SUPERSTRADA PEDEMONTANA VENETA (SPV):
OBIETTIVI PRIORITARI
Chiediamo alle istituzioni, e in particolare ai Ministri dei Trasporti e dell’Ambiente, di intervenire tempestivamente sulle procedure di competenza connesse alla SPV, per ripristinare la correttezza e la legalità, ad avviso di molti cittadini e associazioni ripetutamente violate su aspetti strutturali del progetto SPV, onde evitare complicazioni ancora più gravose e ingovernabili in un prossimo futuro.
Interventi Prioritari
1) Venga resa pubblica al più presto l’ANALISI COSTI BENEFICI (ACB) promessa dal ministro Toninelli, indispensabile per motivare la Pubblica Utilità o meno dell’opera, e permettere rapide decisioni consequenziali.
Seguendo la letteratura scientifica di settore, il saldo non può che risultare fortemente negativo: vengono spesi più di 13 miliardi di soldi pubblici (senza considerare le opere complementari) per un’infrastruttura che, se tutto va bene, farà risparmiare qualche manciata di minuti (unico o principale beneficio), e sarà scarsamente utilizzata (cfr. studio sui flussi di traffico commissionato da BEI e CDP). Includendo anche i notevoli costi ambientali (come obbligatoriamente previsto anche dagli Orientamenti europei in tema di ACB), la voce “costi” viene ulteriormente gravata, con un bilancio complessivo in fortissima perdita.
2) Verificare con urgenza il rispetto delle numerose Prescrizioni previste, conditio sine qua non per il proseguimento dei lavori.
Il progetto preliminare SPV è stato accolto dalla Commissione VIA e approvato dal CIPE nel 2006, a fronte di numerose Prescrizioni inderogabili, a carattere ambientale e non solo.
3) Verificare “le autorizzazioni e gli adempimenti previsti dalla normativa vigente, anche in sede europea” (v. Parere di Compatibilità Ambientale della Commissione VIA, febbraio 2006).
4) Sottoporre a VIA completa (con partecipazione popolare) il progetto definitivo, il quale doveva includere le Prescrizioni di cui al punto 2, così come previsto dalla Delibera del CIPE sul progetto preliminare (marzo 2006).
5) Verificare la corretta realizzazione dell’opera e i previsti monitoraggi ambientali, considerando che la relativa documentazione – incredibilmente - non è stata nemmeno trasmessa al Ministero dell’Ambiente (come denuncia la Corte dei Conti, Delibera di marzo 2018).
6) Ripristinare integralmente i Siti di Rete Natura 2000 devastati dai cantieri, con particolare riferimento al SIC Le Poscole, area di risorgiva in cui le normative comunitarie risultano violate in modo abnorme e plateale.
7) Operare per annullare il terzo Atto Convenzionale, che premia il capitale privato ma danneggia in modo clamoroso l’interesse pubblico (come denunciato anche dalla Corte dei Conti), lasciando profilare un ingente danno erariale.
Altri interventi richiesti
8) Garantire la partecipazione popolare alle procedure, a partire da quelle relative alla VIA e alla VINCA, secondo quanto previsto in generale dalla Convenzione di Aarhus (formalmente accolta dall’Italia, ma di fatto rigettata nel corso dell’iter della SPV).
9) Rivedere le deleghe alla Regione, e quindi all’Autorità Regionale per Rete Natura 2000, in tema di siti protetti dalla normativa comunitaria, considerando gli abusi e le manomissioni cui sono stati sottoposti alcuni di tali siti, nel silenzio delle istituzioni preposte.
10) Annullare la legislazione sui Project Bond, considerando che essa favorisce il capitale privato e gli investitori stranieri, danneggiando l’interesse pubblico.
11) Aprire un’indagine sulle irregolarità commesse e sulle responsabilità dei decisori coinvolti nelle procedure, considerato il configurarsi di ripetute anomalie con dinamiche che richiamano quanto avvenuto a proposito del Mose.
In attesa della obbligatoria messa a norma delle procedure relative alla SPV, indicate nei punti sopra citati (a partire da quelli indicati come prioritari), e considerando lo stato di incertezza e di grave irregolarità in cui versa il progetto SPV, si chiede l’immediata sospensione dei cantieri, onde evitare la prosecuzione dei lavori in un contesto altamente problematico, al fine di salvaguardare l’effettivo interesse pubblico, e di evitare l’irreversibilità di eventuali danni allo stesso.
Veneto, 5 luglio 2018
Riferimenti
Due articoli di storiAmestre che ripercorrono le vicessitudine dell'opera: “Paroni a casa nostra”. Costi e oneri della superstrada pedemontana e Quel pasticciaccio brutto. Una lettera sulla Superstrada Pedemontana Veneta. Sui danni arrecati dal project finanzing si legga: Pedemontana, per lo Stato una bomba da 20 miliardi; sull'introduzione del pedaggio per far fronte ai costi dell'opera: Pedemontana Veneta, una nuova tassa per coprire il fallimento del project financing. A proposito delle previsioni sbagliate sui flussi si legga l'articolo di Carlo Giacomini, dove si possono trovare altri riferimenti. Infine un articolo relativo alle tonnellate di immondizia portati alla luce dalla costruzione della superstrada: Pedemontana Veneta, la superstrada costruita sui rifiuti: “Bloccate i lavori e bonificate”.
la Nuova Venezia, 6 aprile 2018. Il racconto altisonante di come un'archistar trasforma un territorio in un immaginario fatto di lusso, bon ton e tanta ricchezza. Nei dettagli l'amara verità. La ex colonia trasformata in un enclave ad uso esclusivo dei ricchi. (m.p.r.)
STELLA DEL MAR
Jesolo. Un progetto da 75 milioni di euro, nasce allido "The Summer Houses - Design District", residence con 99 appartamenti e albergo in via Levantina, fronte mare. Le costruzioni ad uso turistico non si fermano e Jesolo prosegue nella sua lenta opera di rinnovamento con la costruzione di un complesso che diventerà uno dei più grandi sul litorale. Ancora una ricettività destinata a un target molto alto, che ormai ha preso il sopravvento nella Jesolo del futuro. I turisti con disponibilità economiche che scelgono la località per la sua posizione strategica, la spiaggia, l'intrattenimento ad ampio raggio, la vicinanza a Venezia.
Ecco un famoso scempio di Richard Meier nel delicato centro storico di Ulm |
Una zona tranquilla e un po' fuori dalle rotte del turismo degli eccessi, spostatosi ormai verso il cuore del lido. Da piazza Milano verso il lido est Kronberg International e RIV Group saranno gli sponsor di riferimento. Massimo Frontoni Avvocati è uno studio specializzato nel settore edilizio e immobiliare, delle grandi infrastrutture e dei servizi di pubblica utilità. Ha fornito la consulenza legale. Il gruppo Kronberg è conosciuto a livello europeo, in particolare nel mercato tedesco, austriaco e italiano, nel settore immobiliare da oltre 25 anni. RIV Group è invece uno dei leader del mercato Jesolano con 20 anni di esperienza che ha realizzato 1.000 appartamenti. Due partner importanti per una delle operazioni immobiliari di maggior peso al lido, destinata a far parlare anche perché si inserisce in un tratto di litorale contraddistinto da molteplici strutture ricettive di altissimo livello per una clientela selezionata proveniente da tutta Europa
PISCINE, SAUNE E DISCREZIONE
la Nuova Venezia, 15 marzo 2018
CAVE, SI' ALLA LEGGE
La proposta di legge regionale
Lo scontro politico
E se, interpellati, l’assessore all’Ambiente Gianpaolo Bottacin e il presidente di Commissione Francesco Calzavara non hanno risposto, la minoranza promette battaglia. Anche perché il discorso è più ampio. «Tutto è partito da un contenzioso tra Regione e aziende che volevano un piano cave che, in Veneto, manca da 36 anni - chiarisce il consigliere dem Andrea Zanoni -. Due sentenze, una del 2014 e una del 2016, avevano stabilito la realizzazione di un Prac, un Piano regionale per le attività di cava, entro il marzo del 2018. I tempi ormai sono stretti. Quindi l’approvazione della legge è indispensabile per l’approvazione del Prac che dovrebbe arrivare in Consiglio la prossima settimana».
la Nuova Venezia, 23 novembre 2017. «Lo studio dell'Ispra presentato all'università Iuav: “Il Veneto risulta una delle regioni con maggiore consumo di suolo.(m.p.r.) riferimenti in calce
«La Regione non può più fare finta di nulla». È questo quanto emerso ieri alla presentazione del Report sul consumo del suolo 2017, presentato all'Università Iuav e disponibile sul sito dell'Ispra. Dai dati emersi, nel 2016 si è consumato tre volte più suolo nel Comune di Venezia (45,1%) di quanto invece sia avvenuto in provincia (17%). Il suolo viene cementificato a scapito dei terreni agricoli: si aumenta così il rischio di alluvioni o allagamenti, causati dalla riduzione della ritenzione idrica del terreno. Tra i numeri che vengono snocciolati città per città, colpisce quello del Comune di Venezia che, da novembre 2015 a luglio 2016, ha consumato ben 71 chilometri quadrati di suolo. In pratica il 45,1% del suolo è stato edificato, ma se si pensa che una buona parte del territorio comprende la città storica, il dato deve fare riflettere perché riguarda la terraferma.
Oltre 300 Comuni in Italia presentano un consumo di suolo inferiore al 15%; 23 invece hanno una percentuale di suolo consumato superiore al 30%. Padova è al primo posto (49,2%), seguono Venezia (45,1%), Treviso (39,7%) e Vicenza (31,8%). Per capire il rapporto con le altre città: i maggiori valori di superficie consumata si riscontrano a Roma (31.564 ettari), con una crescita di ulteriori 54 ettari nei primi sei mesi del 2016 (+0,17% rispetto al 2015) e in molti comuni capoluoghi di provincia: Milano (10.424 ettari), Torino (8.548), Napoli (7.408), Venezia (7.126, 47 ettari cioè +0,8% rispetto al 2015), Ravenna (7.088).
«Il Veneto risulta una delle regioni con maggiore consumo di suolo» spiega la docente di Pianificazione del Territorio Anna Marson «Una quantità solo in parte attribuibile all'autostrada Pedemontana in corso di costruzione perché, ad esempio, la provincia che registra i valori più elevati è Padova. Questo consumo ci toglie sempre di più terreni agricoli, proprio quelli di maggiore qualità». Dal 2012 al 2016 sono stati consumati nel Veneto circa 1.950 ettari, pari all'1,1% del territorio regionale.
Nell'ultimo periodo analizzato (da novembre 2015 a luglio 2016) il suolo consumato è stato pari a 557 ettari. Sempre in questo periodo, tra le province venete, Venezia ha consumato 36 mila ettari di sola pianura, mentre nelle altre città la pianura è stata solo in parte toccata. In pratica in provincia si è edificato per il 14,79%, meno che a livello comunale. Al 2016 la provincia di Treviso registra una percentuale di suolo consumato del 16,83%, Venezia del 17%, Vicenza del 13,13% e Padova del 19%, per rispettivamente 471 mq/abitante di suolo pro capite consumato nel caso della provincia di Treviso, 421 mq/abitante di Venezia, 412 mq/abitante di Vicenza ed infine 435 mq/abitante nel caso di Padova. Valori stabili rispetto al 2015 nel caso di Padova, in leggero aumento nel caso di Treviso e Vicenza, maggiori nel caso di Venezia.
eddyburg è stato promotore di iniziative e leggi per fermare il consumo di suolo. Al tema è dedicato un'intera sezione, che si può percorrere agevolmente attraverso la visita guidata Consumare stanca.
Sul finto stop al consumo di suolo della nuova legge regionale del Veneto si veda di Monica Zicchiero Stop al consumo del suolo, c’è la legge «Voto storico». «No, troppe deroghe» e di Chiara Mazzoleni Consumo di suolo e dissesto territoriale. Istruzioni per come attuarli.
la Nuova Venezia, 3-4 novembre 2017. Sindaco, categorie, Città metropolitana e Regione tutti d'accordo per il nuovo mega progetto dell'archistar Zaha Hadid che porterà in Veneto un nuovo centro commerciale, altre strade e tanti turisti. Ma è di questo che si ha bisogno in una regione che ha un folle consumo di suolo e turisti da record? (m.p.r.)
Jesolo«Jesolo Magica dovrà essere un centro multiservizio non solo per gli jesolani, ma per tutti i turisti del litorale e soprattutto da Venezia». Il presidente dell'Aja, associazione jesolana albergatori, Alessandro Rizzante, lancia la carica degli operatori del turismo in vista delle futura apertura di uno dei centri commerciali, se così riduttivamente può essere descritto, più grandi e avveniristici in Europa. Un "monumento" di architettura moderna che sarà soprattutto accattivante e attirerà tanti visitatori all'interno di un circuito turistico più ampio che si unirà alle bellezze naturali, l'arte, la storia, l'intrattenimento. La paura iniziale dell'impatto sulla città e le attività commerciali sta lentamente svanendo tra le categorie di Jesolo che a puntate stanno apprendendo le prossime tappe della presentazione secondo i canali ufficiali. Dopo tanto silenzio, quasi il mistero che avvolgeva il progetto, ora si parla finalmente di date, investimenti, proiezioni. «Io credo che riflettendo sul futuro di un simile centro», aggiunge Rizzante, «Jesolo dovrà avere una viabilità e collegamenti moderni per portare qui tanti visitatori. E mi riferisco in particolare a una linea nautica per e da Venezia. Non possiamo più farne a meno dopo che il sindaco e presidente della Città Metropolitana Brugnaro ce l'ha presentata in estate. Jesolo sta crescendo di continuo nella qualità dei servizi e del commercio oltre che dell'ospitalità e accoglienza. Ormai dobbiamo ragionare sui grandi numeri del turismo, i circuiti internazionali e tutto l'anno. Ecco perché parlo di linea nautica, perché Jesolo Magica dovrà catalizzare grandi flussi, in primis da Venezia».
la Nuova Venezia, 3 novembre 2017
INVESTIMENTO DA 450 MILIONI
la Nuova Venezia, 4 novembre 2017
«JESOLO MAGICA, SI AL MEGA CENTRO
«Un tempo si poteva vivere di pesca, oggi l'habitat è stravolto». la Nuova Venezia, 3 luglio 2017 (m.p.r.)
DA NOVENTA ALLA FOCE/3 fine
Treviso. Chiare, fresche e dolci? Torbide, calde e salate, altrochè. Le acque della Piave che vanno da Ponte di Piave fino a Noventa e Fossalta e giù fino al mare sono tutto fuorché degne dei poeti. Pagano il prezzo dei "furti" e delle "ferite" patiti a monte e precedono di poco un fenomeno, quello del "cuneo di sale", che crea gravi problemi all'habitat vegetale e animale del fiume sacro alla Patria. Ne sa qualcosa l'oasi naturalistica "Codibugnolo", nata per autoalimentarsi con piante e animali, ma già in sofferenza e costretta a rifornirsi di varietà e specie provenienti da altre aree protette. Ci è capitato personalmente di trovare una delle sue "anime", nella selva del Parco dello Storga a caccia di erbe, piccole querce e rari salici bianchi con cui integrare la flora autoctona.
Il fatto è che la Piave è snaturata nelle sue acque, che, prive di vita, continuano a perdere biosalubrità. Lo dice anche il nostro giovane "barcaro", Christian, che ci accompagna verso il mare, nel viaggio finale su questo povero Piave desolato. Lui ti porta, con calma, nei luoghi giusti per farti un'idea su quanto accade. Buche dominate dalle mucillagini, calde come un brodo primordiale e non certo animate da vita ittica e capaci di filtrare l'acqua. La colpa non è nemmeno di quelli "lassù": quelli del Bellunese che piantano centraline elettriche come piovesse; o di quelli del medio corso che cavano a piene ruspe e pescano l'acqua dalle falde impoverendole e distruggendo l'equilibrio idrogeologico.
«Qui dovrebbero essere fatti i laminatoi - dice Marco Zanetti, biologo-imprenditore - Non certo nell'alto corso del Piave. Si fanno dove c'è acqua, non dove non ce n'è. E si prova a far ripartire il circolo virtuoso che purtroppo è già saltato o sta saltando. Non stupiamoci se il mare risale il fiume e rende tutto brullo. Se dal fiume non scende niente, c'è il caso, a seconda delle maree, di vedere la stessa bottiglia di plastica navigare prima verso sud, poi verso nord nell'arco della stessa giornata. e allora non stupiamoci se l'acqua non si depura».
Già, l'acqua: tanta, pulita. Dice ancora il biologo Zanetti: «L'acqua ha bisogno di scorrere in superficie per ripulirsi. I nostri nonni, che avevano quasi sempre ragione, dicono che l'acqua "se neta co la gà passà tre sassi". Il mantenimento della qualità dell'acqua è un punto d'arrivo della battaglia che associazioni e comuni devono fare insieme. Ma una larga fetta della Piave circola in tubature parallele e il sole e i sassi non li vede nemmeno. E allora ecco che senza acqua depurata non ci sono nemmeno biodiversità, che creano un circolo virtuoso la cui presenza, un tempo, rendeva vivo il basso corso del Piave».
L'attacco passa per l'alveo ma anche per le rive. Ci fu un momento in cui fu deciso, nel tratto che scende a San Donà, di fare interamente piazza pulita della vegetazione sulle rive (s'intende per non dare riferimenti a chi volesse capire quanto l'erosione che il fiume patisce sia naturale e quanto.... forzata e voluta). «La popolazione si ribellò e fu fiancheggiata dalle associazioni di tutela ambientale - racconta Maurizio Billotto vicepresidente di Legambiente veneta - e ottenemmo lo stop, quindi uno studio di tutto ciò che viveva lungo le rive e un piano molto dettagliato di ciò che si poteva disboscare». E scendendo il Piave ci viene in mente quella sentita al convegno di qualche giorno fa a Maserada: «Come dice Michele Zanetti, dell'Associazione naturalistica sandonatese,- nel letto del fiume abbandonato all'incuria, ti puoi aspettare da un minuto all'altro di veder spuntare una tigre, ma non certo la flora e la fauna che ci furono quarant'anni fa».
«Non chiedete un commento ai pescatori, che ormai non sanno nemmeno più perchè escono la mattina, di buonora, con canna, reti e nasse in mano», dice Christian, che sul fiume, in barca, dove ci ospita, vive. Ci fu anche un tempo in cui si viveva di pesca fluviale, qui, e lo diceva Felice Gazzelli di Ceggia: «Ho sei generazioni di pescatori alle spalle. Io ho pescato fino a che c'è stato mio padre, scomparso 20 anni fa» racconta, «Allora c'era acqua pulita che scendeva da nord e si poteva vivere di pesca. Non è più così, perché qui arriva dal mare l'acqua salata. I pescatori sono gente che ama il fiume e vanno ascoltati. Non c'è più acqua da pesce, qui». E allora al capezzale richiamiamo il biologo Marco Zanetti, della società di ricerche e analisi ecobiologiche Bioprogramm. «I traumi sono molteplici, come abbiamo visto dalle centrali idroelettriche al deflusso minimo imbroglione, dai cavatori che cambiano le caratteristiche del letto del fiume fino a chi depaupera senza controllo le falde, togliendo lo zoccolo liquido alle acque che dovrebbero scorrere in superficie».
Scrive in una relazione: «Il fiume quando viene colpito da un input, un inquinamento, qualcosa che lo modifica al suo interno, ha il potere di assorbirlo e di tornare nelle sue condizioni di equilibrio iniziale. Con la diminuzione della portata, il Piave, degradato nelle sue componenti strutturali, diminuisce il suo potere omeostatico e non è più capace di sopportare piccoli fenomeni di inquinamento che sarebbe stato in grado di sopportare se fosse nelle sue condizioni naturali. Abbiamo alvei che rimangono asciutti per lunghi periodi dell'anno e quindi si impermeabilizzano al ritorno delle acque. Il contatto con la falda comunque viene a mancare e non si ha il processo di filtrazione naturale. Il risultato dell'impermeabilizzazione è che le acque scorrono solo in superficie e producono danni.
«Aggiungeteci le piene improvvise che provocano il "drift" ossia l'asporto di materiali verso valle ed ecco il quadro. Nei periodi di riduzione della portata si ha invece la messa a secco e la scomparsa delle uova e degli avannotti di pesce e la riduzione delle popolazioni biologiche per cambiamenti strutturali dell'habitat. Come tutto questo non possa non ripercuotersi nella vita del Basso Piave è lampante. Ribadisco che dagli sbarramenti servono rilasci d'acqua modulari delle acque, un rilascio costante o limitato a certi periodi non ha senso. I produttori di energia idroelettrica, ad esempio, devono rilasciare dei picchi di magra e di morbida che siano quelli naturali, che ci sono sempre stati nei nostri fiumi. E gli enti captatori dell'acqua devono essere obbligati a smaltirsi anche i picchi di piena: non è possibile che quando l'acqua non c'è, loro possano prelevarsela tutta, mentre quando c'è l'ondata di piena utilizzino il fiume come canale scolmatore. E' inammissibile dal punto di vista biologico, ma anche dal punto di vista etico, perché a rischiare è la vita umana, che conta un po' più di quella del fiume».
Nel frattempo si registra la notizia della prossima chiusura dell'Ispra, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale. Come a dire che gli americani con Trump fanno solo le cose più in grande di noi, ma l'andazzo è quello. Chi può pagare, ha sempre ragione e a chi importa il destino del Piave dopo che il Veneto ha già assistito allo scippo di Adige e Brenta? Ma il caso Piave è ancora aperto, anche culturalmente. Non esisterebbe la civiltà del fiume e non esisterebbe, almeno in parte, Venezia così com'è, se il Piave non fosse stato una via d'acqua (allora l'acqua c'era) percorsa dagli zattieri con merci e carbone diretti alla foce e quindi alla Laguna.
A proposito di Laguna: su quella del Mort, vicino a Eraclea, dove un tempo terminava il fiume, incombe una minaccia: quella di un affare da mezzo miliardo di euro, chiamato Valle Ossi, fatto di posti barca e villette su 250 mila ettari. I naturalisti vi si oppongono e credono che l'area dovrebbe diventare un parco. I politici si confessano impotenti di fronte a un affare privato. Già l'area è di proprietà degli speculatori. Ma questa è un'altra storia.
Su eddyburg le due precedenti puntate del viaggio il Piave: Le centrali-bancomat che si bevono il Piave e Tra cave e prosecco, così il Piave affonda.
la Nuova Venezia, 29 giugno 2017 (m.p.r.)
Treviso. Entrambi le chiamano coltivazioni. Ma, in termini idrici, intendono cose diverse e concorrenziali tra di loro. Stiamo parlando degli agricoltori e dei cavatori. A entrambi il medio corso della Piave (fiume-madre), di cui ci occupiamo in questa seconda puntata (dal Ponte della Priula a Ponte di Piave) del nostro "viaggio", lascia il proprio obolo fino a svenarsi e a presentarsi a valle, senza nemmeno la forza per opporsi al ritorno delle acque salate dell'Alto Adriatico. Acque che devastano le coltivazioni di mais e soia riducendole a brulle, asfittiche e ingiallite lande nelle terre veneziane.
la Nuova Venezia, 28 giugno 2017 (m.p.r.)
Tre tronconi, per tre racconti diversi ma uniti da un solo filo: il fiume malato. Come tutti i fiumi che soffrono la mancanza d'acqua, l'incuria, il disinteresse pubblico e l'interesse privato. Il Piave, dalla sorgente alla foce, ha malattie diverse. A nord il prelievo della sua ricchezza per lo sfruttamento delle centraline. Nel medio Piave le escavazioni, e in generale l'insediamento agricolo poco rispettoso dell'equilibrio biologico. A sud, gli effetti nel mare che risale con il cuneo salino e il fenomeno delle alghe. In questa prima puntata, nella discesa dal Peralba al Montello, fino a Ponte della Priula, raccontiamo come lo sfruttamento delle centraline idroelettriche, che gli ambientalisti non esitano a definire macchine-bancomat per chi le possiede, stia trasformando il fiume e il flusso delle sue acque.
VIAGGIO DAL PERALBA AL MARE/1
Dal Peralba al Piave sono 220 chilometri, un bacino di oltre 4 mila chilometri quadrati. La Piave che nasce al confine tra Bellunese e Austria attraverso un pezzo di Veneto come un libro di storia, aspro e lacerante. Seducente e sacro nella memoria collettiva, riaccesa oggi a cento anni dalla battaglia finale della Grande Guerra. Ma di quel fiume resta poco. La natura e la mano dell'uomo ne ha trasformato l'aspetto e l'economia. La siccità, i mutamenti climatici. Certo. Ma soprattutto la rapacità degli interessi economici. Abbiamo disceso "la" Piave per raccontarla da dentro. Oggi la prima puntata.
». la Repubblica, 17 maggio 2017 (c.m.c)
C’è chi si mette in fila e, impaziente, aspetta dieci anni prima di essere ammesso. Chi invece, ammesso, denuncia che il farne parte rischia di diventare solo una medaglietta da sfoggiare. Non è il sodalizio di Groucho Marx («Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me»), ma la lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco, dove sfilano oltre mille siti che in tutto il mondo,per la loro eccezionale importanza, godono di uno status speciale attribuito dall’organismo delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura: quello di appartenere a nessun altro se non all’umanità intera.
L’Italia vanta un record, il maggior numero di siti presenti, 51, insidiata dalla Cina che ne ha uno di meno, record al quale si aggiungono 41 luoghi che ambiscono ad entrarvi, non sempre con unanime consenso. Ma il nostro Paese sconta anche un handicap: per alcuni siti, non tutelati al meglio, si chiede di valutare se il riconoscimento sia ancora meritato.
Far parte del patrimonio Unesco è un’ambizione rilevante. A dispetto del fatto che studi recenti su siti inglesi, francesi e turchi dimostrino che non c’è stretta relazione fra il marchio e la crescita di visitatori. E neanche in Italia dove, stando a una ricerca del 2013 di Ludovico Solima, economista della cultura, «la designazione è condizione necessaria, ma non sufficiente per attivare processi di valorizzazione turistica ».
Restano comunque un forte senso identitario e un effetto immagine. E se si perdesse il marchio il contraccolpo potrebbe essere vistoso. Inoltre il riconoscimento rende più visibile l’arte rupestre della Valcamonica (primo sito italiano a entrare nella lista nel 1979). Influisce molto meno per Pompei o per il centro storico di Roma. La selezione è comunque dura ed elaborare una candidatura è costoso. Occorre superare esami su esami e approdare al vaglio della Commissione nazionale italiana Unesco, presieduta da Franco Bernabè e alla quale aderiscono diversi ministeri, a cominciare da quello dei Beni culturali. Fondamentale è poi la stesura di un accurato piano di gestione. E, una volta accolti, non bisogna pensare che tutto finisca lì, con la medaglietta. L’impegno alla tutela è decisivo.
Lo sanno bene a Venezia, dove si attende con ansia che il Comitato per il patrimonio dell’Unesco, riunito a Cracovia a metà luglio, decida se la città e la laguna, nella lista dal 1987, debbano restarci o essere iscritti nella lista dei beni in pericolo. Una lista nella quale compaiono luoghi minacciati da conflitti (dall’Afghanistan alla Siria all’Iraq, dalla Libia al Mali), ma anche l’antico porto mercantile di Liverpool o il parco nazionale delle Everglades negli Stati uniti, insidiato il primo da un discutibile progetto di riqualificazione, il secondo dal degrado dell’habitat marino. Negli anni scorsi stavano per finire fra i beni in pericolo anche Pompei e Villa Adriana. Ma la retrocessione è stata evitata.
Una retrocessione rischia anche Vicenza che, insieme al paesaggio palladiano, è nella lista dal 1994. In entrambi i casi sono state associazioni come Italia Nostra o comitati di cittadini a chiedere che l’Unesco accerti se a Venezia siano sopportabili le Grandi Navi in bacino San Marco [in Laguna - n.d.r.], i dissennati progetti di scavi in laguna, un turismo fuori controllo, sempre più appartamenti trasformati in bed and breakfast e, a Vicenza, lo scioccante complesso di Borgo Berga, che a poche centinaia di metri dalla Rotonda di Palladio comprende persino il Tribunale, la costruzione di una nuova base militare americana e i progetti per l’alta velocità.
L’Unesco ha preso in seria considerazione entrambe le denunce. Ha stilato un duro rapporto su Vicenza nel giugno 2016 e ha mandato tre ispettori a fine marzo scorso. Si attende il loro responso. È in dirittura d’arrivo, invece, il procedimento per Venezia, dove gli ispettori si sono recati nell’ottobre del 2015 e in un preoccupato dossier hanno fissato un ultimatum: entro febbraio del 2017 il Comune di Venezia avrebbe dovuto eliminare i fattori di rischio, Grandi Navi e tutto il resto. In un primo tempo il sindaco Luigi Brugnaro ha fatto spallucce: a Venezia ci pensano i veneziani, è sbottato. Poi ha cambiato registro, si è precipitato a Parigi e alla direttrice dell’Unesco, Irina Bokova, ha consegnato un rapporto pieno di buone intenzioni. Successivamente ha mandato integrazioni e ha fatto sapere che in luglio andrà a Cracovia.
Ma le assicurazioni basteranno? Le Grandi Navi restano il punto dolente. «Trascorrerà un’altra estate con le navi che faranno su e giù davanti a Palazzo Ducale», dice sconsolata Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretaria del Mibact con delega Unesco. Una soluzione non c’è. Sono stati proposti itinerari alternativi con terribili scavi di canali che avrebbero manomesso l’equilibrio della laguna. Tanto terribili da essere bocciati. Al Comune ora si predilige un’altra ipotesi: far passare le navi nel canale dei petroli e poi nel vecchio canale Vittorio Emanuele, che però andrà approfondito scavando, di nuovo, fra i 5 e i 7 milioni di metri cubi di fanghi tossici. Comunque la soluzione incontra forti opposizioni in città e non è ancora un progetto. Invece l’Unesco chiede soluzioni concrete. Come andrà a Cracovia? Venezia non se la caverà con l’assoluzione. Forse neanche con la retrocessione fra i beni in pericolo. Probabile un rinvio al 2018.
Molti consensi ha incassato la candidatura italiana che verrà discussa in luglio: le opere di difesa della Repubblica veneziana fra XV e XVII secolo che si trovano in Italia (Venezia, Bergamo, Peschiera del Garda, Palmanova), in Croazia (Zara e Sebenico) e in Montenegro (Cattaro). Di analogo sostegno gode la candidatura delle architetture di Ivrea, frutto dell’iniziativa di Adriano Olivetti: se ne discuterà nel 2018. Più controversa è la candidatura delle colline trevigiane dove si coltiva il Prosecco. Il procedimento prende l’avvio nel 2008 per iniziativa del Consorzio dei produttori di Conegliano e Valdobbiadene, sostenuto dall’allora ministro dell’agricoltura Luca Zaia che ne resta sponsor da presidente del Veneto. Interessa un’area di 20 mila ettari – si legge nel dossier di 240 pagine – dove si è insediato un paesaggio culturale, natura e opera dell’uomo insieme, caratterizzato dalle ricche produzioni del Prosecco, una vera eccellenza (90 milioni di bottiglie l’anno).
Da tempo, però, associazioni ambientaliste e la Fondazione Benetton contestano l’invasione delle coltivazioni di Prosecco, che, soprattutto nella parte meridionale del trevigiano, «ha fatto scomparire i seminativi arborati », scrive Tiziano Tempesta, professore di Agraria a Padova, in un rapporto dello scorso inverno. Ha omologato e banalizzato il paesaggio. Si è poi intensificato l’impianto a “rittochino”, più rischioso idrogeologicamente, con le viti che scalano la collina dal basso verso l’alto, al posto del tradizionale “giropoggio”, segnala Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton. Sotto accusa anche l’uso di pesticidi. Tempesta è stato fra gli artefici dell’inserimento nel Registro nazionale dei paesaggi storici della parte di colline trevigiane in cui resistono i caratteri tradizionali delle colture. Studia da anni questa regione. E contesta che, nel dossier per l’Unesco, si lasci intendere che anche i nuovi vigneti conservino caratteri storici.
Altri punti, insiste Tempesta, sono poco convincenti. Nella candidatura si scrive che «il sito non ha subito rilevanti trasformazioni ». «Che dire», replica Tempesta, «del gasdotto e degli impianti di stoccaggio del gas che si trova dietro il Castello di san Salvatore a Collalto?». E ancora: nel dossier si legge che la percentuale delle superfici urbanizzate dal 1960 al 2007 è cresciuta dal 5,3 al 12,9, aggiungendo che la variazione è modesta. Come modesta, insorge Tempesta: «È un dato preoccupante, riguarda 1.500 ettari, una quota che corrisponde alla media del consumo di suolo in Veneto, la seconda regione in Italia per territorio urbanizzato ».
La Nuova Venezia, 22 marzo 2017 (m.p.r.) con riferimenti
Vicenza. Nuovo blitz degli ambientalisti a Borgo Berga, il “mostro” urbanistico costruito sull’area ex Cotorossi a Vicenza, alla confluenza dei fiumi Bacchiglione e Retrone e all’ombra delle ville palladiane. Un gigante di cemento che rischia di trascinare nel fango anche il tribunale costruito proprio su quell’area, ora al centro di un’inchiesta: domani, il tribunale del riesame si dovrà pronunciare sulla richiesta di sequestro dell’area, che il gip ha bocciato. Proprio per questo ieri attivisti del gruppo “Vicenza si solleva” si sono barricati nella gru che svetta nel complesso residenziale a pochi passi dalla Rotonda. Altri invece si sono incatenati all'interno del cantiere per bloccare i lavori nel mirino della procura, la quale ha chiesto il sequestro dell'area per presunti abusi edilizi.
Francesca Leder era intervenuta su eddyburg sulla vicenda urbanistica Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana, e sulla questione delle responsabilità politiche e sul ruolo degli intellettuali Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura con postilla. Sulla vicenda giudiziaria si veda Urbanistica, procura Vicenza mette sigilli al cantiere di Borgo Berga di Francesco Erbani, che aveva scritto anche Basta costruire gli architetti ora rigenerano e “Un tunnel sotto le ville del Palladio” Rivolta a Vicenza
Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)
E' noto che il cosiddetto project financing è una delle tecniche più efficaci per rapinare le casse dello Stato. In genere la politica – quando non è mandante o complice – se ne accorge sempre dopo. Il caso della Pedemontana Veneta è dunque inedito. Il governo ha scoperto (forse) in tempo che la nuova arteria da 95 chilometri che dovrebbe collegare le province di Vicenza e Treviso “senza oneri per lo Stato” potrebbe costare ai contribuenti 20 miliardi. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti ha attivato nei giorni scorsi una girandola di frenetiche riunioni per salvare il salvabile. Palazzo Chigi è dovuto intervenire a seguito del totale imbambolamento del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e di quello dell’Economia Pier Carlo Padoan, per tacere del governatore del Veneto Luca Zaia.
La storia della Pedemontana Veneta sembra un copione per cabarettisti. L’operazione parte nel 2003 con i consueti ingredienti dell’epoca: Legge Obiettivo e project financing. La prima garantisce – secondo l’ideatore Ercole Incalza, il dottor Stranamore dell’appalto – l’esecuzione delle opere con tempi e costi certi. Il secondo è apparentemente geniale: il costruttore finanzia e costruisce l’autostrada e se la ripaga con i proventi del traffico, così lo Stato non ci mette una lira. Storie note.
Ma con la Pedemontana Veneta si batte ogni record. Nel 2009 Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso decidono che tra Treviso e Vicenza c’è una vera e propria emergenza traffico, tale da imporre un decreto che svincola la Pedemontana dalle già lasche procedure della Legge Obiettivo. Non solo: viene istituito un commissario onnipotente nella persona di Silvano Vernizzi – braccio destro dell’allora governatore Giancarlo Galan per i cantieri – che diventa nientemeno che “autorità concedente” (nota per i comuni mortali: normalmente l’autorità concedente è il ministero Infrastrutture o l’Anas, minimo una Regione). Vernizzi firma di tutto e di più con il consorzio Sis, vincitore della gara del 2003, formato dal costruttore piemontese Matterino Dogliani e dal gruppo spagnolo Sacyr. I governatori veneti – Galan prima, Luca Zaia poi – approvano tutto. Forse senza rendersi conto di alcuni dettagli. Il primo è quasi normale, cioè il costo dell’opera che dagli 895 milioni iniziali triplica a 2,7 miliardi. Il secondo è la bomba: Vernizzi impegna la Regione Veneto a risarcire il concessionario se per caso il traffico, e quindi i pedaggi, risultassero inferiori alle previsioni. Naturalmente, come tradizione del project financing, le previsioni di traffico alla base dell’operazione sono stellari, per dimostrare la bontà dell’affare: 44 mila veicoli al giorno nel 2023.
Due giorni fa, a Palazzo Chigi, De Vincenti è sbiancato quando due dirigenti di Bei (Banca Europea per gli investimenti) e Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) gli hanno detto che, secondo un loro studio, le previsioni di traffico messe nel piano sono tre volte la realtà. Calcolatrice alla mano, la Regione Veneto dovrebbe rimborsare al consorzio Sis 366 milioni ogni anno per la durata della concessione, 39 anni: 14 miliardi in tutto che diventano 20 calcolando interessi e quisquilie varie.
Perché De Vincenti ha dovuto aprire questo teso tavolo di consultazione? Perché all’inizio di luglio il commissario Vernizzi, il concedente, ha scritto una perentoria lettera al premier Matteo Renzi per battere cassa. Il ragionamento di Vernizzi è semplice. Il consorzio Sis ha iniziato i lavori in un modo curioso, anziché costruire la strada un po’alla volta ha sbancato tutto il percorso, scavando una profonda trincea di 95 chilometri lungo la campagna veneta, ma non ha più soldi. Ha speso finora poco meno di 400 milioni di contributo statale senza metterci un euro di suo. Il contributo pubblico in conto capitale era all’inizio di 150 milioni, poi è diventato di 614 grazie a un miracoloso “atto aggiuntivo” firmato nel 2013 da Vernizzi e assentito da Zaia. Ora il commissario chiede a Renzi gli ultimi 200 e passa milioni per non chiudere i cantieri: pare che il concessionario che doveva fare “tutto con soldi privati” abbia titolo giuridico per pretendere di incassare tutto il contributo anche se non ha messo giù un euro suo.
E qui inizia il capitolo più grottesco. Ovviamente il privato per costruire l’opera deve finanziarsi sul mercato, in questo caso per circa 1,5 miliardi. Ma nessuna banca finora si è arrischiata a prestare soldi al costruttore Matterino Dogliani. La garanzia sottostante è, in sostanza, della regione Veneto che però, se dovesse fare fronte ai 366 milioni all’anno andrebbe in default. In pratica per una banca comprare le obbligazioni Sis sarebbe come investire in titoli di Stato italiani nel novembre del 2011.
Spunta a questo punto l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, oggi capo dell’investment banking europeo di Jp Morgan. La banca americana ha pronto il piano per l’emissione delle obbligazioni con cedola dell’8 per cento, un lauto interesse che alla fine sarebbe pagato da Zaia. Grilli tiene molto all’affare che porterebbe nelle casse di Jp Morgan una cifra stimata tra i 40 e gli 80 milioni di euro per la prestazione di arranger. Siccome nessuna banca vuole comprare il Pedemontana Bond, Grilli sta facendo pressioni sulla Bei e sulla Cdp perché si mettano una mano sulla coscienza e partecipino all’operazione: sarebbe un segnale forte per il mercato e garantirebbe il successo dell’operazione.
Per questa ragione i tecnici di Bei e Cdp hanno messo a punto lo studio sulle previsioni di traffico che giovedì hanno illustrato a De Vincenti. E le conclusioni sono infauste: solo un pazzo investirebbe su un’operazione così strampalata, ed essendo Bei e Cdp banche pubbliche i loro manager non possono fare follie. A complicare il quadro c’è però un manifesto interesse del presidente di Cdp, Claudio Costamagna, per l’operazione. Da mesi Grilli sta premendo su di lui in modo insistente facendo leva sull’ottimo rapporto tra i due banchieri, cementato dalla mossa realizzata da Grilli nello scorso gennaio: ha assunto in Jp Morgan la moglie di Costamagna, Alberica Brivio Sforza, assegnandole il ruolo di “senior private banker per la clientela Ultra High Net Worth”. A occhio dev’essere un mestiere molto difficile.
Adesso tocca a De Vincenti trovare una soluzione. Non sarà facile. Il complesso sistema di clausole firmate da Vernizzi rende quasi impossibile risolvere il pasticcio senza pagare sontuose penali al consorzio Sis. Purtroppo il Codice Appalti appena riformato dal governo non contiene l’unica norma che avrebbe salvato il Paese da flagelli del genere: vietare per legge il project financing.
La Repubblica online, 4 novembre 2015 La procura di Vicenza ha sequestrato il cantiere di Borgo Berga, nella parte ancora in costruzione del gigantesco complesso edilizio sorto a pochi passi dalla Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio. Giunge a uno sbocco l'inchiesta aperta dalla magistratura sulla base di numerosi esposti presentati da comitati di cittadini e dal Movimento 5 Stelle, che hanno denunciato non solo lo sfregio a una pregiata area paesaggistica, anche la violazione delle norme sulla sicurezza idrogeologica (il complesso è insediato alla confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione, che in passato sono esondati).
Nuova Venezia, Italianostravenezia.org, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Venezia «Qui comando io, quel progetto è una puttanata gigantesca, a Venezia nessuno lo vuole e per questo oggi lo bocciamo in Consiglio comunale». In un Consiglio acceso e in forte contrapposizione con tutte le opposizioni - e uno scontro personale, in particolare con il consigliere della Lista Casson Nicola Pellicani - il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro giovedì ha «forzato» sull’esame del progetto Venis Cruise (presentato da Duferco e Dp Consulting di Cesare De Piccoli) che prevede la realizzazione di un nuovo terminal crocieristico alla bocca di porto di Lido per evitare il passaggio delle Grandi Navi in Bacino di San Marco.
E invece di limitarsi con la Giunta e il Consiglio a prendere atto e approvare le Osservazioni al progetto - pur molto critiche - della commissione di tecnici comunali che l’ha esaminato, inviandole a Roma, alla Commissione di Valutazione d’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente che sta esaminando il progetto, ha deciso di «bocciarlo», trasformando la valutazione tecnica in un voto politico.
Uno “strappo” che le opposizioni per una volta compatte - Partito Democratico, Lista Casson e Movimento Cinque Stelle - non hanno accettato, decidendo di non partecipare al voto, proprio in dissenso con la forzatura del sindaco. Che ha polemizzato, in particolare, con Pellicani, quando gli ha ricordato che tutti i progetti alternativi al passaggio delle Grandi Navi in Bacino di San Marco devono essere valutati a Roma dalla Commissione Via.
«Non accetto che si dica che Roma deve dare un giudizio, hai le idee un po’ confuse - ha detto Brugnaro a Pellicani - decide Venezia, quando in ballo ci sono anche 5 mila posti di lavoro della portualità. La città con il voto ha detto che per le Grandi Navi si deve passare da lì (riferendosi al progetto Tresse Est, con lo scavo del canale Vittorio Emanuele, da lui sostenuto ndr) e di lì si va». «Se è convinto veramente che con il voto i veneziani abbiano detto questo, indica un referendum consultivo», gli ha ribattuto il capogruppo del Movimento Cinque Stelle Davide Scano. E sia il capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi (con la consigliera Monica Sambo), sia Pellicani, gli hanno ricordato come esistano le leggi e il progetto debba comunque superare il giudizio della Commissione Via. «Rispetteremo le leggi - ha ribattuto Brugnaro - ma la decisione finale sul progetto delle Grandi Navi deve essere politica e spettare alla città». Compatta la sua maggioranza nel sostenerlo. Intanto sul progetto Venise Cruise restano le Osservazioni dei tecnici comunali, molto critiche sul suo impatto ambientale, su quello relativo al funzionamento del Mose, sul traffico acqueo per il trasbordo dei passeggeri dal terminal in mare alla Marittima, sugli effetti negativo sulla pesca. Il comune chiede anche di essere ammesso alla sedute della Commissione Via sui progetti alternativi.
"A tre anni dal decreto Clini-Passera, Venis Cruise 2.0 è l'unico rimasto all'esame della Via e abbiamo inviato al ministero tutte le risposte alle osservazioni contrarie. Chi continua ad avversare in modo pregiudizialela nostra proposta dovrebbe riflettere seriamente». Così avevano puntualizzato alla vigilia del dibattito in un comunicato Duferco e Dp consulting, le società che hanno presentato il progetto per la realizzazione di uno scalo passeggeri per le grandi navi in bocca di porto al Lido. Il riferimento è anche all'amministrazione Brugnaro, che ha una sua soluzione alternativa: far arrivare le grandi navi passeggeri in Marittima dal canale dei Petroli, voltando (e scavando) per le Tresse e il Vittorio Emanuele. «Il ministero non ha accolto l'ennesima contestazione dell'Autorità portuale sulla sussistenza del pubblico interesse dell'opera», insistono i proponenti, «e ha confermato che Venis
Cruise 2.0 rientra negli interventi compresi nel programma infrastrutture strategiche approvato dal Cipe e pertanto incardinato nelle norme della legge obiettivo».
Non si tratta di gentarella, si tratta Silvano Vernizzi, commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e altri cinque dirigenti e di altri cinque funzionari regionali. La Nuova Venezia, 28 gennaio 2015
Dalle costole dell'indagine sul Mose, il pubblico ministero della Procura di Venezia Stefano Ancilotto ha sfilato una nuova inchiesta, puntando l'obiettivo sull'assegnazione dei lavori per il project financing "Via del mare: collegamento A4, Jesolo e Litorali": un progetto da 250 milioni di euro, per il quale la commissione tecnica regionale ha dichiarato vincitore l'Ati capeggiata da Adria Infrastrutture. Non proprio un'azienda qualunque, essendo la società che era amministrata da Claudia Minutillo - già segretaria-braccio destro di Giancarlo Galan quand'era governatore e che guidava a bacchetta l'ex assessore ai Lavori pubblici Renato Chisso - uno degli indagati-cardine dell'inchiesta Tangenti Mose, sul giro di false fatturazioni che ha costituito i fondi neri di Mantovani e Consorzio Venezia Nuova.
Nella nuova indagine non si parla di tangenti, ma di turbativa d'asta. Il pubblico ministero Ancilotto ha iscritto al registro degli indagati la commissione tecnica che ha assegnato ad Adria (proponente del project financing) la realizzazione del primo stralcio della Via del Mare, ora cantierabile e per la quale in questi mesi si sta discutendo in Regione l'iter del secondo stralcio. Sei gli indagati: il commissario straordinario di tutte le grandi opere viarie della Regione Veneto, e Stefano Angelini (residente a Preganziol), Paola Noemi Furlanis (residente a Portogruaro), Antonio Strusi (residente a San Donà di Piave), Adriano Rasi Caldogno (Mestre, attuale direttore generale dell'Asl di Feltre), Mauro Trapani (Vicenza). Ieri sono partiti gli avvisi a comparire, per un interrogatorio - alla presenza dei loro avvocati Marco Vassallo e Paolo Rizzo - in calendario per il 29 gennaio.
Per il pm la commissione non avrebbe preventivamente individuato il criterio matematico per valutare le offerte dei partecipanti, né calcolato il costo degli espropi, ammettendo Adria Infrastrutture nonostante la sua proposta contemplasse un contributo pubblico superiore all'importo massimo previsto dalla legge, permettendole anche di modificare in corso di gara in maniera sostanziale la proposta iniziale. Una serie di favori, dunque, anche se nell'ipotesi di reato non vengono contestate né tangenti, né pressioni da parte di politici come Galan e Chisso (ai quali invece nell'inchiesta tangenti vengono proprio contestati anche interessi privati in project financing autorizzati dalla Regione). «La Procura contesta irregolarità di natura prettamente amministrativa sulle quali il Tar Veneto si è già espresso, dichiarando la totale legittimità di quelle procedure», commenta l'avvocato Marco Vassallo, facendo riferimento al ricorso di Net Engineering, «si tratta di accuse che contraddicono le stesse dichiarazioni di Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo, caposaldi dell'accusa, che hanno messo a verbale che il loro nemico in Regione era proprio Vernizzi, che gli aveva messo i bastoni tra le ruote».
«Sprofondo Veneto, con l’acqua alla gola e le Grandi Opere impantanate nel fango di affari & politica. È l’immagine dell’incubo Polesine proiettata nel Duemila. Ma anche l’"effetto Mose" che straccia la mitologica propaganda e fa ripiombare il Nord Est nel guano delle tangenti formato impresa».Il manifesto, 6 agosto 2014
Qui piove sempre sul bagnato: le quattro vittime dello tsunami del torrente Lierza sabato sera a Refrontolo (Treviso) squadernano la vera insicurezza del Veneto. Alluvioni e frane come esito naturale delle colate di asfalto e cemento programmate senza soluzione di continuità politica.
Dal 4 al 6 febbraio scorso un’altra emergenza ha schienato mezza regione (compresa la Marca trevigiana) dai piedi d’argilla. Proprio come nell’autunno 2010. Ponte degli Angeli, cuore di Vicenza, misura il termometro della paura: il Bacchiglione sale fino a lambire l’asfalto con il rischio di replicare l’esondazione nel 20% della città che poi si espande verso il mare.
Di nuovo, un bollettino di guerra: a Bovolenta, nella Bassa padovana, 600 sfollati attendono i soccorsi; la rete viaria della regione paralizzata da smottamenti, crolli, infiltrazioni.
Lo scenario
Quattro anni fa un’identica apocalisse aveva messo in ginocchio il Veneto centrale: da Verona a Padova 150 chilometri quadrati sommersi non solo dall’acqua. Eppure era una “catastrofe annunciata”, perché al di là delle precipitazioni straordinarie, dal 1966 le opere di salvaguardia del territorio rimangono incompiute. Luigi D’Alpaos, ordinario di Idraulica dell’Università di Padova, ripete inutilmente: «Il grande disastro è stato che nessuno si è mai interessato alla questione idraulica che, anzi, è stata completamente ignorata. Si sono fatte così strade, autostrade e altre opere che magari vanno anche sotto acqua alla prima pioggia. I sindaci di questi ultimi 50 anni hanno una bella responsabilità per come e quanto hanno urbanizzato ed occupato il territorio senza seguire criteri guida. I sindaci devono smetterla di permettere insediamenti dove è pericoloso».
Il “partito del mattone” è sempre il più forte. Anche nell’epoca della crisi infinita l’immobiliarismo detta legge nei Comuni grandi e piccoli. Dalle cave che dragano argini e fiumi al giro d’affari non sempre limpido del “movimento-terra”, fino ai cementifici (tre impianti solo all’interno del Parco regionale dei Colli Euganei) e ai soliti professionisti del ramo.
È la vera industria del Nord Est, l’unica finanziata dalle banche. La messa a reddito delle aree edificabili muove un piccolo esercito di affaristi con interessi votati al profitto, pronti a scaricare gli effetti collaterali sulla collettività. Sistema articolato, capillare, trasversale che macina relazioni economiche e rapporti politici.
Verona è l’ultima frontiera delle Grandi Opere: 6 miliardi di project financingcominciano con i 13 chilometri di tangenziale nord in galleria. Racconta Gianni Belloni dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia: «Dal casello autostradale, in 3,5 chilometri, la giunta del leghista Flavio Tosi ha previsto la costruzione di ben 11 centri commerciali per un totale di 380 mila metri quadri. Nella sola area di Verona Sud previsti 4 milioni di mc di cemento: uno per edifici residenziali, altri 3 in direzionale, commerciale e alberghiero».
E la vocazione d’oro di Vicenza brilla per sintonia amministrativa: se il berlusconiano Enrico Hullwek ha lasciato in eredità speculazioni come minimo azzardate, il renziano Achille Variati regolamenta nuove colate di cemento armato.
Una ventina di chilometri più in là si fanno i conti con il ventennio di Flavio Zanonato descritto eloquentemente da Francesco Fiore (consigiliere comunale di Padova 2020): «Nel 2013 risultavano invendute oltre 10 mila abitazioni; che raddoppiano nei 18 municipi della comunità metropolitana. Eppure gli attuali piani urbanistici prevedono espansioni: alla volumetria residua del Prg vigente, il nuovo Pat aggiunge altri 2 milioni di metri cubi. Così si immagina l’insediamento di 24.185 abitanti in un decennio, Dato assolutamente irrealistico: negli anni Duemila la popolazione è aumentata di 730 abitanti».
Betoniere e struzzi
Affari & politica in versione edile. Funziona così, dall’epoca del “modello veneto” con una zona industriale sotto ogni campanile. Nel Duemila sono resusiscitati tutti, compresi quelli apparentemente morti con Tangentopoli. A Venezia c’è la mega-concessione del Mose, la più mastodontica opera pubblica concepita in Italia: la salvaguardia della laguna affidata nelle mani dell’impresa Mantovani di Piergiorgio Baita (costretto a patteggiare con la Procura) e Giovanni Mazzacurati che a 82 anni deve rispondere della gestione del Consorzio Venezia Nuova.
Comunque, per i soci del Cvn (comprese le coop “rosse”) l’affare era fatto: proprio all’inizio di febbraio la Banca europea degli investimenti aveva sbloccato il maxi-prestito (200 milioni di euro). L’accordo firmato a Roma seguiva mesi di raccolta informazioni sulle indagini giudiziarie da parte degli esperti della Banca, che hanno ricevuto in garanzia… gli stanziamenti del governo al Mose. Alchimia più che necessaria, per intercettare l’ultima tranche del pacchetto di 1,5 miliardi (soldi erogati tra il 2011 e il 2013). Poi sono scattati arresti, perquisizioni, verifiche della Guardia di finanza e rogatorie internazionali…
A Vicenza, “regna” il gruppo Maltauro (1.700 dipendenti, 465 milioni di euro il valore della produzione nel 2012) che ha in cantiere anche l’appalto da 40 milioni della nuova metro di Roma Termini. Naviga anche nei fiumi di denaro dell’Expo 2015 di Milano: 42,5 milioni per il progetto “Via d’acqua Sud” a cavallo del Naviglio. Negli anni Novanta il nome dell’impresa ricorreva nei faldoni della magistratura che indagava sulle mazzette per la “bretella” autostradale con l’aeroporto di Tessera. Ora l’imprenditore edile vicentino è finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta della Procura di Milano, mentre Pavia indaga sull’illecito smaltimento di rifiuti. Di certo, Maltauro ha garantito la materia prima per il bunker di Muhammar Gheddafi a Tripoli, mentre lavorava e progettava infrastrutture del regime.
Cemento sussidiario
Al Tribunale di Padova è stata invece depositata l’istanza di pre-concordato da parte di Consta. E’ il consorzio che incarna il business della Compagnia delle Opere: dal 10 settembre 2012 il CdA è presieduto da Graziano Debellini (carismatico leader della fraternità ciellina) affiancato da Ezechiele Citton (suo braccio destro nell’architettura della holding dal Lussemburgo alla Nuova Zelanda) e Luigi Patané nel ruolo di amministratore delegato e direttore generale. I problemi, finanziari e non, nascono in Etiopia con la ferrovia per Gibuti e i cantieri degli acquedotti. In via Crimea va fanno i conti anche con il “rinculo” delle energie alternative, con lo sparring-partner Carlo De Benedetti.
La sintesi del sistema dei calce-struzzi veneto è ben riassunta nell’e-book La politica urbanistica dell’assessore Vito Giacino di Giorgio Massignan, presidente di Italia Nostra a Verona. Sotto i riflettori, l’ex braccio destro di Tosi arrestato il 17 febbraio per corruzione: «Gli strumenti urbanistici si sono trasformati in piattaforme tecniche che giustificano e notificano la speculazione edilizia».
E anche così si ritorna al “lato B” delle cicliche alluvioni a Nord Est. Con l’inchiesta formato docu-film Giace immobile scritta e diretta da Riccardo Maggiolo: da Caldogno (il paese di Roberto Baggio) sott’acqua si arriva fino all’immobiliarismo. Una produzione indipendente che viene proiettata sempre più spesso. In alternativa, c’è il sito www.giaceimmobile.com da cui si può scaricare il film di 89 minuti in full HD a 4,99 euro.
«Negli ultimi cinque anni il numero di compravendite immobiliari è crollato. Nonostante ciò, i prezzi hanno subìto solo una lieve flessione. Il mercato è in forte disequilibrio, oltre ad essere gravato da un’enorme mole di invenduto e di edifici abbandonati, incompleti, decadenti. Un’implosione del settore è un’ipotesi tutt’altro che remota» spiega la presentazione dell’inchiesta. Fra gli intervistati, Tiziano Tempesta dell’Università di Padova e Luca Dondi direttore dell’Osservatorio Nomisma. È una spietata analisi della rendita virtuale costruita sul valore del mattone. Affiora il Veneto della speculazione edilizia, che produce anche “catastrofi naturali”.
La Nuova Venezia, 5 gennaio 2014
«Il nuovo Piano casa approvato dalla Regione non sta in piedi, siamo pronti ad avviare tutte le iniziative legali per salvaguardare le nostre prerogative in materia urbanistica e difendere l’identità dei centri storici. Il 9 gennaio a Venezia i sindaci delle principali città venete concorderanno un documento che getta le basi per il ricorso contro la Regione».
Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova, si è sentito a lungo con Giorgio Orsoni di Venezia, Giovanni Manildo di Treviso, Jacopo Massaro di Belluno e Achille Variati di Vicenza, per fissare l’agenda del meeting dei sindaci metropolitani in rotta di collisione con Palazzo Balbi su una materia delicatissima: il governo del territorio, che «rischia di subire l’oltraggio dei nuovi barbari».
Rossi dichiara il pieno appoggio ad Andrea Gios, il sindaco di Asiago che con una delibera del consiglio comunale ha bocciato la legge regionale 32 che spalanca le porte alla riqualificazione urbanistica. Vale a dire: demolire, ricostruire nuovi volumi con ampliamenti del 20 per cento. C’è chi teme una colata di cemento e chi invece spera che il settore dell’edilizia possa ripartire dopo la lunga crisi, grazie ad una procedura che non prevede né gli oneri di urbanizzazione né la concessione edilizia. Una sorta di deregulation che i geometri stanno cavalcando con offerte di consulenze on line, senza però abbassare le tariffe.
Asiago ha rotto il ghiaccio, seguita da Cortina che teme lo snaturamento della propria identità urbanistica con la riconversione selvaggia degli alberghi trasformati in residence. Marino Zorzato, il «padre» del Piano casa 3, non accetta di finire sul banco degli imputati e rilancia la palla ai sindaci: se proprio volete tutelare il territorio, cancellate dai Prg le zone residenziali non edificate su cui fate pagare l’Imu, dice il vicegovernatore del Veneto. Che aggiunge: i danni al territorio nascono dalla fame insaziabile dei comuni che hanno concesso lottizzazioni selvagge negli anni d’oro per incassare gli oneri di urbanizzazione: la festa è finita, anche se l’Imu sui terreni edificabili pesa come un macigno sulle tasche dei proprietari. Zorzato non desidera vincere il premio Attila che Legambiente assegna al «re dei cementificatori» e annuncia che tra martedì il consiglio regionale avvierà l’esame della legge sul consumo zero del territorio. Depositata dal Pd, sottolinea come tra il 1970 e il 2012 la superficie agricola del Veneto è stata ridotta del 9,85% con 180 mila ettari edificati. In quarant’anni il Veneto si è «mangiato» l’intera provincia di Rovigo.
«Il 9 gennaio a Venezia, i sindaci valuteranno i presupposti giuridici per impugnare il Piano casa 3: si tratta di capire se sia più utile ricorrere al Tar per bloccare l’effetto immediato dalla legge 32 o se invece non si debba addirittura chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Il tema è molto delicato, perché cancella tutti gli strumenti di pianificazione e di governo del territorio», spiega Ivo Rossi, «azzera trent’anni di cultura urbanistica e spalanca le porte alle deregulation più selvaggia: non si può diventare dei moderni barbari con la scusa di uscire dalla crisi. Ci vuole un grande senso d’equilibrio, capacità di progettare il futuro e rigenerare i quartieri degradati», conclude Rossi. Il summit di giovedì a Venezia affronterà anche la stangata dei pedaggi delle autostrade e gli effetti della legge di stabilità sui bilanci dei comuni. A rappesentare il governo sarà il ministro Flavio Zanonato.
Gruppo d'intervento giuridico onlus, 5 gennaio 2014
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridicoonlus ha chiesto con una specifica istanza (30 dicembre 2013) al Governo nazionale di proporre ricorso davanti alla Corte costituzionale (art. 127 cost.) avverso la legge regionale Veneto 29 novembre 2013, n. 32 contenente la terza edizione del c.d. piano casa per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Non solo.
In proposito mette a disposizione di chiunque lo desideri un fac simile di istanza da completare con le proprie generalità e qualifica e da rivolgere direttamente al Governo perché impugni davanti alla Corte costituzionale questo vero e proprio regalo alla speculazione edilizia più becera. Chiunque fosse interessato può richiederla all’indirizzo di posta elettronica grigsardegna5@gmail.com. Copia dell’istanza è già stata fornita al Comune di Asiago, insieme a Cortina d’Ampezzo uno dei primi Comuni veneti a battersi apertamente contro il provvedimento legislativo, con una deliberazione consiliare (23 dicembre 2013) di disapplicazione del c.d. terzo piano casa.
Ma è tutt’altro che un piano casa. Bisogna ricordare che il vero e unico “piano casa” è stato il piano straordinario di intervento dello Stato per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio italiano nell'immediato secondo dopoguerra, con i fondi gestiti da un'apposita organizzazione presso l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la Gestione INA-Casa, in base alla legge n. 43/1949. Al termine (1963) saranno realizzati ben 355 mila appartamenti nei tanti quartieri “razionali” predisposti grazie anche al contributo di alcuni fra i più importanti architetti e urbanisti del tempo (da Carlo Aymonino a Ettore Sottsass, da Michele Valori a Mario Ridolfi).
In realtà – così come in Sardegna e in altre regioni italiane – si tratta di un provvedimento legislativo adottato per favorire la più becera speculazione edilizia. La terza proroga[1] del finto piano casa e vero piano scempi sarà applicabile fino al 10 maggio 2017 e sarà utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013 (art. 3, comma 2°), per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.
Nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici possono addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente (art. 4, comma 2°), anche su aree di sedime diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11).
Anche per l’obbligatoria rimozione dell’amianto è concesso un aumento volumetrico del 10% (art. 6), così come è incentivata la demolizione di edifici in zone a rischio idraulico con la ricostruzione in altre zone con un premio volumetrico del 50% della volumetria esistente (art. 7). Per l’eliminazione delle barriere architettoniche è concesso un ulteriore ampliamento del 40% della volumetria (art. 12).
Sono inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici (art. 16). Non esistono più limiti alle altezze degli edifici, né c’è la minima traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) o con il vincolo idrogeologico (regio decreto n. 3267/1923 e s.m.i.) o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale (direttive n. 92/43/CEE e n. 09/47/CE, D.P.R. n. 357/1997 e s.m.i.).
Ma soprattutto – incredibile per una regione come il Veneto dove la Lega Nord governa – di fatto saranno esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.
Basti pensare a che cosa potrebbe accadere sull’Altopiano di Asiago, sulla Riviera del Brenta o nella conca di Cortina d’Ampezzo, una vera follìa, un autentico far west urbanistico in danno delle aree più pregiate sul piano ambientale e forti richiami per il turismo.
La pianura veneta, un tempo celebrata da poeti e scrittori e già ora a rischio di collasso ambientale, potrebbe divenire un unico capannonificio, inutile e sempre meno ricco di lavoro.
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus confida in una risposta ferma e determinata da parte dei Comuni, associazioni e comitati veneti, singoli cittadini e – soprattutto – del Governo nazionale perché questo piano scempi sia portato davanti alla Consulta nel più breve tempo possibile.
p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
Stefano Deliperi
L'Unità, 11 ottobre 1963 e 6 ottobre 2013
6 ottobre 2013
LA NOSTRA TINA CHE PER TANTI ANNI
URLÒ INASCOLTATA LA VERITÀ
di Toni De Marchi
Dopo «Vajont» di Paolini e dopo il film con Laura Morante, Tina Merlin divenne un personaggio incontournable, come direbbero i francesi. Una di cui non si può fare a meno, ineludibile. E in molti che l’avevano ignorata se non vilipesa, si scoprirono improvvisamente suoi inconsolabili amici. Parlo dei giornalistoni alla Pansa, ad esempio, che probabilmente quando arrivò a Longarone per La Stampa, non avrà neppure voluto saperne il nome. O dei Bocca, che difendevano la Sade (la società elettrica proprietaria dell’invaso del Vajont) scrivendo su Il Giorno due giorni dopo il disastro «nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare....tutto è stato fatto dalla natura». Altro che nessuno poteva prevedere. Per quattro anni Tina aveva raccontato, urlato la verità: mai tragedia era stata più annunciata di questa. Articolo dopo articolo, assemblea dopo assemblea, lei donna, comunista, piccola e anonima corrispondente de l’Unità da Belluno aveva cercato di aprire gli occhi, svegliare le coscienze. Tanto che sarà processata, e assolta, per un articolo del 5 maggio 1959: La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono. Come spiegò poi la sua «non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui». Era una lotta per la vita, per il diritto dei montanari. Di quelle vite dure e rotte come era stata ed era la sua.
Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.
Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.
Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. «Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza», racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: «Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita».
12 ottobre 1963
L’UNITÀ AVEVA DENUNCIATO TUTTO
MAI CREDUTI E SOTTO PROCESSO
di Tina Merlin
Questo giornale aveva raccontato nel ’59 e nel ’61 i rischi di quell’opera grazie ai pezzi della giovane cronista che fu accusata di falsità
È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo. prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.
Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.
Affermo che ci sono a responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali», che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedirle di compiere un delitto. L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati per altro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta a reggere la pressione di di 160 milioni di metri-cubi d’acqua.
La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di erto. Sapeva che il monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri. Quattro anni fa, quando è stata sperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di San Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse, piano piano, si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione. (...).
Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi un articolo per l’Unità, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false atte a turbare l’ordine pubblico. Venni processata a Milano assieme al direttore de L’Unità. (...). lo e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito Comunista, fummo soli e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese di Erto si trovava in pericolo assieme ai paesi del Longaronese. I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tenere conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano. (...) Quelle stesse autorità di governo che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare l’immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese (...). (11 ottobre 1963)
Rassegna sindacale, ottobre 2013
Mi siedo sulle rive del Piave - il corso d’acqua più artificializzato del mondo, un deserto di ghiaia - e apro la mia copia, piena di sottolineature, di Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin di denuncia sul Vajont. Leggo il suo ineguagliabile epitaffio sulla tragica serata del 9 ottobre 1963:
«Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont” durata vent’anni, si conclude di tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».
Il mio pensiero corre a Tina, questa straordinaria giornalista dell’Unità che ho avuto il privilegio di conoscere. Al suo coraggio di affrontare da sola il colosso SADE, subendo processi per aver raccontato della diga.., per aver lanciato l’allarme due anni e mezzo prima della tragedia. Per aver denunciato l’arroganza di troppi poteri forti. L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi stampa. L’umiliazione dei semplici, la sua gente, alla quale lei cerca in ogni modo di dare voce.
Per decenni il Vajont è rimasto un ricordo vago nella memoria nazionale. Se negli ultimi anni siamo tornati a parlarne lo si deve alla ristampa del suo libro e, soprattutto, all’orazione civile di Marco Paolini perché, come egli scrive,«le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta».
Ma se l’Italia dimentica – scrive Paolo Rumiz – «l’Enel ha la memoria lunga. L’acqua del Vajont c’è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente. S’inaugurano monumenti alle vittime dell’onda assassina, ma quei centocinquanta milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce.(…) Come dire che la tragedia ha accelerato, anziché frenarlo il dissesto idrogeologico».
Si è dato via libera al saccheggio. Risultato: se dovesse tornare l’alluvione degli anni sessanta, i danni sarebbero «dieci volte maggiori». Parola di Luigi D’Alpaos, ordinario d’idraulica all’università di Padova. Troppi detriti, troppi ostacoli sulla strada del fiume sacro della Patria.
A cinquant’anni di distanza è cambiato qualcosa? Finalmente salgono a Longarone il Presidente della Repubblica, Ministri e “governatori” per il “mea culpa” dello Stato, per chiedere scusa ai cittadini. Le parole pronunciate dal Ministro Orlando sono sagge: «Le resistenze delle popolazioni locali e dei comitati non si possono liquidare come localismi dei no, ci sono esperienze di chi vive nei luoghi che meritano altrettanto rispetto delle perizie tecniche».
Ancor più decise e autocritiche suonano le parole del “governatore” del Veneto, Zaia: «In questo Paese abbiamo bisogno di costruire meno strade e di realizzare più opere di prevenzione idrogeologica». Che il nostro Presidente sia rimasto folgorato sulla via di Damasco di fronte al ricordo della strage del Vajont? Non è la prima volta che egli pronuncia condivisibili parole che facevano presagire a una svolta ambientalista. L’aveva già fatto nel 2010 di fronte all’alluvione che ha colpito mezzo Veneto e l’ha ripetuto anche nella torrida estate del 2012: «Basta cemento. Serve una moratoria in piena regola!. Peccato però che nel frattempo la sua Giunta abbia dato il via libera a tutti i progetti voluti dagli immobiliaristi e dalla finanza.
Un diluvio di autostrade, bretelle, tangenziali, tunnel, camionabili; una costellazione di new Cities e il lasciapassare alle nuove lottizzazioni dei comuni in cerca di oneri di urbanizzazione. In un Veneto che già negli ultimi vent’anni ha visto diminuire la superfice agricola del 21,5%, un’estensione superiore a quella di tutta la provincia di Vicenza: con un ritmo di 38 ettari al giorno, corrispondenti a più di 53 campi di calcio! Mentre la Metropolitana di superfice è al palo da vent’anni e si taglia il trasporto pubblico locale, la Giunta del Veneto sembra affetta da bulimia autostradale.
Cambiano le Giunte, si avvicendano in carcere e agli arresti domiciliari i vertici dei consorzi, delle imprese e delle società che monopolizzano le “grandi opere”, la Guardia di Finanza documenta l’infiltrazione mafiosa nel mercato immobiliare del Veneto, il dissesto idrogeologico provoca danni in continuazione, la qualità dell’aria è la peggiore d’Europa ma la musica che suonano sul Canal Grande non cambia: cementificare e asfaltare. Lasciare mano libera ai progetti che le varie lobby finanziarie e del mattone hanno in programma e che “concerteranno” con i soliti assessori. Sui tavoli degli uffici regionali sono già pronte decine di “progetti strategici”: mentre si lasciano deperire i 2000 ettari già infrastrutturati di Porto Marghera si spreca altro suolo veneto con svariati milioni di metri cubi di volumetrie e centinaia di chilometri di nastri d’asfalto. Progetti che vanno approvati con le norme “semplificate” della Legge Obiettivo, degli Accordi di Programma, dei famigerati Project Financing “sporchi”. Si dice che costeranno poco. In realtà pagheranno molto i cittadini: nell’immediato con l’aumento dei pedaggi (il Passante di Mestre è l’autostrada più cara d’Italia) e per il futuro si costruisce un debito occulto che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Per i privati proponenti rischi zero. Per i cittadini oneri sicuri.
project financing e l'inerzia culturale nella tutela del territorio»
Un grazie molto sentito e sincero al Presidente Clodovaldo Ruffato e un saluto molto cordiale a tutti voi. In questi giorni ho pensato molto a questo incontro per dare al grido del digiuno non un significato di contrapposizione, ma di coinvolgimento.
Lo sapete che il digiuno prolungato mette le persone in uno stato di grande debolezza fisica per cui costituzionalmente si ha bisogno degli altri e qui anche istituzionalmente.
Voi forse vi aspettate che venga subito al nocciolo per quanto concerne la nostra Regione, il campo dove lavorate come nostri rappresentanti. Invece sono obbligato da un'altra partenza. Non spetta a me e nemmeno sono competente per suggerire soluzioni tecniche. Ho scelto di esporvi il mio travaglio, senza pretese, ma con grande schiettezza pur nel rispetto e nella riconoscenza per quello che ognuno di voi cerca di realizzare per il bene comune. (Tenete presente che da anni la mia attività si muove su due versanti: quello sociale con le situazioni più povere e precarie; nello specifico oggi con le persone che hanno perso il lavoro e il settore dei sinti e rom. Sul versante politico alcuni interventi di interposizione nonviolenta in zone di conflitto armato ed educazione alla nonviolenza e alla pace; anche conoscenza e partecipazione alle attività di molti comitati ambientali grazie al servizio di informazione con Radio Cooperativa.
Il mio digiuno è partito alla chetichella la sera di ferragosto, ma è stato come avessi levato il tappo a una bottiglia.
Esiste una sofferenza diffusa per quanto concerne le scelte ambientali. Non avrei mai pensato che il digiuno sarebbe stato scelto come modo di impegnarsi per l’ambiente e per sensibilizzare la popolazione.
Vengo al mio percorso.
Quello che mi ha scioccato da due anni a questa parte sono due dati uno generale e uno locale.
1. Il pianeta.
Cito: “ Ci troviamo di fronte a una svolta nella storia del pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro (...) La scelta sta a noi: o creiamo un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra e quella della diversità della vita”. Ho citato dalla “Carta della Terra”.
Le due principali fonti di distruzione:
a) la macchina di morte della tecno-scienza: armi nucleari, chimiche e biologiche (25 modi diversi per distruggere l’umanità) b) il caos che abbiamo creato nel sistema Terra e che si manifesta attraverso il riscaldamento globale. Negli ultimi 5 anni si sta registrando, non solo il disgelo delle calotte polari, ma anche lo scioglimento del permafrost, il suolo perennemente ghiacciato del Canada e della Russia, con l’immissione in atmosfera di milioni di tonnellate di metano, che è 23 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra. L’ossido nitroso, liberato dai fertilizzanti è 40 volte più distruttivo. Secondo l’ultimo rapporto ONU di valutazione degli Ecosistemi del Millennio, dei 24 elementi che sono fondamentali per la vita, 15 registrano un elevato grado di degenerazione; il pianeta è esausto, la madre Terra ha raggiunto il limite di sopportazione.
Il 20 agosto scorso l’umanità ha esaurito le risorse naturali che aveva a disposizione per l’intero 2013; in meno di 8 mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materia prime che sarebbero dovute bastare fino al 31 dicembre, immettendo nell’ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta.
Questi dati, probabilmente noti a molti di voi, li sentite come una notizia pur importante o come una emergenza reale? E se è vera emergenza va affrontata direttamente e subito, o dobbiamo aspettare che tutti siano d’accordo per partire? Quelli forniti non sono sentimenti, sono dati. Questo mondo in cui siamo cresciuti è finito, la crisi sta imprimendo un velocità imprevedibile. Qualcuno pensa che in qualche modo la crescita sarà una via d’uscita? Questa crisi non è solo economico finanziaria, è entropica.
Il pianeta così come stanno le cose, oggettivamente non ce la fa più.
2. Il Veneto
Vengo al secondo dato: il Veneto.
La mia origine è stata segnata dall’appartenenza alla Terra. I miei genitori, che vivevano da fittavoli in una grande famiglia patriarcale, hanno scelto di passare a una condizione di mezzadri pur di crescere una famiglia come sembrava loro giusto. La penultima categoria della società, dopo c’erano i braccianti.
Devo confessarvi che i dati riguardanti il consumo di suolo nel Veneto per me sono stati alla base della decisione del digiuno, perché sono direttamente collegati a quanto riferito sopra sulla situazione globale. Il Veneto è una delle Regioni più attive nel mondo nell’affaticare il pianeta. C’è stata una crescita esponenziale delle infrastrutture viarie e delle urbanizzazioni, una crescita indifferente alla storia, alla natura dei luoghi e ai valori del paesaggio veneto, accompagnata dalla polverizzazione delle imprese diffuse ovunque, che hanno comportato la dispersione insediativa e la conseguente congestione delle infrastrutture della mobilità.
La cementificazione dei suoli riguarda quindi anche i terreni più fertili della pianura veneta, mentre la costruzione di sempre nuove strade, autostrade e superstrade, svincoli e tangenziali hanno determinato una ulteriore frammentazione degli spazi destinati all’agricoltura.
È stato un crescendo dagli anni 80 in poi: dai 72 milioni di mq all’anno di perdita di Suolo Agrario Utilizzato degli anni Ottanta, ai 97 milioni mq/anno negli anni Novanta, ai 182 milioni mq/anno dal 2000 in poi. Un consumo di suolo pari a 38 ettari al giorno. Tra il 2000 e 2010, a fronte di un incremento della popolazione di 429.274 abitanti, sono state costruite 367.354 nuove abitazioni per una popolazione di 1 milione di abitanti.
Il Veneto così risulta la regione più cementificata d’Italia. Un modello di sviluppo la cui insostenibilità viene evidenziata anche dai dati relativi all’impronta ecologica dei suoi abitanti . Nel 2009 al Piano Regionale di Coordinamento (PTRC) si riscontra che, a fronte di una media nazionale pari a 4,2 ettari pro capite/anno, l’impronta ecologica degli abitanti del Veneto è pari a 6,43 ettari pro capite/anno . Cioè per sostenere i consumi e assorbire l’inquinamento di ogni abitante veneto sono necessari 6,43 ettari di terreni “biologicamente attivi”. Ma la “ bio-capacità ” del Veneto è pari a 1,62 ettari/abitante, quindi un “deficit ecologico” di 4,81 ettari pro capite/anno; deficit finora compensato con lo sfruttamento di risorse di altre regioni e continenti, ma che è facile prevedere, con la rapida crescita economica di Paesi emergenti, non sarà più praticabile in un prossimo futuro.
Il Veneto già oggi non ha l’autosufficienza alimentare. So che conoscete bene i dati che vi ho esposto. Ma averli tutti davanti rimane comunque indispensabile per guardare a quello che stiamo facendo e cercare di trovare risposte per andare avanti. Sono cifre che basta conoscere o cifre che ci impongono una svolta? È in emergenza reale anche il Veneto o si trova soltanto in una situazione un po’ critica? Al camper durante il digiuno erano appesi i 30 progetti iniziati o in partenza di strade e autostrade, i vari poli ospedalieri e le opere marittime. Non c’erano Veneto city – Tessera city – Motor city – né le cave, le discariche (a parte quella di Vianelle) le centrali idroelettriche, a biogas, a biomasse, né i dati rispetto alla fragilità idrica del territorio e all’inquinamento dell’aria. La pianura padana è una delle zone più inquinate e inquinanti d’Europa .
E pensare che a livello comunitario al 2050 dovremo ridurre del 70% il consumo energetico nei trasporti rispetto al 2009 e ridurre del 60% le emissioni di gas climalteranti rispetto al 2008! Un documento della Chiesa italiana del settembre 2012 è intitolato “Educare alla custodia del creato per sanare le ferite della Terra” e testualmente dice: “Ritessere l’alleanza tra l’uomo e il creato significa anche affrontare con decisione i problemi aperti e i nodi particolarmente delicati, che mostrano quanto ampie e complesse siano le questioni legate all’intreccio tra realtà ambientale e comunità umana”. Accanto all’annuncio infatti, è necessaria anche la denuncia di ciò che viola per avidità la sacralità della vita e il dono della Terra”. E continua: “L’ambiente naturale non è una materia di cui disporre a piacimento, ma un’opera mirabile del Creatore, recanti in sé una grammatica che indica finalità e criteri per un uso sapiente, non strumentale e arbitrario.” Veniamo tutti da un pensiero unico e cioè che lo sviluppo e la modernità ruotano attorno alla centralità dell’economia e della finanza, per cui anche il futuro si apre se saremo capaci ancora di crescita quantitativa.
Direi che siamo prigionieri, chi più chi meno, di questa concezione. A chi di noi è mai venuto in mente di prendere sul serio il punto di vista della Terra e dei suoi diritti, l’organismo vivo che fornisce gli elementi della vita a tutti gli altri esseri, viventi, noi compresi?
Mettiamoci con sincerità davanti a tutte le opere pubbliche e private, Mose compreso. Quante appartengono alla programmazione politica per un servizio alla popolazione e alla cura del paesaggio, quante invece rispondono allo sviluppo e al consolidamento di interessi di grandi gruppi della finanza e dell’economia? Vedete come i conti non tornano per gli enti pubblici, né a livello nazionale né a livello degli Enti locali. Sono sempre meno le risorse a disposizione. Eppure tanti privati si offrono a investire; per chi? Per il bene comune? Si fa sempre più ricorso al project financing pensando a benefici pubblici: un assunto del tutto falso. I privati realizzeranno le opere solo se l’Amministrazione pubblica si impegna a coprire i costi, anche qualora gli investimenti fossero maggiori del previsto o il traffico (nel caso delle opere viarie) minore del previsto. Dunque per i privati proponenti, rischio zero e guadagno certo. Per la collettività, utilità incerta e altissimo rischio di costruzione di un debito differito di ingenti proporzioni, addossato alle future generazioni. Questo è il nodo centrale, questo è il futuro. Progetti partiti in tempi ormai lontani e che non rispondono né ai servizi veri per la popolazione, né al restauro e alla bellezza del territorio e del paesaggio. Andando di questo passo non vi pare che di usufruibile gratuitamente da tutta la popolazione non rimarrà più niente neanche spostarsi da una località all’altra?
Sono in programma anche campi da golf, naturalmente con villette attorno e solo per ricchi.... Sto pensando al recupero fatto nelle città medioevali dell’Umbria, della Toscana, delle Marche. A tutti noi si allarga il cuore per questi scrigni recuperati e conservati di città e borghi. Perché deprezziamo il Veneto così ricco di arte, di gioielli disseminati ovunque e spesso ormai abbandonati, con bellezze naturali ineguagliabili e produzioni agricole di pregio? Nostalgia rivolta al passato o valore aggiunto per il futuro? Perché il territorio e il paesaggio in quanto tali non diventano il centro di interesse collettivo, capace di attirare gli investimenti necessari per mettere in sicurezza il sistema acqua bene comune, invece di fare le scelte più impattanti, mettendo a rischio le falde e le ricariche e rubando suolo alle coltivazioni?
Perché non è possibile un piano trasporti integrato ferrovia-strade a partire dai bisogni della popolazione, che si sposta sempre più con i mezzi pubblici per necessità, invece di privilegiare solo la fetta ricca della società, con TAV e fantomatici corridoi, che esistono solo nella testa di alcuni politici, ma certamente non nella realtà né all’est né all’ovest dell’Italia? Eppure una pioggia di miliardi. Perché non consolidare e rendere più efficiente e meglio coordinato l’esistente con un’occupazione costante?
Sappiamo tutti che ci sono molte falle di trasparenza e di legalità, conflitti di interessi in atto, non solo per il Mose. È una questione morale ineludibile, anche per il rischio ormai documentato di infiltrazioni mafiose.
Quanto avvenuto con gli ingegneri Baita e Mazzacurati non è un incidente di percorso; è la creazione e il funzionamento di un sistema di corruzione ramificato e stabilizzato. Ho domandato ormai a tutti; nessuno mi ha fornito una risposta. Perché né ai parlamentari, né ai senatori, né ai consiglieri regionali è stato finora possibile accedere ai dati riguardanti il piano economico di un’opera pubblica della portata dell’autostrada pedemontana veneta? È un’opera pubblica; dovrebbe essere un diritto poter accedere agli atti. Ci sono due sentenze del TAR consolidate rispetto al mantenimento del commissario Silvano Vernizzi, che personalmente non conosco e che può essere la persona più straordinaria di questo mondo, ma che di fatto ricopre ruoli (presidente Veneto Strade e responsabile delle valutazioni del VIA) che comportano evidente conflitto di interessi.
Sapete che dopo le sentenze del TAR e il decreto del Governo Monti di riconferma del commissario si è aperta una eccezione di costituzionalità che finirà alla Corte Costituzionale. Penso sarebbe più onorevole per tutti, prima di tutto per l’istituzione regionale, mantenere il controllo e la vigilanza in corso d’opera invece che dover affrontare amare sorprese con perdita secca di credibilità a opera compiuta! Sarebbe veramente triste pensare che il palinsesto e il calendario della politica debbano dipendere dalle sentenze dei tribunali.
C’è un altro problema cruciale: il lavoro. Da sempre viene riproposto solo con le grandi opere pubbliche o private, con i grandi investimenti ad alto impatto ambientale e con ricavi esclusivamente a vantaggio dei privati. Sapete che c’è molta propaganda per giustificare scelte, che non sono per il bene della collettività. Ci sono esempi ormai eclatanti di modalità di lavoro diffuso, che concilia maggior risparmio e maggiore occupazione.
Faccio un semplice esempio. Con un miliardo di euro di investimento in raccolta differenziata spinta (porta a porta) e riciclo, si creano 200 mila posti di lavoro permanente. Per gestire la stessa quantità di rifiuti con l’incenerimento il costo si aggira sui 15 miliardi di euro con 3000 occupati.
Per l’occupazione, con la stessa spesa, c’è un rapporto di 1 a 1000 senza ricorrere a grandi opere. È quanto avvenuto a Ponte nelle Alpi: riciclo oltre il 90%; costo smaltimento rifiuti da 475.000 euro/anno a 40.000; occupazione da 5 operai a 13; con soddisfazione dei cittadini.
Oltre al Presidente di questo Consiglio regionale al camper del digiuno sono venuti altri rappresentanti politici di vari partiti. Mi sembra di capire che la linea sia quella di portare a termine quanto approvato e poi, un po’ alla volta rivedere programmi e progetti. Siamo di fronte a un impoverimento della popolazione sempre più veloce e diffuso. Partiamo dalle opere o partiamo dalle persone per affrontare la crisi? Non è problema di poco conto, sia per riorganizzare i servizi sociali nei singoli Comuni, che quelli sanitari e ambientali.
Una volta detto alle persone che sono esauriti i fondi per l’assistenza, non sono risolti i problemi, anzi. Rischiamo a breve di trovarci con una società a due velocità e con il rischio di conflitti sempre più forti per le necessità dei più poveri.
Per questo vi supplico di esercitare la vostra responsabilità umana e istituzionale verso tutti i cittadini: a partire dal riconoscimento dell’emergenza sociale e ambientale del Veneto (siamo in una crisi entropica e non solo strutturale) diamo un segnale di grande discontinuità con una moratoria su tutte le opere pubbliche e private che comportano un’ulteriore sottrazione di suolo coltivabile e una devastante colata di cemento e asfalto, snaturando ancora di più la realtà e la vocazione agricola del Veneto.
Infine una parola sui comitati. Da anni con Radio Cooperativa ho avuto modo di seguirne le vicende. Generalmente si tenta di liquidarli tacciandoli di negatività fine a se stessa. Devo confessare che, mai come in questi anni, i comitati hanno sviluppato competenze tecniche e giuridiche e soprattutto sono stati aperti al dialogo, se viene accettato, per offrire alternative. Tante volte mi sono domandato perché non venga preso in considerazione la ragionevolezza delle loro proposte, sapendo che nessuno di loro lavora per interessi privati o particolari.
Per me sono le sentinelle e i parafulmini della società e della Terra. Veramente la passione per il bene comune ha guidato in questi anni la loro attività e la loro dedizione. Se la vitalità della democrazia si misura dalla partecipazione attiva alle scelte importanti per tutti, dobbiamo ai comitati grande riconoscenza.
Vi prego di accogliere quanto esposto non come una pretesa, ma come una preghiera pressante. Di nuovo grazie per avermi accolto e ascoltato.
Don Albino Bizzotto
Venezia, 3 settembre 2013
La Nuova Venezia, 30 giugno 2013
Il progetto di Veneto City nella sua nuova versione, definita “green”, è utile per riflettere e per decidere alcune questioni importanti e decisive per il prossimo futuro del nostro territorio. Lo sforzo dei progettisti e della committenza a far apparire “green” la costruzione di 718 mila metri quadrati di nuova edificazione nei campi è evidente e apprezzabile sia nei disegni che nelle parole utilizzate per illustrare il progetto. Il problema però è un altro: per quanto sia ammirevole che una nuova committenza si renda consapevole e ingaggi validissimi progettisti e per quanto il progetto si proponga ambiziosi standard e certificazioni energetiche, resta il fatto che la costruzione di un “polo terziario” in mezzo alla campagna, comunque si faccia, è obsoleto nella sua concezione e sbagliato perché estremamente dannoso da molti punti di vista: contraddice la politica del consumo di suolo zero ormai sostenuta da tutti a livello disciplinare e, finalmente e ultimamente anche dalle istituzioni e dalla politica; ignora l’esistenza di eccedenza di costruito riutilizzabile provocandone l’ulteriore fatiscenza; conferma antistoricamente una mono-funzionalità degli insediamenti che ha dimostrato tutta la sua inefficienza e nocività ambientale e sociale; conferma con i suoi orgogliosi 280 mila metri quadrati di parcheggio (e a dispetto della fermata della Sfmr) ancora una volta il modello disviluppo del territorio basato prevalentemente sull’ automobile.
Le strade da percorrere sono alternative; bisogna scegliere e cittadini e rappresentanti dei cittadini devono saper chiedere agli operatori quale sia la qualità richiesta dalla comunità prima che quale sia la qualità richiesta dal mercato; il progetto di Veneto City può essere utile a far chiarezza: proseguire ciecamente nella devastazione del territorio facendosi inebriare dalla “rifinitura” green, oppure finalmente ricercare quella visibilità mondiale non costruendo nella campagna un “landmark da archistar” ma facendo scelte nuove, di reti avanzate, coerenti, veramente green, evitando di costruire a discapito della natura. Continuare a ripetere gli errori degli ultimi decenni appare anacronistico e sciaguratamente improvvido.
Postilla
Nell’icona un’immagine delle “colline” articiali di calcestruzzo abitato, che l’architetto pennacchione adopera per verniciare di “green” e di “sostenibilità il suo devastante progetto.
The Guardian, 9 aprile 2013, postilla (f.b.)
Titolo originale: Italy roused to halt plunder of Asolo village – Traduzione di Fabrizio Bottini
Il piccolo centro di Asolo, nel nord-est italiano “città dei mille orizzonti” ha una bellezza cantata da secoli. Tra chi ci ha abitato si contano l'esploratrice Freya Stark o l'attrice Eleonora Duse. La amava così tanto il poeta Robert Browning, da intitolarle la sua ultima raccolta di versi: “Asolando”. Oggi però questo idillio rurale è al centro di un'aspra disputa per le trasformazioni edilizie, che vede opporsi da un lato l'amministrazione locale, e dall'altro politici e abitanti, che la accusano di mettere a rischio l'integrità di questa “perla diTreviso”.
Settimana scorsa la maggioranza, Lega Nord, ha reso noto un progetto di costruzione residenziale e uno industriale nell'area, quest'ultimo per una superficie di circa trenta ettari. Il sindaco Loredana Baldisser sostiene che sono necessari per lo sviluppo locale. Questo progetto di trasformazione, approvato mercoledì, ha fatto sollevare sia l'opposizione in consiglio alla giunta Baldisser che numerosi abitanti, che lo considerano una inutile e orribile espansione urbana in una zona nota per le sue bellezze naturali. Domenica si è svolta una manifestazione nella piazza centrale, ed è stata firmata da quasi 500 persone una petizione per fermare il progetto. L'ex sindaco di Asolo, Daniele Ferrazza, scrive sul documento “Per l'amore che provo verso questo angolo d'Italia, farò di tutto per difenderlo dall'aggressione dell'avidità di pochi insensibili alla storia e privi di scrupoli di coscienza”.
Laura Puppato, senatrice del Partito Democratico di centrosinistra eletta in Veneto, stigmatizza gli amministratori di Asolo per i loro tentativi di “cementificazione” della campagna: “Questa espansione urbana non ha alcun senso, mette a rischio una delle ultime zone intatte in un Veneto ormai preda di degrado urbanistico e miseria culturale” ha scritto sul Fatto Quotidiano. Le intenzioni dell'amministrazione locale di Asolo paiono contrastare con quanto dichiarato l'anno scorso dal presidente della giunta regionale veneta, pure della LegaNord, Luca Zaia, che aveva giudicato eccessive le trasformazioni insediative nella regione, chiedendone la fine. Auspicando una “nuova sensibilità” ambientale, la Puppato sostiene che Asolo può diventare invece simbolo della battaglia in tutto il paese contro un'edilizia che “divora” territorio..
“Chiunque sia sensibile alla bellezza deve mobilitarsi per contrastare quest'ultimo assalto e sostenere chi si oppone ad una teoria distorta dello sviluppo urbano” scrive. Anche un articolo da più venduto quotidiano del paese, il Corriere della Sera, giudica il progetto “assurdo”. Il rappresentanti locali del Movimento Cinque Stelle sono del medesimo parere. “Si sta distruggendo il nostro territorio” ha detto il rappresentante del partito Michele Ballan, definendo l'idea “assurda e devastante”.
A una sessantina di chilometri circa da Venezia, Asolo con le sue tortuose stradine e le sontuose ville rinascimentali attira ancora oggi molti turisti, così come in passato affascinava scrittori e artisti. La Stark, straordinaria giramondo britannico, ci passò lunghi anni della sua giovinezza, tornandoci poi a morire all'età di cent'anni. È sepolta nel cimitero di Sant'Anna. Browning, uno dei principali poeti vittoriani, subì profondamente l'influenza dell'ambiente di questa cittadina, ambientandoci nel 1841 la vicenda di Pippa Passes e trascorrendoci gli ultimi anni di vita. La raccolta Asolando venne pubblicata il giorno della sua morte nel 1889, e Robert Barrett Browning, figlio del poeta e di Elizabeth Barrett, è morto a Asolo nel 1912.
Postilla
Forse è il caso di sottolineare, come già fatto da Laura Puppato nel suo articolo, l'importanza del caso di Asolo e della sua risonanza internazionale, come punto di partenza di una più generale riflessione sul modello di sviluppo territoriale e socioeconomico del paese, dove l'aspetto particolare delle società locali come custodi del paesaggio diventa metafora di sostenibilità, non certamente da esaurire nei pur importanti aspetti estetici, culturali, letterari (f.b.)
Qui su Eddyburg anche gli articoli di Laura Puppato dal Fatto Quotidiano, di Gian Antonio Stella dal Corriere della Sera, e l'appello originale dell'ex sindaco Daniele Ferrazza
Ma diciamola qualcosa di più. Corriere della Sera, 9 aprile 2013. Con postilla.
«A chi appartiene Asolo?». Cominciava così, anni fa, un grande reportage di Sergio Saviane. A tutti i cittadini del mondo che amano la bellezza, è la risposta. Per questo l'aggressione cementizia contro uno dei borghi più belli del pianeta va fermata: non è coi capannoni tra le ville palladiane che si esce dalla crisi. Fosse ancora vivo, Indro Montanelli che nel '72 scatenò l'iradiddio contro lo scellerato piano regolatore della cittadina trevisana, incenerirebbe gli autori del nuovo Pat, il piano di assetto territoriale. Piano che, in cambio del versamento nelle casse comunali d'un milione scarso di euro (a rate) concede a un pugno di immobiliaristi di tirar su oltre un milione di metri cubi di cemento, in larga parte capannoni.
Cosa sia Asolo è presto detto. Un gioiello urbanistico adagiato sulle colline care al Giorgione, dominato da un'antichissima Rocca e dal castello che ospitò la regina di Cipro Caterina Cornaro e la sua corte rinascimentale. Un borgo che ha preso il cuore di mitiche attrici come Eleonora Duse (che sospirava sul «bello e tranquillo paesetto di merletti e di poesia» e riposa nel cimitero di Sant'Anna), poeti come Robert Browning (che scrisse «Asolando») e la moglie Elizabeth Barrett, esploratrici eccentriche come Freya Stark, amica di Churchill, Gandhi e della Regina Madre, architetti come Carlo Scarpa che sulla colata di cemento degli anni Settanta tuonò: «Mi batterò con la mitraglia».
Amatissima dai nobili veneziani, Asolo ospita 29 ville venete una più bella dell'altra. Da villa Contarini a Ca' Zen, dalla Malombra a villa Falier, dove durante un banchetto un «fanciulletto» parente di un tagliapietra scolpì in un pane di burro un leone di San Marco e l'opera impressionò a tal punto gli ospiti che vollero conoscere l'«artigianello»: era Antonio Canova.
C'è tutto, ad Asolo. L'intera nostra storia dalle fortificazioni romaniche alla violenza di Ezzelino, da Gli Asolani di Pietro Bembo al fascino delle culture che si sovrappongono: «Ogni edificio pubblico ha un suo garbo», scrisse Paolo Monelli, «e i palazzotti dei patrizi si intonano alle modeste case vicine, Medioevo e Seicento, Rinascimento e Settecento si alternano senza urto». Dedicò due intere terze pagine sul Corriere, il grande giornalista, alla guerra contro il piano regolatore di Asolo del 1972. E con lui scese in campo Montanelli, chiedendo «perché il tecnico o l'operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino ad Asolo per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas?». Nel nome di Asolo il pioniere dell'ecologia Franz Weber convocò gli amanti dell'arte a Parigi esordendo con una frustata: «Era bella, un tempo, l'Italia…».
Quarant'anni dopo, miracolosamente scampato agli scempi più osceni grazie a quella campagna, il paese trevigiano adorato da quelle donne straordinarie corre oggi, dicevamo, nuovi rischi. Ed è uno strano destino che li corra con un sindaco donna, la giovane e bella Loredana Baldisser, che guida una giunta leghista bollata da Vittorio Sgarbi come «barbarica». Nei guai finanziari come quasi tutti i Comuni italiani, la giunta del Carroccio ha accettato mesi fa la richiesta della Srl «Agribox» (spuntata dal nulla con un capitale minimo e l'«attività prevalente: coltivazione di cereali, legumi da gramella e semi oleosi») di trasformare 57 mila metri quadri di un grande terreno agricolo lungo la strada che porta verso Bassano del Grappa, a ridosso dell'area vincolata, davanti a villa Rinaldi Barbini in una nuova area industriale in cambio d'un versamento al Comune di 960 mila euro dei quali 300 mila entro il 31 dicembre 2012 per consentirgli di chiudere il bilancio senza violare il patto di Stabilità.
Ma è solo l'inizio. La settimana scorsa, con un blitz, la giunta presenta un nuovo piano. Tutto moltiplicato. Tra la zona collinare e la pianura è previsto il via libera a 285 mila metri cubi di nuovi insediamenti residenziali (l'equivalente di settecento villette da 400 metri cubi l'una o un migliaio di appartamenti) e una nuova area industriale di 30 ettari tolti all'agricoltura. Un'enormità. I capannoni esistenti occupano già 62 ettari, uno su cinque porta il cartello «affittasi» o «vendesi» e quell'aumento del 50% appare senza senso. Sono già 1.077, stando ai dati regionali, le aree industriali nella provincia di Treviso: 14 a Comune. Tanto che lo stesso governatore leghista Luca Zaia ha riconosciuto: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarsi». Di più: «Quanti capannoni dismessi vanno all'asta e le aste deserte? Che destino avranno queste cubature? Se fossi un sindaco vincolerei ogni nuova concessione a un preciso piano industriale: vuoi costruire un nuovo capannone? Spiegami per farci cosa, per quanto tempo, con quante persone. È vero, la terra è tua. Ma l'ambiente è un patrimonio della comunità».
Stando all'anagrafe, spiega l'urbanista Tiziano Tempesta, non solo gli abitanti di Asolo sono in calo dal 2010 ma «il trend demografico è in flessione dal 2003». Eppure se i residenti dal 2002 al 2010 sono cresciuti del 17% (in larga parte stranieri), le case lo sono del 32%. Che senso c'è, oggi, con molti immigrati che se ne vanno, prevederne 1.900 in più? Fatto sta che nonostante sia quel gioiello che è, il paese tra zone produttive, residenziali, servizi, ha oggi il 18,4% del territorio «artificializzato». Una percentuale del 4% più alta di quella già altissima del resto del Veneto. Assurdo.
«È un saccheggio deciso da un manipolo di persone senza storia e senza scrupoli di coscienza», accusa Daniele Ferrazza, già sindaco di una lista civica vicina al centrosinistra. «Sono pazzi — accusa Gino Gregoris, già candidato sindaco di una lista vicina al Pdl — e sono sempre più isolati». Vittoriosi grazie alla spaccature degli avversari, i leghisti conquistarono il Comune con appena il 36% dei voti. Ma via via hanno perso per strada non solo elettori (alle ultime Politiche il Carroccio è crollato al 17% dal 42% del 2008) ma vari consiglieri col risultato che oggi il consiglio è spaccato: 9 contro 8. Votano domani. La prospettiva di campi e vigneti davanti alla villa Rinaldi Barbini, una vista meravigliosa che potrebbe essere stravolta dai capannoni, è appesa a un voto.
Postilla
Tutto vero, tutto giusto. E siamo particolarmente lieti che l'allarme di Daniele Ferrazza sia rimbalzato da eddyburg fino ad approdare con evidenza sulle pagine principali dei media nazionali. Abbiamo conosciuto Ferrazza come valoroso sindaco di Asolo anni or sono, quando abbiamo organizzato con lui due belle edizioni della Scuola di eddyburg e un interessante convegno sui centri storici. Il fatto che un ex sindaco sia sceso in campo per rivendicare le ragioni della bellezza e della ragione in una fase nella quale i sindaci appaiono troppo spesso complici, o ignavi succubi, del saccheggio dei beni comuni ci sembra significativo, così come ci appare significativa la capacità di denuncia e di protesta subito emersa dagli abitanti di Asolo. Speriamo che lo scempio di Asolo sia evitato, grazie anche alla lucida e argomentata invettiva di Gian Antonio Stella. Bisogna ricordare però che di casi come quello di Asolo ve ne sono a decine, tutte le settimane, in ogni parte d'Italia, il più delle volte con la vittoria dei saccheggiatori. Ciò anche per due ragioni che ai giornalisti attenti non dovrebbero sfuggire: che per il pensiero corrente (e per l'ideologia dominante) il territorio è considerato come una merce da sfruttare per l'arricchimento dei suoi proprietari (quella che chiamiamo "la città della rendita"), e perchè sono state abbandonate le regole della buona pianificazione territoriale e urbanistiche. Ci piacerebbe molto leggere, e riprendere su questo sito, servizi giornalistici che analizzassero e divulgassero la conoscenza su queste radici dei mille episodi di degrado che sfigurano, giorno per giorno, il volto dell'Italia.
Anche la senatrice veneta invita a raccogliere l'allarme di Daniele Ferrazza, pubblicato su eddyburg pochi giorni fa, perchè sia cancellato l'obbrobrio delle villette e delle nuove (inutili) zone industriali. Il Fatto quotidiano online. "Ambiente e veleni", 8 aprile 2013
Ad Asolo, uno dei borghi più belli d’Italia, a manifestare assieme a centinaia di cittadini che si oppongono alla cementificazione dei loro colli e della campagna. Metti un’amministrazione comunale guidata dalla Lega Nord che propone, senza partecipazione e alcuna trasparenza, un Piano di Assetto del Territorio nel quale si prevedono oltre un milione di nuovi metri cubi di cemento con destinazione residenziale, commerciale e artigianale. Metti un Veneto che, come gran parte d’Italia, è una regione in cui si è costruito più del dovuto e non si contano più i cartelli “vendesi” o “affittasi”….
Sono le conseguenze di uno “sviluppo senza progresso” e senza pianificazione che tenga finalmente conto dei flussi demografici e dell’andamento economico. Ora questa nuova espansione urbana, priva di ogni ragione, mette a rischio una delle ultime isole felici di un Veneto da tempo diventato terra d’infelicità urbanistica e di povertà culturale. La campagna urbanizzata che fa parte del “paesaggio” veneto contemporaneo non è un bel biglietto da visita per il nostro turismo (Andrea Zanzotto grande poeta del ’900 ebbe a dire che dopo i campi di sterminio vi era in corso lo sterminio dei campi…). Asolo infatti è nota a livello mondiale per la sua storia, i suoi palazzi medioevali, le sue chiese, Asolo è stata lungamente amata dalla Regina d’Inghilterra e da Freya Stark, da Eleonora Duse e D’Annunzio…. Da secoli è luogo di soggiorno di personaggi e artisti e meta turistica di migliaia di visitatori che trovano in questa perla della pedemontana veneta un’oasi di pace.
Ad Asolo la cementificazione interesserà anche i colli e la campagna grazie a un criterio che consente di costruire nuove abitazioni in un contesto di case sparse in zona agricola. Secondo la relazione tecnica si mira alla ”riqualificazione e completamento degli ambiti di edilizia diffusa, per corrispondere alle esigenze dei nuclei familiari, favorendo la permanenza delle nuove generazioni”. Anche se gli alloggi non occupati di Asolo e delle sue frazioni sono quasi 400, la volumetria prevista dal PAT è di altri 285.000 metri cubi. Questo partendo dal presupposto che in futuro, oltre a un importante incremento demografico, aumenterà significativamente anche il numero delle famiglie residenti ad Asolo e con esse la domanda di abitazioni. Nei tempi lunghi, con una popolazione attestata sopra le 11.000 unità (oggi sono 9.325), si prevede un incremento di oltre 1.200 famiglie. Previsioni del tutto infondate, visto l’andamento demografico degli ultimi anni e il rallentamento dei flussi migratori. Per le attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sono 20 gli ettari previsti, interamente corrispondenti al fabbisogno insediativo strategico. Ciò a fronte di oltre 60 ettari di aree produttive già presenti sul territorio comunale.
La lotta contro il consumo del suolo deve essere una priorità per le amministrazioni locali, oltre che un punto fermo della prossima agenda di governo. Asolo può diventare il simbolo di questa battaglia, da qui deve prendere le mosse una nuova sensibilità nei confronti dell’ambiente. Chiunque abbia a cuore il bello è invitato ad una mobilitazione per fermare questo ennesimo attentato al territorio e a sostenere tutti gli appelli di coloro che si oppongono a questa sciagurata ipotesi di nuova espansione urbanistica. Invito tutte le personalità che si battono per un futuro a “cemento mq zero”, da Salvatore Settis a Domenico Finiguerra, a sostenere questa causa. Affinché non si possa più affermare che “l’Italia è una Repubblica fondata sul cemento”.