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Un documento di Italia nostra, sezione Emilia-Romagna, che rivela come la Regione che molti decenni fa era all'avanguardia nel buon governo del territorio sia oggi capace di avviare una devastante iniziativa, nella quale felicemente si congiungono le politiche territoriali degli anni di Craxi, Berlusconi, e soprattutto Renzi.


premessa
pubblichiamo l'ampio documento approvato il 26 novembre 2016 dalla Sezione Emilia-Romagna di Italia nostra: una puntuale critica di un testo inaccettabile da chi non sia intimamente legato agli interessi immobiliari, o non trovi comunque il suo tornaconto nell'ulteriore sfacelo delle città, dei territori e delle società che li abitano: la bozza di legge "Disciplina regionale sulla tutela e l'uso del territorio" (scaricabile qui)
Invitiamo i nostri lettori a soffermarsi in particolare sugli ultimi paragrafi, là dove si argomenta questa sintetica definizione della proposta emiliano-romagnola: la "semplificazione" introdotta dalla proposta consiste«semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesa come determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorio nel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico della loro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e dei requisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione e qualificazione urbana Sulla proposta pubblicheremo ulteriori scritti.


LA BOZZA DI PROPOSTA
DI NUOVA LEGGE REGIONALE
PRIMECONSIDERAZIONI
L’assessore Donini conclude le sue presentazioni affermandola necessità di grande celerità nel procedimento di esame a approvazione dellanuova legge regionale 20/2000, per la quale esisterebbero in ambito nazionalevaste aspettative. Vorrebbe sottoporre la proposta alla giunta regionale entrol’anno, o nelle prime settimane del prossimo, comprimendo la presentazione inun paio di settimane, e attendo osservazioni e contributi entro novembre.

L’entità del provvedimento, che azzera il sistema didisciplina del territorio e con esso buona parte dei poteri e delle competenzedei comuni, esige un confronto ampio e approfondito, assolutamente nonriducibile a qualche settimana. É indispensabile quindi che la consultazionesia condotta ora, prima dell’approvazione da parte della giunta, dedicando tempoed energie adeguate e grande attenzione a quanto ne risulterà. Va poiconsiderato che oltre al merito del provvedimento, ,anche la sua stessa stesuramerita censure gravi, soffrendo di gravi contraddizioni e lacune, tali daesigere comunque sostanziali rielaborazioni.

L’assessore Donini inizia invece le sue presentazioni con l’immaginedella bussola con i punti cardinali della sua proposta: ambiente, semplificazione, sviluppo economico, legalità. Vediamo comesono interpretati questi riferimenti nei dispositivi della nuova legge.

1. Le disposizioni proposte in materia di ambiente

La politica per l’ambiente coincide interamente con il vantatotaglio del consumo di suolo, che in realtà è più che dubbio. Secondo i dati presentati dall’assessore, gli insediamentiurbani occupano nel territorio regionale 2.280 chilometri quadrati, e i pianiurbanistici consentono un’ulteriore espansione di 250. Limitando a un massimodel 3% la crescita del territorio urbanizzato l’espansione ulteriore sarebbe,secondo l’assessore, contenuta in 70 Kmq.

Questo obiettivo è perseguito nella legge con duedisposizioni:
- riservando il consumo di suolo a opere pubbliche o diinteresse pubblico, a insediamenti strategici per l’attrattività e la competitività del territorio, nonché alleedificazioni residenziali necessarie perattivare interventi di rigenerazione di parti significative del territoriourbanizzato a prevalente destinazione residenziale e per realizzare interventidi edilizia residenziale sociale (articolo 5, commi 2 e 3);
- limitando l’ulteriore consumo di suolo al tre per cento delterritorio urbanizzato esistente (articolo 6, comma1).

La prima di queste disposizioni non è limitativa comeappare. In primo luogo è contraddetta dall’articolo 6, comma 5 che inveceesclude le opere pubbliche o di interesse pubblico e gli insediamentistrategici dal computo del consumo di suolo. E per legittimare il consumo disuolo per nuovi insediamenti residenziali appare sufficiente associarvi unaquota di edilizia residenziale sociale anche modesta, finanziata con lavalorizzazione della restante parte. Visto che opere pubbliche o interessepubblico e insediamenti strategici non sono da computarvisi, il contingente diterritorio consumabile è quindi da intendersi essenzialmente destinato aresidenza e a insediamenti produttivi nonstrategici.

La seconda disposizione, che stabilisce il limite del 3% all’ulterioreconsumo di suolo, non è affatto in sé restrittivo: nel territorio provincialedi Modena i centri abitati perimetrati dall’ISTAT hanno un’estensionecomplessiva di oltre 23mila ettari. Il 3% corrisponde a 630 ettari (6,3 Kmq),sufficienti ad accogliere almeno 70mila abitanti, oppure circa 40mila addetti.La sola città di Modena potrebbe crescere più o meno altri 160 ettari, ovveroottomila abitazioni per ventimila abitanti.
A questo incremento del 3% è inoltre da aggiungersi unabuona parte delle espansioni urbanistiche già disposte dai piani vigenti, chel’assessore quantifica in 250 Kmq. Entro tre anni dall’approvazione della leggeregionale i proprietari possono stipulare con i comuni accordi operativi per la loro utilizzazione edificatoria, anchederogando alle norme della legge regionale che li subordinano al POC (pianooperativo comunale). A norma dell’articolo 6, comma 6 tali aree non sonocomputate nel limite del consumo di suolo: sono così tutelati i sedicenti diritti acquisiti, per i quali l’ANCE rivendica però almeno cinque anni di tempo per provvederne il salvataggio.

Mancano i dati per una valutazione quantitativa della quotadi questi 250 Kmq che risulterà sottratta al limite di consumo di suolo.Considerando tuttavia che una parte consistente è sicuramente già disciplinatada POC o PUA (piani urbanistici attuativi), e che è da attendersi una corsa amettere al sicuro quella che ancora non lo è, non sarebbe sorprendente che i 70Kmq di nuovi insediamenti fattibili nel limite del 3% se ne aggiungessero piùche altrettanti, fatti passare per dirittiacquisiti.

Nelle pieghe della proposta di legge si possono poi scoprirealtre disposizioni che concorrono ad estendere ulteriormente la quantità disuolo consumabile. Ad esempio:
- nella definizione del territoriourbanizzato su cui calcolare il contingente di suolo consumabile (il 3%) rientranoanche i parchi e servizi pubblici esistenti: quelli di nuova realizzazione nonconcorrono però al computo del consumo di suolo; la possibilità di soddisfaregli standard a distanza consentirebbedi delocalizzare le quote di verde di un nuovo insediamento, sottraendole alcomputo del consumo di suolo essere assegnate altrove, e tendenzialmentedestinare l’intero 3% alla sola edificazione e urbanizzazione primaria;
- sono classificati come territoriourbanizzato anche i pezzi di campagna sui quali vigono pianiparticolareggiati o sono convenzionate le opere di urbanizzazione;quindi non sono considerati consumo di suolo, ma anzi concorrono ad accrescerela base su cui è calcolato l’incremento ammissibile del 3%;
- le opere pubbliche, l’ampliamento di stabilimenti sucontiguo territorio agricolo, i nuovi insediamenti produttivi di interessestrategico regionale (come la Philip Morris di Crespellano), le infrastrutturenel territorio rurale (anche la Cispadana) non sono computate come consumo disuolo.
Tenendo conto di tutte le eccezioni e garbugli dellaproposta di legge, non sorprenderebbe affatto se l’effettivo consumo di suoloche ammette (in termini di terreno attualmente agricolo assegnato ad altrefunzioni) risultasse doppio o triplo del proclamato 3%.
In realtà una limitazione seria del consumo di suolo non puòvenire da quantificazioni di legge, apparentemente facili ma difficilissime datradurre in pratica, ma solo da una pianificazione territorialeconsapevole e capace.

Sempre in materia di ambiente la bozza di legge regionale proponeperò con l’articolo 9 anche un’innovazione altamente preoccupante (omessa dall’assessorenella sua presentazione) tesa a differenziare gli standard di verde e servizi da realizzare nel territorio urbanizzatorispetto a quanto richiesto per i nuovi insediamenti, allo scopo di promuoveregli interventi di riuso e rigenerazione urbana.

Gli standard della attuale legge regionale vengono mantenuti solo per le nuove urbanizzazioni, mentre nel territoriourbanizzato gli interventi diristrutturazione urbanistica e di addensamento e sostituzione urbana possonocomportare la cessione al Comune di aree per dotazioni territoriali anche al disotto della quantità minima prevista dal DM 1444/1968, e addirittura dimonetizzarla. Perquesti interventi è addirittura ammessa la derogabilità delle dotazioni diparcheggi, a fronte dell’impegnodell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni al possessoe all’uso di autovetture.

Considerando che in generale sono solo proprio gli interventi di ristrutturazione urbanistica edi sostituzione urbana su complessi edilizi dismessi, pubblici e privati, aconsentire la possibilità di adeguamenti delle dotazioni di verde e servizi afavore del contesto urbano, queste disposizioni favoriscono politiche urbaneopposte a quelle indispensabili a conseguire effettivi guadagni di qualità nelterritorio urbanizzato, in particolare quanto a dotazioni di verde,determinanti sotto il profilo ambientale.

2. Le disposizioni proposte in materia di semplificazione

La bozza di legge propone di porre in atto due ordini principalidi sedicenti semplificazioni:
- nei confronti della disciplina urbanistica, sopprimendo lasua funzione essenziale, ovvero la regolazione preventiva delle trasformazioniintensive della città;
- nei confronti del sistema di disciplina del territorio,soppiantandolo con un altro radicalmente diverso.
Sono poi proposte altre misure, fra cui un allargamentodell’impiego della SCIA a ulteriori tipi di intervento.
2.1 La semplificazione della disciplina del territorio
Questa semplificazioneconsiste semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesacome determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorionel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico dellaloro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e deirequisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione equalificazione urbana.

Per le trasformazioni intensive nel territorio urbanizzato(che può includere grandi complessi dismessi, e aree inedificate anche ampie) l’articolo32 comma 4 vieta addirittura la possibilità stessa di disciplina urbanisticagenerale: il PUG non può stabilire lacapacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzatoné dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili.É lasciata la possibilità di regolare gli interventi minori diffusi sulpatrimonio edilizio esistente.

Per le nuove urbanizzazioni la sola disciplina quantitativa appareconsistere nel limite del 3% alla loro estensione complessiva.

In luogo della disciplina urbanistica subentra una Strategia per la qualità urbana ed ecologicoambientale cui, sul riferimento di obiettivi molto generali, spettaindicare i criteri e le condizioni generaliche, specificando le politiche urbane e territoriali perseguite dal piano,costituiscono il quadro di riferimento per gli accordi operativi. E che insostanza sono circoscritti alla formulazione di obiettivi generali in ordine ai sistemi dei servizi pubblici edelle infrastrutture, e a nebulose istanze di riduzione della pressione del sistema insediativo sull’ambientenaturale, di adattamento aicambiamenti climatici e di miglioramentodella salubrità dell’ambiente urbano.

La Strategia può anchecomprendere indicazioni sull’assettospaziale di massima degli interventi e individuare i relativi fabbisogni specifici di servizi einfrastrutture, ma secondo l’articolo 33, comma 2, nel queste indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordooperativo senza che ciò costituisca variante al PUG.

In sostanza ogni determinazione quantitativa e qualitativasu nuovi insediamenti o rigenerazioni urbane è assegnata a valutazioni dasvolgersi caso per caso su proposte avanzate per esclusiva e arbitraria iniziativaprivata, in tempi ristretti e perentori. É preclusa la funzione essenzialedella disciplina urbanistica, cioè la valutazione sistematica preventiva dellasostenibilità e compatibilità delle trasformazioni del territorio,necessariamente da compiersi nell’ambito della pianificazione generale.

É da aggiungere che le valutazioni caso per caso sonoperaltro circoscritte dall’articolo 37 comma 6 alla solo verifica della loroconformità al PUG, comunque certa a priori, considerata la proibizione didisposizioni vincolanti in questo strumento.

In conclusione il comune risulta totalmente subordinatoall’iniziativa privata, e perde ogni potere negoziale nei confronti deiprivati, non avendo controllo sulla graduazione temporale degli interventi nésulla capacità insediativa da assegnare, né sulla loro conformazione.

Altre semplificazioni sonoproposte con la differenziazione e la derogabilità degli standard, già quiconsiderate al punto 1, e con la generale derogabilità nel territoriourbanizzato dei limiti di distanza, altezza, densità disposti dal DM 1444/1968e dalle discipline comunali delle libere visuali, anche in caso di demolizionee costruzione o ampliamento. Anche nel caso di interventi più radicali sarebbecosì interdetta la possibilità di miglioramenti della qualità abitativa efunzionale dell’edificato.

2.2 La semplificazionedel sistema di disciplina del territorio

Tutti i vigenti strumenti urbanistici vengono soppressi.P SC (piano strutturale comunale), RUE (regolamentourbanistico edilizio) e POC (piano operativo comunale) sono sostituiti dal PUG(piano urbanistico generale). Ai piani urbanistici attuativi subentra il solo accordo operativo,che tutti li sostituisce.

La differenziazione fra PSC e RUE aveva il compito primariodi discriminare le discipline da decidere attraverso l’interazione di unapluralità di soggetti portatori di interessi pubblici, da codificarsi stabilmentenel PSC, e quelle da rimettersi all’autonomia decisionale dei comuni definiteda RUE e POC.

L’unificazione nel PUG sopprime la possibilità di netteattribuzioni dell’autonomia comunale, e riconduce ad un unico procedimento diapprovazione. Qualsiasi modificazione o aggiornamento del PUG è soggetto allavalutazione del comitato urbanistico di area vasta (la Provincia), aprescindere dalla sua importanza ed entità, anche quando si tratti dideterminazioni che oggi dovrebbero spettare ad autonome determinazioni deicomuni, se coerenti al PSC. Questo contraddice le esigenze di tempestività eagilità indispensabili per cogliere le opportunità e rispondere alle istanzeche nel corso del tempo emergono nel territorio urbanizzato e nel territoriorurale.

La sostituzione dei piani urbanistici attuativi con l’istituitodell’accordo operativo esautora icomuni dalla capacità di iniziativa per modellare e dirigere qualsiasitrasformazione urbanistica. Nella proposta di legge il diritto di iniziativa èinfatti attribuito in via esclusiva aiprivati proprietari, cui soli spetterebbe la funzione di elaborare e presentareprogetti urbanistici. Al comune rimane solo da verificarne la scontata conformitàa una pianificazione priva di disposizioni cogenti, e negoziare il concorso dei privati alle dotazioni, infrastrutture eservizi correlati all’intervento, nel termine perentorio di sessanta giorni.

Se i privati non avanzano proposte il comune non può avviarealcuna iniziativa, né formare propri piani urbanistici attuativi, nemmeno alloscopo di preservare dalla decadenza quinquennale i vincoli espropriativi;nemmeno può utilizzare i poteri disposti dalla legge urbanistica nazionale per coordinareo imporre l’attuazione di piani particolareggiati.

2.3 Considerazioniconclusive

Concludendo, la proposta semplificazione della disciplinadel territorio consiste sostanzialmente nella sua abolizione. Allapianificazione è addirittura vietato accertarepreventivamente la sostenibilità dei nuovi insediamenti e delleintensificazioni del tessuto urbano, e disporre di conseguenza una disciplinacogente.

Destinazioni residenziali, produttive, per terziario odistribuzione commerciale sul territorio, e il dimensionamento degliinsediamenti sono rimessi all’iniziativa propositiva dei privati, la cuiinerzia non può essere al caso supplita, nonostante le norme nazionali loconsentano: tutto è subordinato al raggiungimento di accordi con le proprietàprivate proponenti, in tempi e a condizioni proibitivi per i comuni. Lacasualità di questo processo preclude in particolare l’opportunità, anzi ildovere, di utilizzare i nuovi insediamenti che concluderanno la fase storicadell’urbanizzazione per condurre a buon compimento la forma delle città esoprattutto conferire qualità ai margini urbani e alla loro relazione con ilpaesaggio agrario.

Per quanto riguarda l’asserita semplificazione deglistrumenti urbanistici è facile prevedere effetti di segno contrario fortementepreoccupanti.

In primo luogo tutto il sistema di pianificazioneterritoriale, sia regionale che provinciale, fa riferimento all’ordinamento eai contenuti degli strumenti comunali disposti dalla legge regionale 20/2000:la loro abrogazione, e i sostanziali cambiamenti nei compiti e contenuti dellapianificazione comunale sconvolgono sia i riferimenti della pianificazionesovraordinata alle funzioni di PSC, RUE e POC, sia il concetto stesso diconformità dei PUG ai piani territoriali. Le medesime considerazioni valgonoper piani e discipline di settore, sia regionali che provinciali, conconseguenti inestricabili complicazioni e confusione.

L’integrazione nel complessivo sistema di governo delterritorio del modello e dei compiti della pianificazione urbanistica proposti esigerebbela sostanziale rielaborazione dei vigenti piani territoriali e discipline disettore appoggiate alla strumentazione urbanistica comunale.
In secondo luogo tutte le modificazioni alla disciplinaurbanistica comunale vengono ricondotte ai due procedimenti di formazione ovariazione del PUG, e di formazione degli accordioperativi (non è contemplato il caso di loro varianti).

Quindi anche le varianti minori al PUG, attualmentesostanzialmente rimesse all’autonoma competenza comunale, risultano soggette almedesimo procedimento Anche la sostituzione di tutti i piani urbanisticiattuativi con il solo istituto dell’accordooperativo, oltre a esautorare i comuni, pone preoccupanti interrogativi, adesempio sulle modalità di modificazione o di rinnovo dei pianiparticolareggiati in corso di attuazione o a scadenza.

3. Le disposizioni proposte in materia di sviluppo economico

Le disposizioni specifiche consistono essenzialmente nellaesenzione dalle limitazioni sul consumo di suolo di molta parte delle esigenzedi ampliamento e sviluppo di impianti produttivi e di nuovi insediamentiproduttivi strategici. Molto appareatteso tuttavia dalla soppressione di larga parte della disciplina urbanistica.
Vale la pena di ricordare che i vertici dello sviluppoeconomico in questa regione sono stati toccati tra gli anni ’70 e ’80 incontesto istituzionale e in un ordinamento che attribuivano massima importanzaalla disciplina del territorio e al pieno utilizzo dei poteri istituzionali deicomuni per governarne e anche attuarne le trasformazioni richieste dalleaccelerate dinamiche sociali ed economiche.

4. Le disposizioni proposte in materia di legalità

Consistono in obblighi di pubblicità e trasparenza suglieffetti economici prodotti dalla conclusione di accordi operativi, in terminidi valorizzazioni e di loro beneficiari.

L'impiego diseguale delle regole è uno degli strumenti che il potere tirannico adopera per reprimere i tentativi di praticare politiche alternative. L'Italia di Renzi ne è maestra. Il manifesto, 5 novembre 2016

Torniamo a parlare di Riace, un vero miracolo nei progetti ambientali, nel recupero e trasformazione del borgo storico, nell’accoglienza dei richiedenti asilo, come esempio di rinascita della comunità e di risposta lavorativa per tanti giovani. Sempre in prima linea per l’emergenza sbarchi. Riace, segnalato da Fortune, ma ancora prima nel 2010, del World Mayor Prize, Domenico Lucano citato nella classifica dei sindaci fra i 23 finalisti, insieme a sindaci della Città del Messico e Mumbai.

Un esperimento concreto che viene copiato e moltiplicato in altre regioni. Tuttavia, a fronte di un’attenzione internazionale, (in questi giorni sarà presente Tokyo Tv), e l’arrivo di frotte di giornalisti, fotoreporter, filmaker, antropologi, ricercatori, Riace viene preso di mira da burocrazie che mettono in discussione pratiche decennali come l’uso dei cosiddetti bonus. Moneta locale utilizzata fra esercenti che ne accettano il valore simbolico, per ovviare agli storici e perenni ritardi dello Stato nel far confluire nelle casse del Comune i contributi per finanziare i progetti. Il che significa poter garantire l’acquisto dei beni di primissima necessità.

Questi bonus o banconote locali sono state negli anni stampate con immagini di persone vittime della mafia: Peppino Impastato, Rocco Gatto, Gianluca Congiusta, o di liberatori di popoli come Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela. L’uso di questi voucher (simili per servizio a quelli usati dalle agenzie di viaggio), funziona ed è servito in questi anni a ridurre drasticamente il malcontento dei richiedenti asilo. Per questo il sistema della moneta locale è stato adottato anche da altri comuni come Camini, Gioiosa Ionica, Stignano, Caulonia, Acquaformosa…

Non si capisce il senso di questo diktat: «Sospendere immediatamente l’uso di questi bonus» giungendo ad ipotizzare di «molteplici reati ascrivibili all’esercizio non autorizzato di tale attività». Uno Stato che ha perso il controllo sulla sua moneta, che si inchina alle cure da cavallo di Bruxelles, e poi fa la voce forte del padrone con dei piccoli Comuni che dovrebbe solo ringraziare dalla mattina alla sera perché sistematicamente si ingegnano per sopperire a carenze pubbliche e tolgono le castagne dal fuoco. D’altra parte è lo stesso governo che non ha preso minimamente in considerazione la proposta di Enrico Grazzini, ed altri valenti economisti e sociologici tra cui l’indimenticabile Luciano Gallino, di mettere in circolazione una moneta fiscale con la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti.


Nelle città italiane ed europee, medie e grandi, esiste una via della Zecca in quanto fino al XIX secolo da Palermo a Milano in decine di città si stampava una moneta locale che circolava essenzialmente nel territorio comunale. Era una pratica assai diffusa fin dai tempi dell’impero romano ed ancor prima nelle città-stato greche. Si può dire che da quando è stata coniata la prima moneta (VIII secolo A.c.) hanno spesso convissuto due tipi di monete: in oro ed argento per il commercio con l’estero, in ferro, rame o altro metallo meno nobile per gli scambi in un territorio limitato (come quello di un Comune o di una Signoria o Principato nel Medio Evo). Addirittura in Israele, ma non solo, esisteva il siclo, una moneta sacra che veniva usata esclusivamente per tutte le attività che avevano a che fare col Tempio sacro di Gerusalemme. Non è un caso che nel racconto del Vangelo, quando Gesù scaccia i mercanti dal tempio, si parla espressamente anche di «cambiavalute». Che ci facevano? Non era un territorio straniero. Ma era uno spazio sacro in cui poteva essere usato solo il siclo e nessuna altra valuta.

Con l’avvento delle banche centrali e degli Stati nazionali, progressivamente, vennero eliminate tutte le Zecche Comunali in Italia come nel resto d’Europa. Ma, la storia come sappiamo, non procede linearmente e ciò che sembra appartenere al passato, a volte ritorna in altra forma. Così da una ventina d’anni assistiamo in tutto il mondo a tentativi per reintrodurre, a vario titolo, delle “monete locali complementari” o più esattamente delle “quasi monete”, ovvero strumenti monetari che hanno un grado di liquidità, e quindi di fiducia, leggermente inferiore a quella della valuta ufficiale, ma non per questo non funzionano come mezzi di scambio e di pagamento. D’altra parte, i buoni pasto che enti pubblici e grandi imprese private danno ai propri dipendenti vengono spesso utilizzati per gli acquisti nei negozi o esercizi pubblici (ristoranti ad esempio) convenzionati. E chi è più anziano ricorderà certamente come i gettoni telefonici, oggi spariti, valevano negli ultimi tempi 200 lire e venivano utilizzati proprio come le altre monete metalliche.

Questo accanimento nei confronti dei Comuni della fascia jonica calabrese andrebbe fermato, con una cittadinanza attiva a difesa di quel poco che funziona nel nostro paese. Altrimenti si dovrebbe avere il coraggio di dichiarare illegali i buoni pasto.

Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)

Ci sono i terremoti, i morti, il dolore dei parenti, la rabbia e poi c’è la giostra delle scuse, sulla quale salgono tutti, politici nazionali e amministratori locali. Il fastidioso refrain è: “I terremoti sono imprevedibili”. Basta questo per scaricarsi di responsabilità evidenti. Dunque, discorso chiuso in attesa della prossima emergenza. Non la pensano così i giudici della Cassazione e non la pensa così l’ex pm Raffaele Guariniello che in un recente ebook dal titolo Terremoti: obblighi e responsabilità, ha messo insieme alcune pronunce della Suprema corte relative a processi sui terremoti, da San Giuliano di Puglia (2002) a quello de L'Aquila (2009). “Il tema delle responsabilità penali – dice al Fatto Guariniello, già Coordinatore del Gruppo Sicurezza del lavoro e Tutela del consumatore alla Procura di Torino – deve essere ben presente. I processi sono stati fatti e sono arrivati alla fine”. Insomma non basta più dire, come ha fatto ieri il premier Renzi, che “quello di domenica mattina è stato un evento straordinario”. Ecco, allora, il facile tema dell’imprevisto e del destino.

La Cassazione sul sisma del Molise, ad esempio, è chiarissima. Per i supremi giudici s’incappa nell’errore “prospettico di scambiare la imprevedibilità delle caratteristiche concrete di uno tra i fattori causali individuati, con la imprevedibilità dell’evento”.

Per parlare ancora più chiaro: “I terremoti di massima intensità sono eventi che, anche ove si propongano con scadenze che eccedono una memoria rapportata alla durata di molte generazioni umane, rientrano nelle normali vicende del suolo, e, certamente, non possono essere qualificati eccezionali o imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate a elevato rischio sismico o in zone formalmente qualificate come sismiche (…). Il giudizio di prevedibilità, in relazione al suo carattere predittivo trova certezza nella previsione di una possibilità innegabile sul piano logico”. Poche parole per spazzare via le scuse. “Il passaggio è decisivo – spiega Guariniello –, in questo modo le responsabilità penali vengono delineate meglio”. Di più: “Se il sisma è prevedibile, è anche prevenibile”.

Un tema, che corre in filigrana per le 35 pagine del testo edito da Wolters Kulwer e disponibile anche online. “Spero – dice Guariniello – che questa sintonia politica sui fondi per la ricostruzione possa continuare anche per la prevenzione”. Il magistrato insiste: “Spesso si parla di rischio zero che non esiste, credo che questa sia una bella scusa solo per non fare prevenzione”. E poi ci sono i “professionisti della sicurezza sismica”. Gli ingegneri, ad esempio e anche i direttori dei lavori. Il caso in questione riguarda il terremoto che colpì Nocera inferiore nel 1980. Dieci anni dopo, la Cassazione esamina un progettista-costruttore condannato “per non avere (come doveva), nel momento in cui superficialmente progettò, ovvero, incautamente e sbadatamente controllò (o non controllò) l’esecuzione dell’opera, tenuto conto della possibilità del verificarsi di un sisma (…). L’ingegnere doveva prevedere e poteva agevolmente farlo”. Nota lo stesso Guariniello: “Come si vede le condanne ci sono state. E oggi, queste linee della Cassazione potranno essere utilizzate nei prossimi processi, penso a quello dell’Emilia o a quelli che arriveranno dopo il terremoto del 24 agosto scorso”.

Per capire, il filo che va tirato è sempre quello della “prevedibilità”. Non solo tecnici, ma anche politici. La Cassazione si è occupata pure di loro. Nello specifico dell’ex sindaco di San Giuliano. Il ragionamento generale è interessante: “Ogni sindaco” deve “conoscere gli obblighi minimi connessi all’esercizio del suo incarico elettivo”. Inoltre vengono posti in rilievo “i comuni oneri di diligenza e prudenza che sono richiesti non a un sindaco in ragione della sua carica, ma che sono richiesti rispetto a qualsiasi condotta umana”. Non mancano, poi, i cortocircuiti. Succede per il crollo del Convitto nazionale de L’Aquila.

Il tema degli istituti scolastici è, per Guariniello, decisivo. “Molte scuole – scrive il magistrato – sono insicure, ma continuano a restare aperte. Perché i dirigenti scolastici e i dirigenti degli enti proprietari si assumono la responsabilità di non chiuderle. Abbiamo esaminato il caso del convitto nazionale de L’Aquila. La fatiscenza era nota da anni. Né la provincia, né la scuola avevano le risorse economiche. Chi è stato condannato per omicidio e per lesione personale colposa? Il dirigente scolastico del convitto e il dirigente del settore edilizia e pubblica istruzione della provincia”. Quale la loro colpa? “Quella – scrive la Cassazione – di non aver segnalato la necessità di inibire l’uso dell’immobile per ragioni di sicurezza”. Tradotto: non hanno chiuso la scuola. Cosa succederebbe se questi dirigenti decidessero di non prendersi più la responsabilità e chiudere i plessi insicuri? Il filo è sempre lo stesso: prevenzione.

Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2016 (p.d)

Di certo il caso e la forza della natura hanno un peso in molti eventi della vita, specie quando un terremoto sporta via 300 vite e una decina tra paesi e frazioni. Il caso e la natura, però, interagiscono sempre col lavoro dell’uomo e le leggi che lo regolano. Ecco, nel caso di Lazio e Marche, le due regioni piùcolpite dal sisma del 24 agosto, le leggi in materia di costruzioni anti-sismiche sono, più che malfatte, palesemente incostituzionali e hanno contribuito a mettere a rischio il diritto di ogni cittadino alla tutela della sua vita e della sua salute.
Andiamo con ordine. Negli ultimi dieci anni la Corte costituzionale ha stabilito più volte – almeno cinque, l’ultima nel 2013 – che la materia degli interventi edilizi in zone a rischio sismico compete allo Stato, che ne deve delineare i principi generali. In particolare, dice la Consulta, la ratio del Testo unico del 2001 – che ha aggiornato le norme degli anni 70 – “è palesemente orientato a esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico” visto che la “tutela dell’incolumità pubblico” è tema di protezione civile e dunque statale. Insomma, il Testo unico del 2001 vale per tutti: eventuali leggi regionali che se ne discostino sono incostituzionali, come la stessa Corte ha certificato in particolare – quanto a quel che ci interessa – per quella della Regione Toscana, bocciata nell’ormai lontano 2006.
E cosa prevede, tra le altre cose, la legge nazionale? Questo: “Nelle località sismiche (…) non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione”, che si aggiunge al titolo a costruire rilasciato dagli uffici comunali secondo il criterio della “doppia conformità” benedetto dalla stessa Consulta. E che succede se qualcuno costruisce senza la “preventiva autorizzazione”? Questo: i pubblici ufficiali “sono tenuti ad accertare che chiunque inizi costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni sia in possesso dell’autorizzazione” e se non ce l’ha devono segnalarlo con apposito verbale all’ufficio tecnico della regione e alla magistratura. Questa particolare attenzione serve – per non fare che un esempio – a evitare che l'aggiunta di un piano a un edificio realizzata grazie ai vari “Piani Casa” dei tempi di Berlusconi poi collassi sulla struttura alla prima scossa sismica di rilievo. Buonsenso.
E qui arriviamo alle leggi regionali di Marche e Lazio: la prima risale agli anni 80, la seconda invece è stata modificata giusto 4 anni fa, nel 2012, ai tempi del Piano Casa dell’ex presidente Renata Polverini. Entrambe, in ogni caso, mantengono lo stesso profilo di incostituzionalità bocciato per la legge regionale toscana nel 2006 ed ereditato dalle norme degli anni 70. In sostanza all’articolo 2 entrambe le leggi regionali prevedono la necessità dell’autorizzazione preventiva, mentre nel successivo articolo 3 introducono una deroga pressoché totale: di fatto per iniziare a costruire basta presentare progetto e allegati in Comune e ricevere poi “l’attestazione di avvenuto deposito” della domanda. A quel punto spetta alla P. A. fare i controlli. Ma mica per tutti: i controlli sono a campione. In sostanza nelle Marche l’ufficio regionale è tenuto a esaminare solo il 10% delle richieste arrivate nel mese precedente. Nel Lazio, invece, il campione è del 15% nelle zone ad alto rischio sismico e del 5% in quelle a rischio medio-basso. Insomma, un progetto malfatto o un intervento che non andava realizzato in zona sismica ha tra l’85 e il 95% di possibilità di sfuggire agli occhi dei controllori. Nelle Marche, che aveva già avuto anche il terremoto del 1997, si provò a cambiare senza successo la legge nel 2011: agli atti resta una lettera di contrarietà dell’ordine degli ingegneri (troppa burocrazia e poi c’è “la crisi del settore edile”).
Come in ogni storia anche questa ha un passato e un presente. Se è difficile a questo punto rintracciare irregolarità almeno formali per il passato, è bizzarro che ad Amatrice, Accumoli o Arquata adesso si comincerà a ricostruire sulla base di norme e procedure già bocciate dalla Corte costituzionale almeno cinque volte. È anche per questo che un’interrogazione a Matteo Renzi a prima firma Patrizia Terzoni (M5S) chiede al governo di adottare in fretta “i provvedimenti necessari, anche normativi, per garantire l’uniforme applicazione sul territorio nazionale” delle norme edilizie in zona sismica. L’idea è che le leggi non debbano dare una mano a caso e natura.

«Nel fascicolo del fabbricato sono riportati dati e informazioni principali su progettazione, struttura e diverse componenti di un immobile. Chi ha provato a introdurlo non ha avuto fortuna, ma ora ci prova Milano. E forse è il momento che il governo proponga uno schema valido per tutto il paese». lavoce.info, 20 settembre 2016 (c.m.c.)

Cos’è il fascicolo del fabbricato

Con i crolli e i morti di Amatrice, e degli altri diciassette comuni, si è ripreso a discutere del fascicolo del fabbricato. Cerchiamo di capire cos’è e perché non è stato finora introdotto.

Il fascicolo del fabbricato è un documento nel quale sono riportati i dati e le informazioni principali relative alla progettazione, alla struttura, alle diverse componenti statiche, funzionali e impiantistiche di un immobile. Serve in sostanza a far conoscere meglio come è fatta una scuola, una palestra, una casa o un capannone.

Vi possono essere riportati i dati amministrativi, relativi per esempio al permesso di costruire, ma anche informazioni più strettamente tecniche. La sua lettura potrebbe consentire a chi acquista una casa, anche in un condominio, di sapere, per esempio se la struttura è in muratura portante o in cemento armato; l’esito delle prove di compressione della malta cementizia con la quale sono stati riempiti i pilastri e fatti i solai; il diametro dei tondini di ferro usati per armare quei pilastri; dove passano i tubi dell’acqua, del gas, del riscaldamento e i fili dell’elettricità; che materiali sono stati usati; qual è la trasmittenza termica dei vetri e il consumo di energia necessario per riscaldare e rinfrescare l’immobile.

Il libretto non garantisce, ovviamente, che le case non crollino se la terra traballa. È un po’ come il libretto di istruzione dell’automobile: averlo non evita di sbattere contro un muro, ma spiega di che manutenzione ha bisogno la macchina, dove mettere l’olio o l’acqua per il tergicristallo e come cambiare una ruota.

Il fascicolo del fabbricato può risultare utile non solo nelle emergenze, ma anche nell’ordinaria gestione dell’immobile e quando vi è necessità di opere di manutenzione e ristrutturazione oppure di riparare qualche guasto.

Le obiezioni

Senza alcuna fortuna, hanno provato a introdurlo alcune regioni. Le loro norme non sono mai entrate in vigore perché sono state annullate dal Tar oppure perché sono state abrogate delle stesse regioni per non affrontare un giudizio di legittimità costituzionale a seguito dell’impugnazione da parte del governo.

Da ultimo è successo, nel 2014, alla legge della Regione Puglia, contro la quale ricorse la presidenza del Consiglio dei ministri. Secondo il governo, la normativa regionale avrebbe aggravato il procedimento per il rilascio del certificato di agibilità per le nuove costruzioni, reso più complessi i procedimenti amministrativi in contrasto con l’esigenza di semplificazione.

Inoltre con il libretto si «impongono ai privati oneri non necessari e comunque sproporzionati ed eccessivamente gravosi (che comportano anche a carico dei proprietari di più modeste condizioni economiche la necessità di ricorrere a una pluralità di professionisti) – si pongono altresì in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, sotto il profilo delle disparità di trattamento e del principio di ragionevolezza, e con l’articolo 42, secondo comma, Costituzione, in quanto impongono limiti alla proprietà privata, che non appaiono necessari ad assicurarne la funzione sociale».

Al di là delle argomentazioni giuridiche, le obiezioni mosse alle leggi regionali, anche dalle associazioni della proprietà immobiliare, riguardano la previsione della necessità del libretto per il patrimonio esistente e la facoltà attribuita ai comuni di renderlo obbligatorio, nei casi in cui ciò non fosse stato già previsto per legge.

La scelta di Milano

I proprietari degli immobili esistenti temono che, oltre a pagare ingegneri e architetti per la redazione del fascicolo, possano essere anche obbligati a realizzare gli interventi edilizi che dovessero risultare necessari dalla ricognizione fatta dai tecnici: non tutti hanno i soldi necessari.
Forse anche per fugare questi timori, il comune di Milano ha previsto l’obbligo del fascicolo solo per gli edifici di nuova costruzione e per quelli oggetto di sostituzione o ristrutturazione edilizia e ampliamento. Contro la norma è stato proposto ricorso al Tar da un’associazione della proprietà immobiliare.

Una sua conferma potrebbe fare da apripista ad altri sindaci, con il rischio di avere migliaia di modelli di fascicolo, salvo poi, tra qualche anno, caricarsi di una fatica di Sisifo per creare un modello unico, come sta succedendo ora per i regolamenti edilizi comunali. Per evitarlo sarebbe meglio che il governo, anche nell’ottica della semplificazione, proponesse uno schema unificato di libretto del fabbricato per le nuove costruzioni.

Un’ipotesi limitata come questa non dovrebbe dispiacere neanche alle imprese di costruzione. In mancanza di un’iniziativa governativa, le loro stesse associazioni di categoria potrebbero promuovere volontariamente l’introduzione del libretto, che diverrebbe un fattore di competitività, perché aiuta a rendere trasparente il livello qualitativo della costruzione.

«Nel parco Leith Links c’è un gruppo di un centinaio di persone, di tutte le età, che va a coltivare la terra. Thomson Reuters Foundation, Regno Unito». Internazionale.online, 19 settembre 2016 (c.m.c.)

Su un appezzamento di terreno grande un ettaro, nel quartiere settentrionale di Leith, a Edimburgo, Evie Murray cammina tra fiori e verdure coltivati con cura. «Prima quest’area era piena di spazzatura, siringhe e bustine di preservativi». Murray partecipa a Crops in pots, un’iniziativa comunitaria nata nella capitale scozzese, che ha coinvolto centinaia di abitanti impegnati a coltivare zucche, patate, fagioli, bietola, mele, uva spina e perfino un albero di noci.
È uno dei tanti esempi di un’ondata silenziosa ma significativa di riforme che stanno cambiando le regole della proprietà terriera in Scozia, la meno equa dell’Europa occidentale:, perché metà della terra è in mano a 500 persone. Nel 2013 lo Scottish national party (Snp), che guida il governo locale di Edimburgo, si è impegnato in una riforma agraria radicale. L’obiettivo è fare in modo che entro il 2020 più di 400mila ettari di terreni siano di proprietà delle comunità locali. Questa misura è stata varata sullo sfondo di tensioni sempre più forti legate alla presenza di grandi latifondisti, spesso assenti, che esercitano forme di controllo risalenti all’epoca in cui la Scozia era un paese rurale governato da un’aristocrazia terriera.

Eredità aristocratica

Secondo i dati del governo scozzese, i terreni che le comunità locali hanno acquistato dai privati hanno ormai superato un totale di 200mila ettari. Il governo ha più che triplicato i contributi al Fondo scozzese per la terra per aiutare le comunità a comprare, passando da tre a dieci milioni di sterline all’anno.

Nel marzo del 2016 il governo dell’Snp ha approvato la legge di riforma agraria, che ha dato alle comunità la possibilità di forzare la vendita di un terreno a patto di riuscire a provare che in questo modo si favorisce lo “sviluppo sostenibile”. Una delle compravendite più importanti è avvenuta nel dicembre del 2015 e ha riguardato la tenuta di Pairc sull’isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne. Una disputa durata dodici anni si è conclusa con la vendita di 11mila ettari alla comunità locale per 500mila sterline.

Secondo gli attivisti le riforme erano necessarie da tempo e il provvedimento di legge non fa abbastanza. Per la ministra per la riforma agraria scozzese Roseanna Cunningham, invece, l’ostacolo più grosso al cambiamento è il grado di coinvolgimento delle comunità. Cunningham sostiene che spesso si esprime un interesse all’acquisto di un terreno solo dopo che è stato messo in vendita, quando ormai è troppo tardi. Ma ammette che anche la legge ha dei limiti: “Ci sono ampie distese di terra che probabilmente non saranno mai vendute, e continueranno a essere trasmesse di generazione in generazione”.

Buona parte delle diseguaglianze nella proprietà terriera in Scozia risale all’ottocento, quando il sistema di eredità della terra in vigore tra gli aristocratici si combinò con una violenta campagna per scacciare i piccoli agricoltori e gli abitanti del luogo per fare spazio ai grandi allevamenti di pecore.

Tenere alta l’attenzione

«La Scozia ha il più bizzarro sistema di proprietà terriera del mondo sviluppato e nessuno ha niente da ridire», sostiene Lesley Riddoch, coordinatrice di Our land, una rassegna di dibattiti e incontri sulla terra. Riddoch ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell’isola di Eigg, nelle Ebridi Interne. Eigg fu acquistata nel 1997 dagli abitanti per 1,5 milioni di sterline ed è diventata la prima comunità al mondo ad avere una rete elettrica alimentata completamente a energia solare, eolica e idrica. «Dobbiamo tenere alta l’attenzione su questo argomento», dichiara Riddoch.«La terra in Scozia è meno abbordabile e disponibile che in qualsiasi altro paese europeo».

Lorne MacLeod, presidente dell’organizzazione Community land Scotland, ha dichiarato che affidare la terra alle comunità significa sfruttarla nel modo più vantaggioso. «Le persone si sentono più responsabilizzate», osserva MacLeod, la cui organizzazione rappresenta 69 comunità scozzesi, di cui una quarantina è riuscita ad acquistare dei terreni. Alcune comunità hanno costruito nuovi porti, turbine eoliche e un campo da golf da 18 buche, e reinvestito i guadagni a loro beneficio.

Evie Murray, 39 anni, ha sempre vissuto a Leith. In passato ha lavorato come assistente sociale con i tossicodipendenti, ma dopo la crisi economica del 2008 è stata licenziata. In città era difficile allevare i figli, compresi quelli adottivi, e ancora di più trovare aree all’aperto dove farli giocare. Così ha avuto l’idea di creare un’area comunitaria da condividere con altri genitori e i vicini. Nel 2013 ha contattato il consiglio comunale e ha ottenuto il permesso di usare l’area ai margini del parco Leith Links, anche se l’accordo è suscettibile di cambiamenti ed è di breve durata. Attualmente, racconta, un centinaio di persone, un gruppo eclettico e intergenerazionale, va lì regolarmente per coltivare la terra.

La comunità sta cercando di negoziare un’altra concessione, che riguarda un piccolo edificio presente sul sito, che loro vorrebbero trasformare in un bar, dove usare i prodotti locali. «La terra e la sua disponibilità sono estremamente importanti per la salute delle persone», dice Murray, indicando i coltivatori impegnati a ridere e chiacchierare. «È difficile quantificare l’impatto che possono avere, ma lo potete constatare con i vostri occhi».

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

«La tragedia di Amatrice ha portato alla ribalta i piccoli centri. Cioè la nostra spina dorsale. La nostra ricchezza. La nostra unicità. Ed è da lì che possiamo ripartire. Ecco come». Espresso.it, 16 settembre 2016 (m.p.r.)

Anche chi vive in città, chi vive sulle coste, dovrebbe sentire l’urgenza di politiche alte per le terre alte dell’Italia interna. La questione è l’altezza, lo sguardo verso il futuro. Costruire un grande corridoio ecologico lungo tutto l’Appennino è azione che non si fa in pochi anni, ma è quello che serve. I paesi italiani sono un patrimonio universale. Solo noi abbiamo paesi di mille abitanti che sembrano capitali di un impero. Come si fa a non vedere che la questione dell’Italia è la questione dei paesi?

Per anni ci siamo attardati sulla questione meridionale e invece c’era una storia che riguardava tutta la penisola, era la storia dell’Italia alta, dell’Italia interna, una storia che va da Comiso a Merano. L’Italia ha un asso nella manica, i suoi paesi, e non lo usa. Speriamo che venga fuori con la Strategia Nazionale delle Aree Interne. È una delle poche cose buone avviate dal governo Monti, grazie a Fabrizio Barca, che allora era ministro per la coesione territoriale. Ora quel ministero non esiste più, ma Barca ha comunque fatto in tempo ad avviare un complesso meccanismo che attualmente coinvolge 66 aree selezionate in tutta Italia (circa mille comuni e 2 milioni di abitanti). La Strategia Nazionale, attualmente guidata da Sabrina Locatelli, impegna una serie di giovani tecnici molto preparati e molto motivati, e vede tutt’ora impegnato Barca in veste di consulente a titolo gratuito.

L’assunto è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità per il paese. La missione è fermare l’anoressia demografica dando forza ai servizi essenziali di cittadinanza: scuola, sanità, trasporti. A questa base si aggiungono le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come fuoco centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio. Si parla da più parti di accesso alla terra da parte dei giovani, ma le pratiche concrete sono ancora poche. A volte i gruppi di base sono più avanti delle istituzioni.

Due buoni esempi vengono dalla Puglia: La Casa delle Agriculture nel Salento e l’esperienza di Vazapp nel foggiano. Ma ce ne sono in tutte le regioni: fare in modo che si incrocino e lavorino assieme è uno degli obiettivi della Casa della paesologia, un’esperienza che mette insieme tante persone che incontro nei miei giri nell’Italia interna.

C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche. L’articolo 42 della Costituzione andrebbe inteso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari dovrebbero diventare beni comuni. Bisognerebbe parlare di scuole di montagna. Bisognerebbe riflettere sul valore di tutta una serie di mestieri che vanno perdendosi. La Strategia Nazionale ha previsto di realizzare in Basilicata una Scuola della pastorizia. L’ottica è quella di rendere attrattiva l’Italia considerata più marginale. Ma ovunque ci si scontra con una burocrazia troppo lenta e con una politica dal fiato corto, attratta dalle azioni che fanno notizia e dai territori dove ci sono molti elettori.

L’Italia dei paesi ha bisogno di un approccio radicalmente ecologista. Seguire più la lezione di San Francesco che quella dei santoni della finanza. Forse è arrivato il momento di rendersi conto che è andato in crisi il paradigma meccanicista-industrialista che pensava i luoghi come inerti supporti della produzione di merci. Ripartire dai luoghi significa ripartire da un patrimonio di biodiversità straordinario. Da questo punto di vista non parliamo di luoghi della penuria, ma di luoghi della ricchezza. E lo stesso vale per la sociodiversità.

Questo approccio ovviamente non può eludere il binomio mercato e lavoro. I paesi italiani se non ricevono domande non hanno lavoro e senza lavoro il territorio deperisce. Si può immaginare che i paesi saranno oggetto di domanda e dunque di lavoro per via della loro diversità. Pensiamo che oggi ci sia un bisogno di diversità. Il lavoro cruciale è dare fiducia, portare nei luoghi le persone che fanno buone pratiche. Forse è il momento giusto per coagulare, per dare coesione, per mettere assieme ciò che per troppo tempo è rimasto isolato e disperso.

Ci vuole un’idea di sistema. Nei prossimi anni ci sarà un ritorno ai paesi e alla campagna. Il lavoro da fare è dare forza a questa tendenza che è già in atto, è mettersi alle spalle l’idea che i paesi sono destinati a morire. Quella dei paesi in estinzione è una bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti o frane. Se l’Italia dei paesi non esce dal clima depressivo è destinata all’insuccesso qualunque strategia. La prima infrastruttura su cui lavorare è di tipo morale, è l’infrastruttura della fiducia: è il ragionameno da cui parte la festa della paesologia ad Aliano, una festa che mette insieme il meglio delle arti e dell’impegno civile al servizio delle piccole comunità e del mondo rurale, in conflitto con le vecchie equazioni: mondo rurale-mondo arretrato.

È importante dare alla parola “contadino” un prestigio che non ha mai avuto, riportandola all’antica funzione di custode del territorio, oggi più attuale che mai, soprattutto in prospettiva futura. Pensiamo agli artigiani del cibo, proprio per sottolineare la cura con cui si coltivano e si trasformano i prodotti. Il cibo che unisce bontà e qualità terapeutiche. È il lavoro che sulla scia di Slow Food fanno tanti. Mi piace segnalare Peppe Zullo sui monti della Daunia e Roberto Petza che in Sardegna utilizza e rielabora i prodotti del territorio e della tradizione e li ripropone in forme originalissime. A Siddi si fa non solo ristorazione di respiro internazionale ma anche attività di formazione delle nuove generazioni rieducando al cibo e al gusto le persone attraverso una microfiliera locale del vino, dei formaggi, degli ortaggi e dei salumi.

Una buona pratica per i nostri paesi è lo sblocco dell’immaginazione. In fondo la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Troppo spesso nei piccoli paesi si ha paura di essere visionari, come se questo ci potesse assicurare un giudizio di follia da parte degli altri. Urge anche nelle stanze della politica la presenza dei visionari che sanno intrecciare scrupolo e utopia, l’attenzione al mondo che c’è con il sogno di un mondo che non c’è.


Franco Arminio è poeta, scrittore e documentarista. Anima il blog 
Comunità Provvisorie e ha fondato la Casa della Paesologia

L’Archivio Cederna ha voluto ricordare 20° anniversario della sua scomparsa di Antonio realizzando, a cura di Giulio Cederna e Antonio Natale, un'opera di grande interesse ed utilità: se non per tutti, per i moltissimi che condividono o condivideranno gli ideali, principi e obiettivi che animarono il grande intellettuale e attivista che era Antonio. Oltre a materiali inediti sulla sua vita (tra cui alcune lettere scritte dal campo di lavoro in Svizzera nel 1944, lette da Giuseppe Cederna) la mappa rende direttamente accessibili in chiave geografica più di 2 mila articoli scritti tra il 1949 e il 1996. Tutti possono consultarla a questo indirizzo: I paesaggi di Antonio Cederna

Pubblichiamo di seguito l’introduzione alla mappa e una nota di Giulio Cederna

LA TUTELA E LE MAPPE

La consapevolezza dell'importanza strategica delle mappe attraversa tutta l’opera di Antonio Cederna. “Non si può conservare e difendere ciò che non si conosce: è questa ignoranza che favorisce la degradazione che ogni giorno lamentiamo del patrimonio storico, artistico e ambientale”, scrive nel 1976 sul Corriere della Sera, in un articolo dal titolo programmatico: "E' una difesa dal saccheggio la mappa dei beni culturali".

All'esigenza di catalogare e di conoscere i territori, di mappare le minacce che gravano sul paesaggio, sul patrimonio storico e artistico, sull'assetto delle città, Cederna ha dedicato migliaia di articoli tra il 1949 e il 1996, gran parte dei quali sono conservati presso l’Archivio Cederna, donato dalla famiglia allo Stato, collocato dalla Soprintendenza archeologica di Roma presso la sede di Capo di Bove, nel cuore dell’Appia Antica (www.archiviocederna.it), e divenuto negli anni fonte di ricerche, pubblicazioni e mostre rivolte al pubblico.
Oggi, l’Archivio Cederna affida a una MAPPA il compito di documentare le principali tappe dell’impegno di uno dei pionieri dell'informazione sull'ambiente, l'urbanistica e i beni culturali. Uno strumento innovativo, ideato e realizzato da TeamDev in collaborazione con Regesta.exe, che raccoglie materiali inediti e rende accessibili in chiave geografica oltre duemila articoli, valorizzando ulteriormente l’opera di digitalizzazione e di costante cura dell’archivio promossa dalla Soprintendenza in questi anni. Un modo nuovo per prendere visione della vastità dell’impegno di Cederna e per osservare da vicino le violente trasformazioni che hanno sconvolto, e reso spesso irriconoscibili, geografie e paesaggi dagli anni del dopoguerra ai giorni nostri. Un punto di partenza per aggiornare a vent’anni di distanza le mappe dell’Italia da salvare.

Nota di Giulio Cederna
Tengo particolarmente a ringraziare tutti coloro che hanno collaborato a questa impresa, a cominciare da chi è di gran lunga più testarda di me, ovvero Rita Paris, che ha reso possibile la sistemazione dell'Archivio a Capo di Bove, e ne cura da anni lo sviluppo e la digitalizzazione con il prezioso supporto di Maria Naccarato e di Regesta.exe, e che in un momento di grande difficoltà e incertezza per il futuro dell'Appia non ha fatto mancare il suo supporto a questo progetto; passando per tutti coloro che hanno letto e riletto gli articoli per individuare una corretta base geografica (Emanuela Mazzina, Annalisa Cipriani e Linda Giacummo per Roma). Un ringraziamento speciale meritano infine Antonio Natale di TeamDev, giovane software house umbra che crede nell'economia di comunità e ha sviluppato materialmente l'applicazione senza percepire un solo euro, e Velia Sartoretti che ha georiferito oltre 2 mila articoli. Perché, vorrei ricordarlo, questa story map è stata realizzata senza budget, senza contributi di nessun genere.



Riferimenti
Numerosi documenti di e su Antonio Cederna sono raggiungibili in eddyburg nel vecchio archivio (2003-2013) e nel nuovo archivio (dal 2013)

Mondo” a “Repubblica” una vita dedicata alle campagne contro l’urbanizzazione selvaggia». La Repubblica, 24 agosto 2015

È stato un archeologo? Un giornalista? Un intellettuale e un politico? Un militante ambientalista? Vent’anni dopo la sua morte, è ancora difficile stringere Antonio Cederna in una sola definizione. Forse è più probabile ragionare su cosa non è stato. A differenza di un’etichetta rimastagli incollata, non è stato un nostalgico, un laudator temporis acti. Voleva che si conservasse l’eredità di storia e di bellezza che il passato ha trasmesso, ma non è stato un conservatore. Sottolineava che la tutela dell’antico era una scienza moderna, nata in età moderna. E l’aggettivo “moderno” rimbalza nei suoi scritti sempre per qualificare e mai per denigrare. Non è moderna, insisteva, la città che nel dopoguerra si sviluppa trascinata dagli interessi speculativi. È moderna, all’opposto, la città che salvaguarda integralmente il suo centro storico e che si espande correttamente pianificata. E ancora: gli piace la piramide di Pei al Louvre e se l’Auditorium di Renzo Piano a Roma è lì dov’è, lo si deve anche a lui.

Cederna si spegne nella sua casa di Ponte in Valtellina il 27 agosto del 1996. Il suo primo articolo lo scrive sul Mondo di Mario Pannunzio nel luglio del 1949 (il settimanale era al quinto numero) e da allora, per quasi cinquant’anni, sul Corriere della sera poi su Repubblica e sull’Espresso, racconta che cosa accade nell’Italia alle prese con la più tumultuosa trasformazione mai avvenuta prima sul suo territorio: stando a una stima assai attendibile, i nove decimi di quel che vediamo costruito risalgono a questi cinquant’anni. Nel 1956 raccoglie nel libro I vandali in casa gran parte degli articoli del Mondo. E nell’introduzione compare un’esauriente radiografia di come l’Italia vada smarrendo secoli di buona urbanistica, proseguendo a demolire pezzi pregiati nei centri storici e allestendo alcune fra le più disumane periferie del mondo occidentale.

Non è solo uno scandalo urbanistico, per usare il titolo del libro con il quale alcuni anni dopo Fiorentino Sullo avrebbe raccontato la fine del suo progetto di riforma del regime dei suoli. Ma è, appunto, il capitolo di una controstoria d’Italia. Ancora nel 1991 sulle pagine di questo giornale, Cederna esprime la convinzione che a spingere il piano Solo, il tentativo di colpo di Stato del 1964 (svelato da l’Espresso nel 1967), ci sia anche la mano della proprietà fondiaria e dei suoi referenti politici contrari a ogni legge, del tipo di quella proposta da Sullo, che preveda l’esproprio delle aree sulle quali far crescere le città. Crescita che invece deve essere dettata da chi le aree possiede.

Nei primi anni Sessanta Cederna studia con metodo il piano regolatore di Amsterdam e ne scrive su Casabella. Piene di ammirazione sono le descrizioni di come la capitale olandese, dagli anni Trenta in poi, abbia costruito quartieri esemplari per qualità edilizia, spazi pubblici e verde grazie al controllo pubblico delle aree. Qui Cederna misura la modernità di Amsterdam (come di altre capitali nordeuropee, socialdemocratiche o anche conservatrici) rispetto all’arretratezza italiana, dove invece svettano «palazzine e palazzate», i cosiddetti intensivi nei quali abitano i «murati vivi», «senza prati né campi sportivi» (Cederna è anche un po’ poeta: questi versi sono tratti da una composizione burlesca, in cui prende in giro un fantomatico architetto comunista - siamo a metà anni Sessanta - che detesta «i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi», «oppio capitalistico» che distrarrebbe da impeti rivoluzionari).

Così si ingrossavano Milano, Napoli, Palermo, ma soprattutto Roma, la città in cui Cederna sbarca a fine anni Quaranta e che, con la Società generale immobiliare, il Vaticano, il marchese Gerini e la pletora sguaiata dei palazzinari, diventa l’esemplare di un’Italia che crede nella rendita e nell’edilizia come motori di sviluppo. Criticare questo modello porta Cederna sulla linea liberaldemocratica del Mondo e poi dell’Espresso, più che dei comunisti.

È un’Italia che sui temi urbanistici discute, litiga. E rischia, insiste Cederna, di rimetterci nientemeno che la democrazia. Cederna si occupa di paesaggio minacciato, di parchi nazionali, di beni culturali in pericolo (memorabili i suoi ripetuti articoli sulla collezione Torlonia, che solo ora potrebbe tornare a veder le stelle). Scrive, trascina Italia Nostra, che nel 1955 contribuisce a fondare, è eletto consigliere comunale, poi parlamentare indipendente nel Pci, mobilita intellettuali, diventa il riferimento del nascente ambientalismo, non c’è comitato o associazione che non lo tempesti per un appello.

È laureato in lettere classiche, con una tesi in archeologia. Però è soprattutto l’urbanistica il terreno del suo impegno. Di tanti urbanisti è amico, divora quel che si pubblica in materia non solo in Italia. Quando avvia due fra le più coinvolgenti battaglie condotte a Roma, il Progetto Fori e il salvataggio dell’Appia Antica che sta per trasformarsi in un quartiere residenziale, due battaglie strettamente connesse, fa opera di tutela e insieme persegue un’idea di città. All’Appia Antica dev’essere risparmiato l’oltraggio del cemento sia per i monumenti lì custoditi sia per scongiurare l’infernale saldatura edilizia che distruggerebbe il “cuneo verde” di campagna che si spinge al cuore della città creando una connessione fra il centro e la periferia orientale. Connessione che si completerebbe con l’eliminazione di via dei Fori Imperiali, lo stradone mussoliniano che da piazza Venezia porta al Colosseo, cioè la vera essenza del Progetto Fori (spesso ambiguamente rimpicciolito a semplice pedonalizzazione); e con un moderno centro direzionale in cui trasferire ministeri, sedi di banche e di aziende che asfissiano il centro storico. Appia Antica e Progetto Fori agli occhi di Cederna sono due programmi per la città, la bellezza coniugata al suo moderno funzionamento, non solo per il turismo. L’Appia Antica è salva (e se non ci fosse stato Cederna non lo sarebbe), il Progetto Fori è in un cassetto, di centri direzionali ne sono sorti diversi,

Nell'icona: foto di Giorgio Lotti (stralcio)per lo più a casaccio.

sulla figura e l'opera di Antonio Cederna. Il saggio è stato presentato nell'ambito di una conferenza organizzata dall'associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli alla Camera dei Deputati il 17 marzo 2016. In calce il collegamento al testo integrale e ai documenti audiovisivi della conferenza.

Sono passati venti anni senza Antonio Cederna. Quanto ci manca? E perché ci manca? Il ricordo, la stima e l’affetto prendono il sopravvento su ogni altro tentativo di afferrare il vuoto che ha lasciato. Eppure, con il passare del tempo la sua figura cresce per il rilievo storico e per la feconda inattualità. Ci manca tanto in quanto nessuno è riuscito a sostituirlo. Ci manca perché è ancora più necessario. La mancanza allora riguarda noi, abitanti del nostro tempo.

Non abbiamo ancora una vera comprensione storica di Cederna. Non può averla la nostra generazione, troppo coinvolta nelle sue battaglie per vedere ciò che permane di esse e anzi le supera. Saranno le generazioni successive a comprendere la sua opera, con il disincanto capace di distillare una memoria fino a trarne nuove ambizioni. Noi siamo una generazione di passaggio che può solo testimoniare gli eventi, prendersi cura dell’opera, custodirla per le interpretazioni che verranno, in una sorta di archeologia intergenerazionale.

Nel frattempo, la cosa più utile che possiamo fare è combattere gli stereotipi. Sono inveterati, per lo più inventati dai detrattori, ma alla lunga introiettati anche da alcuni sostenitori. Negli ultimi tempi subì la diffidenza del suo giornale che ritardava o non dava spazio agli articoli. Ancor di più deve aver sofferto, e sento il bisogno di scusarmene qui dopo tanto tempo, per l’insofferenza che la nostra amministrazione mostrò verso le sue critiche peraltro sempre garbate e motivate. Si arrivò perfino a criticarlo per ritorsione sui ritardi nella gestione del parco dell’Appia, di cui generosamente aveva accettato di fare il presidente nella fase di avvio. L’ultimo articolo è un grido di dolore - Chiedo solo una chiave – per dire che bastava dargli la piena agibilità della sede. Oggi, quel grido possiamo intenderlo come una metafora. Forse non abbiamo ancora trovato la chiave interpretativa dell’opera


1. Gli stereotipi

Il primo stereotipo, che fosse il signor NO, lo sentiamo ripetere da tanto tempo. E invece aveva un’attenzione quasi maniacale per la proposta. Ogni articolo, anche il più aspro, si concludeva con una soluzione alternativa e fattibile. Giova ricordarlo in questa sede, ha onorato il lavoro parlamentare con proposte di alto profilo che hanno influito sulla legislazione per l’ambiente, i parchi naturali, le città, i beni culturali. Anche negli interventi occasionali portava contributi sistematici. Nella conversione di un decreto, con un discorso di pochi secondi spiegò la riforma dei suoli che in un secolo il Parlamento non ha saputo approvare. Con la chiarezza riusciva a parlare sia al largo pubblico sia alle assemblee elettive, stimato e ascoltato anche dagli avversari più ostili.

Ho avuto il privilegio di partecipare alla seduta del Consiglio Comunale che approvò la localizzazione dell’Auditorium. Da diverse settimane nell’Aula Giulio Cesare si consumava un duro scontro tra maggioranza e minoranza, a notte fonda prese la parola Cederna e cominciò criticando l’ostruzionismo della propria parte, argomentò con precisione i motivi contrari al Borghetto Flaminio e a favore del Villaggio Olimpico; calò il silenzio, poi alcuni consiglieri si avvicinarono per dare un segno di intesa, e altri seguirono l’esempio fino a che l’intero Consiglio comunale si riunì intorno al suo scranno. L’oratoria sempre asciutta prese un tono solenne, "come un senatore romano, ma avevo preso due Fernet", raccontava divertito. E la delibera fu approvata quasi all’unanimità.

Il secondo stereotipo riduce il suo discorso all’esercizio dell’in-dignazione. Questa oggi non manca, ma si esprime in una nota più bassa come s-degno. Sembrano parole simili per la comune radice della dignità, ma portano a esiti opposti. Lo sdegno esprime un rifiuto indifferenziato che prepara la via alla rassegnazione. Al contrario, l’indignazione di Cederna suscitava l’entusiasmo, come ha osservato La Regina. Il suo articolo - sempre lo stesso, come scherzava di sé citando Voltaire - inizia di solito con la descrizione accurata del disastro, ma poi l’ironia verso l’avversario mostra la possibilità di sconfiggerlo con la mobilitazione dei cittadini. Come nella pittura di Hieronymus Bosch il tratto sottile e preciso disegna i mostri nel paesaggio, i vandali in casa, ma l’ironia di certe figure segnala la possibile risalita verso il bene.

Negli anni ottanta - il decennio più negativo per le città italiane come ebbe a dire - ad ogni presa di posizione sulla stampa corrispondeva l’organizzazione di un movimento di quartiere. In quel periodo a Roma cresce una rete di associazioni a difesa del territorio. Non solo la favorì ma diede l'esempio dell’impegno accettando di presiedere per tanti anni la sezione romana di Italia Nostra. Nella crisi dei partiti che cominciava allora, solo il suo discorso riusciva a creare un nesso tra progetto di città e partecipazione civica. Influì nel travaglio del Pci contribuendo ad una riconfigurazione del suo blocco sociale. La denuncia della speculazione perpetrata a livello popolare dall’abusivismo edilizio, non meno devastante di quella realizzata dai salotti imprenditoriali, costrinse i giovani dirigenti comunisti a superare il vecchio alibi dell’abusivismo di necessità e a recidere la cinghia di trasmissione con il sindacalismo territoriale che lo aveva alimentato.

Il terzo stereotipo lancia l’accusa di passatismo che oggi suona quasi come un’infamia. È ancora un Bel Paese nonostante tutte le devastazioni. E pensando al domani si può aggiungere non è ancora un Paese all'altezza dell'eredità ricevuta. La storia nazionale, ripeteva spesso, si regge sull'avverbio ancora. I Vandali in casa contiene un'elegante definizione della modernità, aperta da una veemente retorica: “Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che.. solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire le necessità della civiltà moderna”.

2. Il Moderno

Per lui e per i suoi amici urbanisti la parola Moderno è dirimente, assume un significato più mirato rispetto all’uso corrente e indica una relazione organica tra i diversi elementi. Per Insolera è la logica del progetto di città, per Benevolo è un fattore di equilibrio della vita urbana. Per Cederna è una connessione di senso tra passato e presente. Al contrario, “chi pone una falsa alternativa o sacrifica semplicisticamente un termine all’altro” è propriamente “un reazionario o un retrogrado, anche se si camuffa di un rozzo avanguardismo e di un vago vitalismo”. La definizione si attaglia anche agli avanguardisti di oggi, che sono numerosi.

La sua modernità è la ricerca di un nesso tra le cose, una nervatura dello spazio, una relazione tra gli eventi. È l'asse di rotazione delle sue passioni civili, come archeologo, come urbanista e come politico. Come archeologo ha insegnato a vedere sempre il bene come parte di un sistema culturale e paesaggistico e mai come emergenza isolata o meramente monumentale. Un principio della tutela connesso alla storia del Paese, che è diventato un esempio a livello internazionale. Come urbanista è un anticipatore, ce lo ricorda Vezio De Lucia. I suoi resoconti da Amsterdam o da Stoccolma fanno capire agli addetti ai lavori e all'opinione pubblica i vantaggi della pianificazione che esalta le singole parti di città.

Nel contempo è un protagonista della Carta di Gubbio che inventa la tutela integrale dei centri storici, il principale contributo dell’urbanistica italiana a livello internazionale. Un altro primato oggi dimenticato o avversato. Eppure, quel metodo, al di là di procedure superate, sarebbe ancora più attuale. Esso consiste nel trasformare il tessuto urbano seguendo la stessa trama che lo ha originato. In tal modo l’elemento moderno non si sovrappone violentemente all’antico ma lo trasforma in una forma integrale. Lo stesso approccio dovrebbe applicarsi alla scala vasta, senza aggiungere insediamenti isolati che degradano la conurbazione, ma attivando nelle maglie del costruito i processi di riqualificazione. Oggi servirebbe una nuova Carta di Gubbio per fermare l’espansione nell’hinterland e curare la città disfatta.

Infine, come politico ha mirato a obiettivi apparentemente parziali, ma sempre connessi a una strategia generale, come nel disegno di legge del 1989 per la Capitale. Bisogna rileggerlo e farlo conoscere, perché Antonio lo scrisse come una sorta di testamento. Mobilitò tutti gli amici per approfondire singoli aspetti e si dedicò personalmente alla relazione illustrativa. Anche io fui convocato a casa sua per la parte che mi aveva affidato. Ne conservo un caro ricordo, lo trovai al suo tavolo di lavoro sommerso di carte, certamente affaticato e affranto, quasi tentato di lasciare tutto per mettersi a recitare Shakespeare, ma desideroso di consegnare agli atti parlamentari un'analisi storica della vicenda urbanistica tra Ottocento e Novecento e il più ambizioso progetto che sia mai stato pensato per la capitale del nuovo millennio. È costituito da tre elementi fondamentali: trasformare la periferia nel nuovo centro della città politica, realizzare una rete integrata di trasporti su ferro, ripensare la struttura urbana sulla base del Parco archeologico dei Fori e dell’Appia antica.

[omissis dal §3 al §7]



Riferimenti

Qui il testo integrale del saggio di Tocci, scaricabile in formato .pdf. E qui il link ai documenti audiovisivi della conferenza, comprendenti gli interventi di Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati, di Vezio De Lucia, presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli e di Walter Tocci. E Di Vezio De Lucia abbiamo già pubblicato "Cederna addomesticato", ,scritto per eddyburg.

L'autore guida i lettori attraverso i segreti matematici, geometrici o scientifici meno conosciuti delle mete turistiche. Nella narrazione s'intravedono, dietro la rigida maglia urbanistica, Storia, Natura, Società ed Economia. La Repubblica, 22 agosto 2016, con postilla

Le città di solito crescono in maniera disordinata e costituiscono ottimi oggetti di studio per la teoria del caos. A volte, però, esiste una pianificazione che tende, almeno nelle intenzioni, a costruire una Città ideale di natura geometrica, come quella rappresentata in tre dipinti omonimi e anonimi di fine Quattrocento conservati a Urbino, Berlino e Baltimora e ispirati al trattato rinascimentale “Sull’architettura” di Leon Battista Alberti, che a sua volta riprendeva idealmente il discorso dell’omonimo trattato romano di Vitruvio.

La prima testimonianza archeologica di una città a scacchiera risale però a più di quattromila anni fa, ed è Mohenjo-daro nell’attuale Pakistan. La prima testimonianza progettuale è invece quella di Mileto da parte dell’architetto Ippodamo, nel quinto secolo prima della nostra era. Il suo modello divenne la base per la fondazione dapprima delle colonie greche, e in seguito delle città romane. In particolare, il cardo verticale e il decumano orizzontale costituiscono la versione urbanistica di quelli che in seguito sarebbero divenuti gli assi introdotti da Cartesio nella Geometria del 1637.

Le vestigia di questo approccio geometrico si possono osservare nei siti archeologici romani dell’intero Mediterraneo, ma affiorano anche in molte città moderne: dai centri storici di Torino o Città del Messico, al quartiere Ensanche di Barcellona.

Ma nessuna città al mondo incarna l’ideale cartesiano meglio di Manhattan, che estende il proprio sistema di coordinate su una superficie di 87 chilometri quadrati. Evitando l’anacronistica e inefficiente denominazione delle strade con nomi scelti a caso e in maniera disordinata, le Avenue e le Strade di Manhattan sono individuate da coordinate intere riferite a due assi cartesiani: la Prima Strada e la Prima Avenue, situate rispettivamente agli estremi Sud e Est dell’isola.

Il sistema è lungi dall’essere ideale, da un punto di vista matematico. Anzitutto lascia fuori la punta meridionale dell’isola, che essendo il primo insediamento della Nuova Amsterdam olandese dapprima, e della Nuova York inglese poi, crebbe in maniera tanto caotica quanto le altre città europee dell’epoca. Il vero sistema di coordinate inizia con la Quarta Strada, che costeggia il lato settentrionale di Washington Square e separa la parte geometrica di Manhattan dal Greenwich Village e dagli altri quartieri meridionali: Chinatown, Little Italy, Soho, Tribeca, il Civic Centre e il Distretto Finanziario.

Non è un caso che i bohémien, i beat, gli hippie, e più in generale gli artisti e gli artistoidi, ai quali la razionalità e la pianificazione non sono mai risultate congeniali, abbiano sempre preferito questa parte della città. È qui, ad esempio, che si trovano locali storici per la musica folk o jazz, come il Village Vanguard o il Blue Note. Ed è qui che bazzicavano Salvador Dalì e Andy Warhol, Jack Kerouac e Allen Ginsberg, Bob Dylan e Jimi Hendrix.

Ma Downtown Manhattan è anche la sede di istituzioni quali la New York University e la Borsa di Wall Street. E quest’ultima non è stata certamente immune dalle sirene della più folle razionalità: quella dei derivati, che non a caso sono un’invenzione della madre patria olandese.

La prima bolla speculativa, scoppiata miseramente come tutte, fu infatti quella dei bulbi che fiorì agli inizi del Seicento, proprio al momento della fondazione di Nuova Amsterdam, e fu raccontata nel 1850 da Alexandre Dumas padre nel romanzo Il tulipano nero.

Tornando alla Manhattan geometrica, mentre la numerazione delle Strade cresce da Sud a Nord, quella delle Avenue cresce da Est a Ovest: la città si situa dunque tutta, stranamente, nel quadrante cartesiano di Nord-Ovest (il quarto). Per ovviare al problema, la Quinta Avenue svolge surrettiziamente la funzione del cardo romano o dell’asse Y cartesiano, come sottolinea il fatto che inizi all’Arco di Trionfo di Washington Square. La numerazione civica su ciascuna strada avviene con coordinate crescenti in due direzioni opposte a partire dalla Quinta Avenue, verso Est (positive) e verso Ovest (negative): di fatto la Manhattan geometrica si situa dunque nel semipiano cartesiano settentrionale (il primo e il quarto quadrante).

Non ha dunque molta importanza il fatto che le Avenue in realtà siano enumerate in maniera pasticciata. Ad esempio, fra la Terza e la Quinta ce ne sono in realtà tre, invece di una sola: la Quarta era quella che oggi si chiama Park, ed è stata in seguito affiancata da Lexington e Madison.

La Sesta si chiama anche Avenue delle Americhe. La Nona, la Decima e l’Undicesima cambiano nome a partire dalla 59a Strada, diventando Columbus, Amsterdam e West End. E la Dodicesima infine non è parallela alle altre, ma segue la incurvata costa occidentale dell’isola.

Ci sono dunque varie imperfezioni locali, alle quali si aggiunge il fatto che la famosa Broadway taglia la città obliquamente, da Sud-Est a Nord-Ovest, e all’altezza della 75a Strada si inserisce parallelamente tra la Decima e l’Undicesima Avenue, andando ad aumentare ulteriormente il numero delle Avenue.

Ma globalmente il sistema è un’ottima realizzazione pratica di un modello teorico matematico, proposto a tavolino nel 1811 da un’apposita Commissione Urbanistica. E ha addirittura stimolato lo studio di una nuova geometria, ispirata alla flotta di taxi gialli che costituiscono una delle caratteristiche di Manhattan.

L’idea è di misurare le distanze fra i punti della Manhattan geometrica alla maniera del tassametro dei taxi, appunto. Poiché neppure a New York le auto possono passare attraverso le case, ma sono costrette a seguire il percorso stradale,il tassametro non misura le distanze in linea d’aria, bensì quelle ottenute sommando i percorsi a zig zag (orizzontali e verticali) che conducono da un punto all’altro. Nella geometria di Manhattan, dunque, invece di calcolare le distanze mediante il teorema di Pitagora, estraendo cioè la radice quadrata della somma dei quadrati dei percorsi totali (orizzontale uno e verticale l’altro), si sommano direttamente i percorsi stessi.

La geometria di Manhattan è un semplice esempio di geometria non euclidea, perche un triangolo rettangolo che abbia un cateto disposto su una Strada e l’altro cateto su una Avenue ha un’ipotenusa lunga quanto la somma dei due cateti, invece che minore. Quello stesso triangolo rettangolo non soddisfa dunque il teorema di Pitagora, perché la somma di due quadrati (dei cateti) non è uguale al quadrato di una somma (dell’ipotenusa).

La caratteristica più nota di Manhattan è però di essere una città non bidimensionale o quasi, come sono quelle solite, ma sostanzialmente tridimensionale, come sono anche Chicago e Hong Kong, a causa del proliferare dei grattacieli. Edifici di questo genere pongono enormi problemi strutturali, e nel caso di New York sono stati costruiti soprattutto nelle zone di Midtown e Lower Manhattan, dove il substrato roccioso è vicino alla superficie: in Central Park a volte lo si può addirittura veder affiorare direttamente alla superficie.

Dal punto di vista matematico, se un ubriaco vive in una città bidimensionale e cerca di tornare a casa girando a caso a ogni incrocio, prima o poi ci arriva sicuramente. In una città tridimensionale, invece, la complicazione di dover anche salire o scendere a caso da un piano all’altro fa sì che la probabilità di arrivare non solo all’entrata del proprio condominio, ma anche alla porta di casa, scende al 30%.

Se dunque volete andare negli Stati Uniti a ubriacarvi, scegliete come meta la piatta Los Angeles ma non New York, a causa della sua sobria geometria tridimensionale.

postilla

Sotto la lettura "matematica" di Odifreddi si intravedono le smagliature apparentemente eterodosse che Storia e Ambiente hanno introdotto nella rigidità geometrica della maglia edilizia: il percorso obliquo e tortuoso di Broadway, memoria dell'originario percorso degli indigeni Lenapi, originari padroni del sito; il reticolo bizzarro della vecchia New Amsterdam, lascito della cultura europea dei primi colonizzatori; la maggiore verticalità della forma urbana là dove la Natura ha fornito un suolo più solido all'appetito degli speculatori.
A conoscere un poco la storia sociale della città, si può leggere come nella giovane democrazia capitalistico-borghese nordamericana la Società abbia potuto vincere sull'Economia della rendita, strappando a furor di popolo centinaia di isolati destinati all'edificazione per costruire il grandioso Central Park: nessun urbanista aveva inventato allora i "diritti edificatori".

Un secolo fa l’economista inglese John Maynard Keynes ha suggerito che, quando un paese è in crisi economica e di occupazione ... (segue)

Un secolo fa l’economista inglese John Maynard Keynes ha suggerito che, quando un paese è in crisi economica e di occupazione, una soluzione consiste nell’investire denaro pubblico in opere di utilità generale, in quelle che una volta si chiamavano “lavori pubblici” e che in Italia avevano addirittura un apposito ministero: strade, ferrovie, porti, edifici pubblici. I soldi pubblici spesi avrebbero assicurato un salario a lavoratori i quali li avrebbero spesi per acquistare quelle merci che fino allora erano fuori dalla portata delle loro tasche. Per produrre tali merci molte imprese avrebbero assunto altri lavoratori che a loro volta sarebbero diventati consumatori di altre merci e così via. Imprenditori e lavoratori avrebbero pagato, in nuove tasse, più di quello che lo stato aveva speso per avviare le opere pubbliche.

La ricetta funzionò, più o meno come aveva suggerito Keynes, negli Stati Uniti durante la prima grande crisi del Novecento; il governo di Franklin Delano Roosevelt, dal 1933 fino alla seconda guerra mondiale, fece, con i soldi dei contribuenti, opere pubbliche utili, anche dal punto di vista ambientale, come difesa del suolo dall’erosione, rimboschimento, centrali elettriche, addirittura fabbriche di concimi e di prodotti chimici “statali” (un‘eresia per il liberalismo americano).

Qualcosa di questo spirito fu recepito anche in Italia negli anni della ricostruzione, dopo il 1945, soprattutto con l’occhio rivolto al Mezzogiorno arretrato. Ce ne siamo dimenticati, ma se il Mezzogiorno ha accorciato le distanze rispetto all’Italia settentrionale più industrializzata è stato per merito delle fabbriche statali, delle strade, della distribuzione ai contadini delle terre abbandonate, delle case “popolari”, della difesa del suolo con rimboschimenti, della regimazione delle acque; i soldi spesi dallo stato sono rientrati, con gli interessi, attraverso le tasse riscosse a mano a mano che nasceva nuova occupazione nelle fabbriche e nei cantieri sorti, nel Sud e nel Nord, per soddisfare la nuova domanda di abitazioni, frigoriferi, televisori, automobili.

Certo, ci sono stati vistosi errori, dovuti a previsioni e a scelte imprenditoriali sbagliate, a localizzazioni errate, ci sono stati episodi di vistosa corruzione, per cui tanto denaro pubblico ha fatto ricchi e ricchissimi pochi mentre avrebbe potuto togliere dalla miseria tanti nostri concittadini.

Col passare dei decenni le parole “stato” e “pubblico” sono diventate politicamente poco corrette davanti alla nuova ideologia della privatizzazione. L’esito sono state le crisi che hanno caratterizzato la seconda metà del Novecento e l’inizio di questo secolo, al punto che si deve di nuovo invocare l’intervento dello stato per opere pubbliche, oggi le chiamano infrastrutture.

Ci sono opere pubbliche elettoralmente redditizie, che consentono di inaugurare autostrade, ferrovie, ponti, con discorsi ufficiali e tanta televisione. Ma ci sono altri umili lavori di grande utilità pubblica e sociale, che richiederebbero l’impiego di migliaia di lavoratori, che non si possono inaugurare con interventi della televisione ma che salverebbero, di tante persone, i beni e i campi e i soldi (e anche molte vite), portati via dalle continue frane e dagli allagamenti di terre e città.


L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Cederna se n’è andato da vent’anni e mi pare sincero il rimpianto di quanti osservano che con il passare del tempo è aumentato il bisogno del suo pensiero. Mi riferisco a chi ricorda Cederna con le migliori intenzioni, con rispetto e ammirazione, non ad avversari più o meno mascherati. Ma le migliori intenzioni non esonerano dal rischio che la figura di Cederna sia banalizzata dagli stereotipi. Un esempio aiuta spiegarmi. Nei giorni scorsi sulla stampa romana si è letto del dibattito innescato dalla decisione della nuova amministrazione capitolina di rinviare di qualche tempo la pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali: “il sogno di Antonio Cederna”. Cioè, il sogno di Antonio Cederna sarebbe stato la pedonalizzazione della via voluta da Benito Mussolini. Una bestemmia, un falso inaudito che nessuno però mi pare abbia denunciato. Cederna non chiedeva la pedonalizzazione ma la demolizione della via dei Fori Imperiali, come premessa per la realizzazione del Progetto Fori Appia Antica pensato per ripristinare la continuità di storia e natura dal Campidoglio ai piedi dei Colli Albani, sfruttando l’unica pausa nella sterminata urbanizzazione per dare forma a Roma moderna.

Sul Progetto Fori Appia Antica sarà necessario costruire un’occasione per un bilancio rigoroso e documentato del suo tramonto, come dicono gli speranzosi, ovvero della sua definitiva archiviazione, come sostengono gli scoraggiati. Qui mi limito ad anticipare qualche spunto. Il primo riguarda la progressiva involuzione del ministero dei Beni culturali che trent’anni fa fu tra i protagonisti del Progetto Fori, di cui il primo artefice fu il soprintendente archeologico Adriano La Regina che riprese l’idea esposta anni prima da Leonardo Benevolo.

Il soprintendente fu assecondato dai ministri Dario Antoniozzi (democristiano) e Oddo Biasini (repubblicano) al quale si deve lo stanziamento di 180 miliardi di lire per il patrimonio archeologico di Roma. Più in generale ricordo che i governi Moro, Andreotti, Cossiga e seguenti condivisero sempre la politica urbanistica e archeologica (era tutt’uno) dei sindaci Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli (1976-1981).

Le domeniche pedonali dell’autunno inverno 1980-1981 furono la più straordinaria opera mai fatta per la valorizzazione dell’area area archeologica centrale, una mirabile dimostrazione dell’idea di Petroselli di accorciare le distanze fra le periferie e il resto della città e accorciare anche la distanza fra i tempi e i luoghi della storia. Il sindaco non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità, voleva che le vicende dell’antica Roma fossero patrimonio di tutto il popolo, anche quello più sfavorito. Partecipavano alle domeniche pedonali decine di migliaia di persone, incantate dagli articoli di Cederna e dal racconto del sindaco e delle guide insigni (Italo Insolera, Filippo Coarelli e tanti altri) che spiegavano di voler collocare i resti della storia più antica e prestigiosa di Roma (il centro direzionale dell’impero romano) nel cuore della città moderna. Era una valorizzazione che subordinava l’utilità delle presenze turistiche al ruolo fondamentale dei beni culturali nella formazione di cittadini consapevoli. Un abisso rispetto alla pratica attuale della valorizzazione, volta esclusivamente all’utile economico. L’area archeologica centrale è oggi lo sfondo ideale per spettacoli son et lumière, il Colosseo una formidabile macchina per far soldi anche ricostruendo l’arena centrale per nuovi eventi spettacolari.

Nel 1981 con la morte di Petroselli morì anche il Progetto Fori Appia Antica. Diventò uno slogan ripetuto da tutti, privo di senso, o sinonimo di pedonalizzazione. Nel 2001 un vincolo ministeriale ha congelato lo stato di fatto, formalmente rinnegando il Progetto Fori. E per coronare il disastro ci fu anche la nomina di Guido Bertolaso a commissario all’archeologia di Roma. Più di recente è stato autorevolmente proposto di affidare la gestione dell’Appia Antica alla società Autostrade di Benetton. Un luce improvvisa fu accesa proprio all’inizio della sua infortunata esperienza da Ignazio Marino, quando propose di rilanciare il Progetto Fori, ma poi si è capito che non sapeva di che parlava, fantasticando alla fine di tram di vetro che dovevano percorrere la via pedonalizzata.

Ma il vero e proprio tradimento ministeriale ad Antonio Cederna sta nell’aver disarticolato l’unitarietà dello spazio istituzionale dai Fori all’Appia Antica con la formazione di due soprintendenze e lo scorporo del Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo, Palazzo Altemps, Crypta Balbi) che diventa una struttura autonoma, com’è stato fatto l’anno scorso per i primi venti più importanti musei e siti archeologici italiani (dagli Uffizi a Capodimonte a Pompei eccetera). Se possibile ancora più grave è la decisione recentissima di smembrare dalla soprintendenza archeologica anche l’Appia Antica per trasformarla in parco archeologico. Ma l’Appia Antica non è un sito recintato come Paestum o Pompei, è un prezioso segmento di Roma, quasi completamente in mani private, che ha bisogno soprattutto di un’azione puntuale e ininterrotta di tutela e di progressiva acquisizione di beni a favore del demanio archeologico. Com’è stato fatto negli ultimi anni da Adriano La Regina e poi da Rita Paris, spodestata nelle ultime settimane.

Walter Tocci ha scritto che la cancellazione della sovrintendenza unica è un provvedimento insensato che il ministro Franceschini ha avuto l’improntitudine di definire una scelta olistica.

Concludo dedicando questa strepitosa osservazione di Cederna a chi continua a proporre la pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali: «i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che non ha uguali nella storia urbanistica universale, e che le guide turistiche trascurano di segnalare».

Il manifesto, 18 luglio 1988

Domani il Consiglio dei ministri discuterà il decreto legge per i mondiali del '90. È l'apice di un'operazione di "emergenza artificiosa" che dovrebbe aprire la strada all'orgia di asfalto e cemento, allo stravolgimento del piano regolatore, alla speculazione fondiaria privata. "È un effimero che determina il permanente - dice il deputato della sinistra indipendente Antonio Cederna - Deve rinascere una forte risposta culturale e urbanistica".

Una risposta con quali mezzi e con quali obiettivi?

Per l'ennesima volta Roma si sviluppa sugli interessi della rendita fondiaria: l'errore storico e capitale, anche delle giunte di sinistra, è sempre stato quello di non aver previsto l'esproprio e l'acquisizione delle aree interessate dalle grandi opere, come si fa in tutta Europa. Dobbiamo recuperare la cultura della pianificazione.

Come è possibile questo recupero, anche alla luce dell'impatto dei mondiali?

Il '90 è diventato un'emergenza artificiosa con la quale si cerca di far passare opere che nulla hanno a che vedere con quella data. La risposta deve essere risoluta con il rilancio delle vere opere prioritarie per l'emergenza della città: innanzitutto il parco dei Fori e dell'Appia antica, il recupero dei monumenti e dei musei, la liberazione del Celio e altri interventi di svuotamento e di liberazione urbanistica degli spazi cittadini da conquistare con i denti e con le unghie in modo complementare al cemento e ai chilometri miliardari delle autostrade.

Di queste proposte si parla da anni...
Ripetere non fa mai male, siamo qui per questo: il compito della vita è ripetere. Non si è ancora fatto nulla, anzi si svuota anche quel minimo di programmazione nel quale rientrava lo Sdo: si stravolge il piano regolatore sostituendo al sistema lineare un disegno alternativo basato sulla polverizzazione e sulla moltiplicazione dei poli direzionali, che inseguono gli interessi.

Cosa chiedere al governo?
Di abolire il maledettissimo tunnel dell'Appia e in generale di evitare che l'effimero dei mondiali si trasformi nel permanente che determina il futuro della città.

Riferimenti
Dall'Archivio Cederna l'articolo Tutto è stravolto per i mondiali scritto da Cederna all'indomani dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del decreto legge per i mondiali del 1990.

A proposito di grattacieli e altre soperchierie immobiliariste, Carlo Giacomin ci segnala questo articolo che ci era sfuggito, e l'ineccepibile sentenza che l'accompagna (scaricabile in calce). Altalex online, 25 aprile 2014

Con la sentenza 5 febbraio 2014, n. 5751 la terza sezione penale della Corte di Cassazione interviene in materia edilizia, offrendo alcuni chiarimenti in merito all’indice di edificabilità che ne precisano limiti e contenuto.

In particolare, gli Ermellini chiariscono in primo luogo l’inderogabilità del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 a cui è stata in passato riconosciuta efficacia di legge dello Stato con la conseguenza che gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti locali nella determinazione degli standard urbanistici. Ciò per chiarire che l’art. 7 del D.M. citato stabilisce i limiti inderogabili di densità edilizia per le diverse zone territoriali omogenee e che, in particolare, per le zone A – relative al caso di specie – si conformano nel senso che per le nuove eventuali costruzioni ammesse, la densità fondiaria non deve superare il 50% della densità fondiaria media della zona.

E’ importante questa precisazione da parte della Corte di Cassazione perché permette di ribadire l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale sulla differenza tra densità edilizia territoriale e densità edilizia fondiaria. La prima si riferisce a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona, mentre la seconda è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile. In buona sostanza – come si legge anche nella sentenza - , la differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona omogenea, per cui il relativo indice di edificabilità è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati a viabilità, ecc. Al contrario, la densità edilizia fondiaria, in quanto riferita alla singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato alla effettiva superficie suscettibile di edificazione.

Per i giudici del Palazzaccio diventa rilevante tracciare un netto confine tra i due concetti di densità, specificando che quella territoriale attiene al comparto, al lordo di strade e altri spazi pubblici, mentre quella fondiaria attiene al singolo lotto o fondo identificato al netto delle aree asservite a standard urbanistici. Ne consegue che l’indice di fabbricabilità fondiaria risulta essere lo strumento di misura del massimo volume edificabile su ciascuna unità di superficie fondiaria. Su questo aspetto si è fondato l’errore del giudice di merito che, come rilevato da Piazza Cavour, confonde, ai fini della determinazione della volumetria assentibile, la superficie edificabile con la superficie dell’intero comparto, pretermettendo la distinzione che giuridicamente distingue l’area edificabile dalla zona omogenea in cui si inserisce. Ciò elide i limiti di edificabilità in quanto questi costituirebbero in questo modo un a percentuale della zona omogenea anziché una percentuale dell’area interessata direttamente dalla edificabilità stessa, finendo per confondere il criterio da applicare.

Nel caso di specie il giudice di prime cure aveva condannato i titolari di una società di costruzione e i funzionari pubblici coinvolti alla pena di quattro mesi di arresto e 25000 € di ammenda per i reati di cui agli articoli 110 cod. pen. e 44 lettera c) del d.p.r. N. 380/2001 e art. 734 cod. pen. Ciò per la realizzazione di un complesso edilizio in area urbana sottoposta a vincolo paesaggistico ed in violazione della normativa di settore in merito a forme e misure consentite. Il Giudice di Appello tuttavia riformava la sentenze di primo grado assolvendo tutti gli imputati dai reati ascritti perché il fatto non sussiste. Da qui il ricorso del Procuratore generale della Repubblica, che contesta la violazione dell'articolo 44, lettera c), d.p.r. 380/2001 con riferimento all'articolo 7 D.M. 1444/1968.

Come si è visto la Cassazione accoglie le contestazioni del ricorrente annullando la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte di Appello territoriale.

Per approfondimenti:
Pacchetto promo volumi ''Reati + Illeciti edilizi'';
Illeciti edilizi. Profili civili, amministrativi e fiscali, di Alessandro Ferretti, Altalex editore, 2014.
Reati Edilizi. Aspetti normativi e sanzionatori, di Alessandro Ferretti, Altalex Editore, 2011;
Voce "Lottizzazione abusiva" di AltalexPedia.

Qui il link al documento per scaricarlo in formato .pdf

Il Sole 24 ore,16 giugno 2016

Cinque mesi per completare l’intera procedura nei casi più complessi, che possono scendere fino ad appena 45 giorni. Possibilità di svolgere le riunioni in via telematica e “asincrona”, cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle varie amministrazioni.

Una voce sola per tutte le Pa, per evitare sovrapposizioni, blocchi e veti. E acquisizione automatica dell’assenso di chi non si esprime. Sono solo alcuni ingredienti della nuova conferenza di servizi che ieri il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva. Molte le conferme rispetto alla prima versione del decreto che attua la delega Madia, ma qualche novità di peso è arrivata all’ultimo minuto.

Soprattutto, accogliendo alcune osservazioni formulate da Consiglio di Stato, Conferenza unificata e Parlamento, è stato previsto che alle riunioni della conferenza possono essere invitati i privati interessati, inclusi i soggetti che hanno proposto il progetto, per depositare documenti e memorie. Ed è stata anche inserita una tagliola per regolare la fase transitoria: le norme ormai prossime alla pubblicazione si applicheranno, quindi, solo alle nuove procedure.

La strada ordinaria da seguire per acquisire pareri e intese di diverse amministrazioni diventa la conferenza semplificata. Andrà svolta in modalità “asincrona”, dice il decreto, cioè senza la presenza fisica dei vari rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo, ma con scambio di documenti via mail.

La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda e deve concludersi in tempi certi. Per la precisione, ai partecipanti alla conferenza vengono assegnati 45 giorni per fornire il proprio parere. Un ritmo serrato, dal momento che nella prima versione del decreto veniva fissato un limite massimo di 60 giorni.

Il termine raddoppia e sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale, paesaggistica, culturale e della salute dei cittadini. La mancata pronuncia entro il termine viene considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Al contrario, gli eventuali dissensi devono essere «non superabili» per portare a una pronuncia negativa.

La seconda strada, da seguire «solo quando è strettamente necessaria», porta alla conferenza simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle amministrazioni, «ove possibile anche in via telematica». Anche in questo caso la conclusione del procedimento deve avvenire entro 45 giorni dalla prima riunione. E varrà la regola del rappresentante unico. Ciascun ente invitato, cioè, potrà farsi rappresentare da un unico soggetto.

Nel caso di amministrazioni statali, addirittura, è previsto che parleranno tutte per bocca di un unico soggetto, «abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte». A indicare il rappresentante unico sarà Palazzo Chigi o, nel caso di amministrazioni statali periferiche, il prefetto. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni potranno mettere a verbale il loro parere negativo ma non potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico.

Una terza alternativa viene prevista per i progetti di particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di beni e servizi. Su motivata richiesta dell’interessato, corredata da uno studio di fattibilità, l’amministrazione potrà indire una conferenza preliminare «finalizzata a indicare al richiedente», le condizioni per ottenere il via libera.

Per i progetti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale si procede di norma con una sola conferenza di servizi da svolgere in forma simultanea e non con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Fanno eccezione i procedimenti relativi a progetti sottoposti a valutazione ambientale di competenza statale.

Una volta conclusa la conferenza, resta la possibilità di fare opposizione. Ma non per tutti, Entro dieci giorni dalla conclusione della conferenza gli enti di tutela possono chiedere l’intervento del Consiglio dei ministri. Un chiarimento importante arriva, infine, nella parte che regola le norme transitorie. Le disposizioni del decreto, infatti, saranno applicate solo ai procedimenti avviati «successivamente alla data della sua entrata in vigore».

Il manifesto, 14 giugno 2016

LEON, IL SOCIALISTA COERENTE
di Felice Roberto Pizzuti

Paolo Leon aveva, come economista, una solida formazione teorica acquisita anche a Cambridge negli anni di Kaldor, Joan Robinson e Piero Sraffa. A differenza di altri, non aveva dimenticato i risultati consolidati raggiunti nel dibattito in quel periodo e i loro collegamenti con il marxismo e il keynesismo. Ma di questo prezioso bagaglio, arricchito da una costante attenzione agli sviluppi della letteratura analitica ed empirica che trasmetteva in primo luogo ai suoi studenti, non ne faceva solo uno strumento di critica al mainstream.

Nei trascorsi decenni, conformismo, saggezza convenzionale e accettazione amorfa hanno accompagnato il tentativo incongruo – tanto potente e diffuso quanto stupidamente presuntuoso – di stravolgere il senso stesso dell’economia da disciplina sociale in scienza naturale. La crisi globale che stiamo attraversando è anche responsabilità di queste pretese controproducenti della teoria economica dominante. In questi anni, Paolo, con coerenza, acutezza, pragmatismo e ironia, ha sempre applicato positivamente la sua formazione, verificandola e aggiornandola, ma senza cadere nel coro dei vecchi luoghi comuni riproposti con sofisticati tecnicismi che ammantano di pretesa scientificità sia la spiegazione di relazioni sociali presentate come «naturali», sia la difesa di interessi parziali.

Il suo bagaglio teorico era arricchito da una ingente mole di ricerche empiriche nelle quali, all’analisi del concreto funzionamento di specifici comparti della realtà economica accompagnava concrete proposte per migliorare il loro funzionamento e le connesse condizioni di vita.

Paolo aveva anche una solida formazione politica socialista che, unitamente a quella economica, alla sua onestà intellettuale e all’ancoraggio del suo pensiero alle necessità di ottenere anche nel breve periodo miglioramenti dello stato di cose presenti, lo hanno messo al riparo dalle crisi d’identità, dalle trasformazioni opportunistiche e dal minoritarismo velleitario che hanno pervaso la Sinistra negli ultimi decenni.

Ho avuto il piacere di lavorare con Paolo anche in circostanze istituzionali. Le sue posizioni, sempre aperte al confronto, non calavano mai dall’alto, le trasmetteva sui binari della semplicità che solo chi ha sedimentato bene i concetti può percorrere, erano sempre accompagnate da una umanità e un senso della vita mai banali, ma derivanti dalla sua esperienza che, comunque, non faceva pesare.
C’era un solido retroterra dietro la simpatia di Paolo e la sua capacità di accompagnare con un sorriso anche il senso di tristezza e d’insofferenza che le situazioni potevano suscitare.

PAOLO LEON,
COERENZA DI UN KEYNESIANO
di Roberto Romano

Sabato sera ci ha lasciato Paolo Leon. Un economista ironico e legato al riformismo rivoluzionario di Lombardi. Il manifesto e Leon sono «amici» di lungo corso e gli articoli di Paolo hanno fatto crescere il giornale con dibattiti e interventi negli anni Settanta e Ottanta e poi anche più recentemente. Equilibrio e squilibrio sono la cartina interpretativa delle idee di Paolo fin dai primi lavori: Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica (1965, Boringhieri), Structural change and growth in capitalism (1967, Johns Hopkins Press), L’economia della domanda effettiva, (1981, Feltrinelli). Gli anni seguenti consolidano la ricerca sul ruolo dell’economia pubblica: Stato, mercato e collettività (2003, G. Giappichelli), Il Capitalismo e lo Stato (2014, ed. Castelvecchi), assieme al saggio Banche e Stato, in Riforma del capitalismo e democrazia economia (L. Pennacchi e R. Sanna, 2015, Ediesse).

Leon è il primo a legare consumo e investimento aggregato alla legge di Engel (si consumano beni diversi in rapporto alla crescita del reddito), per cui occorre un investimento particolare, quello che produce beni e servizi direttamente legati alla crescita del reddito. La dinamica di struttura e la «tecnica superiore di produzione» evidenziando come la persistenza di un problema di domanda effettiva sia intimamente legato alla natura della produzione: il mercato cambia se stesso e modifica la tipologia dei beni prodotti, con delle conseguenze nei rapporti economici tra gli agenti all’interno dello stesso paese, del mercato del lavoro e del mercato monetario. Non era in discussione la distribuzione del reddito in senso stretto, che modifica qualitativamente la domanda, quanto il sistema economico nel suo complesso: all’inizio la domanda soddisfa bisogni primari, successivamente i beni primari lasciano il posto ai beni secondari, andando più avanti la domanda si manifesta nei beni terziari. Sostanzialmente il reddito aggiuntivo e la conseguente domanda alimentano nuovi bisogni che inizialmente non erano concepibili, e tale domanda deve trovare una corrispondente offerta.

L’insegnamento di Leon è dirimente per i nostri giorni: «Nessuno può negare che esista una relazione tra fattori della produzione e prodotto al livello dell’economia; ma che forma questa funzione, in che modo agiscano su di essa le variazioni dei salari e dei profitti ed il progresso tecnico, è impossibile stabilire a priori con il modello marginalista»(P. Leon, 1965). Altro che crescita equi-proporzionale dei diversi settori. Infatti, Paolo prefigura uno Stato grande nelle idee: «Le scelte, in termini di investimenti, delle imprese pubbliche e, in quanto controllabili, di quelle private, non possono essere condotte sulla base di un saggio generale del profitto (o dell’interesse, o sulla base di un determinato costo-opportunità del capitale) stabilito a priori senza la giustificazione di un completo modello disaggregato di lungo periodo»(P. Leon, 1965).

Lo scopo «è di far risaltare la necessità della domanda effettiva come determinate dell’offerta…. Così chi crede che l’investimento sia l’elemento autonomo per eccellenza, è poi spinto a cercare i fattori che lo determinano… ritrovando per altra via la legge di Say» (P. Leon, 1981).

L’esistenza stessa di «leggi macroeconomiche, non riconducibili alla decisione dei singoli, è un segnale che lo Stato è autonomo rispetto al mercato». In altri termini, «una legge macroeconomica generale, come quella del moltiplicatore, non può rientrare nell’ambito della conoscenza individuale: solo lo Stato è in grado di servirsene»(P. Leon, 2003).

Un tratto ben presente nella sua penultima fatica (P. Leon, 2014), quando si domanda: è l’inizio della fine di un paradigma, più precisamente del paradigma reaganiano-thatcheriano che ha costruito un particolare equilibrio tra stato e capitale? Leon discute le nuove istituzioni del capitale, consapevole che qualcosa di quello caduto in disgrazia rimarrà per sempre. Tutto ciò ci riporta al ruolo dello Stato nel capitalismo post-liberista e del modello di governo in una economia globale. Un rapporto capitale-Stato da ricostruire. Infatti, «il capitalismo… è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti».

Poco prima di lasciarci Leon ha offerto un altro contributo: I poteri ignoranti, 2016, ed. Castelvecchi. Accumulazione e sviluppo sembrano essere entrati in conflitto aperto. Da un lato, le scorciatoie che conducono a una chiusura mercantilistica sono vicoli ciechi; dall’altro, la radicale ignoranza dei poteri pubblici sulle questioni economiche che impedisce di percorrere vie d’uscita alternative, legate al nuovo ruolo dello Stato e alle politiche economiche differenti. Nel mezzo uno iato: lo spazio per una scienza economica che non rinuncia a voler cambiare le cose. Anche alla fine del suo lavoro ha suggerito un inedito terreno di riflessione.

«Più che le leggi, per contrastare gli abusi nelle gare pubbliche servono "operazioni sotto copertura" con agenti infiltrati. "I magistrati non sono capaci di fare politica", aggiunge, lanciando però una frecciata al governo: "Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle"». Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2016 (c.m.c.)

Piercamillo Davigo a tutto campo su Codice appalti, corruzione e Anac. La nuova normativa sulle gare pubbliche, sostiene il presidente Anm, “è tutta roba che non serve a niente” e la corruzione “non si combatte con l’Autorità nazionale anticorruzione”, che non ha poteri di repressione. Ma Davigo torna anche a parlare del rapporto tra magistratura e politica, che ha acceso vivaci polemiche pochi giorni dopo la sua elezione al vertice del sindacato delle toghe. “Io non farò mai politica. I magistrati non sono capaci di fare politica”, ha detto Davigo. E sulle attuali leggi contro la corruzione chiosa: “Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle“. Poche ore dopo, il premier Matteo Renzi ribatte: “Il Codice degli appalti è un passo in avanti”.

“Il Codice appalti non serve a niente. Bisogna usare agenti infiltrati”

Il nuovo Codice appalti “è tutta roba che non serve a niente”, ha spiegato il presidente dell’Anm al convegno dei giovani di Confindustria. “Da anni” si scrivono normative sugli appalti “con regole sempre più stringenti che danno fastidio alle aziende perbene e non fanno né caldo né freddo a quelle delinquenziali”, ha proseguito, sottolineando quindi che “non serve fare normative sugli appalti, serve fare operazioni sotto copertura“, con agenti infiltrati che fingono di essere imprenditori. Su questo punto, in passato Davigo aveva già incalzato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone: “Per contrastare la corruzione bisogna mandare i poliziotti a offrire denaro ai politici e arrestare chi accetta. Lo diceva anche Cantone, ma ora ha smesso di dirlo. Perché? Lo capisco. E non aggiungo altro…”.

“La corruzione non si combatte con l’Anac, non ha poteri di repressione”

E ora il presidente dell’Associazione magistrati torna a sferzare Cantone e il Codice appalti,che èstato fortemente voluto, anche se in parte criticato, sall'Autorità nazionale anticorruzione " “Non si può dire che con l’Anac si combatte la corruzione“, perché “sarebbe contro la Costituzione”: se l’Autorità di Raffaele Cantone “non fa certo cose inutili”, comunque “fa cose diverse”. Per combattere la corruzione servono “strumenti altamente invasivi che la Costituzione riserva alla magistratura”. L’Anac, dice invece, “è un’autorità amministrativa: non può avere alcun potere serio per reprimere la corruzione”; fa “cose ottime”, ma “non c’entrano niente con la repressione della corruzione”.

“I magistrati non sanno fare politica. Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle”

E dopo le stoccate ad Anac e Codice appalti,il presidente Anm torna sulla delicata questione dei rapporti tra magistratura e politica, al centro di roventi polemiche con il governo. “Io non farò mai politica. I magistrati non sono capaci di fare politica”. A chi gli chiede cosa farebbe per prima cosa se diventasse ministro della Giustizia, Davigo risponde: “Farei dei disegni di legge sulla corruzione diversi da quelli che sono stati fatti”. Questo perché “non serve alzare le pene se non si sa a chi darle“. E sottolinea come il governo abbia introdotto una lieve premialità per chi confessa: “Se parli prendi un po’ meno… così uno diventa in un certo senso onesto”.

“Mi sento Re Mida. Chi indago fa carriera politica”

Davigo non si fa mancare l’occasione di lanciare una nuova frecciata alla classe politica italiana, partendo dal suo vissuto personale. “A volte ho pensato di essere come Re Mida, vedevo che a chiunque mi avvicinavo” con le indagini sulla corruzione “poi faceva una spaventosa carriera politica“, dice il presidente dell’Anm. Era così perché si trattava di persone con “una spaventosa forza di ricatto“. E’ ancora oggi così? “Beh, ho visto che ad Expo ne hanno presi due che ci erano cascati già 25 anni prima”.

La replica di Renzi: “Il Codice degli appalti è un passo in avanti”

E dallo stesso palco dell’assemblea dei giovani di Confindustria, il premier Matteo Renzi ribatte a Davigo poche ore dopo il suo intervento. “Il Codice degli appalti a me sembra un passo avanti, non un passo indietro – ha affermato il capo del governo – Certo siamo sempre pronti a fare meglio ma serve anche valorizzare il buono che c’è”. E ancora: “Rispetto tutte le opinioni ma penso che l’Anac di Raffaele Cantone sia particolarmente utile. Se non ci fosse stata Anac, non saremmo intervenuti su Mose ed Expo, centinaia di appalti sarebbero finiti in un vicolo cieco”.

«Infrastrutture e corruzione. Tra qualche luce e molte ombre Renzi ha peggiorato anche la "legge obiettivo" berlusconiana». Il manifesto, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Il Codice degli Appalti di recente approvato contiene alcune interessanti novità e, per certi versi, ristabilirebbe condizioni di migliori agibilità e qualità delle procedure di realizzazione di opere e infrastrutture.

Se non fosse che molte positività insite nel corpo del provvedimento vengono vanificate dal quadro politico e normativo in cui lo stesso va ad inserirsi, segnato dall’iperlibersmo speculativo del governo renziano.

Misure potenzialmente positive

Tra le misure potenzialmente positive colte da diversi osservatori – tra cui Anna Donati che commenta su diversi siti – si possono annoverare: il ripristino di una maggiore ordinarietà delle procedure, con la ribadita valenza dei tre livelli progettuali (di fattibilità, definitivo, esecutivo), che richiama la cancellazione della «famigerata e criminogena» Legge Obiettivo, un certo ridimensionamento del ruolo del contraente generale (che peraltro permane come il Commissario per le Grandi Opere), la restituzione della giusta importanza della pianificazione ai diversi livelli, nonché alla valutazione ambientale (Via allegata, come logico, al progetto definitivo).

Altri elementi interessanti sono costituiti dalla restituzione di funzioni cogenti e decisionali agli enti territoriali (su questo però incombe la controriforma costituzionale), l’attribuzione all’impresa del rischio operativo, una maggiore presenza dell’Anac che vorrebbe significare maggiori tutele anticorruzione.

Le criticità dell’Anac di Cantone

Tra le criticità già insite nella legge c’è la perdurante facoltà di subappalti anche per progetti di entità rilevante, la perdurante presenza delle figure di Contraente generale e Commissario, e la mancanza di facoltà più incisive e immediate di intervento sull’opera all’Autorità Anti Corruzione.

I pericoli di svuotamento della norma e di copertura delle peggiori tendenze in atto, stanno soprattutto nel quadro di provvedimenti esistenti e già operanti nei settori infrastrutture, territorio, ambiente, in cui il provvedimento va a inserirsi.

Innanzitutto il ruolo, che finisce per esser ambiguo, dell’Anac: le funzioni seguitano ad essere di gran lunga superiori alle possibilità d’intervento. Come è noto infatti, l’Anac può indagare e radiografare l’opera, arrivare fino al commissariamento; ma non ha facoltà, anche davanti a illegittimità conclamate tradottesi in pratiche corruttive anche ampie, fino alla presenza di criminalità organizzata, di effettuare l’operazione che tutti gli analisti del settore ritengono più incisiva in questi casi: interrompere il flusso di risorse verso l’operazione degenerata, bloccando immediatamente l’appalto.

Ha solo facoltà di rinviare per questo al governo (che dichiara proprio il contrario, «tutto si può fare meno che interrompere i lavori»), o sperare in un sequestro giudiziario del cantiere.

Raffaele Cantone qualche giorno fa ha affermato che molti suoi colleghi lo criticano anche aspramente «per avere accettato un incarico del governo Renzi».Non credo che il problema sia questo; ma l’avere accettato una funzione condizionata e limitata, che rischia in diversi casi di giustificare proprio il contrario di quello che sarebbe necessario e giusto.

A parte i casi clamorosi come Mose ed Expò, fa scuola il caso del sottoattraversamento Tav di Firenze: Cantone ha analizzato approfonditamente il progetto, già oggetto di inchiesta della magistratura, argomentandone i numerosissimi profili di illegittimità amministrativa e anche penale, oltre che gli altissimi rischi ambientali; fino a illuminare un’operazione abusiva, illegale e pericolosa.

La risposta della governance ai vari livelli – sembra dopo qualche tentennamento dello stesso Renzi – è stata il rilancio del progetto!

E si peggiora la Legge Obiettivo

Altro grande problema: la Legge Obiettivo è stata cancellata … ma solo in parte: lo «Sblocca Italia» prima, e l’allegato Infrastrutture al Def poi, ne hanno rilanciato diverse opere – a piè di lista, altro che nuova programmazione! – tra cui la Tav in Val di Susa, autostrade, porti, superstrade, impianti di depurazione e di rifiuti, ed altre attrezzature per lo più inutili. Che andrebbero sottoposte invece a una «project rewiew» secondo il nuovo Codice e per la gran parte cancellate.

Invece il Dipe della presidenza del consiglio ha ribadito che «per le opere già decise e avviate con la Legge Obiettivo si seguita a usare le procedure di tale normativa»; pure abrogate, ma come vediamo resuscitate.

Lo «Sblocca Italia» è per certi versi più criminogeno della Legge Obiettivo (definita così da Cantone): almeno quest’ultima introduceva semplificazioni per «comparti»; lo «Sblocca Italia» opera addirittura anche «a progetto» (che – come le inchieste della magistratura stanno dimostrando – significa spesso «per gruppi di interesse»).

Altro buco nero riguarda il decreto che interessa molte opere su «terre di scavo, fanghi e rifiuti», su cui il governo ha la delega in virtù dello stesso «Sblocca Italia».

Il ministro Orlando che ne pensa?

Su questo bisognerebbe chiedere al ministro della giustizia Orlando, che, poco prima del cambio di governo da Letta a Renzi, in veste di responsabile dell’Ambiente, era andato a Firenze, dove la Procura è titolare delle grandi opere fiorentine e nazionali, a dire che tale provvedimento (di semplificazione per il riutilizzo immediato delle terre di scavo e la possibilità di dichiarare per declaratoria i rifiuti tossici e pericolosi sottoprodotti riutilizzabili) era di fatto accantonato, perché tra l’altro difforme dalle direttive europee, «in vista di una normativa molto più rigorosa e orientata alla sostenibilità».

Tra l’altro tale norma costituiva l’ennesima riproposizione di tentativi analoghi, operati più volte e subito ritirati, durante i governi Berlusconi.

Cambiato il governo, Renzi ripristina invece il provvedimento inserendo anzi ulteriori allargamenti e facilitazioni e ne forza il riutilizzo per diverse opere (tra cui il già citato tunnel Tav di Firenze).

Le norme Madia contro il paesaggio

Il quadro è completato dalle ulteriori semplificazioni dovute alla normativa Madia, con colpi micidiali verso il paesaggio e i beni culturali (le assai contestate facoltà di aggirare i vincoli di tutela e subordinare le sovrintendenze ai prefetti), ma soprattutto con quella di far “saltare” l’intero iter previsto dal codice, per quelle opere annualmente definite strategiche per decreto dal Presidente del Consiglio.

Che in tal caso convoca una conferenza dei servizi e procede al di fuori di qualsivoglia pianificazione e valutazione. «Una clava – sostiene Anna Donati – in mano al premier», contro urbanistica, ambiente e paesaggio.

Appare chiaro che va, per un minimo di decoro e logica programmatica-normativa, cancellato con la Legge Obiettivo anche il suo «corpo resuscitato», lo «Sblocca Italia» e le semplificazioni della Madia.

Altrimenti il Codice, che tra l’altro necessita di molti provvedimenti attuativi, assume una funzione giusto opposta a quella per cui è stato promulgato.

». Il Sole 24 ore, 6 giugno 2016 (c.m.c.)


La nuova disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs 50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i costruttori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.

Il vecchio sistema

Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a 5.225.000 euro per gli appalti di lavori).

In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con valore superiore alla soglia seguiva una procedura a evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara – aperta o ristretta – previsto dal vecchio Codice. Mentre l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito rivolto ad almeno cinque soggetti idonei(articolo 122, comma 8, Dlgs 163/2006).

In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001 (introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria - sempreché funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica - potevano invece essere realizzate a cura del titolare del permesso di costruire (ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata prevista all’articolo 122, comma 8.

Il nuovo sistema

Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal nuovo Codice.

Così come, per le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista dal comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara (articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).

Le opere non a scomputo

Altra novità rilevante, ma all’insegna della semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai costruttori.

A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare le procedure a evidenza pubblica viene normalmente riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione. E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo (ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).

In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a realizzarle.

L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando un’amministrazione stipula una convenzione con cui un soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune, un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.

In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione svolga una funzione di controllo preventivo: prima della stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di inadempimento.

«Polizze tossiche . Alcuni costruttori hanno presentato fideiussioni prive di valore per il pagamento degli oneri. Il fenomeno è importante 1.200 negli ultimi 5 anni, di cui oltre 500 nel 2015». Altraeconomia, 31 maggio 2016,

In via del Gargalone, a Pisa, c’era un centro di raccolta per i rifiuti ingombranti. Serviva ai cittadini del quartiere di Porta a Mare. Costato circa 300mila euro, era stato inaugurato dal Comune nel 2013.

Oggi non c’è più, ed è diventato un “caso”: la richiesta di “smontarlo”, infatti, era arrivata da Ikea, che aveva acquistato l’area su cui costruire il proprio grande magazzino, inaugurato a marzo 2014, da una società privata di nome Sviluppo Navicelli. La stessa che avrebbe dovuto occuparsi della sua ricostruzione, ma non lo ha fatto. Così a fine novembre 2015 il consiglio comunale è stato costretto ad approvare una variazione di bilancio, per autorizzare una spesa di 240mila euro e farsene carico.

A maggio dello scorso anno, infatti, la Sviluppo Navicelli è fallita, e il Comune s’è accorto che le “garanzie” prestate non valevano niente. Tecnicamente questo strumento si chiama fideiussione, ed è una sorta di assicurazione sul pagamento degli oneri legati a un intervento urbanistico o sulla realizzazione di eventuali opere pubbliche in carico al privato.

Qualora il privato non faccia quanto stabilito, il Comune può rivalersi sul soggetto che ha prestato la garanzia, cioè “escutere” la fideiussione. Quelle delle Sviluppo Navicelli, due, per un valore complessivo di 4,7 milioni di euro, erano state rilasciate da Union Credit Finanziaria spa, un soggetto escluso a fine 2008 dall’elenco degli intermediari abilitati, che è disponibile sul sito della Banca d’Italia. Oggi questa società non esiste più. Le due fideiussioni di Sviluppo Navicelli erano state depositate in Comune in una data successiva, nel febbraio 2009.

Solo a novembre 2015 l’ente ha avviato un censimento delle “fideiussioni tossiche”, che sarebbero almeno una trentina, per un valore complessivo di 15.854.675 euro. Come dimostra il caso del centro rifiuti di via del Gargalone, il bilancio comunale può subire il colpo delle fideiussioni prive di valore. E per capire quanto potrebbero pesare 15,8 milioni di euro di investimenti non realizzati sul bilancio di una città che ha meno di 90mila abitanti, basti pensare che il bilancio preventivo 2016 del Comune evidenzia entrate -da tributi, trasferimenti, alienazioni di beni- per circa 180 milioni di euro.

Secondo il gruppo consiliare “Una città in comune-Rifondazione Comunista”, guidato dal consigliere Francesco Auletta, l’analisi avviata dal Comune è tardiva: “Il Comune si era accorto dell’esistenza di un problema già a gennaio 2015, quando aveva indirizzato ad Union Credit Finanziaria spa delle comunicazioni, che però tornavano indietro: all’indirizzo indicato, a Torino, in via Susa, quel soggetto era irrintracciabile.

Non si era mosso, però”. A settembre 2015 i due esponenti la lista d’opposizione chiede di poter accedere a tutti gli atti relativi alle fideiussioni presentate da Sviluppo Navicelli spa: il Comune si era “insinuato” nella procedura fallimentare dell’azienda, chiedendo il riconoscimento di un credito di circa 3 milioni di euro. Le risposta arrivano il 28 ottobre 2015: il nome di Union Credit Finanziaria spa è pubblico. È solo in quel momento che il Comune si muove, inviando una nota al Servizio supervisione intermediari finanziari della Banca d’Italia: la lettera è datata 29 ottobre 2015.

La vicenda Sviluppo Navicelli spa -una società che avrebbe dovuto sviluppare una nuova area dedicata alla cantieristica, lungo il Canale dei Navicelli che collega per 17 chilometri la darsena di Pisa a Livorno- non è isolata. A ottobre 2015 la città della Torre pendente è scossa da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sull’imprenditore edile Andrea Bulgarella, che a Pisa sta costruendo -tra le altre cose- il Parco delle torri a Cisanello e la Piazza del terzo millennio a Ospedaletto.

La sua società si chiama Edilcentro, e risulta garantita da una decina di fideiussioni per un importo di circa 5 milioni di euro. La più importante vale 2,9 milioni, e l’ha emessa Medusa Leasing, cancellata nel 2007 dagli elenchi di Banca d’Italia (oggi è in fallimento, e risulta controllata da una società fiduciaria, che è un modo per “schermare” il nome dei veri proprietari).

Un altro paio sono della Union Credit Finanziaria (UCF), e tre dalla United Consulting Finance, “cancellata” nel 2011, stessa sede torinese della prima. Il Comune di Pisa non si muove nemmeno quando il nome di quest’ultima società finisce sui giornali, nel giugno del 2014: l’inchiesta della Guardia di finanza di Torino riguarda Antonio Castelli, assicuratore cui le Fiamme gialle riconducono la UCF. La Repubblica Torino titola: “False fideiussioni, la truffa da mezzo miliardo del Madoff torinese: tra le vittime 200 Comuni”.

L’ultimo tessera del mosaico a gennaio 2016, quando la Boccadarno Porto di Pisa Spa -società che ha costruito il nuovo porto turistico di Marina di Pisa- delibera il concordato preventivo, una misura della legge fallimentare cui possono accedere le aziende in stato di crisi o di insolvenza.

Solito accesso agli atti e nuova conferma: due le fideiussioni, ed entrambe sono del Consorzio Garanzia Fidi Confidi Centrale, fallito nel corso del 2015. “A quel punto ci rendiamo conto che è un fatto sistemico -sottolinea Auletta-, e così avanziamo formalmente richiesta di istituire una commissione d’indagine”. Il consigliere della lista “Una città in comune” spiega che questo è un normale strumento che il consiglio comunale può darsi: “L’accesso agli atti è facilitato, e serve ad individuare eventuali responsabilità, che sono di carattere politico. Ha 30 giorni di tempo per completare il lavoro, con una relazione poi consegnata in consiglio comunale”.

Il 28 gennaio 2016 l’istituzione della Commissione viene bocciata in consiglio. Il giorno prima il sindaco, Marco Filippeschi del Partito democratico, aveva protocollato una nuova lettera alla Banca d’Italia, nella quale chiede un rafforzamento del sistema d’informazioni e di vigilanza preventiva. Che però già esiste: un elenco di Bankitalia evidenzia come siano 62 gli intermediari finanziari “cancellati” complessivamente tra il 2011 e il 2015 in seguito ad atti del ministero dell’Economia e delle finanze.

“Sulla base del numero degli esposti che sono pervenuti, il fenomeno è importante” spiega Banca d’Italia ad Ae. Per questo, “dal 12 maggio 2016, gli intermediari finanziari che concedono finanziamenti al pubblico saranno sottoposti al regime di vigilanza prudenziale equivalente a quella bancaria. Gli intermediari che offrono garanzie al pubblico dovranno disporre di un patrimonio minimo più elevato e di requisiti organizzativi più stringenti di quelli previsti per gli altri intermediari finanziari”.

A fine novembre 2015 Laura Tanini, che lavora per la Direzione supporto giuridico gare e contratti del Comune di Pisa, ha evidenziato come (almeno) una delle polizze -nello specifico quella di Union Credit numero 595119, a favore di Sviluppo Navicelli spa- “non avrebbe dovuto essere accettata da parte del Comune”. Ed è a questo livello che, secondo Auletta, “sono mancati i controlli”. “Ad alcuni imprenditori sono stati stesi tappeti rossi -sottolinea il consigliere d’opposizione- in cambio di poche opere di urbanizzazione, nemmeno realizzate”.

A Sviluppo Navicelli spa, Boccadarno spa ed Edilcentro srl fanno capo -in termini di valore- il 67% delle false fideiussioni. Tra le persone coinvolte negli interventi della Sviluppo Navicelli e di Boccadarno ci sono Stefano Bottai e l’avvocato Paolo Carrozza, entrambi in passato vice-sindaco della città. Il secondo è fratello dell’ex ministro Maria Chiara, presente nel 2013 all’inaugurazione del porto turistico di Marina di Pisa. La “Pisa dei miracoli” (il titolo di un libro del 2008 dall’allora sindaco Paolo Fontanelli, oggi Questore della Camera) non c’è più. E a Ignazio Visco di Bankitalia il sindaco Filippeschi scrive che la città vive “un caso di seria sofferenza”.

A Roma, durante il mandato del sindaco Marino, sono state gettate le basi di un programma ambizioso e concreto. Vi spieghiamo di che si tratta e perché, per il bene della città, occorre proseguire con la stessa determinazione.

Resilienza è una bella parola

Resilienza è l’ennesimo termine dal significato indeterminato, ripreso dal lessico internazionale, che riscuote grande successo in campo urbanistico. Il fastidio legato all’abuso modaiolo non deve alimentare un pre-giudizio negativo. La parola resilienza descrive una mirabolante capacità del mondo naturale e della psicologia umana: rispondere alle pressioni continue (stress cronici) e alle crisi improvvise (shock acuti) con un misto di adattamento e apprendimento. Come non provare interesse verso i meccanismi che consentono agli esseri viventi di rialzarsi più forti di prima?
Riferito alla città, l’attributo resiliente esprime la capacità di rispondere all’esasperazione dei rischi ambientali e alle conseguenze di fenomeni naturali sempre più estremi. Rendere la città più resilienti è un compito urgente e necessario, se vogliamo offrire qualche opportunità alle nuove generazioni, verso le quali – in tutta onestà – non abbiamo finora dimostrato grande empatia.

La resilienza delle città è legata alla capacità di prepararsi al futuro, governando le trasformazioni e non subendole passivamente. Seppure indispensabili, piani e regolamenti non bastano, come troppe volte abbiamo constatato. Servono investimenti mirati, di risorse economiche e di saperi, per riorganizzare la macchina amministrativa, per favorire la comunicazione tra cittadini e istituzioni, per mobilitare energie e intelligenze collettive.

Per una volta, Roma potrebbe essere di esempio per le altre città italiane. Alla fine del 2013, una proposta presentata dall’Assessorato alla Trasformazione Urbana è stata selezionata fra le prime 33 partecipanti a un programma internazionale interamente finanziato dalla Rockefeller Foundation, grazie al quale Roma può essere la prima grande città italiana a dotarsi di una strategia per la resilienza.

Comprendere i problemi per trattarli diversamente

Quale città al mondo può dirsi più resiliente di Roma, protagonista come nessun’altra di grandi ascese e cadute rovinose? Il rapporto di valutazione preliminare spiega quanto sia consolatorio e ingannevole questo luogo comune.

Oltre 400 soggetti attivi nella città (imprese, associazioni, istituzioni) sono stati consultati per ricostruire un quadro attendibile della situazione attuale. In estrema sintesi, possiamo dire che, col passare degli anni, Roma è diventata sempre più estesa, diseguale e vulnerabile. Di conseguenza, i suoi “asset critici” (le reti infrastrutturali, i servizi e lo straordinario patrimonio culturale) faticano a reggere nelle condizioni ordinarie e sono sempre più esposti agli eventi straordinari. Non per caso, i disservizi sono particolarmente frequenti e i loro effetti sono amplificati dalle fragilità del sistema, ripercuotendosi con particolare severità sulle fasce sociali più deboli. Rischi ambientali sistemici e disagi sociali cronicizzati fanno sì che la proverbiale capacità di adattamento dei cittadini romani, sostenuta dal loro cinico disincanto, non basti più per fare di Roma una città resiliente.

Fin qui, si tratta di cose note che il rapporto, meritoriamente, ricapitola con chiarezza e rigore. Il cuore del documento, però, è costituito dalle indicazioni sui possibili rimedi.

Mentre in natura la complessità costituisce un fattore di ricchezza e di forza, a Roma si traduce in complicazione e in de-responsabilizzazione: l’intrico di competenze è tale che ciascuno si sente legittimato a dichiarare la propria impotenza di fronte ai problemi. E allora è proprio da qui che occorre partire, dal modo in cui si deve governare un sistema complesso, per metterlo in grado di reagire alle turbolenze prodotte in un contesto, ambientale ed economico-sociale, in continuo mutamento. Il rapporto fornisce una vera e propria “rimappatura” dei problemi, evidenzia i numerosi punti di forza sui quali fare leva e individua cinque aree prioritarie di intervento: territori e connessioni (per migliorare il benessere quotidiano), persone e capacità (per ingaggiare gli abitanti), governance, partecipazione e cultura civica (per sostenere le iniziative da intraprendere), risorse e metabolismi (per utilizzare al meglio ciò che esiste nella città), sistemi, patrimoni e reti (per progettarli e gestirli tenendo conto delle fasi di crisi). Per ogni area sono indicate sette domande alle quali gli stakeholder, nella seconda fase del programma, dovrebbero rispondere per costruire la vera e propria strategia, ridefinire l’agenda e il contenuto delle politiche pubbliche e riorganizzare di conseguenza la macchina amministrativa.

Dalle retoriche ai fatti

Come fare per conciliare ambizione e concretezza? Come costruire un programma così impegnativo e di lungo respiro e, allo stesso tempo, fornire risposte tangibili in tempi ragionevoli? Alessandro Coppola, responsabile del progetto fino all’interruzione forzata dell’amministrazione guidata dal sindaco Ignazio Marino, ci fornisce alcune indicazioni sui progetti e i partenariati a cui si stava lavorando.

Aumentare la consapevolezza sugli stress cronici e gli shock improvvisi. Per generare un’azione pubblica di qualità e durevole nel tempo, occorre avere un buon sistema di conoscenze, continuamente alimentato, e di libero accesso. Si possono e si devono costruire partenariati virtuosi con i molti istituti che, a Roma come nel resto d’Italia, si occupano di ricerca ambientale e prevenzione dei rischi.

Prepararsi al futuro significa non rinunciare a guardare lontano… Tutte le più importanti città del mondo si occupano di ambiente attraverso piani e programmi di lungo termine. Anche in Italia, si deve e si può fare lo stesso. In particolare, le città metropolitane devono dotarsi di un piano strategico: quale occasione migliore di questa?

… e adoperarsi subito per aprire le nuove strade. I cambiamenti radicali si conquistano attraverso progetti-pilota che producono effetti positivi nel breve termine e indicano nuovi percorsi di più lungo respiro. I fondi della programmazione europea 2014-2021 possono essere utilmente orientati a questo scopo, rinunciando a progetti di concezione otto-novecentesca, costosi da realizzare e mantenere e di elevato impatto territoriale, in favore di infrastrutture leggere (verdi, blu e immateriali), più efficienti ed efficaci.

Uscire dai recinti sclerotizzati delle politiche di settore. Per essere efficaci, le politiche pubbliche devono essere sostenute da un’organizzazione adeguata della struttura amministrativa. La portata delle questioni da affrontare e l’esigenza di coordinamento e integrazione richiedono un coinvolgimento al massimo grado delle istituzioni e, come primo passo, l’istituzione di una cabina di regia più alto livello dell’amministrazione cittadina.

Ingaggiare la cittadinanza. Scambiare informazioni utili per assumere le decisioni, ingaggiare gli stakeholders e i change-makers nella definizione di progetti condivisi che favoriscano nuove economie di impresa e producano valore sociale e ambientale, coinvolgere i cittadini lungo il percorso di ideazione e realizzazione delle iniziative. Come dimostrano gli straordinari progressi compiuti attorno al ciclo dei rifiuti, non si tratta di un’utopia, ma di comportamenti virtuosi ampiamente sperimentati.

E ora?
La pubblicazione del rapporto di valutazione preliminare chiude la prima fase del programma. Ora viene la parte più difficile. Senza tanti giri di parole, con il commissariamento il programma ha perso visibilità e ci sono forti possibilità che il lavoro venga normalizzato e ricondotto nell’alveo degli ininfluenti prodotti da convegno. Sarebbe un’occasione persa, per i romani soprattutto. Alla parte più avveduta della città, ai movimenti e alle associazioni che si battono per un cambiamento netto e duraturo, chiediamo di leggere attentamente il rapporto e di formulare richieste precise ai futuri amministratori. Roma, per essere resiliente devi impegnarti per davvero: conviene soprattutto a te.

Nota. Nel sito del comune, sono disponibili i documenti e tutte le informazioni sulle iniziative promosse nella prima fase di Roma Resiliente.

Una rassegna delle questioni affrontate e delle molte iniziative avviate in relazione a una delle principali sfide di resilienza emerse - quella del cambiamento climatico - è contenuta in questo articolo di Alessandro Coppola, disponibile on-line su Gli stati generali.

Si parla di Roma Resiliente nell’iniziativa Conversazioni su Roma, organizzata dall’Università di Roma Tre

Al convegno organizzato in onore di Giorgio Nebbia il 10 maggio a Roma, nella Biblioteca del Senato dalla Fondazione Luigi Micheletti, partecipa un nutrito gruppo di ambientalisti e di amici di Nebbia, riuniti per ringraziarlo del suo contributo alla comprensione della questione ambientale e al sostegno delle lotte dei movimenti contro lo sfruttamento della natura e del lavoro. Giorgio Nebbia è infatti il più importante ecologo italiano, il padre nobile del movimento ambientalista italiano e internazionale, assertore convinto dell’ecologia politica intesa come progetto di trasformazione della società.

E’ stato professore di Merceologia presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’università di Bari (dal 1959 al 1995), di Ecologia nella stessa facoltà (1972 -1994). Ha ricevuto due Lauree honoris causa, in Discipline economiche e sociali dall’università del Molise (1997) e in Economia e Commercio dall’università di Bari (1998).

Deputato prima e poi senatore per la Sinistra Indipendente (1983–1992), Nebbia è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di innumerevoli saggi e articoli divulgativi sulla trasformazione delle risorse naturali in merci, sull’acqua e sulla dissalazione dell’acqua, sull’energia solare e su quella nucleare, sulla cementificazione dei suoli, sull’inquinamento in agricoltura e nelle fabbriche, sul metabolismo della città, sullo smaltimento dei rifiuti, e su molti altri temi. Scrive oggi su Altronovecento, rivista della Fondazione Micheletti; su Cns-Ecologia Politica, sulla Gazzetta del Mezzogiorno e su molte altre testate e siti.

Giorgio Nebbia è uno scienziato che ha cuore e intelligenza. Sa parlare a persone di ogni età ed estrazione sociale, descrivendo fatti e persone con un linguaggio apparentemente semplice, che coniuga sempre il rigore scientifico e il buonsenso con la leggerezza della prosa. Racconta storie di inquinamenti, di mala salute, di scoperte scientifiche, ma anche di merci oscene come le armi e il nucleare, o della vita e del pensiero dei grandi protagonisti dell’ecologia, della politica, della scienza e della storia come Georgescu Roegen, Lewis Mumford e Alfred Marshall. Va al cuore dei problemi, alla loro essenza, e riesce a farlo perché ha una visione complessiva degli aspetti teorici e pratici dei temi che affronta. Contestualizza il racconto rispetto alle conoscenze che il lettore già possiede, che arricchisce con informazioni specifiche al tema che sta trattando, derivanti dal cinema e dalla letteratura. Soprattutto, racconta ogni aspetto della sostenibilità ambientale alla luce delle grandi questioni ecologiche, prima tra tutte quella che regola il “funzionamento” della vita, e cioè la circolazione di materia e di energia dai corpi naturali (aria, acqua e suolo) agli esseri viventi (vegetali e animali).

Con la formula M-N-M (merci-natura-merci), Giorgio Nebbia sintetizza la causa centrale della questione ecologica, consistente nel fatto che la produzione di merci non avviene a mezzo di denaro né di altre merci, ma a mezzo di natura e di risorse naturali, che sono abbondanti ma non illimitate.

eddyburg al nostro opinionista: Giorgio, avanti cosí!


“DI FUMETTI, MACCHINE DA SCRIVERE, ECOLOGIA E ALTRO ANCORA. GIORGIO NEBBIA RACCONTA”:
NOVANT’ANNI IN VIDEO, E IN RETE

Giorgio Nebbia (Bologna 1926), merceologo, docente universitario, divulgatore, parlamentare ma soprattutto precoce e poi autorevole esponente del movimento ambientalista italiano racconta la sua vita in una lunga intervista resa pubblica in occasione del suo novantesimo compleanno.

Nella lunga conversazione con Luigi Piccioni Nebbia narra le sue radici, le sue vicende familiari, la sua formazione, l’avventuroso percorso all’interno dell’università, la genesi e l’evoluzione del suo profilo intellettuale e politico, la nascita dell’ambientalismo in Italia negli anni Sessanta, le principali figure del movimento, l’esperienza giornalistica e quella parlamentare, i libri che lo hanno maggiormente influenzato.

Un lungo viaggio lungo oltre ottanta anni di vita personale e italiana ricostruito con brio, lucidità, ironia e autoironia.

L’intervista, prodotta in collaborazione con la Fondazione Luigi Micheletti, è consultabile e scaricabile da YouTube (cliccare i link) tanto nella VERSIONE INTEGRALE di 2 ore e 45 minuti quanto in quindici segmenti più brevi, ciascuno dedicato a un tema specifico:

1. RADICI
(Da Livorno a Bologna – Fumetti, macchine da scrivere, invenzioni)

2. A BOTTEGA
(Dall’officina al laboratorio – Il mestiere s’impara a bottega)

3. NEL MONDO DELL’UNIVERSITA’
(Le liturgie accademiche – Pagato dallo Stato)

4. BIBLIOGRAFIE
(Conoscere il mondo attraverso le bibliografie – Ricostruire il cammino intellettuale di un’idea – Arrivano gli americani)

5. LA MERCEOLOGIA
(Una scienza che racconta le cose – Le merci e la storia)

6. PROFESSORE
(In cattedra – Via il giuramento)

7. GALATEI, LICENZE, GERARCHIE
(Invenzioni e divulgazione: pratiche disdicevoli – Gerarchie accademiche: io e Ciusa)

8. VERSO L’ECOLOGIA
(Dall’acqua all’ecologia – 1970, l’anno della svolta)

9. I TEMPI NUOVI E I LORO SEGNI
(Essere cristiani col Concilio – Arrivano le tematiche ecologiche – Nasce l’ambientalismo organizzato)

10. IL BUEN RETIRO
(Una casa a Poveromo)

11. RACCONTI, DISCUSSIONI, MOBILITAZIONI, RACCONTI
(Impegno e visibilità crescenti – Dai preti ai comunisti, un unico discorso)

12. UN AMBIENTALISMO ITALIANO
(L’approccio tecnico-scientifico – Le figure marcanti)

13. AL PARLAMENTO
(Deputato e poi senatore – Il drappello ambientalista – Trasferiti a Roma)

14. CARTA STAMPATA
(Il giornalismo: divulgazione scientifica e intervento politico – Il gran rifiuto al Corriere della Sera)

15. DEI LIBRI VERAMENTE IMPORTANTI
(Lewis Mumford, Anton Zischka, Umberto D’Ancona – E poi: Barry Commoner, Nicholas Georgescu-Roegen)

Nell’ottobre del 2014 la Fondazione Luigi Micheletti e la rivista “altronovecento” hanno messo a disposizione un’ampia antologia di scritti storici di Giorgio Nebbia curata da Luigi Piccioni nei formati .pdf ed .epub comprendente un’intervista di Pier Paolo Poggio a Nebbia e diversi articoli di testimonianza su personaggi e vicende della vita scientifica, giornalistica e politica italiana del Novecento. Il volume è liberamente scaricabile qui.

Testo tratto da: https://nebbiaracconta.wordpress.com/

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