immobiliare da 2 miliardi di euro, cantierata dal re del "ciclo integrato" dell'immobiliarismo e dal banchiere di fiducia dei "giri giusti", con il placet degli enti locali.

«Una valida alternativa alla caotica distribuzione di capannoni» secondo i progettisti. L'ennesima applicazione del «sistema» che permette agli "imprenditori" di incassare milioni senza rischiare un centesimo devastando il territorio. Lo ribadiscono i 12 mila cittadini che hanno firmato l'appello al referendum dei Cat, i comitati ambiente territorio a cavallo fra le province di Venezia e Padova.

Antonio Draghi denuncia l'accordo di programma siglato il 29 giugno tra i privati e i Comuni di Dolo e Pianiga: «Il mostro di Veneto City è una speculazione edilizia di dimensioni gigantesche. Probabilmente la più grande d'Italia. È fondata sulla massima esaltazione della rendita fondiara. In estrema sintesi: si cambia la destinazione d'uso di un'area di 2,5 milioni di metri quadri da agricola a edificabile. Zero rischio di impresa. Basta l'indice urbanistico ad ottenere i crediti in banca. E così, società con appena 10-30 mila euro di capitale ottengono la complicità dei Comuni che mirano a incassare qualche centinaia di milioni in oneri di urbanizzazione. Ma dov'è la pubblica utilità? L'accordo di programma parla di urgenza e indifferibilità per questo progetto assurdo. In cosa consistono, se non nell'interesse dei privati?».

Alla festa di Ferragosto organizzata dalla coop La Ragnatela a Scaltenigo, i Cat hanno preannunciato un "autunno caldo" per l'ingegner Luigi Endrizzi e il suo "spallone finanziario" Rinaldo Panzarini. Sono rispettivamente presidente e direttore di Veneto City Spa, società che ha concepito l'operazione fin dal 2001 (insieme agli altri membri del CdA Giuseppe Stefanel, Fabio Biasuzzi e ad altri investitori minori come Olindo Andrighetti). Endrizzi ha già trasformato il quadrante di Padova Est in un concentrato di ipermercati intorno alla filiale Ikea. Panzarini, invece, vanta un solido curriculum ai vertici degli istituti di credito non solo nella regione. Già direttore della Popolare di Lecco, vicedirettore centrale della Deutsche Bank e direttore di Cariveneto, è anche l'amministratore delegato di Est Capital, società di gestione del risparmio che sta cambiando la skyline del Lido di Venezia.

«Veneto City è figlia del Passante di Mestre, definito da Paolo Feltrin la nuova cinta muraria della megalopoli veneta. I primi 400 mila metri quadri di terreno sono stati acquisiti da Endrizzi nel 1998. Un anno dopo il Comune di Dolo prevedeva capannoni alti tre piani. La Provincia di Venezia, all'epoca governata dal centrosinistra con Davide Zoggia presidente, non ha battuto ciglio. Finché con il Piano territoriale regionale di coordinamento è arrivato il via libera all'operazione. Secondo il dirigente Silvano Vernizzi, non occorre nemmeno la valutazione ambientale strategica. E fioccano gli accordi di programma con Dolo e Pianga, amministrati rispettivamente da una giunta Pdl-Lega e da una coalizione civica ispirata dal Pdl» ricorda Adone Doni dei Cat.

La battaglia popolare, scattata fin dal 2007, è culminata nella scorsa primavera in una grande manifestazione con migliaia di persone in piazza. I comitati hanno depositato 10.500 osservazioni all'accordo, in modo da intasare gli uffici tecnici di due municipi. Ostruzionismo utile a far "grippare" il motore, tutt'altro che green, di Veneto City sul versante amministrativo. Intanto, comincia a pesare la volontà popolare che pretende una consultazione popolare: come per l'acqua e il nucleare, sono in gioco i beni comuni di ambiente e territorio. L'efficientissimo staff di "consulenti" arruolato dai comitati sta limando anche una raffica di ricorsi legali, mentre sul fronte dell'informazione si prepara una vera e propria offensiva mediatica.

Sulla carta, gli escavatori di Endrizzi e Panzarini dovrebbero costruire le fondamenta entro il 2012. Il cantiere, salvo intoppi, durerà dagli 8 ai 10 anni. Dal punto di vista amministrativo l'iter è più che avviato: con la pubblicazione dell'accordo scatteranno i termini regolamentari per la presentazione di osservazioni e controdeduzioni. Poi sarà la volta dei Piani urbanistici attuativi, ovvero del semaforo verde definitivo.

Per i Comuni l'affare si traduce in 1,8 milioni di euro (Dolo) e 1,2 milioni (Pianiga) sotto forma di opere di compensazione tutt'altro che definite. Si aggiungono ai 50 milioni di euro «pronto cassa» incamerati dai permessi di costruzione, e alla promessa di 7 mila posti di lavoro da parte dei costruttori. «Un progetto decisivo per il Veneto» sintetizza l'ingegner Endrizzi. «Innovativo a livello nazionale, perché risolve il rischio idraulico di tutta la zona, riqualifica l'area e sistema la viabilità» aggiunge il socio Panzarini. Visione ampiamente condivisa dalla sindaca leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, e dal primo cittadino di Pianiga Massimo Calzavara del Pdl. «L'alternativa sarebbero stati i capannoni previsti dal piano regolatore di dieci anni fa. Sono serena: ho scelto il male minore» spiega la sindaca.

Il più ottimista è l'architetto Mario Cucinella che ha firmato (con Studio Land) la "città diffusa" in versione commerciale. «In questa zona strategica per le infrastrutture, il progetto parte dal concept di paesaggio come matrice. Le funzioni comprenderanno fra l'altro una grande parte di terziario, dedicato principalmente business to business per riunire i produttori locali. Strutture alberghiere, un polo culturale con auditorium e museo, un edificio universitario e anche strutture sanitarie specializzate. La costruzione inizierà con la semplice attrezzatura di un parco, poi si svilupperà e si rinforzerà nel tempo seguendo la morfologia del territorio. Le torri verranno collocate in prossimità della stazione ferroviaria metropolitana, appositamente costruita. Infine si edificheranno i singoli lotti, caratterizzati dalla presenza di molteplici funzioni».

Un quadro inquietante per i Cat che restano immuni da qualunque marketing. «I presidenti di Regione e Provincia, i sindaci di Dolo e Pianiga, così come tutti i consiglieri che hanno dato loro il mandato all'operazione, si assumono una responsabilità gravissima: approvarla senza la valutazione ambientale strategica, sulla base di un rapporto inconsistente e con i pareri contrari di Asl e Arpav, significa mettere a repentaglio la salute e la sicurezza di migliaia di persone. È vergognoso il disprezzo degli enti per la democrazia. E indecente che si approvi un accordo di questa portata in tutta fretta senza nemmeno informare i cittadini, convocando consigli comunali farsa a orari impossibili ed evitando in tutti i modi il confronto. Tutto per accontentare i privati, pressati dalle banche. Ma la partita non si chiude qui...».

«Le scuole materne statali vanno eliminate». Fa sul serio Remo Sernagiotto, la sua non è una sparata di fine estate ma la base di un progetto pilota da presentare al ministro Mariastella Gelmini il 16 settembre, a Cortina. La sua segreteria ha appena finito di metterlo nero su bianco. «É un piano di riforma della scuola dell’infanzia, che parte dal Veneto—spiega l’assessore regionale al Sociale —. Consiste nell’affidare le materne statali e comunali alla gestione di Chiesa, parrocchie, cooperative e famiglie riunite in Ipab, perché così si risparmierebbero circa 300 milioni l’anno, da poter ridistribuire alle famiglie e allo stesso sistema formativo. É il principio della sussidiarietà orizzontale: è dimostrato che gli istituti parificati "puri" costano meno. Soltanto convertendo le comunali paritarie, risparmieremmo 18 milioni: oggi ne costano 33». I numeri in effetti lo confermano.

In Veneto ci sono 1183 materne, il 68% sono parificate e il 32% statali. Le paritarie autonome accolgono 87.952 bambini, al costo di 2.800 euro l’uno all’anno per un totale di 243 milioni; le paritarie comunali contano 6480 iscritti per 5.120 euro ciascuno e una spesa complessiva di 33 milioni; le statali seguono 45.434 piccoli a 6.331 euro pro capite, con un’uscita generale di 287,6 milioni. «Ecco perchè vorrei eliminare le statali — insiste Sernagiotto —o la Gelmini lo capisce o intraprenderò una battaglia mortale per far passare questo modello. E dico una parola anche sui nido: ora diamo 17,5 milioni a quelli di famiglia, i pubblici hanno costi più alti, perciò vanno chiusi e riconvertiti in tre mesi». Ecco, questa è la ricetta del responsabile del Sociale per risolvere l’annosa questione dei tagli e dei ritardi imposti dal governo ai contributi statali per le materne, che ha sollevato le proteste anche dei vescovi. Il Veneto sta ancora aspettando i 50 milioni relativi all’anno scolastico 2010/2011.Ma nessuno si sente di sostenere la scomparsa delle statali, nemmeno la Chiesa.

«Il sistema educativo di formazione e istruzione si basa sulla pluralità dell’offerta— osserva don Edmondo Lanciarotta, coordinatore del Comitato per la parità scolastica—se viene a mancare, cadono anche la libertà di scelta dei genitori e il principio di autonomia. Alla Gelmini chiediamo invece di riconoscere il risparmio di 6,5 miliardi all’anno favorito in Italia dalle scuole paritarie e di ridistribuire parte della cifra alle stesse, per consentirne la sopravvivenza». «Conosco il piano, l’assessore ce lo ha presentato il 12 luglio — rivela Ugo Lessio, presidente regionale della Federazione italiana scuole materne — capisco le buone intenzioni dell’autore, ma è una follia pensare di eliminare 560 scuole pubbliche, con 1700 sezioni e 3400 insegnanti, per affidarle a cooperative e parrocchie che sicuramente non le vorranno. Tra l’altro non puoi toccare i contratti nazionali di lavoro. E poi la presenza delle statali non è un danno ma un arricchimento della proposta formativa ». «L’idea di consegnare al privato la scuola statale è demenziale— insiste Roberto Fasoli, consigliere regionale del Pd ed insegnante — vengono dall’estero a studiare i nostri modelli educativi, tra imigliori d’Europa. Costa di più perchè i contratti sono gestiti dal Miur e perchè il pubblico garantisce diritti non contemplati dal privato. Visto che l’offerta statale è insufficiente, la si sostenga e nel contempo si finanzi adeguatamente le parificate, che integrano il servizio. Se il piano Sernagiotto arriverà in consiglio, il Pd farà di tutto per sbarrargli la strada».

Ieri, alle 12, è suonata la campanella: il limite massimo per la presentazione delle osservazioni al progetto previsto in zona Roncoduro, tra Dolo e Pianiga. Ora i due Comuni, in accordo con la Regione, dovranno classificarle, raggrupparle per tema e valutarle. A inizio settembre è previsto il primo incontro tra comuni e Regione, coordinato dal segretario regionale per le infrastrutture, Silvano Vernizzi. Le osservazioni sono dunque tantissime, e presentate da soggetti diversi, ma bisognerà capire quali verranno realmente ritenute pertinenti.

Comitati. Il maggior numero delle osservazioni è stato presentato con il coordinamento dei Cat (Comitati ambiente e territorio) in collaborazione con Legambiente, Confersecenti, Cia e un Fiume di ville. E’ possibile individuare tre filoni principali: la carenza di interventi per prevenire il rischio idraulico, il traffico sottovalutato, e i criteri che sanciscono il beneficio pubblico dell’operazione immobiliare.

Quest’ultimo è forse il nodo più delicato. «Dove sono l’urgenza, la pubblica utilità e l’indifferibilità di questo progetto?», si chiede Adone Doni, dei comitati. Lo strumento urbanistico usato per Veneto City - chiamato accordo di programma - permette infatti di accelerare le procedure per l’apertura dei cantieri, a patto che l’intervento abbia un palese risvolto pubblico.

Comuni. Osservazioni al progetto sono arrivate anche dai comuni vicini. Mira, oltre a sottolineare alcuni aspetti specifici, come il mancato studio sulle ripercussioni di traffico sulla Brentana, se la prende soprattutto con il metodo. «Che due Comuni decidano di sottoscrivere un accordo - dice il sindaco Michele Carpinetti - non sentendo le indicazioni o i semplici pareri dai “vicini di casa” mi sembra un modo di concepire la concertazione abbastanza singolare». Anche Mirano, con il commissario Vittorio Capocelli che ha consultato partiti e associazioni, ha presentato otto pagine di osservazioni sottolineando il rischio di perdere la stazione di Ballò (in favore di quella di Albarea, funzionale a Veneto City) e i tanti problemi della viabilità d’accesso (a Scaltenigo, Vetrego e Ballò) al mega centro direzionale.

Gottardo e Calzavara. I sindaci di Dolo (Maddalena Gottardo) e Pianiga (Massimo Calzavara) si preparano a fare, con consiglieri comunali e tecnici, gli straordinari. «Anche perché - spiega Calzavara - voglio che tutte le osservazioni, prima dell’incontro con la Regione, siano esaminate anche dalla commissione consiliare urbanistica. C’è la mia parola che le guarderemo tutte 5.300». E’ la stessa garanzia della Gottardo. «Dobbiamo ancora finire di protocollare tutte le osservazioni - dice - per fine agosto vogliamo esaminarle, così da incontrarci a inizio settembre con la Regione. Sono tante? C’era da aspettarselo, ma il nostro lavoro è anche quello di esaminarle».

I proponenti. Gli imprenditori di Veneto City Spa intanto stanno ad aspettare, con la convinzione che tutt’al più saranno chiamati ad apportare qualche piccola modifica, ma difficilmente verrà messo in discussione l’impianto urbanistico del progetto. «Aspettiamo che i comuni valutino le osservazioni - dice Rinaldo Panzarini, amministratore delegato di Veneto City -, per ciò che ci riguarda non ha senso dire se sono tante o poche, perché bisognerà capire quali sono pertinenti e quali no. Aspettiamo che Comuni e Regione facciano il loro lavoro e ci diano indicazioni».

Qui altre informazioni su Veneto City, nel sito del CAT

Inseriamo di seguito la prima parte, “Valutazione d’insieme”, del documento che fornisce il quadro generale alle migliaia di osservazioni al Piano territoriale regionale di coordinamento del Veneto, che decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva hanno raccolto in numerose e affollate assemblee.

Il documento è stato composto nel corso di numerose riunioni di un “tavolo di lavoro”, promosso da Cantieri sociali Carta, Cgil Veneto ed eddyburg.it, al quale hanno partecipato i rappresentanti di comitati e associazioni e un gruppo di esperti, tra i quali: Stefano Boato, Walter Bonan, Lorenzo Bonometto, Paolo Cacciari, Luisa Calimani, Eliana Caramelli, Carlo Costantini, Andrea Dapporto, Cristiano Gasparetto, Carlo Giacomini, Salvatore Lihard, Sergio Lironi, Oscar Mancini, Roberta Manzi, Edoardo Salzano, Gianni Tamino, Mariarosa Vittadini. Il coordinamento dei contributi e la redazione del testo sono di Edoardo Salzano.

La seconda parte del testo (“Approfondimenti specifici”) raccoglie i contributi su una serie di aspetti: Gli aspetti naturalistici (Lorenzo Bonometto), L’agricoltura e il territorio agricolo (Gianni Tamino), Le aree produttive (Oscar Mancini), Dinamiche demografiche, politiche abitative e trasformazioni urbane (Sergio Lironi), Gli strumenti tecnico-giuridici (Carlo Costantini), Mobilità e infrastrutture per il trasporto (Carlo Giacomini), Verona: Un’anticipazione dello scempio veneto (gruppo eddyburg di Verona).

L’intero documento è scaricabile in .pdf qui sotto. Le osservazioni redatte a norma di disposizioni regionali, su cui si sono raccolte le firme dei cittadini, sono scaricabili dal sito www.estnord.it, insieme a numerosi altri materiali e documenti. In calce anche l'elenco delle associaizoni, comitati e gruppi che hanno sottoscritto il documento.

Tutto ciò nel silenzio della stampa locale e delle televisioni. Un altro insegnamento sulla realtà dei nostri tempi.

PARTE PRIMA:

VALUTAZIONE GENERALE

PREMESSA

Un piano atteso

Il Ptrc della Regione Veneto era un prodotto atteso, per molte ragioni. Dalla data del precedente piano molti anni sono passati e molti eventi accaduti. Basti pensare alle novità introdotte nel campo della tutela del paesaggio e dei beni culturali con il recepimento della direttiva europea e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Basti pensare alla critica che in ogni paese d’Europa e in tante città e regioni italiane denuncia il crescente consumo di suolo. Basta pensare alle drammatiche conseguenze della mutazione del clima. Basti pensare alle difficoltà, poste da tempo e accentuate con la crisi economica in atto, alla riconversione dell’apparato produttivo e al consolidamento delle attività lavorative nei settori innovativi..

La lettura della legge urbanistica regionale 11/2004 induceva a formulare, al tempo stesso, speranze e preoccupazioni. Essa infatti, se elenca puntualmente i campi e i settori cui il Ptrc deve riferirsi, non precisa che genere di indicazione la regione dovrà fornire per ciascuno di essi: se solo auspici e raccomandazioni, o se indicazioni più penetranti, capaci di indurre davvero le azioni che vengono nei fatti definite.

L’articolo 24 della legge infatti recita:

“Il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), in coerenza con il programma regionale di sviluppo (PRS) di cui alla legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 "Nuove norme sulla programmazione", indica gli obiettivi e le linee principali di organizzazione e di assetto del territorio regionale, nonché le strategie e le azioni volte alla loro realizzazione. In particolare:

- acquisisce i dati e le informazioni necessari alla costituzione del quadro conoscitivo territoriale regionale;

- indica le zone e i beni da destinare a particolare tutela delle risorse naturali, della salvaguardia e dell’eventuale ripristino degli ambienti fisici, storici e monumentali nonché recepisce i siti interessati da habitat naturali e da specie floristiche e faunistiche di interesse comunitario e le relative tutele;

- indica i criteri per la conservazione dei beni culturali, architettonici e archeologici, nonché per la tutela delle identità storico-culturali dei luoghi, disciplinando le forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione del territorio in funzione del livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici;

- indica il sistema delle aree naturali protette di interesse regionale;

definisce lo schema delle reti infrastrutturali e il sistema delle attrezzature e servizi di rilevanza nazionale e regionale;

- individua le opere e le iniziative o i programmi di intervento di particolare rilevanza per parti significative del territorio, da definire mediante la redazione di progetti strategici di cui all'articolo 26;

- formula i criteri per la individuazione delle aree per insediamenti industriali e artigianali, delle grandi strutture di vendita e degli insediamenti turistico-ricettivi;

- individua gli eventuali ambiti per la pianificazione coordinata tra comuni che interessano il territorio di più province ai sensi dell'articolo 16.

Il punto delicato dei contenuti sopra elencati sta nel verbo che inizia ciascun alinea: “indica”, “individua”, “definisce”, “formula”. In che modo? Con raccomandazioni, indirizzi, suggerimenti, direttive, oppure anche con specifiche prescrizioni? Nel primo caso il messaggio trasmesso dalla Regione con il suo piano sarà futile, e potrà essere seguito o non seguito dalle province, dai comuni e dagli altri soggetti che operano sul territorio. Nel secondo caso esso sarà efficace, cioè indirizzerà davvero le trasformazioni nella direzione desiderata.

È necessario ricordare che comunque, nel merito delle azioni da compiere, a tutti i contenuti del Ptrc le decisioni relative alle trasformazioni (ai progetti, agli interventi, ai finanziamenti, alle autorizzazioni) spettano di fatto alla Regione. Se questa non avrà definito le scelte con precise regole chiaramente espresse, potrà agire in modo estremamente discrezionale: consentire a un comune ciò che nega a un altro, e così via. Meno il piano è preciso, più è discrezionale l’azione dell’autorità che pianifica e che in ultima istanza ha il potere decisionale.

La maggiore o minore efficacia di un piano va quindi cercata nell’analisi delle sue componenti che hanno efficacia precettiva: le norme tecniche d’attuazione, e le tavole cui esse esplicitamente e formalmente si riferiscono. Gli altri elaborati sono utili per comprendere la realtà cui il piano si riferisce e per argomentarne le scelte se tra essi e i precetti c’è coerenza e consequenzialità. Possono poi servire a comprendere la strategia che si intende seguire: il gioco di potere che si nasconde dietro al piano e a cui il piano serve.

I documenti di analisi, gli obiettivi dichiarati, le intenzioni espresse

Il lavoro preparatorio del Ptrc è stato ampio sia nel senso della ricchezza del materiale informativo e valutativo raccolto sia in quello della quantità e della qualità delle competenze, interne ed esterne all’amministrazione regionale, che sono state impiegate.

Ci si limita in questo paragrafo ad accennare ad alcuni elementi, che verranno poi ripresi e sviluppati nella parte successiva del documento.

Ricche e complete appaiono in primo luogo le analisi relative agli aspetti ambientali e naturalistici riassunte in vari capitoli della Relazione generale, esposte nella Relazione ambientale e raccolte in apposite componenti del Quadro conoscitivo. Ciò che ancor più interessante è il fatto che da tali analisi si ricavino, nel testo stesso delle relazioni fatte proprie dall’amministrazione regionale, indicazioni operative che spesso, più che volte a indirizzare, guidare, suggerire, sottolineano l’urgenza di prescrivere tutele e salvaguardie di immediata operatività. Così come interessante e positivo appare il fatto che vi si sottolinea la necessità di appositi istituti e provvedimenti, come ad esempio l’Osservatorio regionale del paesaggio e la Rete ecologica.

Molto positivo appare ancora l’insieme delle schede contenute nell’Atlantedegli ambiti di paesaggio. Se si prescinde da qualche valutazione critica e qualche proposta correttiva che si può formulare sull’una o sull’altra scheda, il lavoro avrebbe potuto costituire una delle due componenti (l’altra deve consistere nella individuazione dei beni appartenenti a ciascuna delle “categorie di beni” tutelati dalla legislazione nazionale e implementabili dalla pianificazione regionale) di un vero e proprio piano paesaggistico.

Del tutto condivisibili appaiono poi le valutazioni che si formulano, in più capitoli della Relazione generale, sull’entità dei danni provocati dall’abnorme consumo di suolo già avvenuto, in corso e programmato dalle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti. Lo sprawl (la disordinata espansione a bassissima densità dei centri urbani, la disseminazione di costruzioni d’ogni tipo e la proliferazione di strade di tutte le dimensioni) appare correttamente indicato come una delle principali cause del degrado progressivo dei paesaggi e dell’ambiente dal Veneto. I dati raccolti e la capacità di analisi precisamente territorializzata del fenomeno che essi rivelano appare come una base sufficiente a definire politiche mirate, immediatamente agibili e suscettibili di arrestare senza indugio il progresso della distruzione del territorio.

L’insieme delle analisi specifiche (di cui abbiamo qui sottolineato solo alcuni degli aspetti positivi) trovano una buona sintesi pre-operativa nel Quadro sinottico del sistema degli obiettivi. Tuttavia questo documento, più che indicare i traguardi raggiungibili con il Ptrc, potrebbe costituire l’utile sommario di una critica distruttiva.

Quattro elementi critici

Analizzando il Ptrc nella sua struttura complessiva emergono quattro versanti di critica:

critica all’efficacia del piano, nel senso della mancata coerenza tra le analisi e gli obiettivi positivi espressi nella parte illustrativa del piano e le scelte formulate nella parte precettiva;

critica, in particolare, al modo in cui la Giunta regionale tenta con il Ptrc di eludere le responsabilità che l’articolo 9 della Costituzione e i conseguenti provvedimenti normativi pongono a tutte le istituzioni della Repubblica (e in primis alle regioni) in ordine alla tutela del paesaggio;

critica allo forte riduzione dei poteri degli enti locali nell’esercizio delle loro competenze in merito al governo del territorio e alle conseguenti scelte territoriali;

critica alla strategia sottesa al Ptrc, dichiarata esplicitamente in alcuni documenti e convalidata dai contenuti precettivi del Ptrc.

In sintesi, mentre il piano afferma di voler tutelare l’ambiente e il paesaggio, contrastare il consumo di suolo, migliorare la vivibilità, rafforzare l’identità dei luoghi, migliorare la vivibilità, nella sostanza la giunta regionale attribuisce a se stesso il potere di decidere i grandi interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e lascia mano libera ai piccoli, medi e grandi poteri immobiliari di trasformare a loro piacimento il resto del territorio, con una sostanziale finalizzazione al mero sviluppo immobiliare.

L’INEFFICACIA

Nessun vincolo

Il prologo delle norme tecniche d’attuazione rivela una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. A questo proposito va detto innanzitutto che quando si parla di “vincoli” sembra che si parli unicamente di utilizzazioni del suolo che non comprendono l’edificabilità. Dal linguaggio adoperato dai pianificatori regionali sembra che destinare un’area a un bosco, a un alveo fluviale o a un’attività agricola, alla fruizione di un’area archeologica o alla difesa dalle frane o delle falde idriche, significa porre un “vincoli”: meno si “vincola”, cioè meno si sottrae all’ urbanizzazione del territorio, meglio è.

Nei documenti del piano si afferma del resto esplicitamente l’inefficacia del piano. Sempre nel Prologo alle norme, quando si definisce “Il Ptrc di seconda generazione”, si dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Si precisa che “il Ptrc persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano appare evidente dal contesto: i “cittadini” cui ci si rivolge sono i proprietari immobiliari, interessati a uno “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.

Che c’è dietro l’inefficacia:

alcuni esempi

La rinuncia all’efficacia nasconde la possibilità dell’attività edilizia di procedere indisturbata su tutte le aree, anche in quelle per le quali a parole si esprime una intenzione di più adeguata utilizzazione. Facciamo alcuni esempi.

Le zone agricole

La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono obiettivi più volte dichiarati. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: “agricoltura periurbana”, “agropolitane in pianura”, “ad elevata utilizzazione agricola”, “ad agricoltura mista a naturalità diffusa”. Questa aree sono definite su di una cartografia a piccolissima scala e sono del tutto indeterminate nei loro confini.

Ragionevolmente, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree dovrebbe comunque essere esclusa l’urbanizzazione. Ma non è così.

Nelle aree ad “agricoltura periurbana”, e in quelle “agropolitane in pianura” bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”. Inoltre, in quelle ad “agricoltura periurbana” bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, e in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale delle attività agricole”.

Nelle stesse aree ad “elevata utilizzazione agricola” bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”

Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.

La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la “rete ecologica”, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!

Il sistema produttivo

Per il sistema produttivo il piano definisce numerose tipologie territoriali. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”.

Accanto a queste, che sembrano occupare, nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, definite in termini settoriali e non territoriali,che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.

In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”. Meri suggerimenti, che peraltro invitano ad aumentare l’estensione e la quantità dei volumi destinati alle attività produttive.

Aree urbane

Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela il medesimo criterio. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge per lo sviluppo dell’edilizia, impropriamente chiamato “piano casa”), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.

Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accedere a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano seri studi di economia, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.

L’ELUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ DI CONTRIBUIRE

ALLA TUTELA DEL PAESAGGIO

Premessa

Come è noto, la Regione Veneto dispone di un pano paesaggistico ai sensi delle leggi vigenti a partire dal 1992. Esso è costituito dal Ptrc adottato nel 1986 e approvato il 13.12.1991, cui è stata conferita la caratteristica di “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” ai sensi della legge 431/1985 (legge Galasso). Si tratta di un’analisi e una disciplina del paesaggio che risale a vent’anni fa, e che quindi meriterebbe certamente di essere aggiornata, specificata, integrata, sia per tener conto di elementi significativi che in quelli anni potevano non sembrare rilevanti e oggi invece lo sono, sia delle estese situazioni di degrado sopravvenute nel frattempo e che meriterebbero di essere segnalate e cui si dovrebbero attribuire specifiche azioni di restauro ambientale e paesaggistico, sia infine della sopravvenuta disciplina, ben più matura e incisiva, definita con le successive versioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs 42/2002 e successive modifiche).

Del resto, nella formazione del Ptrc ora in corso di discussione la Regione ha svolto una serie ampia e significativa di analisi sul paesaggio e l’ambiente, di qualità complessivamente notevole. I suoi risultati sono ulteriormente elaborati e rappresentati in alcuni dei documenti che compongono l’ampio pacco del Ptrc, e in particolare nell’Atlante ricognitivo degli ambiti del paesaggio, il quale definisce almeno alcuni degli elementi di tutela richiesti dal citato Codice.

Va considerata quindi una prima grave carenza del Ptrc, a proposito della tutela del paesaggio, la rinuncia ad aver costruito il nuovo piano conferendogli la qualità di “piano paesaggistico”, e quindi di non aver proceduto – per quanto riguarda la tutela – all’intesa con gli organi del Mibac (Ministero per i beni e le attività culturali), come la legge dispone. Una carenza indubbiamente d’ordine culturale, politico e sociale, se è vero che il paesaggio è un rilevantissimo patrimonio della collettività, cui è affidato il benessere attuale e futuro dell’intera popolazione.

É quindi molto grave l’affermazione che si formula nel “preambolo” dove, disattendendo sia la Convenzione europea sul paesaggio sia il Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Giunta dichiara che provvederà solo successivamente (senza neppure precisare la data) a redigere il piano paesaggistico, e quindi a integrare il paesaggio nella pianificazione territoriale e urbanistica” – come richiede la Convenzione europea . Con questa decisione la regione rinuncia ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali. Rinuncia cioè all’unico strumento che avrebbe la forza di dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Ciò è particolarmente grave in una situazione nella quale, per effetto della legge regionale sull’edilizia, minaccia di scatenarsi l’edificazione senza remore né ostacoli. La tutela del paesaggio, seppure arriverà, lo farà troppo tardi.

Il tentativo di eludere la vigente tutela del paesaggio

La legge dispone che le previsioni dei piani paesaggistici “sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle provincie, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle diposizioni contenute negli atti di pianificazione” (Codice dei beni culturali e del paesaggio, articolo 145, comma 3).

La medesima legge dispone altresì che, per le regioni, come il Veneto, già dotate di un piano paesaggistico, questo venga adeguato alle nuove disposizioni entro una data, che è stata portata con successive proroghe al 31 dicembre 2009. Ovviamente, fino all’entrata in vigore della nuove disposizioni vigono le precedenti tutele, quindi la disciplina di cui al Ptrc1986/1991.

Viceversa la Giunta regionale tenta una pericolosissima violazione della legge. Si vorrebbe infatti disporre che le aree e gli ambiti di particolare tutela del Ptrc1986/1991 sopra citati, ancora sotto la tutela di competenza statale definita da quel piano, “possono essere disciplinati, fatto salvo il Piano Faunistico Venatorio regionale di cui alla legge regionale 5 gennaio 2007, n. 1, mediante i Piani di Area dell’art. 48 della legge regionale 23 aprile 2004 n. 11, oppure attraverso PAT o PATI” (articolo 72, comma 1, lettera b).

In altri termini un singolo comune, o un gruppo di comuni, è lasciato arbitro di una tutela che la Costituzione mette in capo alla Repubblica e che la stessa Costituzione, per quanto riguarda la tutela, attribuisce alla competenza esclusiva della legislazione statale. La tutela diviene “possibile” e non cogente, ed è comunque lasciata alla buona volontà di questo o quel comune, disomogenea e a pelle di leopardo.

Questo tentativo è particolarmente grave anche perché ingenera nel fruitore del Ptrc la convinzione che le disposizioni di tutela dei beni paesaggistici del Ptrc1986/1991 siano decadute. Si potrebbe pensare che esse vengano disattese dalla stessa Regione, per esempio nell’’attivazione di “progetti strategici” di cui all’articolo 5 delle Norme. Molti di tali progetti ricadono su aree opportunamente tutelate dal previgente Ptrc e dai suoi strumenti attuativi.

Una specifica osservazione presentata propone di conseguenza di eliminare, dall’articolo 72, l’intera lettera b), e di precisare con un apposito comma aggiunto che le tutele del Ptrc previgente esplicano ancora tutta la loro efficacia.

LA RIDUZIONE DEL POTERE DEGLI ENTI LOCALI

La tendenza generale

In Italia è già in corso da anni un trasferimento di poteri dal basso verso l’alto e dall’ampio al ristretto. Mentre da un lato si predica la partecipazione, dall’altro lato, e nei fatti, si trasferiscono competenze (e perfino conoscenze) dagli organi collegiali a quelli ristretti, da quelli che rappresentano la pluralità delle posizioni e l’insieme degli elettori a quelli che esprimono “chi ha vinto”: dai consigli ai sindaci e ai presidenti. In nome della governabilità si minano le radici della democrazia.

Alcune delle scelte più rilevanti del Ptrc si inseriscono perfettamente in questa linea. Ci riferiamo soprattutto a due elementi: il ricorso ai “progetti strategici” e il ruolo della rete infrastrutturale e delle sue connessioni col territorio. Ma si potrebbe aggiungere che la stessa genericità delle norme consente alla Regione il massimo di discrezionalità nelle procedure di approvazione degli atti degli enti locali, e quindi il massimo di potere nelle mani del Presidente e della Giunta regionale.

Ciò vale per i piani comunali come per quelli provinciali; l’approvazione di questi ultimi, del resto, è stata sempre rinviata dalla giunta regionale, in modo da ritardare il trasferimento delle competenze di approvazione dei PAT comunali.

Progetti strategici

Secondo la legge regionale 11/2004, articolo 26, “per l’attuazione dei progetti strategici l’amministrazione, che ha la competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, ai sensi dell'articolo 7, che assicuri il coordinamento delle azioni e determini i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.

L’accordo di programma è uno strumento che consente di accordarsi tra i capi delle amministrazioni interessate, di tagliar via tutte le fasi di conoscenza allargata delle decisioni che si stanno assumendo anche in variante agli strumenti urbanistici, senza seguire la procedura di consultazione democratica che le procedure urbanistiche normali consentono. Il Consiglio comunale o provinciale, cioè l’organo collegiale eletto da tutti i cittadini e nel quale sono presenti le rappresentanze di tutte le posizioni politiche, culturali, sociali, viene informato solo all’ultimo momento, ed è competente per la mera ratifica di decisioni già prese.

L’accordo di programma è quindi lo strumento ideale per chi vuole decidere in fretta senza che nessuna sappia che cosa, a favore di chi e con quali conseguenze. É lo strumento adoperato con larghezza negli ultimi anni proprio per scardinare quel tanto di procedure democratiche e di decisioni sistemiche che la pianificazione urbanistica e territoriale consente.

La parte del leone nell’accordo di programma lo fa chi promuove l’azione e ne controlla materiali e tempi; nel caso specifico dei “progetti strategici” e delle grandi infrastrutture è la Giunta regionale che propone e, in ultima istanza, decide.

Guardiamo gli argomenti di alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, di darsene e porti turistici ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba ai comuni); l’ambito portuale veneziano; le neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.

I caselli autostradali (e le stazioni del sistema ferroviario)

Il disegno complessivo della Giunta regionale per il territorio diventa chiaro via via che si procede alla sua lettura. È un sistema centrato sulla rete autostradale e sulla utilizzazione intensiva delle aree circostanti i caselli. Là devono addensarsi le attività direzionali nuove da promuovere, la ricettività alberghiera, i centri commerciali, tutti i centri d’interesse. Poco importa che non esista alcuna seria dimostrazione dell’esigenza di aumentare le sedi per tali attività senza verificare la possibilità di ospitarle nelle strutture edilizie esistenti o nelle aree dismesse. Poco importa che con questa operazione si svuotino le città e si condannino al deperimento i centri storici.

Ciò che conta è che le decisioni relative a questi nodi li assuma tutti la Giunta regionale. Le norme infatti stabiliscono (articolo 38) che “le aree afferenti ai caselli autostradali, agli accessi alla rete primaria ed al Sfmr per un raggio di 2 Km dalla barriera stradale sono da ritenersi aree strategiche di rilevante interesse pubblico ai fini della mobilità regionale. Dette aree sono da pianificare sulla base di appositi progetti strategici regionali”.

Le aree dove si prevede di concentrare lo sviluppo immobiliare e finanziario, e insieme con esse i cuori delle aree urbane (poiché tali sono spesso le stazioni ferroviarie) sono sottratte al potere dei poteri locali: sono affidati alla Giunta regionale.

I grandi assi infrastrutturali

Un’attenzione particolare il Ptrc pone agli assi infrastrutturali, e in particolare quello costituito dal Corridoio intermodale europeo V. Il piano definisce “territori strutturalmente conformati le aree e le macroaree produttive connesse” a tale corridoio, “nel tratto compreso tra Verona e Portogruaro, per una profondità non inferiore a km. 2,00 dalle infrastrutture”. Le province “determinano i criteri per il funzionale posizionamento degli ambiti produttivi rispetto al fascio infrastrutturale” articolo 43), “favoriscono la razionalizzazione della rete distributiva esistente attraverso la localizzazione di macroaree prioritariamente collocate in prossimità delle grandi vie di comunicazione”.

Benchè l’apparato grafico del Ptrc sia costituito da disegni ideogrammatici, del tutto indeterminati nell’individuazione delle aree specificamente interessate dai diversi tipi di insediamento, è facile comprendere che il Ptrc fornisce la base per rilanciare i grandi progetti di trasformazione del territorio avanzati da gruppi d’interesse cha assumono come obiettivo della loro azione la valorizzazione economica (cioè la speculazione immobiliare) delle aree di cui sono venuti in possesso. Si tratta in particolare delle iniziative denominate in altra sede Veneto City e Città della Moda lungo la direttrice tra Padova e Venezia, e Marco Polo City sul bordo Nord-Est della Laguna di Venezia, in corrispondenza all’aeroporto di Tessera, ribattezzato “cittadella aeroportuale”, e per ciò stesso dotato di cubature da perequare (articolo 40).

LA STRATEGIA

Una “seconda modernità” preoccupante

La strategia della Giunta del Veneto emerge con chiarezza dall’esame dei documenti che abbiamo riassunto nei precedenti paragrafi. Ma essa è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Esso trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa, mentre vengono del tutto ignorati i contributi di altri esperti, tra cui i compianti Eugenio Turri e Mario Rigoni Stern.

In quello scritto l’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti vi sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.

Su questa linea si arriva ad affermazioni francamente aberranti.

Come quando si afferma (p. 36) che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicché il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate: come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione, se l’obiettivo non dovesse essere quello della difesa del territorio rurale nel suo complesso, e se non fosse già gigantesca l’area laterizzata e sottratta al ciclo della natura.

O quando si assume come “una prima spinta per il futuro” il fatto che la domanda abitativa “continuerà a essere rivolta prevalentemente verso una casa individuale, una bifamiliare o una villetta a schiera”, senza domandarsi da quali ceti sociali questa domanda proviene, che cosa comporti in termini economici e territoriali soddisfarla e quali ne siano le ricadute sul prezzo che la collettività presente e futura deve pagare per un simile lusso.

Oppure quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. Anche qui, si assume come guida il comportamento spontaneo di un sistema sregolato, quale quello attuale, o regolato da un sistema di deroghe e “accordi di programma” a loro volta derogatori, e si individua come modello dell’auspicato futuro ciò che è accaduto attorno al casello di Padova est.

Si ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.

Aumentare, intensificare, estendere l’urbanizzato

É abbastanza singolare, e a suo modo rivelatore, il rapporto che si stabilisce tra la spinta verso la realizzazione di nuovi volumi per ospitare attività produttive, commerciali, ricettive, ricreative e sportive e la contemporanea tutela della vitalità dei centri urbani, e in particolare dei centri storici.

Si raccoglie in anticipo l’obiezione che prevedere nuovi insediamenti omnibus in corrispondenza dei caselli autostradali, ove tali operazioni avessero successo non solo in termini di valorizzazione patrimoniale ma i volumi realizzati si riempissero effettivamente di funzioni, queste verrebbero sottratte ai centri urbani esistenti. Ciò è avvenuto dovunque centri commerciali, direzionali e altri simili “non luoghi” hanno sottratto attività, in particolare al commercio e ai servizi urbani.

Si corre subito al riparo raddoppiando. Feltrin suggerisce di incentivare “uno sviluppo edilizio verticalizzato, in modo da trasferire all’interno del centro urbano il centro commerciale tout-court” (p. 41). E le Norme raccolgono il suggerimento: si invitano i comuni a individuare anche nei centri urbani e in quelli storici “aree ed edifici che consentano l’insediamento di grandi strutture di vendita” (articolo 47).

Nella stessa direzione spingono le scelte che la Giunta regionale compie per quanto riguarda la residenza. Si afferma categoricamente che l’incremento demografico registrato negli ultimi anni, che si prevede possa continuare, “rende inevitabile un ulteriore aumento dell’edificato. Inevitabile, non c’è scelta” (Relazione dei proto, p. 94). Si trascura del tutto la presenza di una enorme quantità di volumi inutilizzati, e una quantità ancora maggiore di volumi previsti dagli strumenti urbanistici vigenti. Si trascura del tutto di domandarsi per quali ceti, in quali luoghi, in relazione a quali redditi esiste un problema di accesso all’alloggio. E, nel concreto, non si fornisce alcuna indicazione, alcun programma, alcuna ipotesi di finanziamento, se non la sollecitazione a costruire, intensificare, proseguire e “governare” l’espansione delle villettopoli.

Questa spinta all’espansione dell’urbanizzazione si sposa, da un lato, al disegno delle grandi infrastrutture, dall’altro, al proliferare delle iniziative di bricolage immobiliare.

Sul primo versante la citata Relazione dei proto suggerisce immagini significative: “Il passante di Mestre e il GRA di Padova lasciano prefigurare diversi possibili scenari di sviluppo per le due città. Se guardiamo a Mestre, il Passante potrebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di capitale regionale. In questa prospettiva, la convergenza delle strategie di densificazione con la capacità di dare soddisfazione alla domanda di capitale andrebbero nella direzione di processi di densificazione degli spazi compresi tra il nuo­vo passante e la vecchia tangenziale di Mestre. Secondo i criteri prima proposti: incrementare l’offerta abitativa e realizzare zone produttive e direzionali di dimensioni e caratteristiche tali da indirizzare qui la domanda”. Non è necessario lanciare una sfida ai politici, come il “proto” fa. L’hanno già raccolta in anticipo: si tratta dei progetti Veneto City e Marco Polo City, componenti della Città del Passante che ha già i suoi robusti sponsor, i suoi politici di supporto, e le sue proprietà immobiliari.

Sull’altro versante, quello del bricolage immobiliare, ecco la legge “veneta” che segue e raddoppia il “decreto casa” di Berlusconi , sbugiardando l’accordo stato-regioni che, grazie all’intervento moderatore delle regioni più responsabili, sembra prevedere misure molto più contenute e meno devastanti di quelle inizialmente prospettate. Una legge regionale, in attesa di approvazione all’indomani delle elezioni, che consente la moltiplicazione di tutte le cubature esistenti, residenziali e non residenziali, in deroga a qualsiasi strumento di pianificazione , perfino senza adeguare le aree a standards destinate ai Servizi.

La saldatura delle componenti del blocco edilizio

Appare ormai chiaro che dagli atti di politica del territorio dell’amministrazione regionale emerge una strategia che vede l’abile confluenza di due linee complementari.

Da un lato si programma l’ulteriore intensificazione della rete autostradale, in alcuni casi sostituendo strade statali e regionali oggi gratuite, l’utilizzazione dei caselli (e delle stazioni ferroviarie), dei passanti e dei raccordi autostradali, come sedi di nuove concentrazioni immobiliari e la sottrazione ai poteri comunali delle grandi trasformazioni del territorio.

Dall’altro lato, una normativa che lascia briglia sciolta a livello locale a tutti i piccoli (e meno piccoli) interessi immobiliari, rafforzata da una legge per l’edilizia che incentiva l’aumento indiscriminato di tutte le volumetrie disponibili sul martoriato territorio veneto. Le affermazioni virtuose di tutela della natura e dell’ambiente, dell’agricoltura e della montagna, sono vanificate da una normativa che proclama il buono senza negare il cattivo, utilizza termini accattivanti ma privilegia la libertà della proprietà di costruire senza vincoli; e premia con ulteriori volumi chi vuole continuare ad allargare la già gigantesca impronta ecologica del Veneto.

Tre giorni da "sogno" con la Riviera del Brenta in festa per i beni comuni. Dal 14 al 16 agosto al ristorante cooperativo La Ragnatela (a Scaltenigo di Mirano) ci sarà una tavolata per tutti, buona musica e come sempre grande attenzione al territorio. Quest'angolo di Veneto - fra ville palladiane e scampoli di natura - rischia di essere letteralmente sommerso da una colata di cemento. I Comitati Ambiente e Territorio dall'agosto 2007 sono impegnati a manifestare contro la "città delle gru" che mina il futuro di un'area a cavallo fra padovano e veneziano. «I nuovi progetti autostradali come la camionabile al posto dell' abbandonata Idrovia, il nuovo elettrodotto Terna da 380.000 Volt; la cosiddetta Romea commerciale con una bretella di collegamento al Passante di Mestre che attraverserebbe Sambruson di Dolo tagliando l'asse storico del Naviglio con le sue ville. E poi i nuovi progetti insediativi di milioni di metri cubi della cosiddetta Veneto City fra Dolo, Pianiga e Mirano, ma anche la Città della Moda a Fiesso d'Artico. Tutte ferite, forse mortali, per questo territorio e per il suo paesaggio» spiegano gli attivisti del Cat. Se ne riparlerà alla tradizionale festa estiva, promossa dalla coop La Ragnatela che ha ormai conquistato chiunque sia affezionato allo Slow Food e alla buona cucina con prodotti a chilometro zero.

"WeHave a Dream" recita lo slogan dell'edizione 2011 con tanto di Hyde Park a Scaltenigo per indignarsi e ritrovarsi nello spirito vincente dei referendum. Si comincia domenica 14 agosto alle ore 18 con Carlotta Mancuso che svela i sogni di Emergency e Libera, mentre alle 21 è annunciato Francesco Baldini con i suoi stravaganti ospiti incogniti in concerto.

A Ferragosto il programma prevede alle 12 cittadini comuni e ospiti "illustri" intorno alla stessa tavolata. Nel pomeriggio, Manjari e sapori dal Madagascar con la performance di Alessandro Ferrotti. Alle ore 18, “mi no digo gnente ma gnanca taso” (tipica espressione veneta: non dico nulla, me nemmeno taccio) con protagonisti proprio i comitati che si sono messi in testa di salvare la Riviera del Brenta dalle Grandi Speculazioni dei padroni del "ciclo del mattone". Intervengono Mattia Donadel e Roberta Manzi del Cat. In serata, blues e rock per tutti. Il bollettino InCATzati è più che esplicito: «Una decina d'anni dopo la costituzione della società Veneto City spa, il sogno dell'ingegner Luigi Endrizzi (che a Padova Est è stato l'artefice dell'operazione Ikea) comincia a concretizzarsi. Con la firma della bozza di accordo di programma tra Regione, Provincia, amministrazioni di Dolo e Pianiga e la società Veneto City spa (di cui Endrizzi è presidente, mentre Rinaldo Panzarini, già direttore della Cassa di Risparmio del Veneto, è l'amministratore delegato).

Progetto diviso in due fasi. La prima, che copre i prossimi dieci anni, prevede la realizzazione di 500mila metri cubi di superficie suddivisi secondo varie funzioni su di un'area di 715.000 metri quadri. Valore stimato dell'operazione, circa 2 miliardi di euro; alle amministrazioni interessate andranno i contributi di costruzione - stima sui 50 milioni - e i futuri proventi dell'Ici ripartiti all'80% per il comune di Dolo e il 20 % per quello di Pianiga». Ecco, in piena estate c'è ancora chi si prende la libertà di sognare ad occhi aperti un altro "sviluppo". Alternativo, finalmente, alla Veneto Connection di politica & affari. Un futuro di libertà, almeno dall'urbanistica formato cemento.

CASALE SUL SILE (TV) - Sedici miliardi da investire. Di cui oltre 14 ancora da trovare. La strada dell'Alta velocità ferroviaria in Veneto è tutta in salita e le magre disponibilità dei fondi pubblici non fanno pensare a soluzioni a breve. I protocolli d'intesa Governo-Regione si sprecano (l'ultimo è di ieri) ma i fondi sono un'altra cosa. E intanto la logistica locale scoppia, i costi di trasporto sono oltre la media europea, l'Expo 2015 è già un appuntamento perso.

Così gli imprenditori veneti decidono di alzare il pressing, facendosi parte attiva nel reperimento dei capitali per realizzare l'opera. Progetto ancora embrionale, che partirà avviando un tavolo con la Regione, e che tuttavia identifica un nuovo approccio ai problemi. «Non possiamo solo lamentarci - ricorda il leader di Confindustria Veneto Andrea Tomat - occorre anche un impegno diretto». Che però, per concretizzarsi in un disegno reale di project financing, richiede alla politica soprattutto certezze. Nelle regole di remunerazione del capitale, nella durata delle gare, nei costi da sostenere, nei tempi per la realizzazione dell'infrastruttura.

Tre ore da Milano a Treviso. Tre ore da Milano a Roma, con il doppio dei chilometri però. Il problema, in fondo, è tutto qui. È il motivo per cui gli imprenditori del Nord Est chiedono con forza che l'alta velocità ferroviaria coinvolga anche il territorio più industrializzato d'Italia, quello in cui però logistica ed efficienza dei trasporti non riescono a tenere il passo con le esigenze crescenti dell'economia. A Casale sul Sile, due passi da Treviso, imprenditori ed amministratori locali provano ad uscire dalla routine del solito dibattito per proporre un'azione autonoma.

'La Tav ce la facciamo da soli' è lo slogan della giornata, legato a un progetto proposto da Confindustria e Ance del Veneto che punta a coinvolgere i capitali privati nell'operazione. Impegno ciclopico, considerando che le tratte di binari mancanti, da Treviglio a Padova e da Mestre a Trieste prevedono 15,8 miliardi di investimenti, di cui - ricorda il vicepresidente di Confindustria Cesare Trevisani -, solo 1,4 miliardi già finanziati con risorse pubbliche. «Ma non sono i soldi a mancare - osserva -, i capitali privati si trovano, a patto di poter offrire agli investitori certezze su tempi, regole e costi. Per fare questo occorre ridurre l'impatto dei veti locali, sfoltire ulteriormente le conferenze dei servizi, garantire un ritorno sul capitale investito che possa convincere i privati della bontà dell'operazione».

Il primo passo le imprese venete lo compiono aprendo un tavolo di confronto con la Regione, già accettato da Zaia, per studiare una proposta «semplice e concreta sia sotto il profilo tecnico che finanziario». L'idea è quella di allargare il consenso, cercando anche sponde finanziarie dirette, come ad esempio Veneto Sviluppo. Nessun dubbio tra imprenditori ed enti locali sul fatto che la Tav a Nord Est debba essere considerata un'opera prioritaria dall'intero paese.

«Le infrastrutture - spiega il presidente di Ance Veneto Luigi Schiavo - sono il motore per l'intero territorio». «È il sistema dedicato all'export - rilancia il presidente dell'Autorità portuale di Venezia Paolo Costa - che chiede a gran voce di eliminare strozzature e colli di bottiglia». E i soldi? Possibilista è Mario Ciaccia, ad di Biis, il 'braccio' infrastrutturale di IntesaSanpaolo. «Pronti a strutturare un'operazione - spiega - e disponibili anche a prendere direttamente una piccola quota del progetto, per dare un segnale e invitare altri investitori a partecipare.

L'auspicio è l'avvio di uno schema di project financing, valutando magari la creazione di una società della mobilità del Nord Est per avere un'unica regia. A patto però che ci siano regole chiare e che si agisca in un'ottica di sistema per incrementare il traffico attuale». Tema fondamentale, quello dei volumi gestiti sui binari, anche per Trevisani.

«La domanda attuale non è sufficiente e la connessione con i sistemi portuali - chiarisce - diventa un tassello fondamentale per rendere conveniente l'operazione. In questo senso i progetti di sviluppo dei porti di Venezia e Trieste non sono e non devono essere considerati alternativi. Ecco perché a mio avviso occorre agire anche a livello costituzionale, riportando le infrastrutture strategiche all'interno della competenza statale».

E intanto? Qualche passo avanti in realtà c'è e proprio ieri la Regione ha siglato l'8° atto aggiuntivo all'accordo quadro Regione-Governo sulle opere strategiche, atto che prevede le priorità a cui destinare le risorse, tra cui appunto la Tav. L'Università Bocconi intanto stima che i costi del 'non fare' arrivano a 112 milioni per chilometro. Per la sola linea Milano-Verona si tratta di 16 miliardi, pagati in ritardi, inefficienze, appuntamenti mancati ecc.. E anche turisti che non arrivano. Per quanto il pressing delle imprese possa accelerare i tempi, è già chiaro che l'Expo 2015 sarà un lontano ricordo quando i primi cantieri inizieranno a operare.

Nelle immagini dell’«acqua granda» tornata prepotente per Natale, che stanno facendo il giro del mondo, si vede sempre e solo la piscina di piazza San Marco. Mai Musile o Bovolenta. Per certi versi è logico. Musile e Bovolenta non le conoscono nel mondo. Eppure il nuovo incubo dell’alluvione sta colpendo al cuore soprattutto la terraferma. Quella veneziana, quella veneta, quella nordestina. E sta facendo molti più danni, danni seri, danni veri, di quanti non ne faccia nella città che fu dei dogi. Al punto da far pensare che una nuova Legge Speciale, ammesso che serva, sia più necessaria per il Veneto, e per l’intero Nordest, che per la città Serenissima.

Colpa dell’abbandono in cui è stato colpevolmente lasciato da decenni il territorio. Della mancanza della più elementare manutenzione ordinaria. Dell’assenza di interventi sui fiumi e sui canali, sugli argini e sulle rive, nei fossi e nelle rogge, nel sottosuolo e sulle montagne. Colpa della scriteriata cementificazione di ogni metro quadro disponibile in nome della più brutale avidità. Colpa della dissennata costruzione di casette, villette, villaggetti, fabbrichette, capannoni e ipermercati dappertutto, anche in zone considerate a rischio, lungo le sponde e sotto gli argini, dove un minimo di buon senso avrebbe consigliato quantomeno prudenza.

Gli alluvionati dell’entroterra pagano così lustri di dissesto e di voracità dei loro governanti, ma anche loro proprie. E non è un fenomeno nuovo. Anzi si può dire, come per il ritorno dell’«acqua granda», che si tratti di una recidiva.

Quarantaquattro anni fa, al tempo dell’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966, proprio quello spettro che oggi si riaffaccia minaccioso, quando la devastazione del territorio era solo iniziata e non ancora come oggi compiuta, successe esattamente la stessa cosa. Rimase sottotraccia nell’opinione pubblica, sconvolta ed emozionata dal dramma di città d’arte famose come Venezia e come Firenze, ma successe. E il bilancio reale, non quello mediatico, fu molto più devastante nelle città, nei paesi e nelle campagne dell’entroterra, che tra le antiche e preziose pietre di Venezia.

Il capoluogo lagunare ebbe 14 mila alluvionati, mille senzatetto, 4 morti e 40 miliardi di danni calcolati nelle vecchie lire dell’epoca. Delle quattro vittime va detto che nessuna di loro perì travolta dalle onde dell’«acqua granda». Morirono per infarto o per essere scivolati dalle scale. Nelle Tre Venezie, invece, come veniva chiamato a quel tempo il Nordest, i morti furono 78, e quasi tutti portati via dalle acque infuriate. I sinistrati furono 180 mila, i senzatetto 3 mila, i miliardi di danni 400. Venti volte le vittime e dieci volte gli alluvionati e i danni di Venezia. Si parlò molto meno del disastro della terraferma. Ma tra il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige i comuni colpiti dall’alluvione furono 429. Ma il mondo guardò solo alla bella Venezia e alla romantica Firenze. Solo per loro si mosse la solidarietà internazionale, solo per loro si attivarono i governi, solo per loro si pensò di stanziare dei fondi.

Del dramma di quelle campagne allagate e annegate non si occupò nessuno. Non importava a nessuno di Musile o Bovolenta. Non se ne occuparono e non se ne sono più occupati, nei quarantaquattro anni che sono passati da quel giorno, se non per devastarle e per riempirle di cemento. Ora non è la natura che si ribella, e diventa all’improvviso cattiva. Non c’è alcuna fatalità in tutto questo. E’ che bastano quattro gocce di pioggia per ferire a morte una terra che è diventata fragile, perché violentata e abbandonata indifesa. Con il rischio che, adesso che torna inquietante quell’incubo, i danni di una nuova, eventuale alluvione, siano molto più devastanti di allora.

Cemento e burocrazia così i nostri fiumi diventano una minaccia

di Roberto Mania, Fabio Tonacci



VICENZA - «Vada in mona ghe se da vergognarse. Quel casso de, de…». Ce l’ha con il Bacchiglione il vecchio di Cresole, frazione di Caldogno, a due passi da Vicenza. Il fiume è lì a una cinquantina di metri, gonfio e melmoso, di nuovo prossimo alla piena. Resta ostile quel fiume. Compresso, ancora dentro gli argini indeboliti, mentre dal cielo continua a piovere. Tanto che ieri è di nuovo scattato l’allarme a Vicenza, alcune strade si sono allagate. C’è il rischio di una nuova alluvione a poco di un mese da quella di Ognissanti, quando acqua e fango entrarono violenti nella città, affondando tutta la campagna intorno, giù fino a valle alle porte di Padova. Tre morti (uno proprio qui a Cresole), danni per oltre un miliardo di euro.

Centocinquantamila animali annegati, tremila persone temporaneamente sfollate. I segni del disastro stanno scomparendo, però: ci si è messi al lavoro subito, senza aspettare gli aiuti e neanche le visite di rito dei governanti. L’antipolitica nordestina si pratica pure così. A Vicenza sono arrivate meno richieste di soldi per la ricostruzione di quanti ne siano stati stanziati. Ma perché si aspetta l’alluvione e i morti per intervenire? Perché è meglio l’emergenza anziché la manutenzione? Perché i disastri aumentano con il passare degli anni? Perché negli altri paesi è diverso?

LA RIMOZIONE

Il vecchio non ha mai amato il Bacchiglione che ha rotto solo poco più a nord e che già nel 1966 trasportò distruzione. Continua a disprezzarlo. Come un po’ tutti da queste parti. Perché c’è stata una sorta di rimozione collettiva, quasi a nasconderlo quel corso d’acqua con i suoi centodiciannove chilometri e il suo fittissimo reticolo di affluenti e sorgive. Qui, in questo pezzo della "metropoli padana" senza identità comune con un tasso impressionante di urbanizzazione, dove i capannoni e le casette con giardino si sono costruiti dovunque per aggrappare il benessere, si vive sopra l’acqua. Perché questa è la zona del Veneto dove piove di più. I paesi sono come sulle palafitte. Qui il fiume non lo vorrebbero più. Ricorda la fatica e la miseria dei secoli passati. Così l’hanno imbrigliato, rettificato, svuotato, spolpato, raddrizzato, modernizzato. Niente più anse, bensì un percorso dritto, veloce. Troppo veloce. Forse lo stanno uccidendo il fiume. Che come un animale in gabbia ogni tanto si ribella perché vorrebbe vivere, esondare e rientrare.

Ma il Bacchiglione non è altro che un fiume dell’Italia. Solo ieri sono scattati gli allarmi anche per il Piave, per il Secchia, per il Panaro. In Italia non si fa prevenzione perché alle elezioni non paga. Il nostro è il paese dove non si interviene a monte perché se ne avvantaggerebbe la popolazione a valle, dove si è imposta la strategia dell’emergenza al posto della normale manutenzione, dove si frammentano le competenze tra Genio civile, Autorità di bacino, Magistrato delle acque, Protezione civile, Consorzi di Bonifica, enti locali. Dove - certifica l’ultimo rapporto del Consiglio nazionali dei geologi - tra il 2002 e il 2010 ci sono state 35 frane e 72 alluvioni che hanno provocato 219 vittime, 126 per frane e 91 per alluvione.

Vuol dire 30 morti ogni anno a causa del dissesto idrogeologico. C’è stato un peggioramento dalla seconda metà degli anni Ottanta, e il picco nel decennio successivo. Con un costo dunque crescente: 52 miliardi nell’arco degli anni dal 1948 al 2009, pari a 800 milioni l’anno. Ma se si dividono i periodi (tra il ‘48 e il ‘90 e tra il ‘91 e il 2009) emerge che fino agli anni Novanta la media era di 700 milioni per diventare poi quasi il doppio: 1,2 miliardi a causa del non controllo. È l’Italia che produce i "disastri a km zero", tutti fatti in casa, autentici. Nulla di importato. Completamente colpa nostra. E tutti lo sanno. Da decenni e forse più.

CASE E CAPANNONI

Ancora a Cresole. In piazza della Chiesa il monumento ai caduti guarda dal basso in alto il Bacchiglione che scorre. Questa è una golena naturale. Era. Ora è un paesino che galleggia. Si tirano su le case a meno di trenta metri dal fiume. Sono previste già altre cinque palazzine a due piani. Cementificazione si chiama. Ma non è abusivismo, è tutto regolare qui. Case, capannoni e chiese. Quasi dentro il fiume. La sede della polizia municipale che un tempo ospitava la scuola elementare sta in Ca’ Alta, vuol dire strada alta. E dice tutto. Dal Duemila i residenti di Caldogno sono aumentati di mille unità, sono diventati 11.150. Si è costruito ma non si è fatto nulla per mettere in sicurezza la zona.

L’onda di Ognissanti ha buttato giù i garage, invaso gli interrati, distrutto le automobili. Da ieri si è ricominciato a tremare. Fa paura l’acqua. A novembre c’erano i sommozzatori qui in Piazza della Chiesa. Ora si ripara tutto, in fretta. Si rimuove, appunto. Perché è troppo tardi per mettere in discussione questo modello di sviluppo. Lo sa bene il sindaco di Caldogno, Marcello Vezzaro, ex Psi, eletto con una lista civica ("Amministrare insieme") formata da ex popolari, ex forzisti del Pdl. Con la sinistra e la Lega all’opposizione. L’Ici non c’è più, spiega, e gli oneri di urbanizzazione finiscono per essere una fonte importante di entrate. Costruire, allora.

Dice Michele Bertucco, presidente della Legambiente del Veneto: «Molti Comuni pensano di fare cassa non sapendo che questo porterà ad un aumento della spesa». Questa è l’Italia delle contraddizioni localiste, dei tagli ai trasferimenti dal centro alla periferia, del federalismo mal concepito, delle colate di cemento sempre e dovunque. L’Italia. E la Lega Nord? Il governo del territorio non doveva essere la risposta al malgoverno centralista di Roma?

Perché questa è anche l’Italia della Lega, del ribellismo nordista. Del rancore antistatalista. E - forse - di fronte all’acqua che avanza e alla richiesta di aiuti a Roma, del fallimento leghista.

«No, mi pare un’esagerazione parlare di fallimento», sostiene Ilvo Diamanti, politologo, cittadino di Caldogno, che ha definito «una tragedia minore» quella dell’alluvione perché consumata lontano dai «centri della comunicazione Roma e Milano». Aggiunge: «E’ piuttosto l’ evidenza che un modello di sviluppo localista ti rende vulnerabile. Ciascuno ha fatto programmazione nel proprio orto, nel proprio pezzo di terra. Si è costruito un territorio puntiforme senza programmazione comune. E questo territorio è diventato una plaga, una grande megalopoli inconsapevole. E’ Los Angeles, è Chicago. Ma tutti continuano a pensare in modo localistico». Il fiume è di tutti e allora non è di nessuno. Rimozione.

GUERRA DI LOBBY

Sul fiume si scontrano interessi, lobby contrapposte, corporazioni. Si combatte su e lungo quelle acque. Non solo contro la costruzione della nuova base militare Usa del "Dal Molin", dove a pochi metri dagli argini sono stati impiantati 3.500 piloni a una profondità di 18 metri. «Provocando un rialzo della falda di 20 centimetri», ci spiega Lorenzo Altissimo, direttore del Centro idrico di Novoledo, che del fiume, dei percorsi rettificati, delle trasformazioni di questo territorio e della sua popolazione, sa tutto.

Ci sono i contadini sussidiati dall’Unione europea che preferiscono essere espropriati dei loro terreni per destinarli alla costituzione delle cassa di espansione e si oppongono invece al meno remunerativo indennizzo, che include la manutenzione dell’argine; ci sono i "signori della ghiaia", che qui contano eccome, e anche quelli, un po’ in declino, dell’argilla con cui si fanno i mattoni. Antonio Stedile ha assistito in diretta dai campi della sua azienda alla rottura del Timonchio, affluente del Bacchiglione. I suoi campi sono immersi nell’acqua ma i danni sono stati relativi. Da venti anni provava a spiegare quanto fosse pericoloso il fiume e debole l’argine. Inutilmente. Ma lui, come gli altri agricoltori, si oppone alla cassa di espansione e alla diversa destinazione produttive dei campi. C’è un "fronte del no" guidato da Gianfranco Farina, che non è un agricoltore bensì un tecnico. Rappresenta la maggior parte dei contadini. Dicono no al progetto della cassa di espansione.

Rinviare gli interventi ci ha fatto almeno risparmiare? C’è stato un beneficio per le casse pubbliche ai vari livelli? C’è chi ha fatto qualche conto: se la cassa fosse stata realizzata trent’anni fa sarebbe costata meno di 35 milioni di euro, quasi la metà dei danni provocati dall’alluvione dei primi di novembre. Sprechi.

Cambiare le coltivazioni potrebbe essere una soluzione? Oppure: non si dovrebbero lasciare gli spazi per far esondare i fiumi? I contadini sostengono che quei terreni perderebbero di valore, che le falde sono destinate ad essere inquinate, che l’indennizzo è ridicolo e che, infine, il progetto di passare dalle attuali coltivazioni (dal mais alle erbe mediche agli alberi da frutto) a quella di alberi da legno a ciclo breve da tagliare a fini energetici non stia in piedi.

Dietro il progetto della cassa a Caldogno ci intravedono la sagoma delle imprese dell’argilla. Perché le lobby sono sempre in agguato. Dappertutto, nel paese dei mille campanili. Sono pronti - gli agricoltori di Caldogno - a ricorrere al Tar e poi agli organismi comunitari, come si fa sempre in Italia. Rilanciano allora: mini bacini a monte per ridurre la velocità del fiume. L’idea, tra le altre, è di costituirne uno su a Meda, dopo Piovene Rocchetta, sull’Astico, affluente del Bacchiglione. E’ un’idea antica. Si trattava di alzare la diga dagli attuali 23 a 45 metri. Il ricordo della tragedia del Vajont bloccò tutto - per sempre - quasi cinquant’anni fa. Mezzo secolo buttato. Ora non è neanche possibile immaginare un innalzamento della diga perché l’area è diventata industriale.

Le fabbriche, d’altra parte, sono entrate nel fiume, o il fiume è entrato nelle fabbriche. Ma è la stessa cosa. Dove c’era il Cotonificio Rossi - siamo a Debba, periferia di Vicenza - c’è ora una serie di capannoni. C’è da quasi quattordici anni anche la Sdb di Claudio Bagante, produce cavi elettrici speciali. Il fiume è lì a un passo. È entrato dentro il capannone trascinando fango e detriti. Bagante stima di aver subito un danno intorno ai 200 mila euro. Ha buttato 15 tonnellate di rame. Dieci giorni di fermo produttivo, poi ha ripreso, insieme ai suoi venti dipendenti, dopo aver rimesso in ordine la fabbrica, smontato e ripulito tutti motori dei macchinari. Circa l’80% della produzione va all’estero. «Questa - dice - è la nostra unica fonte di sopravvivenza». Prevedeva di chiudere l’anno con un fatturato intorno ai cinque milioni, saranno quattro e mezzo. «Nessuno - aggiunge - ci aveva avvisato di quello che stava accadendo».

I RIMEDI

Eppure tutto era prevedibile. Tutto. Come quasi sempre, in Italia. A Padova c’è uno dei dipartimenti di Ingegneria idraulica tra i più prestigiosi nel mondo. A guidare la "scuola padovana" è Luigi D’Alpaos, bellunese, ordinario di Idrodinamica, che da giovane assistente fece parte nella seconda metà degli anni Sessanta della "Commissione De Marchi" incaricata dal governo di individuare i rimedi per evitare i danni provocati dall’alluvione del 1966. Le proposte della Commissione stanno sul tavolo di D’Alpaos, un po’ ingiallite, alcune superate. Tutte inattuate. Decenni persi in chiacchiere, veti e controveti. Dice D’Alpaos: «Si è considerato il rischio idraulico come un accidente dal quale prescindere. Provate a trovare un sindaco che non abbia tombato un fosso per costruire una pista ciclabile! A Vicenza si lamentano ma hanno costruito la zona industriale dove passa il Retrone, affluente del Bacchiglione. Che, alla fine, è stato ingessato in maniera indecente».

Da quasi vent’anni D’Alpaos ha messo a punto un modello matematico che permette di calcolare, e prevedere, le conseguenze, lungo il tragitto, di una eventuale piena. Insomma la tragedia di Ognissanti, come tante altre, poteva essere largamente evitata. «Ma io - aggiunge D’Alpaos - non vado per gli uffici - e quali poi? - a proporre i miei studi. Non è compito mio. Tutti dovrebbero sapere quello che si fa in una università. C’è uno scollamento tra il mondo della ricerca e le istituzioni che ai diversi livelli devono decidere». Ma non è solo colpa della politica. Pure i tecnici, secondo il professore, non hanno avuto «la capacità di mantenere l’attenzione sul problema». E allora? «Servirebbe un dittatore delle acque, perché non c’è nulla di democratico nella gestione di un fiume». Ma forse è troppo tardi. Il Bacchiglione, come tutti i fiumi, statisticamente esonda più o meno ogni cinquanta anni. Ma si continua a stare fermi, ad aspettare la prossima tragedia. Bacchiglione, fiume italiano.

E a Vicenza e Padova torna la paura

di Filippo Tosatto

PADOVA - Torna l’incubo alluvione nel Veneto dove lo scioglimento delle nevi a bassa quota e le intense precipitazioni hanno ingrossato i fiumi a livello di guardia. In particolare, la possibile piena del Bacchiglione - il cui livello ha superato i cinque metri - fa vivere ore di angoscia a Vicenza, ancora ferita dalla valanga d’acqua del primo novembre. In serata sono stati allagati alcuni rioni e il sindaco Achille Variati (al quale il governatore Zaia ha conferito poteri di intervento urgente) ha esortato i commercianti a trasferire le merci in luoghi sicuri - «La nostra città non reggerebbe un altro disastro», ha dichiarato - mentre in tutti i quartieri i megafoni di vigili e volontari avvertono i residenti sui rischi di una possibile esondazione e li invitano a ridurre al minimo l’uso dell’auto. Numerose famiglie, che abitano nelle zone già colpite dall’alluvione, hanno preferito trasferirsi, magari solo per una notte, da parenti e amici, in attesa di capire l’evolversi della situazione.

Nelle vie centrali più a rischio, lo shopping natalizio ha lasciato spazio ai sacchi di sabbia mentre la protezione civile ha riaperto l’unità di crisi in prefettura. Ore d’ansia anche nella vicina Caldogno, la cittadina di Roby Baggio già messa in ginocchio dalla furia del canale Timonchio: il corso d’acqua è di nuovo al limite della tracimazione e non si escludono sgomberi nella notte. A Recoaro Terme è la montagna a spaventare: le violente piogge provocano smottamenti nel Rotolon, costringendo il Soccorso alpino a isolare la zona circostante. Nel Padovano, oltre al Bacchiglione, fa paura il Muson: «Il forte vento di scirocco - spiega la protezione civile - impedisce ai corsi di defluire regolarmente verso il mare». Strade sott’acqua a Saccolongo e a Viggiano ma anche nella periferia del capoluogo si sta lavorando a rafforzare gli argini. I veneziani, infine, trascorreranno la Vigilia natalizia tra stivaloni e passerelle: ieri le sirene hanno risuonato più volte e l’acqua alta ha raggiunto i 123 centimetri sul medio mare.

Ancora non è finita la conta dei danni provocati dall'alluvione che ha devastato il Veneto all'inizio di novembre, facendo due morti e gravi danni in 328 comuni e 3433 imprese, che la giunta regionale del presidente leghista Andrea Zaia ha posto le basi della più grande speculazione immobiliare che a memoria d'uomo si ricordi. Archiviati i recenti pianti di coccodrillo sulla cementificazione che provoca le alluvioni, la Lega di lotta e di cemento, ha varato col Pdl una legge regionale che modifica le norme in materia di governo del territorio e dà via libera alla possibilità di ristrutturare ruderi e baracche di pochi metri su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Chiunque - non solo chi fa l'agricoltore - può costruirsi una villa di 270 metri quadrati o una palazzina di tre piani con tre appartamenti da 90 metri al posto di quattro sassi in croce.

I ruderi agricoli sono decine di migliaia nella regione e alcuni, posti nelle località turistiche più pregiate, sono assai appetibili. Soltanto a Cortina sono 200 e, calcolato il valore medio del metro quadrato che è tra i più alti d'Italia, la ristrutturazione selvaggia voluta dal governatore palazzinaro nel territorio comunale produrrà un plusvalore immobiliare valutato in 800 milioni di euro. Naturalmente non ci sono solo la montagna e le valli alpine, ma anche appetibili mete turistiche marine e lacustri, come Jesolo, Bibione, Caorle e il Garda. Per cui l'operazione leghista vale miliardi ed è destinata ad avverare la premonizione del poeta Andrea Zanzotto:"Una volta c'erano i campi di sterminio, adesso arriva lo sterminio dei campi". Non più capannoni eretti intorno alle ville palladiane, emblemi del miracolo industriale, dei distretti, della piccola impresa diffusa che strappava quelle terre alla endemica povertà, ma una scelta tutta palazzinara che certifica la nuova fase "economicista" della Lega, più attenta al controllo della Fondazioni bancarie e alle grandi speculazioni che ai problemi delle cosiddette partite Iva, che furono la base di partenza per la conquista del nord. Adesso vengono prima potere e affari, mentre Zaia, che ha le casse completamente vuote, prosciugate dal debito di un miliardo della sanità, si appresta a mettere le mani nelle tasche dei veneti, come direbbe Berlusconi, se non sarà Tremonti a soccorrerlo.

Il primo a denunciare ciò che la nuova legge regionale comporta è stato il sindaco cortinese di destra Stefano Verocai, che, invece dei suoi nella giunta e nel Consiglio regionale, ha accusato il Partito democratico di non essersi opposto allo scempio con forza sufficiente. Una ricostruzione che Laura Puppato, presidente del gruppo in Consiglio regionale e "uomo forte" del Pd veneto, nega con veemenza, raccontando tutte le fasi in cui lo scempio legislativo è stato coscientemente compiuto: "Il vicesindaco di Cortina se la prenda con i suoi amici della Lega e del Pdl perché noi abbiamo fatto una dura battaglia degli emendamenti, due dei quali sono stati accolti e hanno permesso di sventare altrettanti colpi di mano del centrodestra. Da un lato l'esproprio delle competenze dei consigli comunali sui Piani Urbanistici Attuativi, conferendo ogni potere alle giunte; dall'altro il tentativo di imbavagliare le soprintendenze ai beni ambientali, privandole di ogni voce in capitolo sui vincoli urbanistici".

La Puppato rivendica di aver condotto una battaglia di opposizione senza ambiguità, che ha limitato lo scempio, contrariamente agli oppositori dell'Udc che hanno bocciato l'emendamento anti-ampliamenti, contribuendo a far passare "un provvedimento indegno nato nel solco del Piano Casa della regione approvato nella scorsa legislatura sotto Giancarlo Galan e concepito per guardare agli interessi commerciali e non alla difesa del territorio".

«Una volta c'erano i campi di sterminio, ora lo sterminio dei campi», disse il poeta Andrea Zanzotto del suo Veneto "assatanato di cemento". I capannoni consumavano via via le campagne, assediavano le città, sfregiavano le ville palladiane, in nome del miracolo industriale del Nord Est, dei distretti, della ricchezza diffusa che sconfiggeva la povertà endemica e la pellagra. Ma mai Zanzotto avrebbe potuto immaginare che tanti anni dopo la sua accorata denuncia e le ricorrenti alluvioni in una terra cementificata e senza più capacità di assorbimento, in balia della pioggia, del Bacchiglione e degli altri corsi d'acqua, la regione leghistizzata avrebbe varato, praticamente senza significativa opposizione, una modifica alla legge urbanistica del 2004 che apre praterie sconfinate alla speculazione.

Mentre il presidente Luca Zaia si affannava alla ricerca dei primi 300 milioni necessari per far fronte al miliardo di danni dell'alluvione del novembre scorso, che colpì 328 comuni, 3.433 imprese e fece due morti, il consiglio regionale approvava con 36 presenti su 60 e con l'astensione del Partito democratico, una norma che consente a chiunque di ristrutturare edifici su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Il che significa la possibilità di costruire una palazzina di tre piani al posto di un rudere di 30 metri quadrati.

Ciò a cui si va incontro lo ha ben sceneggiato il vicesindaco e assessore all'Urbanistica di Cortina Stefano Verocai, proiettando gli effetti della norma sul territorio del suo comune. Nei prati della città dolomitica sono censiti 200 baracche e ruderi, spesso apiari da 30 metri quadrati, che chiunque può adesso trasformare in ville da 270 metri o in palazzine con tre appartamenti da 90 metri quadrati. Fin qui, anche in seguito a un ricorso al Consiglio di Stato, la norma era limitata agli agricoltori che ristrutturavano i ruderi per insediarvi un'azienda agricola, coltivare la terra e abitarvi con la famiglia.

Dimenticato l'incentivo ai giovani coltivatori, l'ex ministro dell'Agricoltura Zaia ha preferito i palazzinari e ha scoperto le carte della speculazione.

Chiunque può fare incetta di baracche e costruirsi l'affare milionario della vita, dal momento che il plusvalore delle future nuove case nella località che ha i prezzi del metro quadrato tra i più alti d'Italia, è valutabile in 800 milioni di euro. L'ulteriore paradosso è che con questa nuova legge a Cortina si può edificare soltanto in zona agricola, mentre continua ad esserci il divieto di costruzione in zone a vocazione edilizia.

«Se non si ravvedono e non modificano la norma, inviterò il popolo ampezzano a scendere in piazza con i forconi», avverte il battagliero vicesindaco, il quale si interroga sull'indifferenza manifestata su una legge così nefasta dalla timida opposizione del Pd al governo regionale leghista, che sembra ben più interessato alle banche, alla sanità e al cemento che alla difesa del territorio. Si vede che la catastrofe ecologica come direbbe il poeta di Pieve di Soligo è non solo del territorio, ma anche delle menti.

Poco più di un mese fa, il 4 novembre una vera e propria alluvione si è abbattuta sul Veneto. 121 comuni colpiti per un totale di più di 500 abitanti; oltre 3000 sfollati, devastati migliaia di ettari di zone agricole, annegati 150 mila animali d'allevamento. La cementificazione selvaggia ha colpito duramente il paesaggio veneto, riducendolo ad un disordinato affastellarsi di capannoni industriali dismessi e ad un triste sequenza di nuovi ipermercati che stanno svuotando il tessuto produttivo delle sue meravigliose città.

E, almeno stavolta, tutti o quasi erano d’accordo nel dare la colpa al cemento. Sforzo inutile, perché proprio nei giorni delle piogge usciva il nuovo numero di ottobre-novembre del Giornale dell’Architettura che denunciava l’incombere sulle residue campagne venete una dose devastante di cemento e asfalto. Andiamo con ordine. Nei comuni di Vigasio e Trevenzuolo, vicino a Verona, attende di essere costruita Motorcity, che cementificherebbe 458 ettari di terreno agricolo (un campo di calcio misura un ettaro, per dare un’unità di misura) per farci un autodromo, ipermercati, alberghi e abitazioni per un totale di 7 milioni di metri cubi di cemento. Ad Arino, vicino a Venezia, il pretesto è la costruzione di “una vetrina di eccellenza veneta” fatta di immancabili ipermercati, alberghi e abitazioni: 56 ettari di suoli agricoli verranno seppelliti sotto 2 milioni di metri cubi di calcestruzzo. A Verve, nel Brenta, è in partenza la “città della moda”. Inutile dire che conterrà ipermercati, abitazioni e alberghi. Qui i metri cubi previsti sono 185 mila su 12 ettari. Portogruaro e Fossalta, a nord di Venezia attendono un “parco industriale integrato” da ipermercati che si svilupperà su 160 ettari per oltre 3 milioni di metri cubi, premiato addirittura dall’Inu, storica istituzione che fu di Olivetti. A San Bellino, provincia di Rovigo, 23 ettari per un parco logistico rigorosamente “ecosostenibile”, così la speculazione si è impadronita delle nostre parole, per un previsione di mezzo milione di metri cubi. Sempre in provincia di Rovigo, ad Arquà Polesine, altro polo logistico completo di ipermercati: 140 ettari e 1 milione e mezzo di metri cubi di cemento. Infine in ampliamento dell’aeroporto veneziano Marco Polo, 2 milioni di metri cubi faranno sparire 200 ettari di preziosa campagna: però sorgerà un magnifico parco giochi stile “Las Vegas” ci dicono le schede che non hanno ritegno a definirla come la “nuova porta di Venezia”. .

Più di mille ettari di suolo ancora incontaminato verranno cementificati mentre il paesaggio veneto è caratterizzato da centinaia di capannoni vuoti. Se dunque questi moderni “imprenditori” non fossero speculatori immobiliari e se esistessero ancora amministrazioni pubbliche non sottomesse al dominio del mattone, quelle attività imprenditoriali verrebbero indirizzate sui terreni già edificati e dismessi. Ma non è così. In Italia l’unico motore dell’economia sono i giganteschi guadagni che si fanno senza sforzo comprando a quattro soldi terreni agricoli per poi “valorizzarli”, tanto l’urbanistica è stata cancellata e non ci sono più regole ad arginare la speculazione.

Speculazione che è fatta di nomi impressionanti. La società Autodromo del Veneto; la Veneto city spa; Monte dei Paschi, Unicredit e San Paolo; Pirelli RE; non potevano mancare gli sceicchi della Dubai Word; la Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e la Mip enginering; la Savem, società che gestisce lo scalo aeroportuale veneziano. Ha ragione Marco Paolini, che nel suo recente monologo “Bisogna” tenta disperatamente di denunciare questi misfatti che cancelleranno quanto resta della campagna veneta. E tutto ciò avviene in un territorio già devastato che non resiste neppure ad una pioggia più violenta del solito. La speculazione immobiliare locale e internazionale, padrona incontrastata di questa Italia senza regole, sta divorando tutto ciò che capita, compromettendo il futuro delle prossime generazioni. Dobbiamo bloccare la cementificazione di terreni agricoli e indirizzare questi investimenti -ammesso che siano veri- verso le aree già edificate da riqualificare. Lo fanno in tutta Europa.

Per farlo ci vorrebbe un’opposizione politica, visto che quella sociale esiste già da tempo e chiede il blocco dello spreco del territorio. Ma il consenso unanime verso la speculazione è testimoniato da un fatto simbolico: il candidato al Parlamento dell’opposizione (sic!) in quelle contrade era Massimo Calearo che oggi ha permesso un’ulteriore breve vita al governo che ha cancellato ogni regola urbanistica. L’aveva scelto l’indimenticabile sindaco di Roma Veltroni che prima di consegnare la città ad Alemanno ha regalato alla sua città un piano regolatore che prevede 70 milioni di metri cubi di costruzioni! Tutti uniti nel cemento, dunque, mentre l’Italia va alla deriva.

Anche al più distratto osservatore non poteva sfuggire come alcuni dei più condivisibili principi ispiratori della legge11 del 23/4/2004 (‘Norme per il governo del territorio’) fossero destinati ad una rapida demolizione. L’operazione, annunciata da vulnus tipici del diritto urbanistico regionale, é iniziata nel periodo di transizione dalla legge61/1985 con il ‘fantastico ciclo delle varianti’ [1], è proseguita con la pubblicazione degli atti di indirizzo relativi alle zone agricole [2], con le modifiche alla legge11 nel quadriennio 2006-2010 [3] e con l’alleggerimento strategico e normativo del Ptrc. Si è andata, quindi, precisando con la messa a punto di piani di assetto territoriale (Pat/i) molto costosi, ancorati a preliminari insipidi, con contraddittori quadri logici e di limitata efficacia. Pat/i si basano di frequente su uno squilibrato rapporto fra quadro conoscitivo, regole e strategie, subiscono una frammentaria quanto formale istruttoria, si prestano disinvolti alla commedia valutativa. In molti casi, come attratti da una sirena, abboccano alla ‘formale’ copianificazione [4] e avviano Piani degli interventi fortemente condizionati da pregresso, inerzie e diritti acquisiti.

A questa demolizione contribuisce la paradossale ‘assenza’ della Regione che, sollevata da incombenze ‘operative’ a livello locale e provinciale, rafforza alcune deroghe del periodo transitorio e suggerisce discutibili strategie per uscire dalla attuale crisi.

Nonostante le deroghe concesse, il cosiddetto ‘Piano casa’ [5] (adottato precocemente dal Veneto rispetto ad altre regioni italiane), non ha risposto a presunte domande abitative pregresse, non ha contribuito al rilancio delle attività di costruzione (già in crisi di sovrapproduzione), né ha svolto alcuna mitigazione anticiclica. I dati raccolti dal Consiglio Regionale con apposito monitoraggio sullo stato di attuazione del ‘piano casa’ [6], per quanto volutamente ‘poveri’, danno un’idea del bluff. Gli interventi, contrariamente alle attese, hanno interessato prevalentemente edifici residenziali non destinati a prima abitazione o immobili adibitia diverso uso. Il piano non ha stimolato incentivi a livello locale ed è stato sottoposto a limiti che ne hanno ridotto l’ipotizzata efficacia. Il 70% dei comuni non ha, infatti, adottato incentivi. Questo atteggiamento è più diffuso nei comuni piccoli (inferiori ai 15.000 abitanti), con minore densità abitativa (meno di 195 abitanti/kmq), minore reddito comunale disponibile (inferiore a 81 milioni di euro). Non sembra discriminante invece la densità abitativa misurata dal rapporto numero di abitazioni / 100 abitanti. Dal 60 al 70% dei comuni ha imposto limiti di vario genere, con riferimento preferenziale alle zone territoriali omogenee (45-70%), agli edifici (50-60%), a demolizioni e ricostruzioni (40-50%).

Il recente testo di legge, contenente ulteriori modifiche alla normativa veneta in materia di urbanistica, si posiziona con coerenza in questo contesto, causando un ulteriore indebolimento dell’impianto pianificatorio regionale. L’assessore regionale alle politiche per il territorio, esprimendo soddisfazione per l’approvazione, sottolinea che “si tratta di un provvedimento di modifica che nasce dall’unificazione di quattro progetti di legge presentati ed è stato approvato in un un’ottica di semplificazione delle procedure che interessano amministrazioni e cittadini”.

Tre modifiche nefaste



Le modifiche riguardano in primo luogo gli interventi in zona agricola. Per le case di abitazione esistenti gli interventi edilizi sono consentiti a prescindere dal fatto che il proprietario sia o meno imprenditore agricolo. La seconda modifica riguarda il regime transitorio previsto dalla legge 11. Si stabilisce che, a seguito dell’approvazione del Pat, il Prg vigente, per le parti compatibili con il Pat stesso, diventi a tutti gli effetti il Piano degli Interventi (PI) anticipando, rispetto a quanto attualmente previsto, la fine del regime transitorio. La terza modifica riguarda la proroga al 31 dicembre 2011 della deroga al divieto, per i comuni sprovvisti di Pat, di adottare varianti allo strumento urbanistico generale. In tal modo le amministrazioni comunali che non hanno il Pat approvato (la stragrande maggioranza), attraverso la predisposizione di alcune fattispecie di varianti urbanistiche ai sensi della legge 61/1985, potranno comunque fornire ‘risposte operative’ alle domande che provengono dal territorio o sollecitarle, over fossero ancora in fieri. L’art. 48 della legge11 ( Disposizioni transitorie) prevedeva che ‘fino all'approvazione del primo Pat, il comune non potesse adottare varianti allo strumento urbanistico generale vigente salvo quelle finalizzate, o comunque strettamente funzionali, alla realizzazione di opere pubbliche e di impianti di interesse pubblico’.

Si tratta di tre modifiche che rallentano l’introduzione di adeguate politiche ambientali, paesaggistiche ed energetiche e che avranno impatti territoriali la cui intensità sarà tanto maggiore quanto più rapida sarà l’uscita dalla attuale crisi economica.

Nel Veneto, diversamente da altri contesti in cui è stata più intensa la riqualificazione di aree dismesse di dimensioni considerevoli, gli i nterventi edilizi diffusi in zona agricola (soprattutto non residenziali) sono stati il volano preferito delle politiche immobiliari e finanziarie pubbliche e private. In questa prospettiva, particolare rilevanza assume la modifica dell’articolo 44, comma 5, relativamente alla sua ‘autentica interpretazione’.

Nelle intenzioni del legislatore, tale norma dovrebbe porre fine a ‘qualsiasi incertezza interpretativa ribadendo che per le case di abitazione esistenti in zona agricola gli interventi edilizi sono sempre consentiti a chiunque a prescindere dall’essere o meno imprenditore agricolo’. Com’è noto, l’articolo 44 della legge 11 riguarda l’edificabilità, potenziale implicito nel diritto di proprietà fondiaria e congiunturale leva finanziaria. La modifica del comma 5 avviene in spregio al comma 1 dello stesso articolo che vale la pena ricordare. Il comma 1 dice: ‘Nella zona agricola sono ammessi, in attuazione di quanto previsto dal Pat e dal Pi, esclusivamente interventi edilizi in funzione dell'attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive così come definite con provvedimento della Giunta regionale ai sensi dell'articolo 50, comma 1, lettera d), n. 3’. Il comma 2 limita in modo ancor più preciso l’edificabilità quando dice che ‘gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti, sulla base di un piano aziendale, esclusivamente all'imprenditore agricolo titolare di un'azienda agricola’, regolarmente iscritto all'anagrafe regionale nell'ambito del Sistema Informativo del Settore Primario (Sisp). L’ azienda deve occupare almeno una unità lavorativa a tempo pieno regolarmente iscritta nei ruoli previdenziali dell'INPS (con l’eccezione delle aziende agricole ubicate nelle zone montane) ed avere una redditività minima definita sulla base dei parametri fissati dalla Giunta regionale. Il piano aziendale deve essere redatto da un tecnico abilitato e approvato dall'ispettorato regionale dell'agricoltura (IRA). Nel piano aziendale è richiesta la ‘descrizione dettagliata degli interventi edilizi, residenziali o agricolo-produttivi che si ritengono necessari per l'azienda agricola, con l'indicazione dei tempi e delle fasi della loro realizzazione, nonché la dichiarazione che nell'azienda agricola non sussistano edifici recuperabili ai fini richiesti. Per gli interventi con finalità agricolo-produttive il piano deve dimostrare analiticamente la congruità del loro dimensionamento rispetto alle attività aziendali’. Al di là della evidente ridondanza procedurale e della contraddittoria relazione fra politiche micro e macro nel settore agricolo, la modifica del comma 5 e gli ampliamenti concessi rafforzano il carattere edilizio dell’economia rurale, allontanandola definitivamente da visioni multifunzionali condivise dalle competenti Direzioni regionali e dal Piano di sviluppo rurale, ma presenti anche in misure del Por e in programmi strutturali a finanziamento europeo.

Non va sottaciuto il paradosso implicito nelle nuove norme, specie quando tendono a trasformare le zone rurali in strumento di sovrapproduzione edilizia, di deprezzamento dei valori immobiliari e del capitale fisso sociale.

[1] Vedi ‘Progetto di monitoraggio delle varianti urbanistiche nel periodo di transizione dalla leggeRegionale 61/85 alla Nuova leggeUrbanistica (LR 11/04) e di valutazione dei processi di pianificazione’. Lo studio è stato diretto nel 2008 da D Patassini come responsabile di convenzione fra Università IUAV di Venezia e Regione Veneto, Direzione Urbanistica.

[2] Gli atti più pertinenti in proposito riguardano il calcolo del limite quantitativo in zona agricola trasformabile in rapporto alla Sau, l’edificabilità in zona agricola e le tipologie di architettura rurale.

[3] Modifiche sono contenute nella Lr 18/2006 sulle zone agricole, nelle Lr 4/2008 e 26/2009 (entrambe collegate alla Finanziaria), nella Lr 11/2010 collegata alla legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010.

[4] Ad oggi Pat e Pati adottati in copianificazione sono rispettivamente 62 e 9, per un totale di 71, mentre quelli approvati sono rispettivamente 40 e 15. Con procedura ordinaria sono stati trasmessi 13 Pat, di cui 9 approvati. 144 strumenti urbanistici sono stati sottoscritti dalla Direzione Urbanistica, in attesa della comunicazione di avvenuta adozione, per un totale di 280 comuni.

[5] leggeregionale n. 14 del 2009, “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”.

[6] I dati riguardano aspetti procedurali e non le attività di costruzione nei 474 (96 montani, 100 collinari e 279 planiziali) dei 581 comuni della regione. Elevato è il tasso di mancate risposte ai quesiti relativi alle modalità di attuazione del piano.

Ora anche le volpi ci si mettono a far danni sugli argini dei fiumi veneti, così da indebolirli favorendo gli straripamenti. Succede nel comune di Saletto, area della Bassa Padovana, dove scorre il fiume Frassine. Un corso d’acqua che nasce dalle Dolomiti e lungo il suo cammino cambia nome: Agno, Guà e Frassine. Quindi, affluisce nel canale Gorzone, che finisce nel Brenta. Quello delle volpi (e forse anche dei tassi) che scavano le tane a distanza ravvicinata è un problema, al momento circoscritto. Più grave, infatti, in Veneto, è la situazione relativa all’invasione delle nutrie («Sfuggite agli allevamenti impiantati negli anni Settanta, quando andavano di moda le pellicce di castorino», fa notare Fabrizio Stelluto, portavoce dei Consorzi di Bonifica) che erodono la terra, facendo crollare improvvisamente gli argini.

Il devastatore di Territorio

«Il rischio volpi si è evidenziato in questi giorni — spiega Barbara Degani, presidente della Provincia di Padova — quando gli uomini del Genio Civile, dopo l’alluvione, ripulendo le campagne attorno al Frassine, si sono accorti della presenza di tracce riconducibili alle tane di questi animali selvatici». «Il cui habitat — aggiunge — si trova solitamente in luoghi boscosi e a una certa altitudine. È presumibile, dunque, che le volpi, nelle nostre campagne, siano arrivate scendendo dai Colli Euganei e Berici». Comunque sia, gli animali hanno trovato il modo di erodere il terreno nei pressi degli argini, determinando un ulteriore elemento di squilibrio. Adriano Scapolo, comandante della Polizia provinciale di Padova, che ha seguito da vicino la questione, osserva: «All’epoca in cui l’agricoltura era un’attività fiorente, pensavano i contadini a falciare l’erba e a tenere puliti gli argini. In altre parole, non venivano create le condizioni favorevoli. Adesso, invece, le volpi riescono ad avventurarsi fino a pochi metri dalle rive. E poiché scavano gallerie con più uscite, riducono gli argini a un groviera».

La situazione è tale che sono state ottenute deroghe per eseguire interventi anche in zone di ripopolamento e di cattura. Fino all’abbattimento degli animali. «Il lavoro più incisivo — racconta Scapolo — è comunque quello degli interventi sulle tane, in modo da contenere la presenza delle volpi stesse. Al riguardo, abbiamo stilato un Protocollo d’intesa con le associazioni ambientaliste, affinché venga fatto un monitoraggio (che prevede anche la cattura) rispettoso e compatibile».

postilla

Deve essere sicuramente scattato un ordine di scuderia fra gli addetti ai lavori (fra gli addetti ai lavori inutili e dannosi of course ) un nanosecondo dopo l’ammissione pubblica di qualche esponente del mondo economico veneto che riconosceva: abbiamo fatto troppi capannoni inutili, con questa dispersione territoriale ci stiamo tirando la zappa sui piedi. Così il partito di quelli in grado appunto solo di tirare di zappa ancora nel terzo millennio si è messo all’opera per cercare il capro espiatorio. Il Veneto si allaga? Vediamo, la colpa è dei comunisti che fanno piangere la madonna, e i pianti della madonna si sa, dilagano. Oppure di quei topacci sporchi di fango che il comune cittadino conosce quasi esclusivamente nella versione spiaccicata sulle strade di argine, e paiono il nemico ideale. Oppure ancora delle volpi, che fa tanto brughiera britannica, suono di corni, nobiltà decaduta al galoppo … Il trionfo delle cazzate.

Perché se è vero che scavare un buco fa entrare un po’ d’acqua, è molto più vero che anche cercare a tutti i costi di dare la colpa a qualche entità indefinita (l’animale selvatico sfuggente e semisconosciuto ai più) significa replicare, al millimetro, il medesimo approccio metodologico che ha portato al disastro. Fare un capannone, fare una villetta, in sé e per sé non significa nulla, così come fare un buco per allevarci i cuccioli: è farlo, e rifarlo, da incoscienti, in malafede, il guaio. Ma ce lo vedete un quotidiano nazionale a titolare a tutta pagina: L’ALLUVIONE VENETA COLPA DEGLI STRONZI! Peccato, non ci sia più Il Male , che negli anni ’70 almeno per un pubblico di nicchia queste cose se le inventava (f.b.)

VENEZIA. «L’alta velocità in project? E perché no. Mi pare un’ottima idea, anzi per quanto riguarda la tratta che da Mestre porta al Marco Polo, e relativo nodo intermodale, la stiamo studiando e saremmo anche pronti a parteciparvi». Enrico Marchi, presidente della Save, coglie al balzo le proposte emerse dal forum, pubblicato ieri su questo giornale, sulle infrastrutture a Nordest e il project financing, e rilancia: costruire subito, con il contributo di finanziatori privati, la tratta Mestre-Tessera con relativa stazione ferroviaria sotterranea, snodo intermodale (dove dovrebbero arrivare anche i treni del metrò regionale, e, in futuro, anche la sublagunare.

Mi scusi ma che interesse c’è nel fare un piccolo di Tav fino a Tessera?

«Prima di tutto è un tratto sul quale sono tutti d’accordo: governo, Ferrovie, Regione ed enti locali. E c’è anche un progetto di massima: lo studio di fattibilità del nodo intermodale di Tessera è già pronto essendo stato fatto dalla Save con il contributo dei fondi Ue».

Va bene. Ma tutto il resto del progetto della Tav è nella nebbia...

«E allora per questo dobbiamo stare fermi a guardare? Non si può pensare che la Milano-Venezia resti senza alta velocità. E le linee non sono mai state costruite tutte insieme: sono state sempre progettate e realizzate per lotti funzionali. Si potrebbe così cominciare a ragionare su quelle tratte dove c’è un accordo già pronto e progetti condivisi. Stiamo rischiando di perdere i contributi dell’Europa proprio perché siamo in ritardo con i progetti. E il fatto di dare il via a un pezzo dell’alta velocità ci darebbe anche una credibilità».

Ma i treni si fermerebbero a Tessera, cioè in una stazione di testa?

«Sì finché la linea non verrà completata facendo della stazione dell’aeroporto, come previsto nel progetto definitivo, uno snodo intermodale passante. Non c’è nulla di male, perché nel frattempo ci troveremmo nelle stesse condizioni di Malpensa dove adesso arrivano i Frecciarossa su una linea che, tra l’altro, non è previsto che in futuro prosegua oltre. Ma per uno scalo internazionale come il nostro, e anche per il territorio, è determinante essere raggiunto da un’infrastruttura ferroviaria».

Quanto potrebbe costare la realizzazione?

«Intorno ai 500 milioni, 300 per il nodo intermodale e 250 per la linea ferroviaria».

E i finanziamenti? Da dove arriverebbero?

«Come in tutti i project dai privati, dai fondi infrastrutturali italiani ed europei, con il contributo, ovviamente dello Stato visto che sempre di tratte ferroviarie si parla. Anche noi siamo pronti a partecipare».

Ma per i project ci vogliono due condizioni: che i privati possano correre sulle linee e che ci sia davvero l’accordo a farlo anche da parte delle Ferrovie...

«Che cosa impedisce che i privati usino la linea? Quanto alla realizzazione di singole tratte ferroviarie in project financing ci sono anche esempi europei: ne sono state costruite in Francia da Eiffage, ad esempio, per una linea che va da Perpignan a Figueras».

Chi sarebbero gli investitori?

«C’è un discreto interesse da parte di investitori con i quali ho parlato nei giorni scorsi: sono fondi europei, ma un progetto di questo genere potrebbe trovare il consenso anche della Cassa Depositi e Prestiti».

E le Ferrovie dello Stato?

«Penso lo ritengano un progetto fattibile. Credo che sia abbastanza per andare avanti e provare a realizzarlo».

Postilla

Crediamo che in nessun paese del mondo vi sia chi, in una posizione di potere, teorizza in questo modo l’inutilità della pianificazione del territorio. Per realizzare un’opera indubbiamente di rilevantissimo impatto sulle comunicazioni, sull’assetto e il funzionamento delle attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sul sistema dei servizi pubblici, sulla trasformazione del ruolo delle città nelle regioni attraversate, per non parlare dell’assetto fisico del suolo (regime delle acque superficiali e profonde, paesaggio e beni culturali, fertilità del suolo, rischi legati all’assetto idrogeomorfologico) il dott. Marchi, uomo di punta del sistema di potere pubblico-privato che gestisce gli aeroporti del Veneto, e molte altre cose propone di avviare suubito la pianificazione, progettazione ed esecuzione di un segmento: pochi km, che però danno il via a una speculazione immobiliare pubblico-privata: Quadrante Tessera, sul bordo della Laguna.

Per chiarire chi è il personaggio riportiamo un profilo tratto da un giornale locale di pochi anni fa.

Corriere del Veneto, Padova, 15 ottobre 2005

Il ragazzo di Conegliano in volo sui salotti buoni Marchi,

il finanziere che scala Gemina per diventare re degli aeroporti

di Claudio Trabona



VENEZIA - Erano quattro gatti. Ragazzi confinati nel ghetto di una passione politica minoritaria: si riunivano da militanti della Gioventù Liberale, fine anni Settanta. Discettavano di Croce ed Einaudi, di liberalismo e liberismo. Giancarlo Galan, Niccolò Ghedini e Fabio Gava a volte litigavano. Si dividevano sulla teoria. Poi interveniva Enrico Marchi, sveglio giovane di Conegliano, e tagliava corto: « Poche chiacchiere, l'importante è essere anticomunisti » . I ricordi dell'avvocato Luigi Migliorini da Adria, memoria storica dei liberali veneti, raccontano molto del personaggio che oggi si è conquistato fama nazionale come scalatore di Gemina: insofferente alle complicazioni, Marchi è un praticante assiduo della religione del pragmatismo. Se c'è da entrare a piedi uniti, lo fa. E lo ha fatto, al momento opportuno, anche nel salotto buono della finanza. Ha preso i 165 milioni di euro incassati con la quotazione in Borsa della sua Save, la spa dell'aeroporto Marco Polo, ne ha spesi circa la metà per rastrellare il 10,4% di Gemina e poi si è presentato: « Ecco, vorrei fare la grande aggregazione tra gli scali di Venezia e Fiumicino » .

Marchi c h i ? Sembra di sentirli i Pesenti, i Tronchetti Provera e soprattutto i Romiti. Ma l'ex ragazzo di Conegliano, sostanzialmente, se ne frega del salotto buono. Punta dritto al progetto imprenditoriale, Gemina non è la chiave per la rispettabilità nel bel mondo della finanza ma la scatola che contiene l'oggetto del desiderio, gli Aeroporti di Roma. Dice in un'intervista alla Nuova Venezia : « Noi stiamo provando a mettere in campo un progetto che veda il Veneto soggetto aggregante e non aggregato. Il Nord Est ha la pancia piena, a volte preferisce lamentarsi piuttosto che mettersi in gioco » . E in effetti per una volta non si parla di fiere e grandi magazzini comprati dai francesi, di banche finite nelle mani degli olandesi o dei torinesi, di autostrade scalate dai bresciani. Si parla di questi imprenditori, lui e il socio di sempre Andrea De Vido, che dalla campagna veneta si mettono in marcia sulla capitale.

In realtà, Enrico Marchi, classe ' 56, laurea bocconiana in economia aziendale, è lontano mille miglia dalla figura del provinciale di troppe pretese. Intanto, sa scegliersi le amicizie: le cono scenze di gioventù spesso vengono buone da grandi e infatti Giancarlo Galan oggi è una delle due sponde forti su cui ha potuto giocare la sua ascesa. È stato il governatore a metterlo lì alla presidenza di Save, nel 2000, ed è stato sempre il governatore ad appoggiarne tutte le mosse determinanti: lo sbarco a Piazza Affari, la lite senza mediazioni con gli enti locali veneziani e in particolare con l'ex sindaco Paolo Costa, la costituzione della cassaforte Marco Polo Holding che tiene saldo il controllo ( 38,9%) della società aeroportuale. I cui azionisti sono appunto la Finint, la Regione attraverso Veneto Sviluppo e Assicurazioni Generali. Ed ecco la seconda sponda forte, l'altra amicizia importante: se Galan è il garante politico, Giovanni Perissinotto è un'ottima compagnia per addentrarsi nei piani alti della finanza ( e infatti sta in Gemina). L'ad del Leone di Trieste è socio nell'aeroporto e lo è al 10% anche in Finanziaria Internazionale. Finint è stata tutta la vita di Marchi. Nei prossimi giorni lui e Andrea De Vido festeggeranno - pranzo con i giornalisti e cena di gala con vip a Venezia - i 25 anni dalla fondazione. Oggi è una piccola, silenziosa city alla circonvallazione di Conegliano. « Quando abbiamo investito sulla nuova sede - racconta De Vido - amici e colleghi ci criticarono: un quartier generale si fa in centro, non in mezzo ai camion. Avevamo ragione noi: in questi anni il traffico è impazzito, ma noi siamo vicini all'autostrada e chi viene da Milano o Venezia ci trova subito » . Hanno visto lontano, lui e Marchi, anche quando hanno cominciato per primi a trattare il settore delle securitisation , le sofisticate operazioni di cartolarizzazioni dei crediti che fino a qualche anno fa erano materia sconosciuta in Italia. Un segno dell'esperienza internazionale: il trevigiano De Vido ha imparato il mestiere a New York, alla Bank of America.

E negli anni scorsi aveva fatto aprire un ufficio della Finint a Londra, altro posto dove si respira davvero l'aria del business. Ecco perché gli ex ragazzi di Conegliano non hanno timori da provinciali. Nel palazzo di vetro della Finint lavorano 220 persone, impiegati ma soprattutto professionisti che maneggiano con disinvoltura il glossario anglosassone tipico del settore: merchant banking, merger & acquisition, private equity. La Finanziaria Internazionale, 10 milioni di euro di utile, lavora con Ubs, Citigroup, Morgan Stanley. Enrico Marchi, però, nuota meglio in acque venete. Ed è un tipo che non si scompone in alcune vicende locali un po' imbarazzanti. Come quella della compagnia aerea Volare. Primo opera tore allo scalo di Venezia con oltre il 20% del traffico, al momento del tracollo è posseduta tra gli altri dal Fondo Tricolore. Cos'è? Una società costituita con i soldi di Ligresti ( ecco un altro che si ritrova in Gemina) e Generali. E chi amministra il fondo? La Finanziaria Internazionale diMarchi e De Vido. Cliente e fornitore uniti da interessi comuni. Per i nemici del Comune e della Provincia di Venezia questo è un palese conflitto di interesse. E i loro avvocati, citando certi sconti sul debito Volare concessi da Save, lo sottolineano nella raffica di cause in tribunale contro i bilanci e la quotazione della società aeroportuale. Ma lui non si nasconde, e contrattacca: « Mai stato un socio di Volare » . La guerra si chiude ( non del tutto) con oltre sei milioni di crediti finiti nella spazzatura del bilancio Save e una serie di vittorie nelle aule giudiziarie. Contro un tizio che si chiama Guido Rossi, consulente del Comune di Venezia e ispiratore dei ricorsi. È il super- professore che ha sconfitto Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci nella storia Antonveneta. Dove non hanno potuto i furbetti del quartierino , è arrivato l'ex ragazzo di Conegliano.

La pianura veneta ridotta a uno stagno. Ma per il governo l’unica emergenza era il traffico. I poteri emergenziali usati per costruire un’autostrada a monte dei fiumi esondati in questi giorni

Dinanzi a un’alluvione di vastissime proporzioni come quella che sta mettendo in ginocchio il Veneto, cosa c’è di meglio che bucare una montagna per farci passare automobili e tir? Un tunnel di 6,5 chilometri tra Malo e Castelgumberto, proprio in mezzo al torrente Timonchio - che più giù, in pianura, si trasforma nel Bacchiglione, il fiume che ha inondato Vicenza - e al fiume Agno, che in valle risorge sotto il nome Frassine, quello che ha sommerso Padova. Sì, perché la vera emergenza in Veneto è il traffico. E per risolvere il problema delle code, in un territorio dove la terra è sostituita da capannoni ormai svuotati dalla crisi, ci vuole una nuova autostrada: 94 chilometri di asfalto, 50 di raccordi, per oltre 800 ettari di cemento gettato proprio tra le Prealpi e la pianura sommersa dai fiumi. Nella zone delle “risorgive”, dove l’abbondante acqua penetrata nella ghiaia a monte torna in superficie, alimentando gli affluenti del Brenta. Serve la Protezione civile per fare le autostrade, in Italia. Il 31 luglio 2009 «su proposta» di Guido Bertolaso, Berlusconi assegna i poteri emergenziali propri delle calamità naturali a Silvano Vernizzi per costruire la Pedemontana, un raccordo tra la A4, la A 27e la A31 in uno dei territori più urbanizzati del mondo. Quando poi i fiumi esondano, interviene il governo. Bertolaso e Berlusconi fanno forse l’ultima apparizione insieme (il sottosegretario è andato in pensione l’11 novembre) nella pianura veneta trasformata in un immenso stagno, con danni per centinaia di milioni di euro. Dicono che il governo ci sarà, a fianco degli alluvionati. Bertolaso aggiunge che «la sciagura poteva essere prevenuta se si fossero fatte opere di messa in sicurezza che noi chiediamo da anni». La Pedemontana è forse una di queste? Allora perché la Protezione civile ha sottoscritto i poteri straordinari per il traffico a Vicenza, invece di nominare magari un commissario alla sicurezza idrogeologica della zona?

Quella dichiarata il 5 novembre dal Consiglio dei ministri è la terza emergenza ancora in vigore a Vicenza. La prima era stata dichiarata il 26 giugno 2009 e poi prorogata fino al 211, per un tifone che aveva colpito la provincia. Ma pochi giorni dopo il governo dichiara la vera emergenza. È il traffico nelle province di Treviso e Vicenza. Con un’ordinanza ferragostana (la 3802 del 15 agosto 2009) il governo nomina Silvano Vernizzi commissario straordinario per la realizzazione delle Pedemontana Veneta. Una strada la cui storia affonda le radici nella prima Repubblica. Doveva essere un raccordo tra le circonvallazioni dei paesi prealpini, negli anni ‘90. Poi, dopo Tangentopoli, si trasforma in una superstrada con 40 uscite per incanalare il traffico locale delle fabbrichette che sorgono come funghi. Infine si trasforma in una autostrada a pedaggio, con solo 17 uscite, 20 chilometri di percorso in più fra le montagne della valle dell’Agno con 15mila metri di tunnel, il resto da costruire dentro una trincea scavata nel terreno profonda fino a 9 metri, sul territorio di 32 comuni. A proporre l’opera è la Pedemontana Veneta spa, inizialmente una società pubblica partecipata da regione, enti locali, da Autostrade spa e alcune banche (San Paolo, Unicredit, Antonveneta). Poi, con un blitz nella sede di un notaio veronese, nel dicembre 2005 i privati, senza nessuna gara d’appalto, ne acquisiscono il controllo: 1.500 azioni della società passano da banche e società pubbliche a una cordata capitanata da Impregilo (la stessa del Ponte di Messina e dell’inceneritore di Acerra), comprendente il consorzio Cps (al cui interno figurano la Maltauro, Rizzani De Eccher, Mantovani) e strane società, come la Adria Infrastrutture, nel cui cda siede anche Claudia Minutillo, ex segretaria particolare del governatore berlusconiano, il doge Giancarlo Galan. Ma l’affare salta, quando l’opera viene messa a gara. Nonostante l’opzione riservata al proponente, dopo una serie di ricorsi, la Pedemontana viene assegnata al consorzio Sis Scpa, con sede a Torino, controllata per il 60 per cento della Cacyr Vallehermoso, multinazionale spagola delle costruzioni, e per il 40 per cento dal gruppo Fininc Spa, proprietà dalla famiglia torinese dei Dogliani. Il cui capostipite, il settantenne Matterino Dogliani, affianca la produzione di vino nel cuneese all’attività bancaria (era presidente della Banca di Credito Cooperativo di Bene Vagienna), passando per le speculazioni immobiliari nelle Langhe (è lui a costruire il contestatissimo Boscareto Resort di Serralunga d’Alba di cui parla diffusamente La colata, fortunato libro edito da Chiarelettere). Matterino Dogliani fa da presidente del consorzio, che curerà non solo la costruzione, ma anche la gestione della strada. Che nascerà in project financing, una tecnica per la quale il privato mette i soldi per l’opera e la gestisce per un periodo sufficiente a rientrare nell’investimento. Ma l’accordo con la Regione, che bandisce l’appalto, è tutto a favore del privato. Se il numero di autovetture che transiteranno nell’autostrada a pedaggio sarà inferiore alla quota di 840milioni di veicoli/km annui la Regione dovrà versare un contributo annuo di 20milioni di euro circa per 39 anni. Un debito che i governatori della regione non hanno mai messo a bilancio. Il privato non ci rischia un euro.

L’autostrada passa in zone fortemente urbanizzate, ricche di agricoltura di qualità e taglia il terreno di una villa prepalladiana. I ricorsi dei cittadini si sprecano. Ed è qui che la Regione chiama in causa la Protezione civile. Che nomina Silvano Vernizzi commissario straordinario, col compito di approvare il progetto definitivo dell’opera sostituendo «ad ogni effetto, visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di competenza di organi statali, regionali, provinciali e comunali». La firma del supercommissario «costituisce variante agli strumenti urbanistici e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori». Poteri amplissimi. Ma ciò che più salta all’occhio, nell’ordinanza di Bertolaso, è il potere di derogare a una delibera Cipe del 2006, che ha stanziato il contributo pubblico all’opera, sottoponendolo però a un lungo elenco di prescrizioni e raccomandazioni. Di queste, secondo i comitati Salute e difesa del territorio, che si battono per mitigare i danni della Pedemontana, ben 48 non vengono rispettate. L’obbligo di redigere «appositi studi di dettagli per la compatibilità idraulica per le opere di attraversamento dei corsi d’acqua e per i siti di cantiere ricadenti in aree golenali o nei pressi di aree sottoposte a rischio esondazione o alluvione». E ancora «lo sviluppo in dettaglio degli interventi di sistemazione idraulica in corso d’opera e la risoluzione delle interferenze dell’opera con la rete idrografica»; la «salvaguardia dei pozzi e degli acquiferi destinati al consumo umano». Prescrizioni di cui il commissario Vernizzi non sembra aver voluto tener conto, dall’alto della sua carica a doge delle autostrade. Vernizzi, infatti, oltre a essere commissario governativo per la pedemontana, ha svolto lo stesso ruolo per la costruzione del passante di Mestre, l’irrinunciabile autostrada dell’entroterra veneziano entrata in tilt lo stesso giorno dell’inaugurazione, con decine di chilometri di coda. Vernizzi è anche ad di Veneto Strade Spa (con una paga di 160mila euro annui), società controllata da Regione e province, che gestisce 1.400 km di strade locali. È stato presidente della commissione Via regionale, la stessa che ha fornito il via libera nella valutazione d’impatto ambientale della Pedemontana. È un alto dirigente della Regione, segretario a infrastrutture e mobilità (stipendio 170mila euro). E per nome dell’ex governatore Galan, attuale ministro dell’agricoltura, ha partecipato a numerose spa regionali, sotto diretto controllo politico (Ferrovie venete srl, Interoporto di Rovigo spa, C.R.S. Spa, Metropolitana del Veneto Srl, Veneto infrastrutture servizi Srl, Vi.abilità spa). Con l’arrivo del leghista Zaia ha mantenuto il suo posto. Così come l’altro uomo forte dell’asfalto in Veneto, Renato Chisso, assessore regionale alla mobilità. Chisso avrà molto da lavorare: per i prossimi anni si immagina una nuova colata, da realizzare col rito veneto: project financing, spa pubbliche di controllo politico, stretta rete tra istituzioni e imprenditori rampanti. Si prevede la Valdastico sud, la Valdastico nord, il grande raccordo anulare di Padova, la camionabile Padova-Venezia, la Cesena-Venezia, la Nogara-adriatica, il sistema delle tangenziali venete, la Romea commerciale, il raddoppio dell’A4, e ancora decine di bretelle e tangenziali. «Da quando nel 1990 è stato redatto il piano regionale dei trasporti la quantità di traffico su ruota è salita dall’84 a oltre il 90 per cento, in un territorio dove il 40 per cento del suolo è urbanizzato», spiega Ilario Simonaggio, segretario regionale della Filt-Cgil. «E intorno alla Pedemontana, nella delicata zona delle risorgive che alimenta tutti gli acquedotti veneti, si progetta di edificare ancora».

Le autostrade in Veneto sono un affare perché intorno ad esse si può costruire. La legge regionale urbanistica [il Piano territoriale regionale di coordinamento – n.d.r.] prevede che «le aree afferenti ai caselli autostradali (...) per un raggio di 2 km dalla barriera stradale sono da ritenersi aree strategiche di rilevante interesse pubblico. Dette aree sono da pianificare sulla base di appositi progetti strategici regionali». Intorno alla nuova Pedemontana decide la Regione, sottraendo il governo del territorio ai comuni e ai loro piani regolatori. Qualche imprenditore vicentino espropriato non ha neppure nascosto la sua felicità. Non tanto per i valori di esproprio (il terreno agricolo è ceduto a 16 euro al metro quadro, molto meno del Passante). Nelle aree di sua proprietà intorno alla nuova strada potrebbero sorgere alberghi, appartamenti, centri direzionali e commerciali. Un fiume di cemento intorno al fiume d’asfalto. In Veneto a debordare non è solo l’acqua.

PADOVA. Uno che aveva detto, anzi aveva scritto che sarebbe successo, è Luigi D’Alpaos, ordinario di idraulica all’Università di Padova. D’Alpaos faceva parte della commissione De Marchi - con Ghetti, Ramponi e Tonini, il top della cultura idraulica italiana - che esaminò la situazione dei fiumi veneti dopo l’alluvione del ’66 e indicò gli interventi per evitare il bis. Solo uno è stato realizzato, sul Livenza. Niente sul Piave, niente sul Brenta e meno ancora sul Bacchiglione.

Stiamo viaggiando con totale incoscienza verso il tris. Finiremo di nuovo sott’acqua, arriveranno un’altra volta i soccorsi, vedremo le gare di solidarietà, le collette generose che non sai mai dove finiscono. E sentiremo dire che tanta acqua così non si era vista neanche nel ’66.

Professor D’Alpaos, il presidente Zaia dice che è andata peggio del 1966: sono caduti 50 centimetri d’acqua in 48 ore, mentre allora furono solo 20.

«Il presidente Zaia è giovane. Forse era piccolissimo all’epoca dell’alluvione del ’66».

Non era ancora nato.

«Mi piacerebbe parlare una volta con lui e magari anche con il ministro Galan».

Per dire cosa?

«Per raccontare loro la storia vera. Non ho i dati per ragionare intorno all’evento di questi giorni, mi auguro che siano messi a disposizione di tutti. Però conosco molto bene la situazione del 1966: sono bellunese, se faccio riferimento alla valle dove abito, l’Alpago, caddero 760 millimetri di pioggia in 36 ore».

Ah, non 20 centimetri?

«No. Ma cosa mi dice questo dato? Niente: dovrei conoscere l’estensione del territorio colpito e la distribuzione dell’intensità delle piogge nel tempo, per fare confronti. Mi fa tenerezza questa gente che va allo sbaraglio sulla base di un numero insignificante che qualcuno ha riferito loro».

Chi sarà stato?

«A me lo chiede? Può darsi che qualche stazione abbia registrato in 48 ore 50 centimetri. Ma è sconvolgente? Se ho detto che al paese mio ce ne sono stati 76 in 36 ore. E’ sconvolgente che vengano propalate informazioni che non vogliono dire niente».

L’ingegner Cuccioletta del Magistrato alle Acque dice che la colpa è della Regione, perché lo Stato ha ceduto la competenza.

«E lui dov’era, cosa faceva quando esistevano le Autorità di bacino e la competenza era loro? Il Magistrato alle Acque è un sopravissuto a se stesso. Tecnicamente parlando è squalificato. Io vedo che ognuno cerca di sottrarsi a qualsiasi possibile responsabilità, invece tutti hanno sbagliato, chi per una parte chi per l’altra. L’importante è non sbagliare per il futuro. La sicurezza idraulica deve diventare prioritaria».

Cosa aveva suggerito la commissione De Marchi?

«C’erano due strade possibili: adeguare alle massime portate di piena i corsi vallivi dei fiumi o decapitare temporaneamente i colmi di piena trattenendoli con invasi da costruire. Si optò per una serie di serbatoi anti-piena».

Da collocare dove?

«Uno a Pinzano per il Tagliamento, di circa 100 milioni di mc. Uno a Ravedis per il Cellina, di 20-25 milioni di mc e un altro a Colle di 60 milioni di mc per il Meduna. Tutto questo per ridurre la portata di piena del Livenza».

E sugli altri fiumi?

«Per il Piave veniva suggerito un serbatoio a Falzè di 90 milioni di mc, che era in grado di controllare qualsiasi piena. Per il Brenta-Bacchiglione alcuni invasi vicino all’Astico e sui corsi d’acqua che formano poi il Bacchiglione a Vicenza, quindi Timonchio-Leogra e Retrone».

Quante di queste opere sono state realizzate?

«Solo quella di Ravedis e solo perché ne era prevista l’utilizzazione irrigua e idroelettrica. Il Bacchiglione non ha nessun serbatoio elettroirriguo a monte. Sul Brenta c’è il sistema del Cismon che fa capo al lago del Corlo: non so come abbia operato, sta di fatto che stavolta il Brenta ha avuto portate modeste. Per fortuna di Padova».

E i canali della bonifica?

«La rete dei consorzi ha un ruolo secondario. Va in crisi per le piogge più brevi e più intense, che non preoccuno il grande sistema idrografico, ma producono i vari episodi di allagamento ripetuto».

Quindi siamo stretti da due emergenze parallele?

«Una l’abbiamo creata noi in questi 50 anni, quella della rete idraulica minore: un terreno agricolo ha una portata 10 litri al secondo per ettaro, l’area urbanizzata li fa diventare 150-200. I centri del Veneto sono andati estendendosi in barba a tutti i problemi idraulici, pianificati da tecnici scellerati e da sindaci che chiudono i fossi per farci sopra piste cicblabili».

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