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L'approvazione del nuovo P. R. ha dato luogo, fra i tanti fenomeni urbanistici nuovi, a quello per cui molta edilizia, o per insofferenza di vincoli di P. R. previsti dal Comune di Milano od anche per limitata estensione delle zone edificatorie (sia residenziali che industriali), ha preferito l’ubicazione extra comunale nei paesi circonvicini, ove, non esistendo alcun vincolo di Piano Regolatore, si possono soddisfare più liberamente le esigenze edilizie di carattere particolaristico.

Questo indirizzo della iniziativa edilizia privata comprometteva però sempre più la zona dell’alto milanese verso cui si esplica la direttrice di espansione, zona purtroppo già gravemente turbata dalle vicissitudini urbanistiche degli ultimi cinquant’anni. Équindi stato necessario riprendere le mosse per conseguire l’autorizzazione all’apprestamento del progetto di piano intercomunale per il quale fin dal 1951 il Comune di Milano aveva chiesto al Ministro dei LL. PP. l’inerente decreto di autorizzazione.

Le ragioni di carattere urbanistico che determinarono la richiesta autorizzazione sono, oltre quelle sopra citate, molteplici e si possono così riassumere:

opportunità o meglio necessità di una migliore organizzazione della vita e delle funzioni della città di Milano, funzioni che non si possono più limitare al comprensorio comunale, ma vanno proiettate in un intorno di località satelliti che devono essere considerate parte integrante della Città per le reciproche notevolissime influenze.

Identiche. furono le condizioni che orientarono i Piani nelle grandi città straniere come Berlino, Londra, Parigi; infatti i Piani della regione londinese, parigina, berlinese vennero studiati ed adottati con lo scopo di regolare urbanisticamente la vita ed i rapporti economico-sociali esistenti tra una grande città e la sua immediata zona di influenza. Tale zona di influenza richiede piani che investono problemi affini e concordanti per condizioni storiche, geografiche, per ragioni di vita comune alle varie località e a Milano, usi e costumi ecc.

Se in Italia si dovessero scegliere le località che per le ragioni sopra espresse hanno la necessità di un piano intercomunale inteso come sistemazione urbanistica omogenea ed organica di un grande centro e dei limitrofi abitati, anche con uno sguardo del tutto superficiale, l’occhio si poserebbe in primo luogo su Milano e il suo intorno che maggiormente presenta i requisiti e le necessità di un provvedimento del genere per i sovvertimenti di carattere urbanistico che da cinquant’anni a questa parte vanno modificando i valori originali in un continuo superamento di nuove installazioni edilizie sia industriali che residenziali.

Quanto sopra espresso è apparso evidente durante la preparazione del Nuovo Piano Regolatore che se, come limiti attuativi del piano, si è dovuto arrestare ai casuali confini territoriali del Comune, come studio dovette estendersi ad un campo e ad una visuale molto più ampia, prendendo in considerazione schemi urbanistici della zona di influenza più immediata della Città.

Questo guardare al di là dei confini comunali non è stato certo suggerito da un concetto egemonico o espansionistico o dal desiderio di voler dominare urbanisticamente sulle minori località attornianti la metropoli, ma dalla semplice constatazione che gli interessi urbanistici di Milano e dei Comuni vicini sono così connessi che non possono essere distinti.

Poiché la legge non consentiva però di predisporre un P.R. che investisse anche altre località, se non attraverso il Piano Intercomunale, si è dovuto limitare il P.R. vero e proprio al solo territorio Comunale, il che ha determinato e determina tuttora una vera frattura urbanistica sopratutto dove la continuità edilizia tra Milano e i Comuni vicini è ormai in atto.

Sin da allora si intuiva che dette circostanze avrebbero provocato, come effettivamente provocano ora che il Nuovo Piano Regolatore è operativo con tutti i suoi vincoli, i seguenti inconvenienti.

Il Nuovo Piano Regolatore ha organizzato una ordinata zonizzazione per tutto il territorio comunale; per eludere detti vincoli l’edificazione si esplica appena fuori del confine del territorio del Comune di Milano ove, poiché tutto è libero da piani regolatori, dilaga ormai (e peggiorerà sempre di più) il “caos” urbanistico.

É da notare che si potrebbe a questo riguardo documentare la tendenza a costruire industrie più o meno nocive ed abitazioni, appena al di là dei confini Comunali, che per la loro modesta distanza dal Centro della Città devono essere considerati ancora Milano, ma che sfuggono per le ragioni sopra indicate alla regolamentazione urbanistica della metropoli.

D’altra parte l’evoluzione cittadina, costretta entro gli angusti limiti del territorio Comunale, tende a sovvertire i vincoli di Piano Regolatore “rosicchiando” continuamente ai margini dei vincoli di edificabilità previsti dal Piano Regolatore ed ingrandendo sempre di più l’aggregato urbano della metropoli di modo che essa tenderebbe a diventare una “Megalopoli”, come ben definisce il Mumford questi complessi.

I motivi della continua erosione dei limiti della zona edificatoria vanno ricercati nel fatto che la metropoli, per l’organizzazione dei suoi nuclei e dei suoi servizi, non può provvedere in un campo più vasto che possa interessare le località viciniori, ma è costretta a ricercare le sue soluzioni sempre ed ineluttabilmente entro i confini del territorio comunale.

Occorre quindi, mediante un Piano Intercomunale, creare più ampi orizzonti alla fabbricazione evitando la tendenza a ridurre continuamente le aree destinate a verde agricolo il che a lungo andare riporterebbe in un futuro non molto lontano all’errore fondamentale del P. R. ‘34 che prevedeva la fabbricazione indifferenziata a macchia d’olio su tutto il territorio Comunale.

Il Piano Intercomunale avrà il compito di indirizzare l’edilizia industriale e residenziale in quei luoghi che urbanisticamente meglio vi si prestano, con una valutazione omogenea e larga di tutti gli interessi che vi concorrono, tenendo presente appunto la necessità di riservare nei vari quartieri vaste zone di verde che ancora oggi è possibile ottenere al di fuori dei confini Comunali. In tal modo si procureranno a tutte le zone buone condizioni di vita, di igiene e di salubrità: ciò che può essere ancora fatto se si interviene tempestivamente.

Tutte le località interessate dal Piano Intercomunale godranno dei benefici che deriveranno dalla nuova organizzazione urbanistica, tenuto conto che molte delle località da comprendere nel Piano Intercomunale avranno la possibilità di migliorare zone che, per effetto di un’edilizia irrazionale, di installazioni industriali indiscriminate, sono ora assai compromesse.

Ne è prova il fatto che nell’alto milanese l’invasione industriale ha addirittura aggredito certe zone sovvertendone tutti i valori originali, anche quelli di una buona urbanistica; basta per convincersene procedere a qualche sopraluogo negli immediati dintorni della Città soprattutto nel settore Nord e controllare, nelle tavole che si allegano, l’evoluzione del numero degli abitanti di alcune località dal 1881 ad oggi.

Strettamente legato al problema della zonizzazione è il ! problema dei trasporti e della circolazione: problemi che .si risolvono soltanto con la realizzazione di un’organica rete stradale. Basta pensare a tutte le strade che immettono in Milano e che collegano le località viciniori a Milano, ed alla necessità di separare il grande traffico dalle vie di traffico locale portante tutto quel cospicuo e promiscuo movimento deter~~ minato dai reciproci interessi di lavoro e di vita delle varie località prossime a Milano.

In base a queste considerazioni veniva segnalato nella richiesta originaria del 23 febbraio 1951 (Atti del Comune N. 187738 P. R. 4060) un comprensorio di settantanove comuni, scelti tra quelli che avevano particolari ragioni economico-sociali di legame con la metropoli.

Il Ministero dei Lavori Pubblici alla proposta originaria sopradetta rispondeva con la lettera che qui di seguito si riporta:



Questo Ministero ha sottoposto all’esame del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici la proposta del Comune di Milano di redigere un Piano Intercomunale nel quale sia compreso, oltre il proprio territorio, quello di altri 79 Comuni limitrofi.

Il predetto Consesso, con voto n. 2681 emesso nell’adunanza del 2 agosto 1951 e di cui si unisce copia conforme, ha espresso l’avviso che possa autorizzarsi il Comune di Milano a redigere detto Piano Intercomunale, subordinatamente alla presentazione di un concreto programma di studio - da sottoporsi all’ esame di quel Consesso - nel quale siano precisati gli elementi necessari per definire i limiti del comprensorio, le modalità di partecipazione agli studi dei Comuni interessati e le previsioni di spesa con l’indicazione della relativa quota a carico di ciascuno dei Comuni medesimi.

Questo Ministero fa proprio il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed autorizza pertanto, ai sensi dell’art. 2 della Legge Urbanistica 17 agosto 1942, il Comune di Milano a redigere il Piano Intercomunale di cui trattasi riservandosi - questo Ministero medesimo - di determinare l’estensione del piano e la ripartizione della spesa fra i Comuni interessati nonché gli altri elementi che esso riterrà opportuni allorquando il Comune di Milano avrà presentato un concreto programma di studio, giusta quanto suggerito dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici col voto sopraindicato.

Il Ministro (Aldisio)

Per poter però soddisfare a quanto richiesto nella prima parte dell’ultimo capoverso della lettera del Ministero dei Lavori Pubblici, riportata, occorreva prima che il Comune di Milano formulasse un abbozzo di Piano Intercomunale atto a dimostrare l’opportunità dell’inclusione in base alle esigenze urbanistiche dei rispettivi Comuni interessati, in modo che il Ministero potesse decidere l’inclusione o meno dei vari Comuni in base ai presupposti urbanistici di tale abbozzo.

Per la elaborazione di tale abbozzo il Comune di Milano:

a) organizzò un Ufficio embrionale per l’espletamento delle prime indagini;

b) cercò di agganciare i Comuni immediatamente limitrofi al comprensorio Comunale per indurli a collaborare.

All’uopo promosse una riunione dei vari Sindaci con i quali si discussero i vantaggi di un Piano Intercomunale ; successivamente inviò ad ogni Comune interpellato lo stralcio del Piano Regolatore di Milano comprendente il territorio confinante con il Comune finitimo interessato, perchè ognuno formulasse le proprie osservazioni e proposte nei riguardi del coordinamento delle rispettive attività edilizie in corrispondenza ai rispettivi confini per poter di comune accordo risolvere i problemi più immediati.

Mentre nei riguardi del punto a) il Comune ha potuto predisporre alcune statistiche preliminari, nei riguardi del punto b), e cioè della collaborazione con i Comuni finitimi, non si ebbero risultati apprezzabili e l’abbozzo di Piano Intercomunale da inviare al Ministero non poté essere elaborato.

Frattanto con l’approvazione del Piano Regolatore Generale si accentuò il fenomeno di costruzioni extra Comune di cui si è parlato sopra. D’altro canto si iniziava allora la stesura, da parte del. Centro Studi presso il Provveditorato alle 00. PP. della Lombardia, del Piano Territoriale Regionale cosicché l’iniziativa Comunale di un Ufficio per la raccolta di dati risultava in un certo senso superata perchè dette indagini venivano parallelamente fatte dal Centro Studi predetto.

Il Comune decise allora di rimandare la risoluzione del problema del Piano Intercomunale a quando fosse approntato un primo abbozzo di Piano territoriale sia pure di grande massima.

Le caratteristiche del Piano territoriale sono diverse da quelle del Piano Intercomunale, quest’ultimo è un insieme di Piani Generali comunali coordinati fra di loro. Il Piano territoriale non può quindi soddisfare gli scopi del Piano Intercomunale, né può quindi sostituirlo; può però dare le direttive per l’apprestamento del Piano intercomunale dimodochè, analizzando l’abbozzo di Piano Regionale della Regione Lombarda in quegli elementi che interessano la suddivisione del territorio nei vari Piani Intercomunali, si è rilevato che si può ridurre il numero dei Comuni da includere al Piano Intercomunale di Milano, limitandolo ai soli Comuni contermini al Comune di Milano o che abbiano una edificazione pressoché senza soluzione di continuità con quella del Comune di Milano.

A questo punto di elaborazione del Piano Regionale viene quindi utile ed opportuno anche riprendere il prospettato Piano Intercomunale per il quale si possono fare le seguenti nuove proposte:

Sentito anche il Centro Studi per il Piano territoriale della Regione Lombarda, il quale conferma la necessità di Piani Intercomunali nella zona prospettata con la proposta di P.I. del ‘51, si ritiene opportuno dividere tale comprensorio in due grandi Piani Intercomunali, quello della zona di Busto e quello della zona prettamente Milanese, dimodochè il Piano pertinente a quest’ultima zona sia ridotto, come si dice più sopra, alle località ed ai Comuni che hanno una diretta e reciproca influenza ed interferenza con Milano.

Secondo questa nuova concezione il Piano Intercomunale comprenderà 41 comuni come si può vedere dall’allegata planimetria.

Si è proposto che la spesa per l’apprestamento del Piano Intercomunale sia ripartita tra il Comune di Milano e i Comuni interessati proporzionalmente al numero degli abitanti.

Sia la raccolta dei dati che la progettazione dovranno essere fatte per ogni Comune da un urbanista designato dal Comune interessato d’intesa con il Comune di Milano.

Le soluzioni dovranno essere studiate d’accordo con il Comune di Milano, con il Centro Studi per il Piano territoriale e con l’ Amministrazione Provinciale di Milano.

La raccolta dei dati dovrà essere rappresentata da un censimento urbanistico sul tipo di quello eseguito per il Piano Regolatore del Comune di Milano, tenuto conto anche dei nuovi criteri adottati per la revisione in corso.

La progettazione dovrà prevedere quanto esposto all’articolo 7 della legge 17 agosto 1942 ai punti 1° 2° 3° 4°, e nella scala 1: 25.000.

Inoltre il Comune di Milano dovrà provvedere alla stesura globale e definitiva del Piano Intercomunale al 25.000.

Gli studi preliminari del Piano Intercomunale si sono sviluppati in tre settori, due dei quali prettamente statistici, e riguardanti l’incremento della popolazione nei singoli Comuni del comprensorio del Piano Intercomunale dal censimento originario del 1881 al censimento del 1951.

Tali studi statistici dimostrano chiaramente l’enorme incremento ed il conseguente sovvertimento urbanistico nel settore a Nord del Comune di Milano che va da Nord-Ovest a Nord-Est, mentre nella parte Sud la situazione è rimasta pressoché stazionaria, subendo solo quell’incremento di ordine naturale che hanno subito tutte le località del Basso Milanese.

Di qui la giustificazione dell’interesse avuto nel determinare i limiti del Piano Intercomunale che prevedono uno sviluppo quasi completamente rivolto verso Nord e precisamente in modo da allacciare tutte le località che hanno subito in questi ultimi anni il fenomeno di sviluppo che viene solitamente segnalato come sviluppo industriale e conseguentemente residenziale dell’Alto Milanese, limitando invece ai Comuni contermini al territorio del Comune di Milano la parte Sud per quegli allacciamenti e provvedimenti immediati occorrenti tra il Comune di Milano e tali località.

Il fenomeno della espansione di Milano verso Nord viene individuato anche entro i limiti del territorio della Città stessa dove la edificazione preme enormemente verso i confini Nord comunicando tale pressione anche sulle località dell’ Alto Milanese.

Altra indagine di carattere statistico è quella riflettente lo sviluppo delle attività economico-industriali con riferimenti, come anno di partenza, al 1881, anno in cui furono censite, non per comune ma per distretto, le attività economiche.

Nel 1881 appunto si vede nei distretti a Nord la prevalenza dell’attività agricola, mentre per gli stessi distretti nel 1936 ed ancor più nel 1951 l’attività agricola è continuamente diminuita per lasciare il posto ad una strabocchevole attività industriale che invadendo tutte le zone di espansione Nord ha creato un disordine urbanistico enorme; e non si deve essere considerati profeti se si afferma che tale disordine tra breve tempo sarà enormemente aumentato se non si arriverà presto attraverso un Piano Regionale ed Intercomunale ad arginare questa espansione indiscriminata.

Si espone qui di seguito il numero degli abitanti dediti ad attività industriale nei quattro circondari di Milano, Monza, Gallarate e Abbiategrasso negli anni 1881 e 1936.


Circondario 1881 1936
Milano 124.000 338.000
Monza 38.500 136.000
Gallarate 28.500 124.000
Abbiategrasso 16.000 40.500

Naturalmente tutto questo sovvertimento dei valori originari per l’aumento della popolazione e della situazione industriale è collegato a innumerevoli problemi di traffico.

La terza indagine che questo Comune ha provveduto a fare è stata una analisi sul posto, fatta mediante sopraluoghi, di come lo sviluppo di popolazione e quello industriale si è effettuato nei vari territori Comunali, per individuare quali fossero anche le direttrici di sviluppo naturale che dipartendosi da Milano si proiettavano verso l’esterno.

Alla domanda: come questa edilizia sia venuta ad insediarsi nelle località a Nord di Milano (fenomeno che potrebbe essere documentato fotograficamente in maniera evidentissima, ma che l’occhio dell’esperto può intuire guardando, la planimetria dell’attività delle popolazioni residenti per Comune), si può rispondere che essa è sorta per la gran parte senza alcuna regola, seguendo quasi sempre il solo concetto di installarsi in zona vicino alla metropoli, per innumerevoli altre ragioni.

Da queste indagini però è fortunatamente risultato che alcune zone inframmezzate non sono state ancora compromesse, e con opportuni provvedimenti di Piano Intercomunale potranno rendersi utili a creare quei polmoni di verde che possono ancora conferire alla sistemazione urbanistica della zona, se tempestivamente regolata, possibilità di una sistemazione sul tipo di quella della grande Londra, che intervalla zone edificate a zone di verde.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

Il congresso degli urbanisti italiani impostò quattro anni or sono a Venezia il problema dei piani regionali. Si trattava di un problema che era allora alla vigilia di diventare realtà concreta e quel congresso ne indicò le soluzioni, accelerando i tempi, operando nella coscienza della classe politica e della pubblica opinione. Dopo l’opera iniziale benemerita del ministro Aldisio con non minore energia il ministro Romita proseguì nell’attuare il dispositivo urbanistico regionale destinato ad una funzione preminente nella nostra pianificazione urbana e rurale. A noi piace sottolineare l’importanza dell’intenso sforzo in atto nelle diverse regioni italiane e l’organicità della prassi ormai in via di essere stabilita in guisa da affondare le sue radici negli organismi vivi delle amministrazioni provinciali e degli altri enti decentrati.

Poi, al congresso di Genova e nel successivo convegno di Firenze, il piano regolatore urbano si è, imposto alla nostra esperienza con i suoi urgenti problemi e con la massa immensa degli interessi diretti e indiretti, culturali e pratici che esso coinvolge. Con la discussione dei prossimi giorni, un terzo grande tema della pianificazione urbanistica sarà proposto alla nostra attenzione. Qui a Torino, ci proponiamo di discutere cosa sono e quale contributo possono recare all’assetto della nostra società i piani intercomunali. Il tema potrebbe sembrare a taluni strettamente tecnico. E invece proprio esso è tale da suscitare, come vedremo, in campo teorico e metodologico, una vasta e impegnativa problematica. Abbiamo ormai chiari i limiti e i problemi della pianificazione urbana e di quella territoriale, sappiamo che non ci potrà essere ordine e armonia nelle città le non vi sarà la grande sintesi del piano regionale. Ma che funzione svolgerà, come si inserirà in questa complessa gerarchia, la nuova pianificazione intercomunale?

La marcia lenta e inesorabile verso una maggior disciplina urbanistica attende d’altro canto un altro passo decisivo: il coordinamento tra programmi economici e piani regionali. All’uopo ci piace ricordare che l’attuazione dello schema Vanoni se potrà attuarsi attraverso il dispositivo dei piani regionali rappresenterà una tappa di inestimabile valore nel progresso dell’organamento dell’azione dello stato. Ora il problema che si pone innanzi a noi è esattamente l’esecuzione del piano regionale. Poiché esso è destinato a prolungarsi come ogni altro piano, nei suoi piani particolareggiati, questi saranno costituiti appunto da quei piani intercomunali di cui il congresso in questi giorni dovrà esaminare i limiti, la validità, il carattere. Perché essi diventino un effettivo strumento di civiltà e un valido ausilio nell’attuazione del piano economico occorre che ciascun elemento esecutivo, il quale è bene attuabile nell’ordine del piano intercomunale, trovi un’organica espressione tecnica amministrativa, fondata sul rispetto della libertà. Il valore dell’impostazione del piano intercomunale consiste appunto in questa garanzia, perché esso custodisce le virtù democratiche proprie di un piano affidato ai comuni i quali meglio dello stato si richiamano a una considerazione palpitante, immediata del concetto di democrazia.

Mi piace ricordare all’uopo un noto passaggio del Tocqueville : “ Sans institutions communales une nation peut se donner un gouvernement libre, mais elle n’a pas l’esprit de la liberté. Des passions passagères, des intérêts d’un moment, le hasard des circostances peuvent lui donner les formes extérieures de l’independence; mais le despotisme refoule dans l’intérieur du corp social reparait tôt ou tard à la surface”.

A tali esigenze di ordine politico e amministrativo, che indicano una giusta soluzione dei problemi, finora soddisfecero nel modo migliore le teorie sociali-cristiane. Infatti il pensiero cattolico sostiene con particolare energia il “principio della sussidiarietà”, la fondamentale precedenza delle collettività più deboli di fronte alle più forti. Soprattutto vogliamo ricordare l’enciclica Quadragesimo anno data nel 1931 dal pontefice Pio XI: “Évero certamente e ben dimostrato dalla storia che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo della filosofia sociale. ..: è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.

Di questa ferma opinione era Luigi Einaudi, quando scriveva, nel 1946: “Perché vi sia governo libero, occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o collegio di comuni, comunità e regioni che siano diano qualcosa, abbiano un potere entro limiti determinati sovrano ed indipendente dal centro”.

Ora, nella maggior parte delle nostre regioni, con l’eccezione di quelle minori che comprendono soltanto una o due provincie, né i confini delle regioni stesse, ne le unità amministrative locali, le provincie in cui sono divise, si basano su fatti economici, storici e culturali omogenei e unitari. Risultato: l’assenza di una vera e feconda vitale iniziativa entro l’area locale, onde una dispersione di interessi e una confusione nello sforzo. Queste circostanze portano alla decadenza, al deterioramento, alla impossibilità di una vera vita sociale la cui necessità è ormai da tutti avvertita. L’uomo non può più operare da solo in tutti i campi. La concreta, nuova definizione delle aree subregionali - un tracciamento scientifico di queste aree e l’instaurazione di una nuova volontà amministrativa e culturale - è uno degli essenziali compiti, preliminari alla creazione di una civiltà cooperativa ed assistenziale. Infatti, ci ricorda un sociologo illuminato, il Mumford, che, come l’uomo non può avere rapporti fecondi col mondo circostante finche non possiede un’intima e ferma personalità, così una comunità non può impegnarsi nei necessari scambi e rapporti con altre comunità finche non ha una vita completa su basi indipendenti e solide.

Questo significa che la ricostituzione culturale nell’ambito della regione è una parte essenziale del compito politico ed amministrativo. I nostri piani più razionali devono rispettare l’urgenza emotiva delle finalità, dei desideri, dei bisogni umani; il meccanismo più perfetto resta immoto finche i suoi organi non vengano azionati da questi mezzi. Appunto perché il regionalismo ha veramente le sue basi in spontanee motivazioni umane, possiamo aspettare con fiducia i suoi estremi progressi. E con senso di grande compiacimento rileviamo come gli studi del Comitato di coordinamento per il piano regionale del Veneto sono ormai rivolti all’enucleazione di nuove unità naturali che non coincidono necessariamente con quell’unità artificiale che è la provincia.

Non si dimentichi che nella grande opera di rinnovamento urbanistico promossa dal governo britannico, si sono ristudiate tutte le circoscrizioni di autogoverno per renderle più omogenee rispetto alla popolazione, contenendole in unità comprese fra i 60 e i 200 mila abitanti, dimensionamento che appare anche per il nostro Paese sufficientemente elastico e capace di dare alla organizzazione del lavoro di pianificazione urbanistica quelle unità e quella coerenza attualmente ardua e faticosa.

Nella Repubblica Federale della Germania Occidentale, tanto la legge fondamentale del 23 maggio 1949 quando la costituzione del 7 ottobre assegnano il diritto all’autonomia ai comuni, ma lo considerano integrabile tanto attraverso consorzi di comuni (Gemeindeverbände) quanto attraverso l’elevazione dei distretti (Kreis) ad una effettiva autonomia amministrativa sorretta da una rappresentanza popolare elettiva. L’articolo 29 della citata legge fondamentale prevede poi una nuova ripartizione del territorio federale ispirandosi precisamente a molti di quei criteri che noi riteniamo indispensabili per il funzionamento di una vera comunità, e che sono rappresentati dai “ sentimenti di attaccamento provinciale, dai legami storici e culturali, dalla convenienza economica e dalla struttura sociale”.

L’attivazione della vita comunale e provinciale è, come suoi dirsi, “nell’aria”, annunciatrice di una feconda e libera rivoluzione. E i comuni si sono fatti paladini di un’altra grande speranza di progresso e di pace : l’unità europea. Ed è proprio il sindaco della città che ci ospita, l’amico Peyron - al quale va il nostro caloroso saluto - che annunciava tre giorni or sono con legittimo orgoglio e compiacimento la scelta di Torino a sede della Comunità europea di credito comunale, sorta già a"Francoforte per iniziativa del Consiglio dei comuni d’Europa.

Noi sogniamo e parliamo di giustizia e assistiamo giorno per giorno, senza poteri, alla corsa indiscriminata verso sempre maggiore ricchezza da parte di chi già possiede, dei proprietari di case e di terreni che vedono senza sforzo, senza lavoro, accrescere le loro ricchezze dalla marcia di una economia in accrescimento in virtù dell’operosa tenacia dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti, la cui ricchezza, il cui reddito cresce assai più lentamente di quello dei detentori e dei mezzi di produzione e del suolo. Così nelle città italiane ove l’economia è visibilmente rigogliosa negli ultimi cinque anni, i proprietari di terreni hanno visto il valore delle loro proprietà crescere del 300, del 500, del 1000 per cento (non sono dati esagerati), mentre i lavoratori delle stesse città hanno avuto degli accrescimenti di reddito più o meno rilevanti, ma che stanno in un ordine infinitamente minore.

Contro questo iniquo stato di cose gli urbanisti italiani hanno sempre lottato disperatamente chiedendo da ogni parte u!la legislazione contro il plus-valore delle aree. Questo principio, è lecito compiacersi, entra ora -sia pure in una sua espressione ancor timida -in una legge ancora in corso di approvazione. Un’altra legge sociale, ancor più importante, quella che potrebbe davvero diventare risolutiva, quella che permetterebbe ai comuni di formarsi un nuovo e più ampio demanio, ha ancora una navigazione difficile, tra Scilla e Cariddi, nelle commissioni parlamentari. Fino a che larghissime masse popolari saranno estranee alla vita dello stato (non sta a me indicare la responsabilità di questa situazione, ma denunciarne le conseguenze urbanistiche), queste leggi non oseranno che scalfire in superficie gli immensi privilegi che dovrebbero affrontare.

Noi urbanisti sogniamo il verde. E la città crescendo e intensificandosi occupa i giardini del centro, e i prati della periferia vengono a poco a poco interamente sommersi. “ Vendesi terreno a lotti” hanno scritto in larghi cartelli i ragionieri del centro. I comuni non comprano lotti per fare i giardini del futuro, i parcheggi, le scuole. Quando le operazioni speculative saranno compiute, la seconda ondata di compratori farà la seconda o la terza speculazione attraverso lo stratagemma meccanico dei grattacieli vendendo poi le proprietà a un prezzo inaccessibile. Dopo di che nessun amministratore assennato comprerà in superficie adeguata il terreno che servirebbe a fare le scuole all’aperto, i centri sociali, le biblioteche, i centri di acquisto centralizzati o cooperativi. Bisognerà adattarsi a sopraelevare le scuole, o far fare i doppi turni ai bambini come nelle fabbriche, lasciare il commercio com’è, costoso, frazionato, inefficiente. Non c’è nulla da fare, ci dice una classe dirigente stanca e imprevidente.

Noi sogniamo il silenzio. Gli urbanisti hanno studiato e hanno riferito sul precinct, una vasta zona urbana bene isolata, senza arterie di scorrimento, diventata tranquilla, armonica. Ma taluni amministratori amano proclamarsi urbanisti, sebbene quando i loro figli si ammalano non li curano da loro stessi, ma si affidano a chirurghi di chiara fama i quali ottengono spesso autentici miracoli: ma per molti gli urbanisti di chiara fama, i veri urbanisti, sono i nemici della città, uomini pericolosi che occorre ostacolare. E non resta all’infelice città che ricorrere quando è ormai troppo tardi a clamorose e decorative lotte contro i rumori, a costosissimi sventramenti, all’uso indiscriminato incontrollato e caotico dell’elemento verticale, i quali rimangono i sintomi più appariscenti di una concezione e di una strategia urbanistica radicalmente errata.

Noi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cultura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’imitazione. Avremmo potuto imitare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentramento industriale in pieno corso di attuazione. Noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato d’oltreoceano un mostro grandioso e affascinante, il grattacielo, onde consacrare una civiltà in transito: quella delle nostre metropoli del Nord.

La metropoli”, ha scritto Frank Lloyd Wright nel suo aureo volumetto Architettura e Democrazia, la metropoli si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare tranquillamente al mercato. E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria metropolitana. L’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli imprevista. Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare era ugualmente imprevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dimentico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individuo pensante. Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un numero sempre maggiore di gagliardi vigili ai crocicchi ? Anche il proprietario di case dovrà presto rendersi conto che, come sfruttamento vantaggioso, il successo della verticalità è soltanto temporaneo, sia nella natura che nella qualità, perché i cittadini di un prossimo domani preferiranno l’orizzontalità -dono dell’automobile, del telefono e del telegrafo - e si rivolteranno contro la verticalità fuggendola come il cadavere delle nostre città. Lo stesso cittadino le si rivolterà contro in autodifesa. Abbandonerà poco a poco la città : ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i migliori possono fare a meno di restare”.

Il piano regionale apre dunque la via al decentramento. Il decentramento - si badi bene - non è per noi un problema di conservazione, ma di civiltà. Si è confuso troppo spesso questo con la lotta contro l’urbanesimo, svolta dal regime fascista in modo iniquo: basti ricordare la pratica proibizione alle popolazioni meridionali di lasciare le loro provincie, affinché il loro abbandono non fosse reso evidente. Al contrario, il decentramento può e deve essere usato come strumento di difesa dell’uomo. Se il giovane contadino abbandona ancor oggi la montagna e i villaggi anche qui nel Nord, nell’alto Piemonte, nelle valli lombarde, nel Veneto, per cercare nelle città affollate una nuova vita con meno miseria e qualche luce spirituale, è mosso da una spinta inevitabile sino a quando soltanto nelle grandi città sorgono le industrie. E queste solo danno ai comuni e potenza e mezzi d’azione.

E come la composizione chimica di un corpo è impotente a suscitare il mistero della vita, così le cifre e i numeri, le statistiche e i calcoli dei nostri ministri, le centinaia di miliardi degli investimenti di Stato non basteranno a far progredire una nazione, se non si. è pronti ad attingere una nuova linfa vitale dalle profonde radici dell’uomo che si trovano nei villaggi, nei borghi, vicino alla natura e al paesaggio e che si esprimono soltanto nella vita dei comuni e delle provincie. Se questo non sarà compreso, i piani e i programmi elaborati a Roma, a grande distanza dai luoghi dove dovranno essere eseguiti, continueranno ad opprimere materialmente e spiritualmente un popolo di agricoltori e di operai.

Il decentramento industriale, reso facile dalle tecniche moderne più progredite, riconduce l’uomo alla terra, ristabilisce un’economia mista, un nuovo equilibrio tra agricoltura e industria, il solo capace di ridare all’uomo la perduta armonia. Gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà e ‘the vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’alienazione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente della natura. Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini: “ l’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel profondo del suo animo, e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio”.

Nella millenaria civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Iddio, perché la terra, l’acqua, l’aria esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma riguarda anche l’anima perché essa, come un battesimo, purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza continua del Dio vivente.

Per questo, il mondo moderno, avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, costringendolo a vivere nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motocarri e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna di conseguenza avere il coraggio di affermare che la nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica malattia dell’anima provocata dallo “sradicamento”, dallo sradicamento involontario. Quando un uomo lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei bimbi e l’appello delle spose, si produce nella psiche dell’esiliato un dramma di cui le esplosioni tragiche, come il drammatico recente episodio di Terrazzano, sono un sintomo ormai troppo palese. Il cuore degli emigrati, che non dimenticano il loro paese - ci ha spiegato assai bene Simone Weil - è tanto irresistibilmente rivolto alla patria infelice che gli restano poche risorse affettive per l’amicizia verso il paese che lo ospita. Quella amicizia può realmente germogliare e crescere nel loro cuore solo se compiranno una violenza su se medesimi.

Anche il fanatismo totalitario è il prodotto neurotico di un’alienazione, di uno sradicamento. Si badi bene, il fanatismo, non la profonda aspirazione per una società diversa dalla nostra, finalmente e veramente libera, il disprezzo per le forze deteriori di un capitalismo decadente; ma il fanatismo, che non distingue il bene dal male, che esalta la menzogna e con essa l’errore, che si ostina nel credere all’oppressione e alla violenza, rinnegando visibilmente le forze spirituali che pur sono le sole creative. Dobbiamo rispetto a un campo di grano, ricorda ancora Simone Weil, non in se stesso ma perché è nutrimento per gli uomini: Allo stesso modo dobbiamo rispetto a una collettività qualunque essa sia - patria, famiglia, e qualsiasi altra - non in se stessa ma in quanto nutrimento di un certo numero di anime umane. Il grado di rispetto dovuto alle collettività umane deve essere molto elevato per vari motivi.

Anzitutto, ognuna di esse è unica, e non può essere sostituita se viene distrutta. Un sacco di grano può essere sostituito a un altro. Il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalente in tutto l’universo. Poi, con la sua durata, la collettività penetra già nell’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi, ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli avvenire. E finalmente, per la sua stessa durata, la collettività ha le sue radici nel passato. Esso costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi, la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo, è lo splendore di coloro i quali han saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione in generazione.

Che fare? Qual’è la responsabilità dell’urbanista in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi. Stiamo assistendo in Italia ad ampi fenomeni economici e tecnici positivi, i cui effetti nel campo materiale, culturale e spirituale potrebbero essere sterili ovvero portare innanzi un nuovo tipo di civiltà nella misura della nostra capacità di comprendere i fenomeni più profondi e più sensibili che, seguendo un disegno imperscrutabile, condizionano l’umana grandezza e l’umana miseria.

Un periodo mortale ci sovrasta perché il mondo moderno là dove la meccanizzazione ha preso il comando, può travolgere l’uomo vero, nel suo integrale valore. Il numero di coloro che protestano, che mantengono la loro indipendenza morale e intellettuale contro coloro che vorrebbero subordinare e assoggettare il pensiero e ridurre l’anima, perché è dell’anima che si tratta, è fortunatamente in rapida ascesa. L’allarme è più vivo nel campo degli scrittori e degli artisti che precedono il cammino inconsapevolmente più lento dei politici. Ci piace ricordare e salutare qui, per la sua cordiale presenza un grande architetto e urbanista di altissimo valore: Richard Neutra. Richard Neutra combatte anch’egli la nostra battaglia. Nel suo lavoro sociale ci ha dato uno dei più mirabili esempi di compiuta comunità : Channel Heights. Ma sentiamo ora il suo pensiero:

L’umanità - egli scrive - si dirige precariamente verso la eventuale sopravvivenza a bordo di una zattera ancora improvvisata, che spesso fa acqua: la Pianificazione e la Progettistica. Al centro del problema che ora ci attende al varco, una volta presa la nostra vigorosa decisione contro le tentazioni della predestinazione o del caso sembra profilarsi la domanda: Possiamo ben separare la domenica dai sei giorni feriali ? Possiamo avere due tipi di condotta, due specie di progettazione, cioè una, in proporzioni nane, per gli usi del sabato e dedicata .alla bellezza, agli ideali, alla bontà e alla verità; l’altra di vaste proporzioni e di stampo grossolano, per la supposta utilità pratica, impastata di bruttura, squallore e barbarie di nuovo conio, avallata dal consenso generale ? In una comunità religiosa d’altri tempi, solo uno spregevole cinico avrebbe potuto formulare siffatta idea biforcuta della utilità contrapposta alla rettitudine. Subito sarebbe stato bollato di invasamento demoniaco; la sua utilità sarebbe stata riconosciuta come l’utilità dell’inferno. Ad onta del progresso tecnologico, o forse proprio a causa della sua irregolarità, il nostro ambiente di fattura umana ha manifestato una sinistra tendenza a sfuggire sempre più al nostro controllo. Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo. Usura e rovina del sistema nervoso si sono moltiplicate nell’ambiente metropolitano: ce lo rammentano statistiche spaventevoli. Dalla carrozzella per bambini alla metropoli, il nostro ambiente di fabbricazione umana, zeppo di ritrovati tecnici, è divenuto lo stampo del nostro destino e una fonte di tensione nervosa inesauribile”.

Il Paese può e deve essere indirizzato rapidamente verso soluzioni nuove, che ancora dieci anni or sono potevano sembrare utopistiche. Esse consistono in un rapido decentramento, mettendo a disposizione della nostra vita sociale vasti territori agricoli, quasi ovunque disponibili, giacché stiamo assistendo ogni giorno all’esodo dei nostri monti e delle nostre pianure. Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica? Primo: l’utilizzazione ai fini del decentramento del grandioso programma di quartieri organici unificati. Secondo: coordinamento coerente del piano edilizio con chiaro programma di decentramento industriale. All’uopo occorre che, armonicamente composte con le linee di comunicazione e a breve distanza dai nuovi quartieri organici, siano create le nuove zone industriali, secondo l’esempio ormai collaudato delle nuove città inglesi. Terzo: un massiccio sostanziale ingrandimento degli spazi destinati ai servizi sociali e culturali, sia nella progettazione urbanistica, sia nei bilanci dello stato, delle provincie, dei comuni, della industrie, dei privati.

La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in. cui è esaltato, protetto tutto ciò che serve alla cultura, e in una parola all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia. Ancora troppo danaro è lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, ma deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale.

I moderni centri sociali, le scuole specializzate di arte applicata, le biblioteche di ogni grado, gli auditori, le scuole di musica, i luoghi di istruzione artistica e via dicendo sono ancora in tutto il Paese visibilmente inadeguati nel numero e nella qualità. Eppure rispondono a bisogni sempre più vivi nel nostro popolo, bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. “ Eppure sono terrestri come quegli altri sebbene non posseggono una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia, come i bisogni fisici, necessità della vita terrena. Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa”. Sono queste ultime, ancora, parole di Simone Weil, della quale, a costo di tediarvi, voglio ricordare ancora un fervente messaggio ch’io rimetto ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo anche modesto non sarà vano, purché nella giusta direzione: da al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le migliori intelligenze, i più nobili cuori.

Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze. Il popolo ha poco tempo libero da dedicare ad uno sforzo intellettuale; e la stanchezza limita l’intensità dello sforzo. Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non ne avrebbe alcuna se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza non già in proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura, poiché la quantità non è in nessun rapporto col bene. Se un operaio, in un anno di avidi e costanti sforzi, impara qualche teorema di geometria, vorrà dire che sarà penetrata nell’anima tanta verità quanta ad uno studente che durante lo stesso tempo, con eguale fervore, abbia assimilata una parte della matematica superiore”.

I nostri urbanisti conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidiscono ancor ciecamente i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci e del loro pur necessario equilibrio. Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali, che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita. Non è qui luogo per ostentare le nostre amarezze, ma vorrei chiudere la lunga serie delle citazioni di oggi, ricordando le parole di un poeta scomparso in un volo di guerra e che esprimono tutta la nostra fede nei valori dello spirito.

La questione che mi pongo non è punto di sapere se l’uomo sì o no sarà felice, prospero e comodamente protetto. Mi domando dapprima quale uomo sarà prospero, protetto, felice. Perché ai mercanti arricchiti, gonfiati dalla sicurezza preferisco il nomade che fugge continuamente e insegue il vento e abbellisce di giorno in giorno, perché serve un signore così vasto. Se costretto a scegliere, apprendendo che Dio rifiuta al primo la sua grandezza e la accorda solamente al secondo, immergerei il mio popolo nel deserto. Poiché amo che l’uomo dia la sua luce. E non mi importa la povertà del cero. Dalla sola sua fiamma misuro la qualità”.

Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando giorno per giorno in minuta fatica, la fede in altre più grandi perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l’obbligazione al quotidiano lavoro. Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola per la nostra condotta anche in questa fase. Studiando e sperimentando nel vivo corpo sociale, incontreremo sempre nuove difficoltà ma impareremo anche a valerci di nuovi strumenti c a perfezionarne l’uso.

E così non soltanto l’arricchimento culturale, ma la maturazione della sensibilità sociale e della responsabilità politica, in una parola quegli obbiettivi che un istituto di alta cultura a statuto democratico quale è il nostro deve proporsi, costituiranno comunque il portato sicuro e prezioso di un operare concorde, sorretto dal rigore scientifico e dal buon volere.

Seguendo questa traccia, forse anche le mie parole sono andate lontano. Mi affretto dunque a concludere affinché non siano più oltre ritardati i molti urgenti temi di questo congresso che sono appunto i temi dell’oggi. Ma consentitemi ancora, prima di lasciare la parola all’amico onorevole ministro Romita di ringraziarlo ancora per la sua presenza e di ringraziare, con lui, tutti coloro che in questa occasione hanno voluto esprimerci la loro simpatia e porgerci una testimonianza di diretto apprezzamento nella funzione e nell’avvenire dell’urbanistica.

Gli urbanisti italiani, animati da una fede comune nei valori umani e nel metodo scientifico, lavorano da anni per proporre alla società italiana quelle nuove soluzioni che il senso sociale di ogni cittadino ha già nel suo cuore e che il sole, gli alberi, la terra, i laghi, i fiumi custodiscono in un disegno eterno. Affinché la natura e la vita, ricondotti ad unità diano all’uomo rinnovato e rigenerato da un ambiente amico una vera e più splendida armonia.

Perché noi vogliamo che questa armonia fatta di bellezza e di pace e di fraternità risplenda nei villaggi, nei quartieri, nelle fabbriche e la casa dell’uomo non sia più un rifugio ma un elemento vitale di una più ampia composizione, perché l’uomo servendosi finalmente del corpo e dello spirito si riconcili a Dio e nessuno sia più straniero, schiacciato, perduto.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

L’art. 12 della Legge Urbanistica prevede la possibilità di adozione di piani regolatori generali, che contemplino il territorio di più Comuni. Questa disposizione, perchè è piuttosto scarna, fa sorgere il problema di determinare la natura ed il contenuto di questi piani. Due tesi sono possibili: una, secondo la quale il cosiddetto piano intercomunale non è altro che la somma di più piani comunali coordinati tra di loro e quindi con le caratteristiche ed il contenuto dei piani regolatori generali comunali, ed un'altra, secondo la quale, invece, il piano regolatore intercomunale è un provvedimento di pianificazione intermedio tra il piano territoriale di coordinamento ed il piano regolatore generale comunale e quindi con un contenuto più preciso di quello dei piani territoriali di coordinamento (art. 5 della Legge Urbanistica) e meno dettagliato di quello previsto per i piani regolatori generali comunali (art. 7).

Al VI Congresso Nazionale di Urbanistica di Torino il problema è stato dibattuto, anche perchè è stato autorevolmente sostenuto in qualche intervento che non vi è necessità di una nuova disciplina legislativa di sostituzione e a integrazione dell’art. 12, perchè il piano intercomunale non costituisce un tipo di pianificazione diverso da quello del piano regolatore comunale, già sufficientemente regolato e precisato nell'art. 7 della Legge Urbanistica; Se è possibile trarre una conclusione dai numerosi interventi al Congresso, si può dire che, mentre è prevalsa la tesi che il contenuto del piano intercomunale deve sostanzialmente corrispondere a quello dei piani comunali è stato pure affermato che, per il fatto che a formarlo deve concorrere la volontà concorde di più enti amministrativi, nella specie più Comuni, il piano intercomunale costituisce un provvedimento di pianificazione a sé stante non per il contenuto ma per il processo formativo. Ciò risulta chiaramente dallo schema di disegno di legge presentato al Congresso. Dato come risolto questo primo problema, se ne affacciano altri, che, in un certo senso, devono essere preliminarmente risolti se si vuole spostare dal campo teorico al campo pratico la pianificazione intercomunale. I problemi possono essere sintetizzati nei seguenti interrogativi:

1) la pianificazione intercomunale trova solide basi nella pubblico opinione?

2) la pianificazione intercomunale è compatibile e realizzabile col nostro sistema amministrativo?

3) per la pianificazione intercomunale occorre tener presenti i fattori economici di costo con la formazione di un piano finanziario?

Se ben si considera, gli interrogativi, come sono stati formulali, manifestano la priorità di problemi generali di fondo sui problemi di tecnica legislativa che fino ad ora sono stati affrontati. Si badi bene che con ciò non si vuole muovere critica alcuna perché, esistendo già un testo di legge sui piani intercomunali (art. 12), è giusto che si consideri se gli strumenti legislativi siano idonei al raggiungimento dello scopo, che ci si è prefissi. Si vuole solo avvertire che non basta perfezionare gli strumenti legislativi per rendere attuabile la pianificazione intercomunale, che oggi si presenta molto difficile per le ragioni già indicate in altro articolo.

Circa il primo quesito, si può dire che la preoccupazione di una pianificazione intercomunale si è fatta sentire solo per alcune grandi città prima della emanazione della Legge Urbanistica. Se ben si ricorda, la prima preoccupazione di intercomunalità si è avuta in occasione della formazione del Piano regolatore del Comune di Roma, approvato poi con R.D. 6 luglio 1931, n. 981. Problemi particolari di sistemazione intercomunale si sono affacciali anche per Milano prima e dopo l'aggregazione dei Comuni, avvenuta nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, e in occasione della formazione dell’Idroscalo nei riguardi del confinante Comune di Segrate. La coscienza però della necessità di pianificazioni intercomunali vere e proprie si è avuta nell’ultimo dopoguerra, in due casi distinti: quello di Comuni contermini con popolazione di entità non molto diversa l’una dall’altra, che per la loro ubicazione e per problemi comuni devono coordinare le rispettive pianificazioni e quello del grande Comune che influenza lo sviluppo edilizio dei Comuni circostanti e dà così lo spunto alla proposta di piani intercomunali.

Il primo caso è metto evidente del secondo, perchè le relazioni di intercomunalità in questo tipo talvolta possono essere anche opinabili e non di carattere permanente e può anche darsi il caso che queste relazioni non riguardino tutti i problemi della pianificazione ma solo alcuni di essi. Una attenta considerazione delle varie situazioni potrà talvolta consigliare di non addivenire alla formazione di un piano intercomunale, ma solo di formare consorzi per determinati servizi (es.: mezzi di trasporto collettivi, rifornimento e distribuzione di acqua potabile, canalizzazioni di fognatura, mezzi di allontanamento e di distruzione dei rifiuti domestici, ecc.). Altra volta invece sarà opportuno ricorrere alla adozione di piano intercomunale soprattutto quando l’edificazione dei Comuni venga ad essere continua ed a presentare quindi così le caratteristiche, che spesso si verificano nel secondo caso di intercomunalità; senza che però sia possibile stabilire la preponderante influenza di uno dei centri abitati sugli altri, che è invece la caratteristica distintiva del secondo gruppo. Per il secondo caso di intercomunalità si può dire che gli inconvenienti manifestatisi attorno ad alcune grandi città sono di tale evidenza, che nella opinione pubblica si sta necessariamente sviluppando e radicando il concetto della necessità della coordinazione dei piani regolatori comunali attraverso un piano intercomunale. E qui si affaccia un altro problema: se sia conveniente prevedere non solo la coordinazione di piani regolatori generali ma anche di piani regolatori e di programmi di fabbricazione, allegati ai regolamenti edilizi comunali. Molte volte il problema accennato si risolve da sé nel senso che l’influenza del grande centro, che determina l’edificazione nei territori dei Comuni vicini, determina anche la necessità per questi Comuni della adozione di Piano regolatore generale, non potendo servire allo scopo della disciplina della prorompente attività edilizia il solo programma di fabbricazione. Dal punto di vista etico-sociale però non sembra che il piano intercomunale sia ancora sentito come dovrebbe e questo è uno dei punti deboli, che influenzano negativamente la formazione dei piani intercomunali in progetto. Evidentemente la pianificazione intercomunale richiede una coincidenza di concezioni fra comunità diverse, e tale coincidenza importa la rinuncia da parte di ciascuno a qualche programma, che sarebbe in contrasto con gli interessi e la programmazione delle altre comunità. Solo una superiore visione degli interessi comuni può determinare il nuovo angolo visuale e quindi le rinunce a cui si è accennato. È facile quindi vedere come il primo quesito si colleghi col secondo.

Già nell’articolo precedente si era accennato a questo problema, indicando delle soluzioni possibili sia con la struttura amministrativa attuale, sia con una modificazione di essa. Il problema è veramente grave per gli interventi di pianificazione, che esigono non semplicemente la concordia al momento della adozione del piano, ma soprattutto la costante volontà di darvi attuazione senza riserve mentali, senza volute inattività e quindi ritardi pregiudizievoli per tutti, ma in modo particolare per alcuni dei Comuni interessati. Solo una forma federativa di Comuni o la creazione di un organo superiore intercomunale o l’intervento dell’autorità statale o regionale possono risolvere il problema. Per superare queste difficoltà le proposte legislative, cui in precedenza si è accennato, adottano un sistema, su cui ci si riserva di intrattenere in altro articolo. Ciò non costituisce solo una modifica della Legge Urbanistica, ma anche della Legge Comunale e Provinciale, dando la possibilità alla formazione di consorzi, che sono leggermente diversi da quelli già contemplati e sono pure diversi dai liberi consorzi previsti per la Sicilia dal nuovo provvedimento legislativo regionale.

Il problema più grave però è quello di cui al terzo quesito. Esso è grave perchè, ove si ritenga necessaria la formazione di un piano finanziario, questo deve risultare dai mezzi messi a disposizione da più Comuni e quindi viene a sorgere un problema di ripartizione degli oneri tra enti non ugualmente interessati. Potrebbe taluno ritenere che l’interesse di ogni Comune sia in funzione del costo degli interventi di ciascuno di essi nell’ambito del proprio territorio; questo forse è vero, quando si tratta di piani intercomunali del primo tipo, e cioè relativi a Comuni con termini con numero di abitanti non molto diverso tra di loro, mentre non è valido nel caso del secondo tipo, quando l’intercomunalità è determinata da un centro maggiore di attrazione, che provoca di riflesso un interesse a trasformazioni fondiarie e quindi ad attività edilizie nel territorio dei Comuni contermini. Alcuni interventi in tali Comuni sono determinati dalla necessità di garantire agli abitanti dei Comuni stessi delle condizioni di edificabilità e di vita non dissimili da quelle del centro maggiore: ciò determina un maggior costo di servizi rispetto a quelli che si avrebbero nel centro minore, ove questo non avesse la particolare ubicazione in prossimità del centro maggiore. La ripartizione quindi degli oneri non può essere fatta sulla base della distinzione territoriale degli interventi, ma in base ad altri criteri che possono essere dati da una proporzionalità al numero degli abitanti, o alla estensione del territorio, o in funzione del gettito delle imposte dirette e indirette di spettanza comunale, o meglio ancora in funzione di indice complessivo dei tre clementi. La risoluzione di questo problema non può avvenire che attraverso la formazione di un consorzio dotato di uno statuto, che determini conseguentemente l’obbligatorietà delle appostazioni finanziarie nei rispettivi bilanci. Occorrerebbe quindi arrivare in questo caso alla costituzione anche coattiva di un consorzio,con riferimento all’art. 157 del T.U. della Legge Comunale e Provinciale 3 marzo 1934, n. 383. Nello statuto di essa, di cui al successivo arto 158, occorrerà che siano tenute presenti le particolari finalità del consorzio medesimo, sia per la predisposizione e adozione del piano intercomunale, sia per quello della sua gestione dopo che sarà intervenuta l’approvazione. Sembra quindi che già nelle norme vigenti vi siano gli spunti per arrivare alla risoluzione del problema, tanto più che l’art. 160 del citato Testo unico, in mancanza di accordo tra gli enti consorziali circa la ripartizione delle spese, indica appunto come elemento concomitante per stabilire l’interesse del consorzio di ciascun ente consorziato quello della popolazione e del contingente principale dell’imposta fondiaria. Data l’importanza assunta ora dalle imposte indirette, sarebbe il caso di pensare di integrare l’elemento fiscale con quello del gettito , delle dette imposte indirette ed in modo particolare di quello delle imposte di consumo.

Se ben però si consideri, anche la soluzione del terzo quesito dipende sostanzialmente dalla risoluzione dei quesiti precedenti, che peraltro, come si è già accennato, sono fra di loro intimamente collegati.

Pur rinviando, per non tediare il lettore, l’esame dei problemi legislativi ad altro articolo, non si ritiene di poter chiudere queste poche pagine senza indicare la via, che si ritiene in pratica idonea a facilitare la soluzione del problema sul terreno psicologico della pubblica opinione.

Se accingendosi alla pianificazione intercomunale, dopo lo studio attento dei problemi e della situazione delle varie comunità interessate, ci si preoccuperà di realizzare attraverso la pianificazione comune non solamente l’ordinato sviluppo edilizio degli abitati (purtroppo le esigenze della intercomunalità è stata vista ora solo con l’intento di porre un freno al caos edilizio attuale), ma anche e soprattutto al raggiungimento e la conservazione di un livello comune di condizioni di vita, con la sola differenziazione in rapporto alle attività prevalenti della popolazione, le avversioni alla pianificazione e le rivalità ed incomprensioni campanilistiche dovranno per forza cadere. Caduti questi primi ostacoli di natura psicologica, rimarrà da risolvere il problema tecnico-finanziario; per il primo, relativo allo studio ed alla stesura del progetto di piano intercomunale, la esalta interpretazione dei caratteri e dei bisogni dei singoli aggregati daranno indirizzi sicuri; per il secondo, relativo ai mezzi finanziari, si potrà procedere nel modo dianzi accennato.

Così operando, sorgerà spontaneo e concomitante l’interesse di tutte le Amministrazioni locali del comprensorio per la pianificazione. Non è questa una visione dettata da pervicace ottimismo: essa è fondata sulla evidenza ed urgenza dei problemi, che si trovano di fronte agli amministratori locali, , e sulla constatazione da essi fatta della impossibilità di soluzione, se non interviene un coordinamento delle soluzioni attraverso un accordo ed uno sforzo comune. Chiarita la finalità immediata e quella mediata della pianificazione intercomunale, non è pensabile che gli amministratori vogliano addossarsi la grave responsabilità di privare i loro amministrati (che sono poi gli elettori) dei benefici innegabili del coordinamento delle attività comunali con un programma comune, realizzabile , con la concorde volontà e con l’apporto di tutti e mirante a migliorare le condizioni di vita di tutti gli abitanti del comprensorio. In altri campi; le più inveterate avversioni ad incomprensioni, quando si è fatta strada la coscienza del bene comune, sono cadute e l’accordo non è mancato. Perchè non dovrebbe avvenire altrettanto nel campo della pianificazione intercomunale?

Rileggere il suo Venezia: terra e acqua[1], malauguratamente esaurito e mai ristampato, mi ha aiutato a mettere a punto le ragioni per le quali Gigi ha sempre avuto per la Laguna di Venezia un’attenzione particolare. Un’attenzione che aveva certamente una delle radici nel suo “essere veneziano”; non a caso, se non sapeva condurre un’automobile, e neppure una bicicletta, sapeva invece destreggiarsi con una sampierotta a motore tra rii e bricole in tutte le parti acquee del territorio veneziano. Ma un’attenzione che aveva le sue più profonde radici nelle passioni intellettuali di Gigi: quella per il territorio, per la ricchezza che esso nasconde e rivela, i rischi e i guasti che lo minacciano, e quella per le istituzioni, per la capacità (o incapacità) degli uomini a foggiare e a utilizzare gli strumenti mediante quali il territorio e la società che lo abita vengono governati.

L’attenzione per la Laguna era insomma determinata in Gigi dal suo essere urbanista e politico, dove a entrambi i termini si tolga, per poterli attribuire a lui, quel tanto di utilitaristico, di mercantile, di corrivo ai tempi e alle mode – in una parola, di opportunistico - che nei nostri anni hanno incrinato l’uno e l’altro termine, l’una e l’altra professione. E che non hanno mai scalfito – come sanno quanti lo hanno conosciuto – Luigi Scano.

La sua formazione giuridica[2] era il trait d‘union pratico tra quelle due competenze. Le regole sono infatti il modo nel quale l’urbanistica diventa efficace in un mondo dominato dalla dialettica tra il privatismo proprietario e l’interesse comune, e la loro formazione e gestione sono amministrate dalla politica.

Non a caso è dai luoghi della politica o ad essa vicini che il ruolo di Gigi per la comprensione prima e per la difesa poi della Laguna di Venezia si è esplicato. Come dirigente del Partito repubblicano di Ugo La Malfa e di Bruno Visentini, come consigliere comunale nei lunghi anni nei quali fu costantemente a fianco di Antonio Casellati e di Gianni Pellicani, come consigliere provinciale più tardi. Come puntuale fornitore di consigli e di critiche sempre. Ora che è scomparso moltissimi sono quelli che patiscono la perdita d’un consigliere sempre pronto ad aiutare, d’uno spirito vigile, informato e colto, sempre pronto a fornire una valutazione precisa, sicura, al tempo stesso equilibrata e netta.

Per una biografia di Gigi Scano

Quando qualcuno scriverà l’ampia biografia che merita sarà facile ricostruire il ruolo che Gigi ha svolto in tutte le fasi salienti del dibattito e dell’azione per la Laguna, per la sua comprensione e la sua difesa. Mi limito a ricordare qui alcuni momenti.

1967: Dopo lo shock dell’alluvione del 1966, la comprensione delle cause non naturali del disastro e la prima organica proposte di legge per Venezia e la sua Laguna

1971: le prime battaglie per la difesa dell’ambiente nella Laguna e la collaborazione con Casellati primo Assessore all’ecologia italiano

1973: Il dibattito che condusse alla Legge speciale del 1973 e agli Indirizzi governativi per la sua attuazione

1980: La redazione del “Piano comprensoriale della Laguna di Venezia e Chioggia”

Il rapporto Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano

Le osservazioni del Comune di Venezia al Piano comprensoriale

1984: La “nuovissima” legge speciale

1990: La formazione della Città metropolitana

2000: La contestazione del Mose e del CVN

Un seguace di Cristoforo Sabbadino

Venezia: terra e acqua è una magistrale storia dell’urbanistica veneziana negli anni della Repubblica italiana, raccontata con abbondanza di dettagli e accurata indicazione di fonti. Ma la sua premessa, e il suo spirito, affondano le radici nella storia più antica. Il primo titolo di paragrafo del libro di Gigi è significativo: “Unde origo inde salus”. Il suo primo capitolo, dedicato alle trasformazioni e al governo del territorio nei secoli della Repubblica Serenissima, dà un ampio spazio a quell’animato dibattito che, nei primi decenni del XVI secolo, oppone le due concezioni tecnico-politiche contrapposte: quella di Cristoforo Sabbadino e quella di Alvise Cornaro. Cornaro proponeva un sostanziale interrimento della Laguna, Sabbadino una ricostituzione delle condizioni idrauliche che conservassero alla Laguna il suo carattere di mixitè salmastra: che salvaguardassero la Laguna in quanto tale. Le soluzioni tecniche erano finalizzate, dall’una e dall’altra parte, a due progetti strategici contrapposti.

“Allargato il dominio, e riconsolidato il controllo politico su retro terra dopo la crisi succeduta alla disfatta di Agnadello (1509), il governo della repubblica affronta globalmente il problema della sistemazione idrografica dell’intero territorio e della salvaguardia della condizione lagunare. La vicenda è indissolubilmente legata alle memorie ed alle polemiche di Cristoforo Sabbadino, tecnico ufficiale dello stato, e di Alvise Cornaro, patrizio padovano. Ed occorre tener presente che «pronunciarsi, nel periodo in cui essi operano, con un progetto di sistemazione idraulica della laguna, basato su di una teoria organica e convincente, significa anche pronunciarsi indirettamente a favore di ideali di sistemazione economica e politica della Dominante che al rapporto tra laguna e terraferma sono legati; significa ad esempio non poter non prendere posizione nel confronto tra 1 ragioni del mare, e quindi della mercatura, e quelle della campagna, e quindi del retrazar, cioè delle bonifiche, ragioni che, non sempre conciliabili nell’indirizzare gli investimenti di capitali, lo sono ancor meno nel far scegliere l’una o l’altra ipotesi di intervento tecnico per la salvaguardia della laguna. Ciò che rende particolarmente interessante il contributo del Sabbadino e del Cornaro è che esso è caratterizzato da uno sforzo, assai difficilmente rintracciabile in altre trattazioni tecniche contemporanee, per tradurre queste ragioni in ragioni teoriche, scientifiche, nello scopo di fondarle sull’oggettività e l’inattaccabilità Nella loro opera fondamentale è la concretezza delle proposte, sorrette da altrettanto concrete motivazioni politiche ed economiche, che costringe però al superamento della semplice e che lascia ogni valutazione in balia dell’occasionalità in favore dell’astrazione come processo razionale di anticipazione e di verifica (Sergio Escobar)”[3] ».

Come Gigi ricorda fu l’impostazione di Sabbadino che prevalse, “non senza smagliature e compromessi”. Si può dire che quella impostazione fu l’ “origo”, l’origine e la matrice, dell’ideologia sulla Laguna e il suo governo che Gigi costantemente condivise, in tutti i momenti e gli eventi che lo condussero ad occuparsi della Laguna.

Nella stringatissima sintesi di Gigi, Sabbadino

“propugna interventi volti a restituire alla laguna la sua massima capacità di funzione, garantendone l’intangibilità della massima estensione (il «soracomun», o «acqua alta», sostiene infatti, va crescendo non a causa dell’«alciamento» del mare, ma in conseguenza del restringimento del bacino derivato dalla sedimentazione degli apporti solidi dei fiumi), deviando, con opere in profondità nell’entroterra, i fiumi fuori dalla laguna, proteggendo i lidi, rimuovendo ogni ostacolo che impedisca l’ingresso e l’espansione dell’acqua del mare in laguna.”[4]

Per il ripristino dell’ecosistema lagunare

Questa concezione della Laguna nacque in Gigi all’indomani dell’alluvione del 1966. Superato lo shock iniziale e la fase della protesta e della lamentazione contro la natura matrigna, fu nella pattuglia di quanti compresero che era nelle manomissioni e privatizzazioni della Laguna la ragione del suo irrimediabile degrado. La lotta contro il “canale dei petroli” e l’attuazione della Terza zona industriale fu la prima conseguenza di quella comprensione. Ma subito trascese quel momento ed elaborò (come ricorda Toni Casellati) una prima proposta legislativa, coerente con l’esigenza di un governo pubblico unitario della Laguna, gestito dai comuni e dallo Stato, sorretto da una pianificazione complessiva del territorio lagunare.

La concezione ecosistemica della Laguna maturò poi in Gigi, e trovò la sua piena espressione e consapevolezza, in relazione a due eventi ai quali partecipò molto attivamente: la formazione del “Piano comprensoriale della Laguna di Venezia e Chioggia”, la redazione del rapporto Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano. Questi eventi lo sollecitarono ad agire su due versanti strettamente legati dei suoi interessi: quello della sostanza delle questioni (raramente ho conosciuto un politico che come lui privilegiasse i contenuti rispetto a tutte le altre dimensioni del potere), e quello delle forme di governo.

La salvaguardia della Laguna, la messa in valore e la ricostituzione delle qualità (naturali, storiche, fisiche, sociali, estetiche, economiche) di cui essa è intessuta, ha costituito l’obiettivo finalistico della sua azione per la Laguna. La rivendicazione del carattere di bene comune che la Serenissima aveva saputo privilegiare per secoli ha costituito il legame con la soluzione amministrativa che tenacemente ha propugnato. L’unità del governo della Laguna e del suo territorio è stato l’obiettivo strumentale, fortemente legato alla sua formazione giuridica e ai ruoli politici che volta per volta ha ricoperto.

Gigi fu molto duttile nel condividere, volta per volta, la formula che consentiva (o che sembrava poter consentire) un governo unitario del bacino lagunare. Era consapevole della debolezza di una formula (quella del Comprensorio di comuni come ente elettivo di secondo grado) che fu assunta dalla legge speciale del 1973 per la formazione del piano comprensoriale. Tuttavia si adoperò con passione perché quella indicazione divenisse efficace, perché all’organismo del Comprensorio della Laguna di Venezia e di Chioggia si desse vita, perché il Piano comprensoriale fosse redatto, adottato, approvato. Lavorò dentro la struttura del piano comprensoriale, e ai suoi fianchi per adottarlo (un giorno bisognerà raccontare anche il gustoso aneddoto della sua azione su Gianni Pellicani, e di questo sui socialisti del PSI, perché si giungesse al’adozione), e per migliorarlo quando fu adottato (la corposa osservazione del Comune di Venezia è stata materialmente stesa da lui).

Seppellita sotto la mancata approvazione regionale l’efficacia del piano comprensoriale Gigi continuò ad agire per un governo unitario del bacino lagunare, appoggiandosi sempre alla sponda di autorevoli uomini di governo: comunisti come Gianni Pellicani e repubblicani come Bruno Visentini. A proposito della sua costante collaborazione con i primi, con gli uomini del PCI, Massimo Cacciari fece circolare una battuta spiritosa e verace, che a Gigi provocò irritazione: lo definì “il centro studi del PCI”. Gigi era davvero uno di quegli uomini votati alla politica che pongono al centro di questa specifici obiettivi di contenuto.

La soluzione verso la quale si lavorò allora per individuare una unità di governo adeguata fu quella della “città metropolitana”. L’apporto culturale di Gigi alla maturazione che condusse alle “Ordinamento delle province e dei comuni”, la legge 142/1990 non fu marginale. Una legge alla quale del resto contribuirono attivamente personaggi della vita politica veneziana oltre che nazionale, come Lucio Strumendo e Adriana Vigneri. Una legge nella quale l’inserimento di Venezia tra le 13 Città metropolitane fu merito soprattutto di Gianni Pellicani, di cui Gigi rimase eccellente e fraterno collaboratore fino alla fine. (E devo dire che l’assenza di Gianni in questo luogo e in questo momento è per me ragione di tristezza).

Il profondo convincimento di Gigi della necessità di un governo unitario della Laguna fu anche la ragione per la quale egli si oppose, anche con la violenza polemica a volte esagerata che gli era propria, a ogni iniziativa per la divisione del Comune di Venezia, che non fosse preceduta, o almeno inquadrata, in un sistema unitario di governo quale quello che, volta per volta, poteva venir assicurato dal Comprensorio o dalla Città metropolitana.

Che il governo unitario dovesse avere quale suo oggetto principale la Laguna, e non il tessuto di più ampie, mutevoli e sfuggenti relazioni socioeconomiche, fu poi uno dei motivi di fondo dell’altro suo versante polemico: quello che lo ha contrapposto ai propugnatori di PaTreVe: a quanti, all’unità del bacino lagunare, opponevano l’alternativa di un’ “area vasta” comprendente, oltre Venezia, anche Padova e Treviso (e perché no anche Vicenza, e magari Verona?). Non solo contravvenendo in tal modo alla ratio e alla prescrizione della legge 142/1990, ma anche portando fuori dalla Laguna, e fuori dalla conservazione del suo ecosistema, l’interesse principale e i principali obiettivi dell’azione di governo.

Gigi e NoMose

Le polemiche e le critiche sulle forme di governo dell’area della Laguna non sono però paragonabili, per asprezza d’espressioni e per profondità d’impegno, a quelle rivolte verso il Consorzio Venezia Nuova e il suo progetto MoSE. Gigi non era pregiudizialmente ostile alla previsione, e alla successiva progettazione e messa in opera, di opere di sbarramento mobile alle bocche di porto. E neppure era pregiudizialmente contrario all’impiego dell’impiego del sistema della concessione per singole componenti di un generale progetto di ripristino dell’equilibrio lagunare. Basta leggere la parti del suo libro dedicate ai diversi momenti nei quali degli interventi in Laguna si discusse, a partire dall’indomani dell’alluvione del 1966, per rendersene conto.

Divenne un tenace e irriducibile avversario del CVN e del MoSE per due aspetti fondamentali.

In primo luogo, quando ci si cominciò a rendere conto che il modo nel quale il progetto veniva definito e attuato contrastava pienamente con le regole che, dai tempi della Serenissima, venivano applicate. Quelle regole basate sul riconoscimento del carattere proprio e unico della Laguna, del delicatissimo e fragilissimo equilibrio tra forze della natura e intervento dell’uomo che ne aveva garantito la sopravvivenza. Quelle regole negate dalle operazioni avviate alla caduta della Repubblica: quando le logiche e le tecniche ottocentesche avevano promosso la privatizzazione e l’interrimento di parti consistenti della Laguna e provocato l’irrompere delle grandi opere canalizie nel delicato tessuto delle variegate forme della terra/acqua veneziana; quando la manutenzione quotidiana e il monitoraggio continuo erano stati abbandonati; quando, in sostanza, erano stati infranti i tre principi della sperimentalità, gradualità e reversibilità di ogni intervento in Laguna. Principi che Gigi contribuì a inserire nella legge speciale del 1984, e che sono ogni giorno vistosamente disattesi dalle pratiche in atto.

Visione meramente ingegneristica, polarizzazione di tutto l’impegno sulle grandi opere cementizie e acciaiose alle bocche di porto, assunzione di tecniche hard anche per le più delicate operazioni sulle componenti più fragili della Laguna, abbandono della visione olistica degli interventi necessari, trattamento dell’ecosistema lagunare come un qualsiasi indifferenziato bacino acqueo: queste sono le critiche principali che Gigi muoveva all’operato del CVN, alla logica e alla concezione di fondo dei suoi interventi. Ne troviamo una sintetica espressione nella relazione della proposta di legge di Antonio Cederna (largamente dovuta al pensiero e alla penna di Gigi) per Venezia e la sua Laguna, presentata nel 1983. Nell’individuare le cause dell’inefficacia dei provvedimenti della legge speciale del 1973 si afferma che

“la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra una logica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt'al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive”[5].

Ma ciò che soprattutto lo indignava era la sistematica violazione della legalità e lo stravolgimento del sistema dei poteri che la concessione statale al consorzio di imprese aveva determinato. Durissime le sue critiche al sistema della “concessione unica” dello Stato al Consorzio Venezia Nuova; asperrime le proteste per il suo permanere quando la legge ne prescriveva il superamento.

In un articolo scritto per eddyburg, in replica ad talune affermazioni del ministro Lunardi, ricorda innanzitutto che il Parlamento

“aveva deciso di superare radicalmente il sistema della ‘concessione unica’, dello Stato al Consorzio Venezia Nuova, di ogni competenza afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla realizzazione delle opere, riguardanti il riequilibrio idrogeologico della laguna di Venezia, l'arresto e l'inversione dei processi di degrado del bacino lagunare, la difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle ‘acque alte’ eccezionali. ‘Concessione unica’ che era stata, inizialmente, conferita in base alla legge 29 novembre 1984, n.798,, e grazie alla quale un consorzio di imprese di diritto privato è divenuto, grazie alle enormi risorse (erogategli dallo Stato) di cui poteva disporre, padrone pressoché incontrastato degli studi attinenti la Laguna veneziana, della progettazione delle opere da effettuarsi in essa, del controllo della validità dei primi e della seconda, asservendo, in termini addirittura patetici, ai propri obiettivi e ai propri interessi, gli organi decentrati (il Magistrato alle acque di Venezia) e quelli centrali delle amministrazioni statali”.[6]

Approvata la legge il governo avrebbe dovuto dare attuazione al suo dettato. Ma così non fu, denuncia Gigi:

“Per il vero, nell'immediato il Governo (Ciampi) ottemperava alla volontà e al mandato del Parlamento, ed emanava il decreto legislativo 13 gennaio 1994, n.62. Alle cui disposizioni più di un Ministro avrebbe dovuto, conseguentemente, dare concreta attuazione, con propri atti. Cosa che i Ministri interessati, facenti parte del Governo (Berlusconi) nel frattempo subentrato, si guardavano bene dal fare: senza, se vogliamo dirla tutta, essere richiamati a compiere il proprio dovere né dalla Regione Veneto (governata dal centrodestra), nè dalla Provincia di Venezia (governata dal centrosinistra), né dal Comune di Venezia (governato dal centrosinistra), né dal Comune di Chioggia (governato prima dal centrodestra e poi dal centrosinistra).” [7]

E dopo il primo governo Berlusconi? Nessun subentrante governo intervenne. Prosegue Gigi:

“[…] le citate disposizioni di legge non sono mai state abrogate, per cui del relativo inadempimento potrebbero essere chiamati a rispondere i competenti Ministri degli ulteriormente subentrati Governi Prodi, D'Alema, Amato, e nuovamente Berlusconi, e se si vuole nuovamente Prodi. Chiamati a rispondere come? Se un impiegatucolo dell'anagrafe comunale si rifiuta di consegnarmi il certificato di nascita commette il reato di omissione di atti di ufficio, ed è passibile delle sanzioni di cui al relativo articolo del codice penale. Se un generale compie atti contrari alla volontà espressa dal Governo, o non provvede a quanto dallo stesso Governo ordinatogli, è definito (anche dai media) ‘fellone’, ed è passibile delle sanzioni, variabili in rapporto alle diverse fattispeci concrete, di cui ai relativi articoli del codice penale militare (di pace o di guerra). E se un Ministro (cioé un componente di quello che il notorio estremista Charles-Louis de Secondat barone de La Brède e de Montesquieu ha definito come ‘esecutivo’) omette di ‘eseguire’ ciò che è stato deciso dal Parlamento (cioè da quello che lo stesso pericoloso sovversivo francese ha chiamato ‘potere rappresentativo’, della volontà popolare democraticamente espressasi)? Si ‘lascia perdere’? si ‘chiude un occhio’? questo sì a me pare porre il problema ‘necessario e urgente’ di ‘un approfondimento concettuale su cosa sia la democrazia in un Paese civile’!”[8]

Allarme per le condizioni fisiche e funzionali di quell’impareggiabile bene comune dell’umanità costituito dalla Laguna di Venezia; allarme per le deriva cui era (ed è ancora) sottoposto il sistema di potere democratico: queste le due maggiori preoccupazioni di Gigi, e di quanti come lui, e insieme a lui, continuano a gridare NoMose, a un’opinione pubblica sempre più distratta, fuorviata e disinformata, e a un establishment che conosce tutti gli slogan e tutte le vie dell’immaginario, ma non è più capace di studiare i problemi nel loro merito e di valutare oggettivamente le soluzioni e i loro costi, per la generazione attuale e per quelle future.

[1] Luigi Scano, Venezia: Terra e acqua, Roma Edizioni delle autonomie, 1985. Gli amici di Gigi sperano di riuscire a rieditare il libro, con una raccolta di prenotazioni e il sostegno del Comune di Venezia.

[2] Gigi aveva completato gli studi giuridici all’Università degli studi di Padova. Non raggiunse la laurea proprio per colpa del suo libro e dei cattivi consigli di alcuni amici (tra cui l’autore di queste note) Infatti quel libro era in origine la sua tesi di laurea. Lo convincemmo a pubblicarlo come contributo alla campagna elettorale amministrativa del 1985, quindi non potè utilizzarlo per il fine originario. Il tempo passò, altri impegni lo assorbirono e …

[3] L.Scano, Venezia: terra e acqua, p. 18.

[4] Ibidem, p. 19

[5] Si veda il saggio di L. Scano “In Parlamento: un’eredità da raccogliere”, in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, a cura di M. P. Guermandi e V. Cicale, Bologna BUP, 2007, p. 153 e segg.

[6] http://eddyburg.it/article/articleview/7446/0/178/

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

Era la metà degli anni Novanta e il mondo, forse, era migliore di quanto non sia adesso. Lavoravo nel gabinetto del Sindaco di Pisa. Avevamo chiamato Vezio de Lucia a fare il piano strutturale della città (prima parte del Piano regolatore). Insieme a lui veniva spesso anche un signore all’apparenza burbero, con in tasca pacchetti e pacchetti di Gauloises.

Abbiamo avuto tanti incontri in quasi un anno e mezzo di lavoro dello staff di De Lucia nella mia città, soprattutto a pranzo, dove Gigi non si tirava indietro di fronte ai piatti più arditi. A Pisa abbiamo fatto anche un’assemblea nazionale dell’associazione Polis, e fu lì che tante idee e proposte sulle SEM, cioè la legislazione sulle Società di Economia Mista per le trasformazioni urbane, presero corpo. Da lì trovammo anche il modo per prendere parte, insieme a Filippo Ciccone, alla seconda conferenza mondiale sugli insediamenti umani a Istanbul, nel 1996.

Poi, quando fui incaricato di creare un documentario televisivo su Follonica, chiamai di nuovo la squadra di Polis (De Lucia, Salzano, Scano, e gli altri) per organizzare un convegno sull’urbanistica in base alla legislazione toscana. E anche lì, nuova e improvvisata assemblea nazionale di Polis. Gigi, il segretario, tra tutti, era la roccia, colui che teneva tutto saldo ai principi – così, almeno lo percepivo. Parlava e spiegava e approfondiva con una necessità, quasi naturale, di discernere, separare, precisare.

Non ho mai riscontrato in altri (se non durante il movimento in università) la stessa disponibilità a parlare. Gigi era giovane, ed era sempre in assemblea anche se il movimentismo era la cosa più lontana dalla sua persona. Questa pratica, insieme ad alcuni momenti noiosi, aveva l’indubbio pregio di aprire, a volte, squarci di chiarezza fantastici. C’erano momenti in cui, dalle parole di Scano, uscivano proprio i concetti esatti per descrivere o analizzare il problema, parole che al tempo stesso erano la linea d’azione, se qualcuno avesse avuto il coraggio di perseguirle.

Una sola cosa rende ricchi gli uomini: il tempo. Gigi era ricchissimo di tempo. Ne aveva sempre molto. Non per sé, ma per gli altri e per la sua vocazione, che non era mero mestiere o professione. Lui è stato il vero civil servant.

La prima mattina d’estate di questo 2007, al convegno in onore di Gigi Scano, a Ca’ Farsetti, il Sindaco Cacciari ha ricordato anche episodi in cui i due erano in disaccordo, soprattutto su argomenti attuali che riguardano i modi di governare il presente e il futuro di Venezia.

Cacciari pareva iscrivere la propria posizione all’interno di un certo realismo politico, come altrettanto pareva riconoscere al percorso di Scano una hybris illuministica – o almeno così mi è parso intendere.

Cacciari, quindi, riconosce all’azione umana nel mondo – credo di interpretare – ciò che scriveva Spinoza nel suo Trattato: “Quel che non può essere vietato, deve essere necessariamente permesso, per quanto danno ne derivi”.

Ciò mi pare inesorabilmente vero. Tuttavia, tanti di noi, credono anche profondamente nella tenacia di Gigi Scano, nella lotta a non ridurre sé e il mondo in uno stato di minorità.

[Venezia, 23 giugno 2007]

Giovanni Malagodi, La Provincia Ambrosiana. Studio preliminare per un progetto di riordinamento amministrativo della Provincia di Milano, in Partito Liberale Italiano, Atti del 1° Convegno di studi per la “Provincia Ambrosiana”, Milano, 24-25 marzo 1956 [il testo integrale comprende anche alcune tabelle di dati che ho escluso per motivi di spazio (f.b.)]

1 - Il fenomeno della grande metropoli è peculiare del mondo moderno. L’esistenza di immensi agglomerati urbani, di città giganti la cui importanza economica e politica è spesso preminente nel Paese, che costituiscono il centro e il fulcro di vastissime regioni, che nel loro sviluppo letteralmente traboccano, senza ordine, dove e come possono, assorbendo di fatto e scavalcando le minori comunità viciniori, pone continuamente in essere una serie di problemi immani, di governo locale, di urbanistica, di riorganizzazione di servizi, di finanza, alla cui soluzione i vecchi modelli legislativi elaborati in tempi in cui il fenomeno della metropoli ancora non era nato o almeno esasperato, sono assolutamente incapaci di far fronte.

Questo fenomeno sinora, a quanto ci consta, raramente studiato in dettaglio, presenta un campo affascinante di indagine per l’economista come per l'uomo politico o il giurista, e la necessità di ricercare soluzioni adeguate ai problemi che sorgono dall'esistenza di queste grandi comunità si fa sempre più vivamente sentire.

Non vi è chi non veda come soltanto soluzioni radicali possano portare un aiuto effettivo per l’ordinamento nel caos attualmente esistente. Gli schemi legislativi attuali, particolarmente in Italia, come abbiamo già detto, sono inadeguati a fronteggiare questo problema, ed offrono tutt'al più all'amministratore intelligente la possibilità di rimandare la soluzione con palliativi. Ma il problema di fondo resta, e solo nuovi intendimenti e nuove leggi possono riuscire a ridare un riordinamento a questa materia.

Estremamente diverse naturalmente sono le situazioni particolari che si trova a fronteggiare ogni grande metropoli, ed estremamente complessi quindi sono i rimedi necessari per ciascuna di esse.

Tipico fenomeno italiano di grande metropoli nel senso sopra detto lo abbiamo in Milano.

La peculiarità di Milano non sta soltanto e solamente nell'essere essa il comune economicamente più importante d'Italia, bensì nel fatto di essere il centro irradiante e di attrazione di tutta una vasta zona, che chiameremo qui appresso “zona ambrosiana”, caratterizzata da una omogeneità di interessi e di problemi quale non si riscontra in alcuna altra zona d'Italia, e nella quale, in alcuni settori, già esiste una continuità anche urbanistica tale, da costituire nel complesso un tutt'unico territoriale, demografico ed economico, compatto ed inscindibile.

La speciale situazione di Milano, ed i particolari complessi problemi che da tale situazione sorgono, ha lontane origini storiche non facilmente né brevemente analizzabili.

Tale posizione particolare della metropoli lombarda nei confronti di tutto il suo “hinterland” risulta più chiaramente se la confrontiamo brevemente con la posizione di un'altra pur grande metropoli: Roma.

Nessuno dubita che Roma sia assillata essa pure da gravi ed acuti problemi. Ma grosso modo si può dire che i problemi di Roma, per quanto molto seri, hanno un carattere sopratutto comunale e sono riconducibili in definitiva a semplici problemi di bilancio. Roma ha praticamente illimitate possibilità di espansione; la superficie del comune solamente è di oltre 1.500 Km2, pari ad oltre la metà della superficie di tutta la provincia di Milano; attorno ad essa, geograficamente parlando, vi è il vuoto; quando occorresse, molti dei comuni che la circondano potrebbero facilmente e con loro vantaggio venire assorbiti. Roma, insomma, abbisogna di un piano regolatore organico, abbisogna specialmente dei mezzi per poterlo attuare, ma da un punto di vista giuridico e amministrativo, per essa non vi sono difficoltà per risolvere le sue particolari situazioni.

Totalmente diversa è invece la situazione di Milano. Innanzi tutto, e dobbiamo sempre tenerlo a mente nella disamina dei problemi che seguono, i problemi di Milano non hanno un carattere puramente comunale, ma investono tutto un vasto territorio, per lo meno gran parte , della provincia, e forse anche comuni appartenenti a provincie limitrofe. Malgrado questa sua posizione di centro effettivo di un'area metropolitana vasta e definita, Milano è letteralmente soffocata entro i propri ristretti confini urbani e circondata da una miriade di comuni, molti dei quali sono vere città, ricche, industrializzate, indipendenti, fiere della loro indipendenza e del loro passato storico; comuni fittamente popolati che toccano, combaciano con la metropoli, si confondono con essa, e ne costituiscono di fatto la diretta e naturale continuazione, e che tuttavia costituiscono giuridicamente enti locali autarchici, con gli immancabili conflitti di interessi e di potestà, o almeno con la mancanza di coordinamento, che derivano dall’esistenza di una pluralità di poteri completamente autonomi l'uno rispetto all'altro.

È di grande interesse osservare per un momento una carta della provincia con il tracciato dei confini dei comuni. I comuni della provincia milanese sono 245, per la maggior parte piccoli o piccolissimi come estensione e assai densamente popolati. Tale frazionamento è il risultato di un lunghissimo processo storico, ma oggi esso è oltre che anacronistico, dannoso e controproducente per lo sviluppo di tutta la zona.

Non tutta la provincia si può naturalmente dire che converga direttamente e di fatto su Milano. La parte a sud della città, ad esempio, è ancora una zona eminentemente agricola, e l'industria, salvo eccezioni tipo Melegnano, è ancora in una fase embrionale. Ma tutta l'area situata a nord della statale per Magenta da un lato e della ferrovia Milano Treviglio dall'altro lato, rappresenta un complesso industriale unico nel suo genere e tra i maggiori forse anche in Europa.

2 - Il descrivere una provincia, quale la milanese, dal punto di vista demografico ed economico non è una cosa facile, specie se per ragioni di spazio deve essere contenuta in poche pagine. Conviene per altro. ricordare alcuni dati che valgono a dare l'ordine di grandezza dei fenomeni.

Secondo i dati del censimento dell'anno 1951 la provincia di Milano presentava una popolazione residente di 2.505.153 abitanti, raggruppata in 245 comuni di cui: Milano con 1.274.245 abitanti; Monza con 73.114 abitanti; cinque comuni fra i 20 ed i 50 mila abitanti; venti comuni fra i 10 ed i 20 mila abitanti; 44 comuni fra i 5 ed i 10 mila abitanti ed il resto distribuito fra altri 174 comuni con una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti.

Il settore industriale, sempre alla stessa epoca, era costituito da un complesso di 104.412 ditte articolantisi in 113.311 unità locali con 875.514 addetti e con una forza motrice installata per 2.045.579 HP.

Nel 1954 il prodotto netto dei settori dell'industria, commercio, credito, assicurazioni e trasporti è stato di 950.6 miliardi di lire, pari cioè al 16.18 % del prodotto netto nazionale per gli stessi settori; percentuale non raggiunta non solo da nessuna altra provincia, ma nemmeno da nessun altro complesso regionale. Primato questo che la provincia di Milano detiene anche per i settori delle “libere professioni e servizi industriali e domestici” con un ammontare assoluto di 66.5 miliardi cioè il 14.97% del totale nazionale e ciò che più conta lo detiene anche nel totale del reddito privato e della pubblica amministrazione con un valore assoluto di ben 1.078 miliardi pari all'11.77% del totale nazionale.

Una simile preponderanza economica appare ancor più evidente se i 950.6 miliardi prodotti dai settori industria, commercio, credito, assicurazione e trasporti della provincia di Milano si confrontano ai 794 miliardi di tutto il Piemonte, ai 442,2 dell'EmiliaRomagna ed ai 514.8 miliardi del Lazio (di cui 457 spettano al comune di Roma).

Anche nel settore agricolo il posto occupato dalla provincia di Milano è di grande importanza, benché in tono minore di quello industriale. Il suo prodotto netto agricolo ammonta a 50.3 miliardi pari al 2.00% del prodotto netto nazionale, percentuale superata di poco solo da quattro provincie eminentemente agricole e cioè Bari, Cuneo, Pavia e Roma.

Tale apparato produttivo, che è il più progredito d'Italia ed anche uno dei migliori d'Europa, non presenta però uno sviluppo territoriale omogeneo. In linea di massima, ma con limiti territoriali abbastanza definiti, la provincia di Milano può essere divisa in due zone nettamente differenziale. La prima, che definiremo prettamente industriale, parte da Milano e comprende tutto il nord della provincia sviluppandosi in particolar modo sulle direttrici Milano – Magenta - Abbiategrasso; Milano - Legnano e superando i limiti provinciali si estende a Busto Arsizio - Gallarate ed anche al Saronnese; Milano - Meda; Milano - Seregno; Milano – Monza - Vimercate; Milano - Melzo e, unica eccezione verso il sud, sulla direttrice Milano - Melegnano. Direttrice quest'ultima che forma pittoricamente il manico del ventaglio di irradiazione che parte dal Capoluogo.

Lo sviluppo industriale della provincia di Milano ha seguito, come sempre ed ovunque, le grandi vie di comunicazione, le fonti di energia e di materie prime e, pure molto importante, le fonti di mano d'opera.

Per meglio rendersi conto dell'entità del fenomeno crediamo sia necessario ricorrere nuovamente alle cifre.

Se a puro scopo descrittivo, da tutta la provincia milanese scorporiamo la zona industriale seguendo le direttrici più sopra tracciate e facendone un territorio continuo, si può facilmente vedere come la c.d. “Zona Ambrosiana” comprendente circa 135 comuni su 245, raccolga nel complesso 1'88.0% della popolazione, il 91.6% delle industrie manifatturiere, con il 96.3% degli addetti in tali industrie, e il 90.9% delle aziende commerciali con il 93.4% dei relativi addetti.

Nel complesso, su una superficie di 1.428 Km2. che rappresenta grosso modo il 50% di tutto il territorio provinciale, è raggruppato più del 90% dell'attrezzatura industriale e commerciale della provincia stessa.

Nel resto della provincia, che copre il 48.3% della superficie totale, la concentrazione delle industrie manifatturiere e commerciali è solo dell'8.8% delle ditte e del 4.3% degli addetti.

Inoltre le differenze delle percentuali delle ditte in confronto a quelle degli addetti, che nella zona ambrosiana è in crescendo (91.2% contro 95,7%) e nella seconda zona è in diminuendo (1'8.8% contro 4.3%) indica chiaramente come nel primo territorio prevalga la media e grossa industria e nel secondo prevalga la piccola industria a carattere artigianale.

Se alla “zona ambrosiana” uniamo a scopo di indagine anche i comuni Varesini, cioè il Saronnese, il Gallaratese ed il Bustese, che ne costituiscono una specie di prolungamento economico, il potenziale economico-demografico della zona ne risulterebbe ulteriormente ed enormemente aumentato.

Ancor più grandioso appare il problema se questi dati li compariamo a quelli relativi a tutta la Lombardia ed all'intero Paese.

La “zona ambrosiana” (parte settentrionale della provincia di Milano e comuni varesini) comparata alla Lombardia, contro una superficie pari al 6.9% possiede il 42.9% delle ditte manifatturiere con il 55.796 dei relativi addetti, ed il 39.6% delle ditte commerciali con il 49.0% dei relativi addetti. Tale poderosa concentrazione aumenta in proporzione se la comparazione viene fatta con tutto il territorio nazionale; e cioè su una superficie pari allo 0.5% si concentrano il 7.3% delle industrie manifatturiere con il 17.9% degli addetti al settore ed il 6.8% delle ditte commerciali con il 10.1% degli addetti. Non solo, ma per tornare al paragone con Roma la zona ambrosiana si estende su una superficie di circa 1.650 Km2. contro una superficie del solo comune di Roma di oltre 1.500 Km2: quasi nove volte la superficie del comune di Milano (182 Km2).

3 - Nasce a questo punto naturale la domanda: quale sarà lo sviluppo della “zona ambrosiana” nei prossimi 15-20 anni? Si sa quanto sia azzardato fare calcoli e previsioni future nel campo economico, tanto più se si riflette che in questo caso i dati del passato sono legati in parte a fenomeni straordinari quali la guerra e la ricostruzione e quindi ne è ancora più difficile del solito la proiezione nel futuro.

Non è il caso di entrare qui in una disamina di tutte le indagini, sia generali che particolari, che portano alla complessa valutazione dello sviluppo futuro della zona. È opportuno invece tracciare, sia pur sinteticamente, la linea conduttrice della valutazione stessa.

È noto come per il complesso del nostro paese si calcoli generalmente per gli anni futuri un incremento annuo del 5% nel reddito nazionale netto. Accettando la validità di tale assunto, si può calcolare che il prodotto netto dei settori privati passerà per tutta la nazione dagli attuali 8.008 miliardi annui a 16.000-20.000 miliardi (di lire 1954) nel 1970-1975. Se un tale incremento lo applichiamo anche alla “zona ambrosiana” per lo stesso periodo di tempo, il prodotto netto dei settori privati passerà dagli attuali 1.200 miliardi a 2.400-3.000 miliardi nel quinquennio 1970-1975. Evidenti ed ulteriori considerazioni però portano ad aumentare questo incremento della “Zona ambrosiana” la cui importanza ed il cui impeto di sviluppo nel campo economico abbiamo visto essere di gran lunga superiore alla media nazionale. Si è quindi probabilmente prudenti se si assume che il prodotto netto dei settori produttivi privati nella zona in questione possa raggiungere nel 1970-1975 i 3.000-3.500 miliardi, corrispondente ad un saggio annuo di incremento di poco più del 6%. In altre parole, tra 15-20 anni la produzione economica del settore privato nella “Zona ambrosiana” raggiungerebbe 2.5-3 volte quella attuale e anche l’apparato produttivo dovrà essere aumentato dello stesso ordine di grandezza, e così pure la concentrazione industriale e commerciale della zona.

Rimanendo su un piano sintetico e generale va però ancora notato come lo sviluppo industriale e commerciale sopra esposto si accompagnerà necessariamente ad uno sviluppo probabilmente ancora maggiore delle occupazioni “terziarie” (servizi diversi) e quindi ad uno sviluppo degli “addetti” non agricoli e in generale ad un incremento demografico almeno altrettanto importante.

Il totale degli addetti non agricoli della zona complessiva sopra delimitata è valutato per il 1951 nell'ordine di un milione di unità e se a tale cifra aggiungiamo i liberi addetti diretti o indiretti alle aziende industriali e commerciali, i commessi viaggiatori e rappresentanti, i liberi professionisti, i lavoratori a domicilio, gli agricoltori liberi e gli addetti agricoli, il totale della popolazione attiva raggiunge la ragguardevole cifra dell'ordine del milione e mezzo, e cioè più del 55% della popolazione totale. In conseguenza, se si assume un coefficiente di incremento della attività economica generale della zona per i prossimi 15-20 anni di 2.5-3 volte, è da presumere che anche per gli addetti il coefficiente di incremento sarà (tenuto conto dell'aumento nella produttività) dell'ordine di 2-2.5 volte, di modo che nel 1970- 75 gli addetti non agricoli ammonterebbero a circa 2-2.5 milioni di unità, mentre il totale incremento demografico (sia naturale che di carattere migratorio) porterebbe la popolazione a circa 5 milioni di abitanti, di cui circa 3 milioni economicamente attivi.

Anche se su queste cifre si volesse praticare un taglio prudenziale, la loro evidenza, sia pure schematica. e quello che ci dicono sulla importanza attuale della zona ambrosiana e sull'ampiezza dei futuri sviluppi è tale, riteniamo, da rendere indispensabile un pronto esame e pronte decisioni e da giustificare pienamente i provvedimenti amministrativi che di seguito proporremo per la zona.

In particolare ciò che ci dicono questi dati è la necessità di guardare come a un tutto omogeneo questo complesso produttivo e di pro- porre quindi schemi che tengano conto pienamente di questa situazione di fatto che si è creata e che è destinata a progredire.

Parlando più avanti delle funzioni che l'amministrazione responsabile di un territorio economicamente così avanzato è tenuta a svolgere, parleremo diffusamente degli specifici compiti che le dovrebbero essere affidati.

Qui tuttavia, per rendere più facilmente intelleggibili le formule che verranno esposte, e per concludere questa parte illustrativa delle caratteristiche economiche del milanese, vogliamo almeno accennare l ad alcuni dei problemi comuni della “zona ambrosiana”.

Innanzi tutto, i trasporti e le strade che dovranno ricevere una impostazione unitaria, adatta e indispensabile per lo sviluppo economico di tutto il complesso territoriale. Poi l'attività urbanistica e tutto ciò che essa comprende: quindi dislocazione delle industrie, coordinamento e decentramento dei servizi, zonizzazione delle città. In terzo luogo, il problema del più facile accesso alle fonti di energia e la dislocazione di tali fonti là ove si desidera promuovere una maggiore concentrazione di industrie a preferenza di altri luoghi.

Sono problemi questi che debbono essere trattati in dettaglio, ma già da questi accenni appare chiaro come essi siano comuni a tutta la zona e come sia quindi vitale che essi vengano trattati in modo organico.

Li riprenderemo tra breve dopo avere considerato il lato amministrativo e giuridico del problema.

4 - La breve analisi economico-demografica che abbiamo or ora fatto, ha, speriamo, ancor meglio servito ad illustrare la specialissima importanza che la zona ambrosiana riveste per tutto il Paese.

Da molte parti, a quanto ci consta, si sente la necessità che tutta i questa zona venga meglio coordinata al fine di ottenerne un più regolato sviluppo urbanistico in senso lato, ma la legislazione provinciale vigente in Italia non offre il modo di attuare questo coordinamento.

Le premesse basi dalle quali siamo partiti nello svolgere questo studio, si possono così sintetizzare: necessità di coordinamento per tutta la zona ambrosiana dei principali servizi, piani regolatori, strade e comunicazioni, sanità e igiene, assistenza e beneficenza, istruzione generale e professionale con la metropoli lombarda “centro funzionale e irradiante”. E il principio informatore quindi, dal quale ci siamo mossi nel formulare le proposte che seguiranno è che l'ordinamento provinciale attualmente esistente è insufficiente per attuare un coordinamento adeguato di questi servizi per il complesso dei comuni che intèressano.

Non è inutile ricordare qui brevemente i principi della legislazione provinciale italiana. La provincia appare oggi sotto un duplice aspetto: come circoscrizione amministrativa dello Stato e come ente autarchico territoriale. Sotto il primo aspetto essa è più che altro sede di alcuni uffici governativi organi dell'amministrazione statale: il Prefetto, il Vice Prefetto, il Consiglio di Prefettura, la Giunta provinciale Amministrativa.

Sotto il secondo aspetto essa appare come ente dotato di personalità giuridica distinta da quella dello Stato e rivolto alla soddisfazione di particolari interessi pubblici. Gli organi della provincia intesa in quest'ultimo senso sono il Consiglio Provinciale, eletto a suffragio universale con le modalità fissate dalla legge 8 marzo 1951 n. 122, la Giunta Provinciale e il Presidente della Giunta Provinciale.

Le attribuzioni della provincia rientrano quasi tutte nel campo dell'attività sociale. Esse si estendono inoltre anche alle opere pubbliche, in particolare strade e opere idrauliche.

Comunque difficilmente si possono trovare nelle attribuzioni della provincia dei poteri coordinatori generali sul tipo di quelli richiesti per un migliore coordinamento della zona che a noi interessa. E tuttavia la necessità di una facoltà di tale genere è da tutti sentita, dalle amministrazioni provinciali stesse che tendono per quanto possibile ad allargare i loro interventi.

Unica concreta possibilità di coordinamento relativamente a determinate materie, è oggi data dalla facoltà di costituire dei consorzi amministrativi. La disciplina di tali consorzi è contenuta negli articoli 100-172 della legge comunale provinciale; i consorzi possono essere intercomunali e interprovinciali, obbligatori o facoltativi.

In tutti i casi però, come già abbiamo detto, la regolamentazione giuridica attuale appare insufficiente per un coordinamento adèguato e continuo dell'attività di tutti i comuni.

Non v'è chi non veda, d'altro lato, quanto sia essenziale per la zona ambrosiana un coordinamento adeguato dei principali servizi e la stesura di un piano regolatore provinciale capace di dirigerne lo sviluppo negli anni futuri.

5 – L’aspirazione ad un migliore regolamento di tutto il territorio è da tempo sentita.

Esiste da noi una legge generale per tutto il Paese, una legge emanata nell'ormai lontano 1942, la quale impone appunto lo studio di piani regolatori regionali, col fine precisamente, ove se ne presenti la necessità, di studiare il coordinamento di territori con caratteristiche omogenee. Tale legge, per molti anni caduta nel dimenticatoio, ha ripreso attualità oggi e già qualche regione ha iniziato gli studi preliminari per la stesura di piani regolatori regionali. In testa a questi studi vi è la regione lombarda, e in particolar modo la provincia di Milano ha per suo conto già iniziato da tempo indagini approfondite dirette a puntualizzare i problemi più scottanti di tutta la provincia. Ma tali studi, per quanto accurati e indispensabili per una efficace comprensione del problema, sono ancora lontani dal potere trasformarsi in pratiche iniziative.

Che un fermento di attività in questo senso esista è stato anche recentemente confermato al congresso internazionale tenuto alla Mendola il settembre scorso, nel quale sono stati dibattuti i problemi della pianificazione regionale. Pure in occasione del convegno delle città, tenuto a Roma l'autunno scorso, sono stati in parte dibattuti i problemi che insorgono dall'esistenza di vaste aree metropolitane. A Milano, infine, è stato non molto tempo fa approvato un piano intercomunale con 51 comuni della provincia per la regolamentazione urbanistica.

6 - Tutto questo fermento di iniziative, di studi, di scritti in questo senso, dimostra che è ormai giunto il momento per passare da studi astratti a proposte concrete che permettano di tradurre nei fatti le esigenze rivelate dagli studi medesimi.

Di norma, e giustamente, si ha paura di costituire nuovi organi “super” di qualunque tipo essi siano. Ma nel caso di riordinamento di una zona metropolitana, di fatto già costituita, dove tuttavia, come già abbiamo fatto rilevare prima, una pluralità di poteri autonomi si contrastano a vicenda, danneggiandosi reciprocamente e compromettendo il regolare sviluppo di tutto un territorio economicamente essenziale per il Paese, solo la creazione di un qualche organo super-comunale capace di esercitare una autorità coordinatrice per alcune determinate attività di interesse comune, può avere la possibilità di ottenere qualche pratico ed utile risultato.

È in questo senso che si svolge questo studio e in questo senso che si prospettano alcune possibili soluzioni. Quelle che seguono, vogliono essere delle proposte e come tali vogliono costituire un punto di partenza per suscitare discussioni, per essere eventualmente sostituite da altre proposte migliori. Ciò che conta, in tutti i casi, è di iniziare a fare qualche cosa in questo campo nel più breve tempo possibile. Anche qualche errore all’inizio sarà sempre preferibile alla attuale inerzia.

7 - In astratto le possibili soluzioni che si possono dare al problema sono molteplici. Si può da un canto immaginare di procedere alla costituzione di un qualche organo di tipo super-comunale, non toccando gli attuali organi amministrativi della provincia, in particolare l' Amministrazione provinciale propriamente detta. Teoricamente, almeno tre sono i possibili metodi per attuare questo. Si può per esempio pensare di allargare smisuratamente il Comune di Milano sino ad assorbire tutti o quasi i comuni componenti la zona ambrosiana. L’immenso comune che ne risulterebbe potrebbe in teoria funzionare come ogni altro comune, oppure venire a sua volta risuddiviso in distretti o sotto-comuni, sul tipo dei distretti di New York.

Appare subito evidente che una soluzione del genere sarebbe inadeguata e irrealizzabile. È pur vero che il fenomeno di fusione di comuni avviene anche con una certa frequenza, e Milano stessa, ad esempio, nel 1923 ha proceduto alla aggregazione di una decina di comuni limitrofi. È pur vero anche che in determinati casi la fusione di due o più comuni può essere cosa utile e benefica e specialmente nella provincia di Milano, caratterizzata come già abbiamo accennato prima da una miriade di piccoli o piccolissimi comuni, ciò dovrà col tempo avvenire.

Ma la fusione di oltre un centinaio di comuni in uno solo, sia pur questo Milano, sarebbe oggi assolutamente ingiustificata. Il comune è oggi senza alcun dubbio l'ente locale più sentito e più rappresentativo. Nella provincia di Milano poi abbiamo a che fare con comuni sul tipo, tanto per fare qualche nome, di Monza o Legnano, ricchi di tradizioni e non solo di tradizioni, comuni che mai si assoggetterebbero a divenire dei puri e semplici distretti o quartieri.

Infine la continuità urbanistica è per ora limitata ad alcuni specifici settori della zona ambrosiana, per cui l'immenso comune che ne risulterebbe sarebbe anche ed oltre tutto territorialmente discontinuo. Insomma una proposta del genere oltre che del tutto immatura, urterebbe contro il buon senso e tutta la nostra tradizione.

Più facilmente realizzabile potrebbe invece essere un'altra proposta. Creare cioè al di fuori e al di sopra dell'attuale Amministrazione provinciale e dei singoli Consigli comunali naturalmente, un “Consiglio Ambrosiano” “ sui generis”, eletto in modo particolare e dotato di particolari poteri di coordinamento e di supervisione, che dovrebbe convivere pacificamente con gli organi amministrativi attualmente esistenti.

In astratto tale soluzione è possibile, ma il suo pratico funzionamento sarebbe in realtà estremamente difficile.

È vero che l’Amministrazione provinciale attuale non svolge compiti di coordinamento, ma molte delle sue funzioni, quelle che riguardano la viabilità, per esempio, dovrebbero venire assunte dal Consiglio ambrosiano se questo deve potere esercitare un’utile funzione. Si verrebbe quindi, ad avere una situazione ibrida. O l'eligendo Consiglio ambrosiano si limita ad avere una funzione puramente consultiva, e in questo caso esso perde tutta o quasi la sua utilità pratica. Oppure dovrebbero essere drasticamente fissati i compiti spettanti all'organo ambrosiano e all'organo provinciale.

In pratica però riteniamo che i conflitti di competenza che si creerebbero sarebbero infiniti, e tutta la bardatura burocratica che si finirebbe con l'avere diverrebbe insopportabile.

Infine, ed in modo più consono alla realtà, si potrebbero saltare a piè pari le difficoltà insite nelle due precedenti proposte, proponendo di creare invece nell'ambito della zona ambrosiana un grande consorzio amministrativo di tutti i comuni che ne fanno parte, consorzio chiamato a deliberare e decidere su alcune e prefissate materie.

Vale la pena di analizzare in dettaglio questa proposta perchè essa può apparire sotto molti aspetti buona, e migliore e più facilmente realizzabile di quelle che faremo in seguito.

Principale vantaggio di una soluzione del genere sarebbe quello di appoggiarsi alla legge vigente usufruendo della nota figura giuridica del consorzio amministrativo di cui abbiamo già accennato in precedenza.

Attualmente la facoltà di costituire dei consorzi amministrativi intercomunali e anche interprovinciali viene utilizzata per scopi di limitata importanza e di limitato interesse. Per provvedere ad esempio a determinate opere pubbliche di interesse collettivo per pochi comuni o per provvedere ad alcuni servizi in comune. Tipico esempio la costituzione di un consorzio per il servizio di segreteria tra due comuni.

Da un punto di vista strettamente giuridico non crediamo vi sarebbero ostacoli gravi a voler estendere questa facoltà di consorziarsi ad un numero anche rilevante di comuni e per scopi di vasta ed ampia portata.

Il vantaggio di usufruire di una figura giuridica nota è in un certo senso rilevante. Stabiliti i problemi e i bisogni comuni di una determinata zona, i comuni componenti tale territorio potrebbero venire obbligatoriamente inclusi nel consorzio (consorzio obbligatorio), e di tale consorzio verrebbe a far parte per legge la provincia stessa, la quale, sempre per legge, sarebbe tenuta a concorrere per almeno un quarto alle spese.

In tal modo si realizzerebbe lo scopo di provvedere in modo unitario ai problemi generali della zona, senza sminuire di troppo l'autorità dell'amministrazione provinciale.

L'assemblea consortile diverrebbe in un certo senso quell'organo super comunale di cui abbiamo detto prima, con facoltà di imperio sui comuni della zona per le materie fissate come scopi del consorzio nello statuto del consorzio stesso.

A parte l'utilità pratica di un consorzio di tal fatta, esso potrebbe anche finire con l'avere una funzione educativa non trascurabile per la collaborazione dei diversi comuni tra di loro.

Malgrado l'apparente vantaggio di una soluzione del genere, vi sono diversi punti contrari di natura politica oltre che pratica che ne sconsigliano l'adozione.

In primo luogo sarebbe sproporzionato e contrario allo spirito della legge voler estendere questa facoltà di riunire alcuni comuni in consorzio, sino a tal punto. Non era certo negli intendimenti del legislatore dar modo di costituire un consorzio di tale ampiezza e con tali poteri, e finire col dare ad una assemblea consortile una autorità specifica superiore alla stessa autorità della amministrazione provinciale e di tutti i singoli consigli comunali.

Secondariamente un organo consortile mancherebbe di ogni carattere di flessibilità e di adattabilità alle diverse situazioni di fatto che si vengono via via a creare.

Sempre contraria allo spirito della legge è inoltre la formazione di un consorzio creato “per sempre”. Il consorzio quale è comunemente inteso, ha sempre un carattere temporaneo, mentre è essenziale per la zona ambrosiana un organismo permanente e responsabile delle sue azioni.

Infine una soluzione del genere mancherebbe completamente di “cuore politico”. Nell'assemblea consorti le entrerebbero a far parte unicamente i rappresentanti dei singoli comuni (nel consorzio, ogni comune avrebbe diritto ad un numero di rappresentanti in proporzione del suo contributo al consorzio stesso. In tal modo l'assemblea consortile che risulterebbe sarebbe oltre tutto troppo numerosa e inadatta a compiere un lavoro utile) ed i problemi della zona verrebbero visualizzati ed impostati sotto l'angolo ristretto dei singoli problemi comunali, e non nella loro completezza e senza tener conto dei futuri bisogni e sviluppi di tutto il territorio nel suo complesso.

Mentre una funzione anche politica è essenziale in un organismo chiamato a riordinare tutta una parte di territorio che, vale la pena di ripeterlo, è economicamente e anche politicamente il più importante del Paese.

8 - Le tre proposte di cui abbiamo ora detto appaiono irrealizzabili o per lo meno sconsigliabili. Nessuna di esse permette di raggiungere lo scopo di realizzare un organo coordinatore, dotato anche di facoltà di imperio, senza per questo assorbire o annullare la funzione del comune.

E l'ostacolo principale alla realizzazione di questo organo è dato dall'esistenza di una amministrazione provinciale inadatta a svolgere compiti coordinativi, e nello stesso tempo dotata di alcune funzioni che debbono venire assunte ed opportunamente sviluppate dall'organo ambrosiano.

La proposta quindi che segue parte da tutt'altro presupposto delle precedenti, e riteniamo sia la sola che ci permetta di raggiungere il fine desiderato.

Già abbiamo illustrato in precedenza quelle che sono oggi le funzioni della Amministrazione provinciale, e già abbiamo rilevato più volte come queste siano insufficienti.

È a tutti noto che oggi la provincia è poco sentita, poco apprezzata anche quando, come la provincia di Milano, essa cerca di allargare i suoi interventi, conscia della necessità che qualche cosa di più deve essere fatto per la vita del territorio che essa amministra.

La migliore prova di questa aspirazione da parte della provincia di Milano la si ha oggi considerando gli studi che essa ha condotto, appunto per la stesura di un piano regolatore provinciale nell'ambito del piano regolatore regionale. Ma questa sua lodevole aspirazione è destinata a cadere nel nulla per la mancanza di una base giuridica su cui appoggiarsi, e la impossibilità pratica di potere intervenire efficacemente nell'ambito dei singoli comuni.

Riteniamo quindi che un allargamento dei poteri della provincia, una trasformazione radicale della amministrazione provinciale di Milano, costituisca l'unico metodo per realizzare quanto da ogni parte, dalla provincia stessa in primo luogo, si chiede insistentemente.

È in questo senso che è ispirata la proposta che segue, nel senso cioè di trasformare l'amministrazione provinciale milanese attuale, in una amministrazione provinciale ambrosiana, capace realmente di corrispondere ai bisogni che il moderno e grandioso sviluppo economico e demografico della provincia richiede.

È evidente che una trasformazione della attuale provincia in tal senso significa una vera e propria rivoluzione amministrativa.

Ma solo un intervento radicale in questo campo può permettere il riordinamento e il rinnovamento del territorio ambrosiano, mentre il ricorrere a semplici palliativi, quale in definitiva sarebbe ad esempio la formazione di un consorzio, non farebbe che ritardare e rendere più difficile la soluzione del problema.

La provincia ambrosiana ha diritto e ha necessità ad un ordinamento speciale adatto alla sua posizione. Esempi di speciali amministrazioni per speciali situazioni non mancano. Valga per tutti la speciale amministrazione di Parigi e del dipartimento della Senna, Parigi, capitale economica oltre che politica della Francia, e il dipartimento della Senna, immenso suburbio della capitale francese, godono da un secolo e mezzo di speciali prerogative che li differenziano da ogni altro dipartimento della Francia. In Francia “ la capitale appartient au gouvemement” e questo stato di fatto riconosciuto ha permesso e permette tuttora di coordinare adeguatamente lo sviluppo di tutto il dipartimento.

Non è retorica l'affermare che Milano è realmente la capitale economica di Italia. Ed è uno stato di fatto riconosciuto che gran parte della ,zona del milanese fa corpo con Milano ed- ha interesse, come Milano, ad una visione ed azione unitaria nello sviluppo di questo spazio vitale comune.

Crediamo quindi che sia legittima aspirazione della provincia di Milano quella di ottenere dallo Stato una legge speciale, che le consenta di attuare a mezzo di un ordinamento suo particolare, lo sviluppo coordinato di tutto il suo omogeneo complesso.

9 - La possibilità di attuazione di questa “Provincia Ambrosiana” va compresa nell’ambito dell’attuale territorio della provincia di Milano ed è in questo ambito che deve avvenire la trasformazione dell’amministrazione provinciale attuale in una amministrazione ambrosiana capace di coordinare lo sviluppo di tutto il territorio.

Nella fase iniziale di questo studio, e sulla base dei soli dati economici riferiti all’inizio, e sulla constatazione quindi da un lato di una zona sud della provincia ancora caratterizzata da una economia prettamente agricola, e d’altro lato di una zona la quale pur non facendo parte del territorio della provincia, presentava tuttavia caratteristiche analoghe alla zona ambrosiana propriamente detta, era stata avanzata un’idea la quale prevedeva per il sud la costituzione di una provincia a sé con centro Lodi, e a nord l’assorbimento nella nuova provincia di Milano di un certo numero di comuni appartenenti alla provincia di Varese.

Queste due possibilità, seppure apparentemente logiche e giustificabili sul piano teorico, si sono dimostrate a seguito di indagini più approfondite, non consone allo spirito del progetto e non utili. Mentre infatti la zona del lodigiano lasciata a sé incontrerebbe fin dall’inizio difficoltà di ordine finanziario assai notevole che le impedirebbero non solo un regolare funzionamento ma limiterebbero ogni possibilità di progresso della zona, finendo col rendere ancor più marcato negli anni futuri il distacco economico fra il nord ed il sud della provincia di Milano, l’assorbimento di alcuni comuni tra i più ricchi del Varesotto costituirebbe a sua volta un peso finanziario molto gravoso per la vicina provincia.

È invece/nello spirito e nelle intenzioni della nuova provincia ambrosiana di cooperare fruttuosamente con le zone e provincie limitrofe per un progresso economico di tutta la regione lombarda.

Mantenendo il territorio della provincia metropoli ambrosiana nell’ambito dell’attuale provincia, si viene a dare una possibilità quale mai era stata data prima, alla zona del Lodigiano di fruire e partecipare dei benefici del progresso che marcherà il futuro andamento della zona ambrosiana. E non si viene a ledere il funzionamento e l’operosa azione di una provincia vicina fra le più attive, con la quale invece saranno presi per il vantaggio reciproco tutti gli accordi necessari per condurre una azione comune.



10 - La sostanza della proposta sta comunque nel creare la “Provincia Ambrosiana” e nel costituire quindi un consiglio provinciale ambrosiano “ ad hoc” e quale che sia l’ambito territoriale di sua spettanza, le sue funzioni e i suoi compiti non mutano. Quali sono i più. assillanti problemi della provincia ambrosiana r e quali dovrebbero essere le funzioni del Consiglio Provinciale Ambrosiano? , A nostro parere il primo e principale compito del Consiglio Ambrosiano sarà quello di elaborare un concreto piano regolatore generale di tutto il territorio della provincia. Un piano regolatore territoriale di tale fatta è già allo studio da parte della provincia, come abbiamo accennato in precedenza. A quanto risulta, gli studi effettuati dalla provincia in quasi due anni di lavoro hanno portato alla rilevazione degli aspetti più caratteristici di tutto il territorio della provincia di Milano. Il lavoro è stato condensato in oltre 70 tabelle e grafici, riferentisi alla natura fisica del territorio, al suo aspetto urbanistico; con inchieste particolari sui consumi annui pro-capite di energia elettrica, con indici del grado di progresso dei singoli comuni, con comparazione dello sviluppo edilizio dei centri abitati negli ultimi 50 anni; i problemi relativi ai servizi pubblici, gli elettrodotti, i metanodotti, ferrovie, tranvie, autolinee etc. hanno pure ricevuto ampia elaborazione. E ancora, è stata fatta un’indagine sul fenomeno importantissimo delle fluttuazioni della popolazione e sui moti pendolari delle masse lavoratrici, sull’indice di disabitabilità etc. E infine sono state condotte indagini accurate sulla situazione industriale, del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura di tutta la provincia.

Questo lavoro dovrà certamente servire di base per la stesura del piano regolatore generale, piano che dovrà, ci sembra, limitarsi alla soluzione dei problemi di carattere generale che implicano rapporti fra i comuni della zona o la struttura urbanistica complessiva di questa (zone residenziali, zone di affari, zone industriali, parchi etc.), lasciando invece ad ogni singolo comune la responsabilità di elaborare il proprio piano regolatore particolare.

Per quanto riguarda tuttavia il piano regolatore generale il Consiglio Ambrosiano dovrà avere i poteri necessari per promuoverne e assicurarne l’attuazione; dovrà avere la possibilità, quando necessario, di richiedere contributi ai comuni più interessati, dovrà in una parola potere esercitare effettivamente la sua funzione di organo super-comunale.

Il primo e forse principale problema che dovrà essere risolto dal nuovo organo ambrosiano nell’ambito del piano regolatore e che dovrà quindi venire trattato in questo in dettaglio, è quello della viabilità e dei trasporti.

A questo proposito l’organo ambrosiano non dovrà soltanto fare sue le attuali attribuzioni della provincia, ma dovrà estenderle; tutta la rete, per esempio, delle strade comunali, ora lasciate spesso in abbandono, a volte non completate per mancanza di mezzi da parte dei comuni, dovrà cadere sotto la sua giurisdizione.

Non solo, ma la stessa ANAS dovrebbe concordare i suoi progetti viarii nella zona, con l’organo ambrosiano, al fine di armonizzare lo sviluppo di tutto il territorio.

Quanto sia grave il problema della viabilità per Milano lo si può mostrare con pochissimi accenni.

Esso può suddividersi in tre parti: il problema della rete stradale di collegamento periferico milanese; il problema delle comunicazioni tra Milano e la zona ambrosiana ed il problema della penetrazione delle linee di comunicazione nella città.

Per quanto riguarda il primo problema va innanzi tutto detto che il raccordo anulare attorno al comune di Milano è oggi solo parziale ed anche frammentario, mentre le necessità richiedono non solo che esso sia completato ma anche che sia potenziato mediante l’attuazione di uno o due ulteriori anelli concentrici di raccordo che attuino il principio delle grandi strade di circonvallazione e delle strade di arroccamento immediato.

Il problema delle comunicazioni tra Milano e i comuni viciniori I costituisce un punto vitale della organizzazione economico-territoriale ambrosiana; data l’importanza esso va quindi affrontato con larghezza di idee e visione lungimirante. Ed infine collegato al problema delle comunicazioni vicinali vi è quello di una sufficiente penetrazione di queste nella città e del collegamento fra loro.

Collegamento e penetrazione specialmente necessari per il movimento giornaliero dei lavoratori e degli uomini di affari che già attualmente è dell’ordine di 200 mila unità. Oggi in tale settore la perdita di tempo è troppo alta e ciò costituisce un danno che va eliminato al più presto.

Quanto si è ora detto per le strade vale anche per i trasporti ferroviari. Nell’espletamento dei loro servizi nella zona, sia le Ferrovie dello Stato sia le Ferrovie private dovrebbero consultarsi con l’organo ambrosiano al fine di tener conto delle effettive necessità della provincia tutta. Lo stesso vale per le autolinee private.

Funzione dell’organo provinciale sarà naturalmente anche quella di indirizzare e armonizzare lo sviluppo urbanistico nel territorio in senso vero e proprio, specie là dove la continuità urbanistica tra Milano e i Comuni più vicini è quasi ininterrotta.

Il piano regolatore di Milano quindi dovrebbe venire collegato con i piani regolatori dei comuni vicini, e il Consiglio Ambrosiano potrebbe, se necessario, e in deroga al principio dell’autonomia dei comuni nella stesura dei piani regolatori particolari, imporre per quella parte della provincia ambrosiana urbanisticamente continua la stesura di piani regolatori particolareggiati.

L’amministrazione della provincia-ambrosiana dovrà inoltre influenzare nelle sue linee generali anche la dislocazione futura delle industrie.

Nella elaborazione del piano provinciale essa dovrà poter indicare le zone in cui viene esclusa la costituzione di nuovi complessi industriali, e dove in conseguenza i comuni non potranno dare permessi di insediamento a nuove industrie.

D’altro canto, sempre nel piano regolatore, dovranno essere indicate le zone industriali più convenienti, e sarà compito dell’amministrazione di facilitare l’insediamento delle industrie in tali zone apportando in precedenza i servizi indispensabili per le industrie stesse. Quindi facilità di mezzi di comunicazione, trasporto dell’energia, possibilità di scolo delle acque, ecc.

Nella elaborazione di tutto il piano regolatore, l’amministrazione ambrosiana dovrà tener conto degli sviluppi futuri della metropoli lombarda e del territorio che con essa forma un tutto continuo. Ed è specialmente in vista di questo sviluppo che il decentramento di tutti i servizi dovrà essere attuato, e che tutte le singole funzioni, ora di spettanza della provincia, dovranno venire sviluppate.

Dobbiamo immaginarci un imponente complesso di quasi 5 milioni di abitanti, concentrato in una superficie relativamente piccola (poco più della estensione del solo comune di Roma, come già abbiamo visto), per il quale un ordinamento razionale ed organico di tutti i servizi risulterà indispensabile.

Molti problemi che oggi appena si fanno sentire richiederanno allora soluzioni urgenti, e solo una visione lungimirante di quelli che potranno essere in un futuro molto vicino i bisogni di una così vasta metropoli, consentirà di soddisfarli.

Così il problema di una zona ospedaliera e di tutti i servizi igienici e sanitari, degna di questo nome per la metropoli lombarda vera e propria, ed un complesso di istituti ospedalieri dislocati in tutta la zona ambrosiana, specie là dove la concentrazione della popolazione sarà maggiore. E in questo campo dovranno agire in stretto accordo i singoli comuni e l’amministrazione ambrosiana.

Allo stesso modo si dovrebbe cercare di provvedere sin da ora a liberare le aree centrali delle città occupate da caserme e da altre apparecchiature militari, il cui trasferimento in zone più libere è oltretutto più consono alle necessità moderne. All’uopo l’amministrazione ambrosiana dovrebbe prendere i necessari contatti con il Ministero della Difesa ed indicare le zone di più conveniente sistemazione per questi servizi.

Il problema dell’azzonamento che nel piano regolatore di Milano è contemplato solo per il centro urbano vero e proprio, diverrà un problema generale per la zona ambrosiana e certo uno dei più importanti.

Non solo, ma mentre nell’ambito del comune di Milano un effettivo azzonamento è sin d’ora compromesso in molti quartieri per motivi storici o per indiscriminate costruzioni avvenute nel dopoguerra, nella zona esterna una tipica divisione di quartieri costruiti a seconda della loro destinazione, dovrebbe riuscire più facile. Quartieri residenziali in primo luogo dotati di tutti i servizi necessari, collegati ai centri di lavoro in modo razionale, dovranno dare respiro alla congestione delle zone centrali.

Il progetto della metropolitana dovrebbe essere riveduto secondo il criterio di servire non solo e non tanto il comune di Milano e le sue immediate adiacenze, quanto anche le comunicazioni dei comuni fuori Milano con il capoluogo, e dei vari centri tra di loro.

Il cittadino milanese dovrà necessariamente abituarsi a risiedere al di fuori del centro della città, in zone residenziali appositamente costruite, ed a spostarsi ogni giorno con mezzi adeguati e rapidi al i proprio centro di lavoro. Questa premessa comune per lo sviluppo di ogni grande metropoli dovrà essere realizzata per Milano in modo moderno e adeguato.

Altri problemi ora del tutto trascurati dovranno entrare a far parte delle funzioni specifiche della amministrazione ambrosiana.

L’istruzione professionale ad esempio, che ora rientra solo tra i compiti marginali della provincia, la quale è tenuta a provvedere ai locali ed al personale d’ordine di certe categorie di scuole. Un azzonamento anche di questo servizio appare indispensabile in un complesso metropolitano cosi esteso ed un intervento diretto quindi anche di questa natura da parte della amministrazione ambrosiana darà un efficace contributo a tutto il ritmo economico della metropoli.

Per ogni funzione ora di spettanza della provincia o dei comuni, assunta dalla amministrazione ambrosiana, si dovrà provvedere in modo da realizzare il vantaggio comune di tutto il complesso metropolitano.

Il procedere a pezzetti, senza una visione unitaria dei problemi, sanando le situazioni difficili che si presentano con semplici palliativi, non può certo aiutare lo sviluppo omogeneo di Milano e delle città e paesi che la circondano.

È quindi sempre con lo sguardo rivolto al futuro che ogni progetto deve essere studiato e realizzato; ad un futuro non tanto lontano in cui la saldatura di Milano con gran parte dei comuni della zona ambrosiana sarà inevitabilmente un dato di fatto anche da un punto di vista urbanistico.

È ovvio che l’amministrazione provinciale ambrosiana, assumendo tutte le funzioni della attuale amministrazione provinciale, dovrà subentrare ad essa anche in tutte le sue fonti di entrata. Non solo: assorbendo essa anche parte delle funzioni ora di spettanza dei singoli comuni (strade comunali ad esempio) essa potrà nel caso richiedere ai singoli comuni un contributo proporzionato.

Ancora una parola sui rapporti tra organo ambrosiano e organi prefettizi. Per quanto possibile e salvo le necessarie modifiche formali, tali rapporti dovrebbero continuare a rimanere quelli ora esistenti tra amministrazione provinciale e organi della Prefettura. Gli organi gerarchici continueranno ad esercitare il loro potere di controllo nei confronti questa volta del nuovo organo ambrosiano. Nella Giunta Provinciale Amministrativa alcuni membri potranno essere nominati dietro il parere del consiglio ambrosiano in modo tale da far convergere in questo organo le due volontà della autorità statale e della autorità elettiva.

11 - Caratteristica insomma dell’amministrazione della provincia ambrosiana dovrà essere la piena ed assoluta capacità coordinatrice del territorio di sua spettanza, ed un potere di iniziativa e di esecuzione sufficiente per promuovere la risoluzione dei problemi comuni della zona. Per questa sua speciale e responsabile funzione l’organo dovrà venire articolato in un Consiglio il più rappresentativo possibile degli interessi di tutto il territorio ambrosiano, tenendo conto naturalmente del processo di assestamento di molte zone esterne per una progressiva concentrazione di tali interessi.

Teoricamente oggi si potrebbe pensare ad un consiglio che includa, oltre ad un certo numero di Consiglieri eletti su liste ambrosiane di partito - necessari per dare un’autorità politica al nuovo Consiglio e consentire una valutazione dei problemi al di fuori delle ristrette visioni comunali - anche i rappresentanti di tutti i Comuni della provincia.

È evidente però che:



a) Oggi un tale Consiglio -con l' esistenza di 245 Comuni, dei quali 28 con meno di 1.000 abitanti e superfici da ritenere senz’altro, per molti di essi, microscopiche; 54 fra 1.000 e 2.000 abitanti, e 96 fra i 2.000 e i 5.000 abitanti - dovrebbe risultare composto di 300 e più persone, con difficile e lento funzionamento, ma soprattutto con evidente squilibrio rispetto alle esigenze di rappresentanza dei centri maggiori;



b) La prima, e sotto certi aspetti auspicabile, conseguenza della attività propulsiva e coordinatrice della Provincia ambrosiana, sarà quella di rendere inevitabili molte spontanee fusioni di piccoli Comuni che, se mantenessero la loro minuscola importanza attuale, finirebbero con l'essere avulsi dal processo di potenziamento dell'intero territorio, col pericolo anzi non solo di non essere partecipi della formazione dei futuri sviluppi ma di subire l'iniziativa di altri Comuni più pronti e vivaci anche se di attuale modesta importanza.



c) Deve essere tenuto nella necessaria considerazione il compito di “centro funzionale e irradiante” - e, cioè, di “Comune pilota” - che spetta al capoluogo della provincia (senza che tuttavia si pensi ad una dittatura di quest'ultimo), attribuendo allo stesso Capoluogo una adeguata rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano.

D'altro canto non sembra opportuno adottare per l'elezione di un organo nuovo e così particolare come il Consiglio Provinciale Ambrosiano il sistema ora vigente per l'elezione degli altri Consigli Provinciali, che hanno attribuzioni più limitate di quelle che dovrebbero essere assegnate al Consiglio Provinciale Ambrosiano.

Infine è da ritenere che un progetto di composizione del Consiglio Provinciale Ambrosiano debba partire da una valutazione aderente più al domani che all'oggi, onde evitare che un organo, nato sulla base di condizioni che dovranno inevitabilmente subire molte trasformazioni, si trovi ad essere rapidamente superato nella sua concezione, e, perciò, nelle sue possibilità funzionali.

Pare quindi utile ravvisare fin d'ora la Provincia Ambrosiana quale prevedibilmente potrà essere fra 15 o 20 anni e cioè al raggiungimento, o al vicino raggiungimento, dei 5 milioni di abitanti.

È chiaro che si dovranno considerare elementi in parte diversi da quelli attuali, in quanto, ad esempio: lo sviluppo della zona esterna modificherà l'odierno rapporto di popolazione del Capoluogo rispetto al resto della provincia (si potrà forse pensare ad una Milano che raggiunga ma non superi in 15 o 20 anni i 2 milioni di abitanti -contro gli attuali 1 milione e 275 mila - e ad una zona esterna che raggiunga i 3 milioni contro gli attuali l. 135.000); si andranno formando nella stessa zona esterna centri industrialmente sempre più efficienti, ma nel Capoluogo si concentreranno i centri direzionali e le attività a livello superiore, avvalorando il principio che al Capoluogo debba essere garantita una sufficiente rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, ecc.

A scopo indicativo esponiamo perciò uno schema che è stato elaborato tenendo conto della necessità di contemperare la rappresentanza diretta dei Comuni con la rappresentanza indiretta e politica di tutta la zona, nella visione di un Consiglio Provinciale Ambrosiano efficiente ed appropriato alla nuova provincia di 5 milioni di abitanti.

Secondo tale schema il Consiglio Provinciale Ambrosiano potrebbe, ad esempio, essere composto.

- da 45 membri eletti con elezioni di 2° grado, e;

- da 60 membri eletti con elezioni di l° grado.

A) Elezioni di secondo grado

I 45 Consiglieri dovrebbero essere eletti:

- in numero, ad esempio, di 15 dal Consiglio Comunale di Milano, nel proprio seno;

- in numero di 30 dai Consigli Comunali degli altri Comuni, riuniti in 15 gruppi, ciascuno dei quali dovrebbe eleggere 2 Consiglieri del Consiglio Provinciale Ambrosiano.

Questo sistema di elezione di secondo grado avrebbe tre pregi principali:

l) la semplicità;

2) il coordinamento della rappresentanza dei Comuni, tenuto conto della loro popolazione;

3) il formarsi di una progressiva comunione di interessi e di azioni anche sul piano della rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, tale da favorire l'articolazione della futura Provincia Ambrosiana su un grandissimo centro propulsore (Milano) e su gangli rappresentanti un non eccessivo numero di Comuni aventi, almeno in parte, una notevole consistenza.

E) Elezioni di primo grado.

Con queste elezioni si dovrebbero eleggere 60 Consiglieri, i quali servirebbero anche a “ponderare” i rappresentanti eletti con le ele-zioni di 2° grado.

L’elezione di questi Consiglieri dovrebbe essere fatta col sistema proporzionale, e la distribuzione dei posti fra Milano e il resto del territorio dovrebbe essere fatta in base alla popolazione residente dell'ultimo censimento.

La distribuzione dei rappresentanti nominati con le elezioni di secondo grado, nonostante la ponderazione attuata attraverso le elezioni di primo grado, porta ad una maggiore rappresentanza percentuale della zona esterna rispetto al peso relativo della propria popolazione.

E però da notare che la maggior rappresentanza della zona esterna compenserebbe: e l'alto grado di concentrazione dei rappresentanti milanesi rispetto al grado di concentrazione delle altre rappresentanze comunali e la evidente preponderanza di Milano sotto l'aspetto economico e sociale. Vi è qui un delicato problema, psicologico oltre che amministrativo, la cui soluzione definitiva, anche se dovesse essere diversamente prospettata non dovrà però trascurare le considerazioni esposte, e le esigenze di rappresentanza nel Consiglio Provinciale Ambrosiano, come in linea di massima qui analizzate per una piena funzionalità della Provincia Ambrosiana.

12 - Per chiudere non ci sembra inutile riprendere brevemente il filo conduttore che ci ha indirizzato nella analisi dei diversi problemi.

Milano è oggi il centro funzionale di una vasta zona che grosso modo si può far coincidere con il territorio di tutta la provincia, e che con maggiore intensità coincide con la parte settentrionale della provincia stessa con sconfinamenti nel territorio limitrofo di Varese (“zona ambrosiana”).

Centro funzionale ha qui un profondo significato economico attuale che appare ancora più evidente se si proietta lo sviluppo di Milano nel futuro.

La “zona ambrosiana” propriamente detta ha oggi una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti, che tra 15-20 anni ammonterà con ogni probabilità a quasi 5 milioni.

In essa è oggi concentrato un complesso produttivo pari al 12% nazionale, in un territorio che ne rappresenta appena lo 0.5%.

La concentrazione degli addetti delle industrie manifatturiere è pari al 18% del dato nazionale, e del 56% rispetto alla sola Lombardia. Per i prossimi 15 o 20 anni si prevede un incremento nell'apparato produttivo per lo meno di 2,5-3 volte l'attuale.

Tutto il territorio presenta una fisionomia omogenea, problemi e disegni comuni ed una necessità di coordinamento indispensabile per garantirne lo sviluppo.

L'organizzazione amministrativa attuale, uguale a quella di ogni altra provincia d'Italia, è inadatta a svolgere i compiti grandiosi che sono necessari. Essa impedisce che nelle diverse attività vi sia un in- dirizzo uniforme ed una visione chiara di ciò che deve essere fatto per il futuro.

Unica soluzione a tale situazione di fatto appare oggi una legge speciale per la provincia di Milano. Legge speciale che riconosca questa metropoli-provincia unica nel suo genere in Italia e caratteristica anche in tutta Europa.

Sono inutili palliativi tipo consorzi amministrativi, o tentativi di costituire un organo consultivo convivente con la attuale amministrazione provinciale.

La trasformazione dell'amministrazione provinciale in un Consiglio Ambrosiano creato ad hoc, rappresentativo degli interessi di tutti i comuni costituisce probabilmente l'unica soluzione adatta.

Consiglio che intraprenda l'opera di riordinamento, che assorba le funzioni della provincia, col fine preciso di preparare il terreno allo sviluppo della zona negli anni futuri, che sappia, con piani regolatori generali, comprenderne i bisogni.

(ANSA) - VENEZIA, 22 GIU - Non una semplice commemorazione ma un momento di confronto e dibattito sui temi legati a Venezia in cui era competente e appassionato politico Luigi Scano, urbanista e pubblico amministratore, scomparso il 18 marzo, quello svoltosi oggi. Il sindaco, Massimo Cacciari, ha ricordato la figura di Scano e la profondità e l'attualità degli studi e del lavoro da lui svolto, ma soprattutto delle numerose questioni ancora aperte. Tra queste il dibattito sull'Expo, e la necessità di conciliare la vocazione storica di Venezia di capitale culturale e simbolica, con quella più prettamente economica. La città è un luogo di esposizione permanente - ha affermato Cacciari - e questa funzione va conciliata realisticamente con le altre. Scano fu protagonista che dell'iter che portò alla formulazione del piano comprensoriale, quell'area vasta oggi detta area metropolitana. Secondo Cacciari il rapporto tra programmazione urbanistica e composizione sociale è una criticità ancora attuale, ma oggi, rispetto agli anni Settanta e Ottanta, dobbiamo adottare una visione di sistema. Infine Cacciari ha parlato delle grandi opere, ovvero il Mose, a cui Scano si era opposto, sostenendo che quest'opera, che massacra la laguna e toglie risorse essenziali alla salvaguardia della città, non servirà nemmeno a salvarla dall'acqua alta. Sono quindi intervenuti Antonio Casellati su "Uno spirito libero e liberale"; Edgarda Feletti su "Venezia: lo sviluppo coerente"; Edoardo Salzano su "La laguna: la difesa difficile di un ambiente fragile"; Anna Renzini su "Abitare Venezia"; Vezio De Lucia su "Non solo Venezia". In conclusione Leopoldo Pietragnoli, che ha coordinato l'incontro, ha annunciato che a questa prima iniziativa seguiranno la pubblicazione degli atti del convegno. (ANSA).

Ho letto con grandissima attenzione, sentendomene fortemente interrogato, l’opinione di Maria Pia Guermandi intitolata “La libertà dei valori e la democrazia dei diritti”, pubblicata in eddyburg del 15 maggio ultimo scorso: si tratta di una riflessione densa di interrogativi intriganti, spesso spiazzanti, mai banali e liquidabili con una più o meno frettolosa scrollata di spalle.

La sua portata, le sue valenze, gli ineludibili quesiti che pone vanno sempre e comunque ben oltre la casistica bolognese, pure frequentemente ed efficacemente evocata. Così come sono stringentemente contemporanee, eppure non hanno tempo, le aporie implicite in talune sue affermazioni. Quella tra legalità e legittimità, ovvero tra legge della società organizzata e diritti irrinunciabili degli umani, che rinvia, almeno, al mito eterno di Antigone. Quella tra legalità che sigilla le ineguaglianze e legalità che fornisce l’unico potere dei senza potere. E altro ancora potrei dire di uno scritto che forse non condividerei in ogni sua, possibile o forse necessaria, estrema conseguenza, ma che certamente, in tali casi, impegna ineludibilmente a controargomentare mettendosi pienamente in gioco.

Proprio per tutti i motivi che ho sinora esposto, non ho potuto che rammaricarmi di vedere riproposta, in un siffatto intervento, la terribile semplificazione per cui “la democrazia è un’ideologia di eguaglianza e il liberalismo della differenza”, dichiaratamente ripresa da Carl Schmitt, cioè da un rozzo supporter giuridico-politologico del nazionalsocialismo, estraneo sia alla democrazia che al liberalismo, e nemico dell’una e dell’altro.

Eppure il più importante teorico del liberalismo inglese della metà dell’800, John Stuart Mill, scriveva che “i mezzi per il proprio sviluppo, che l’individuo perde quando gli è impedito di soddisfare le sue inclinazioni a danno di altri, sono generalmente ottenuti a spese dello sviluppo altrui. Anche per l’individuo stesso vi è una completa compensazione sotto forma di un migliore sviluppo dell’aspetto sociale della sua natura, reso possibile dai vincoli imposti a quello egoistico” (On Liberty, 1859; ed.it. Sulla libertà, Milano, 1990, pag.109). Su questi fondamenti, non poteva che dare per scontato che il liberalismo dovesse inverarsi nella forma democratica di organizzazione istituzionale, giacché quei diritti e doveri di tutti che sono garantiti dallo Stato di diritto e dall’eguaglianza davanti alla legge divengono significativi, per la più parte dei cittadini, soltanto grazie alla titolarità dei diritti politici, di eguali chances di partecipazione, e quindi grazie al suffragio universale (compreso quello femminile) e uguale. Ma anche i diritti politici rimangono solamente formali, se non è assicurato a tutti un adeguato status sociale ed economico. E, anche anticipando le attualissime riflessioni sui limiti della crescita, asseriva perentoriamente che “nei paesi più avanzati, ciò che economicamente è necessario è una migliore distribuzione della ricchezza […] per coltivare liberamente le grazie della vita [to coltivate freely the graces of life]” (Principles of Political Economy, London, 1911, pag.454). Tant’è che potè concludere che “il nostro ideale andò molto al di là della democrazia e ci avrebbe meritato decisamente la designazione di socialisti” (Autobiography, London, 1873, London , 1969, pag.196).

Vennero poi, e ripresero, e di molto svilupparono, gli assunti ora sommarissimamente ricordati del pensiero di Stuart Mill, i cosiddetti “liberali vittoriani”. E quindi John Maynard Keynes (relativamente al quale penso più a taluni scritti occasionali e “minori” che alla formidabile The General Theory of Employment, Interest and Money, London, 1936, trad. it. Occupazione, interesse e moneta, Torino, 1963) e William Beveridge, il teorico e il costruttore del Welfare State (Full Employment in a Free Society, London, 1944).

Al di là dell’Atlantico, negli anni di Keynes e di Beveridge, si affermava, si sviluppava, creava strutture istituzionali, economiche, sociali, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Ometto di citare anche uno solo dei teorici new dealer, eccetto quello che fece allora le sue prime prove, e che recentissimamente ci ha lasciati: John Kenneth Galbraith. Quanto facile sia incasellarne il pensiero nella formuletta schmittiana, lo lascio giudicare a coloro che hanno letto, o che avranno voglia di leggere, o di rileggere, quanto di lui pubblicato in eddyburg, nelle ultime settimane, a firma di Giorgio Ruffolo, di Carla Ravaioli e di Augusto Graziani, nonché gli stralci “straordinariamente anticipatori” tratti dal suo scritto “La Libertà, la Felicità…e anche l’Economia” (Liberty, Happiness…and the Economy, da The Altlantic Monthly, giugno 1967).

Per venire ai tempi nostri, potrei ricordare John Rawls, per il quale ogni ineguaglianza sociale è arbitraria e inaccettabile, salvo che non sia ragionevole presumere che essa si traduca in un vantaggio per la collettività e in particolare per i più svantaggiati (A Theory of Justice, Oxford – London, 1972, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1986).

E nella nostra povera Italia? è vero che un pensiero liberale omologo a quello al quale sinora ho fatto riferimento non superò mai, nelle competizioni elettorali (quando ci si cimentò) percentuali “da prefisso telefonico”, ma ciò non legittima l’ignorare che vissero, scrissero, operarono, Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Mario Pannunzio e tutto (o quasi) il gruppo di “Il Mondo”, nel contesto del quale quell’Antonio Cederna così spesso, e meritatamente, e doverosamente, ricordato in eddyburg, del cui pensiero non è dato capire un beneamato nulla se non lo si inquadra nel filone che da Carlo Cattaneo, passando per Gaetano Salvemini, arriva a quella famosa (e fumosa, beati loro!) redazione di Campo Marzio prima e di via Colonna Antonina poi.

Ho affastellato nomi e brevissime e apodittiche citazioni. Ma non credo che altro mi potessi permettere di fare.

Se poi volessi indulgere anch’io al vizio delle ipersemplificazioni, potrei fare presente che “la democrazia” è quella che ammannisce a Socrate una bella tisana di cicuta. E anche, seppure in termini meno strutturati e formalizzati, quella che invoca ed esige “crucifige” (da cui le splendide riflessioni di Gustavo Zagrebelsky, in Il “crucifige” e la democrazia, Torino, 1995).

Sorgendo dalla tomba, e alzando il ditino ammonitore, Benjamin Constant mi rimprovererebbe: “Quella era la libertà (la democrazia) degli antichi”. Infatti: quella dei moderni in tanto è altra cosa in quanto è liberal-democrazia. E in quanto tale ci sentiamo impegnati a difenderla, nei paesi dove s’è, più o meno bene, instaurata, dalle derive plebiscitarie, leaderistiche, mass-mediatiche, autoritarie se non totalitarie (qualche volta persino vincendo, magari per una manciata di voti, e avendo ramazzato il ramazzabile).

E, a proposito: è proprio sicura Maria Pia Guermandi che le sue posizioni circa il rifiuto della circoscrizione, della espulsione, della rimozione, della “società marginalizzata”, in quanto vivente fuori della legalità formale, o ai suoi margini (mi scuso se pure io, adesso, sintetizzo intollerabilmente il suo pensiero), troverebbero, illic et nunc, un largo appoggio nelle espressioni democratiche (rappresentative e/o referendarie) della comunità bolognese, ovvero il consenso maggioritario (comunque sondato) della locale “opinione pubblica”?

Vedi caso, trova invece forte “simpateticità” (quantomeno) in un vecchio liberale quale continua, caparbiamente e orgogliosamente, a considerarsi (totalmente a prescindere dai simboli che contrassegna sulle schede elettorali) l’autore di queste modeste noterelle.

Venezia, 21 maggio 2006

Antonio Cederna fu eletto alla Camera dei Deputati, nelle liste del Partito comunista italiano, come indipendente di sinistra, nella X legislatura, iniziata il 2 luglio 1987 e terminata il 22 aprile 1992. Con questo scritto non si può certamente proporsi di ricostruire ed esporre analiticamente la sua attività di parlamentare, che fu (dati i suoi convincimenti e il suo carattere, non poteva essere altrimenti) impegnata, assidua, oserei quasi dire “diligente”: ci si prefigge quindi soltanto di esporre i lineamenti essenziali, nonché la sorte immediata e gli esiti a più lungo termine, delle proposte di legge di cui fu “autore”, in quanto ne volle e ne curò, o ne coordinò, la redazione, ne fu primo firmatario e presentatore, e ne seguì appassionatamente e ostinatamente l’iter parlamentare (quando questo ci fu). Si tratta della proposta di legge contenente Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, di quella relativa a Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica e infine di quella recante Integrazione e coordinamento della legislazione speciale per Venezia.

Cederna svolse invece un ruolo assai meno da protagonista nella formazione della legge che si denominò Legge quadro sulle aree protette, e che fu definitivamente approvata proprio nel corso della X legislatura (nel 1991). Anche se sottoscrisse la proposta di legge che aveva come primo firmatario Gianluigi Ceruti, il quale era stato vicepresidente nazionale di “Italia Nostra” edera allora deputato eletto nelle liste dei Verdi. E anche se sostenne lealmente il testo unificato, rifiutandosi di prestare troppo l’orecchio (salvo talvolta reagire con manifestazioni di sconcerto e rimbrotti) alle critiche che a quel testo muoveva l’autore di queste righe, e a quelle, ancora più drastiche, che gli rivolgeva Antonio Iannello: l’uomo che, secondo Cederna, “pensava male [essendo, e più proclamandosi, un idealista crociano, distantissimo quindi dall’empirismo pragmatista di Cederna, erede del filone cattaneano della cultura politica italiana] ma razzolava bene”.

La difesa del suolo

Negli ultimi mesi della IX legislatura, presso la commissione per i lavori pubblici della Camera, ma a seguito anche dell’espressione di un parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e grazie a riunioni concertative informali tra il ministro dei Lavori pubblici, rappresentanti delle regioni e rappresentanti del predetto organo parlamentare, era stata formulata la proposta di un testo unificato recante disposizioni per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo, che pareva raccogliere un quasi unanime consenso delle formazioni politiche, e altresì quello, la cui mancanza sin’allora era stata ostativa del procedere del processo decisionale di formazione di una nuova legge sul predetto argomento, delle regioni.

Nel suddetto testo unificato il sistema organizzativo e programmatico finalizzato alla difesa del suolo trovava il suo fondamento nell’individuazione dei bacini idrografi ci, e nella previsione della formazione dei piani di bacino. I bacini erano riconosciuti appartenere a (soltanto) due categorie: bacini regionali e bacini interregionali. Nell’ambito di questi ultimi erano individuati quelli che erano denominati bacini interregionali a regime speciale, i cui piani si prevedeva fossero formati sotto la direzione di comitati istituzionali composti da non meno di quattro rappresentanti del Governo statale e da un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, e fossero definitivamenteapprovati dal ministro dei Lavori pubblici. Si prevedeva inoltre l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti, presieduto dal ministro dei Lavori pubblici e con sede presso il Ministero, la trasformazione della Direzione generale delle acque e degli impianti elettrici del medesimo Ministero in Direzione generale della difesa del suolo e la riorganizzazione dei servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico, attribuendo loro autonomia funzionale nell’ambito dell’organizzazione del dicastero dei lavori pubblici.

Il testo unificato non riuscì a completare il suo iter, con la definitiva approvazione di una legge, prima dello scadere della legislatura.

Alla fine del 1987 Cederna si convinse dell’opportunità di concorrere alla formazione della legge per la difesa del suolo mediante la presentazione di un’autonoma proposta. Per la sua messa a punto chiamò a collaborare Giuliano Cannata, Filippo Ciccone e l’autore di queste righe. Il testo che ne scaturì, e di cui Cederna fu, ovviamente, primo firmatario e presentatore, fu sottoscritto anche dai deputati Franco Bassanini e Stefano Rodotà, entrambi della Sinistra indipendente, nonché da Enrico Testa, del Partito comunista italiano.

Rispetto al testo unificato scaturito dai lavori e dai confronti intercorsi nella precedente legislatura, la proposta di legge di Cederna, assuntone l’impianto strutturale, interveniva con una ingente quantità di modificazioni e integrazioni, anche minute, le più rilevanti e incisive delle quali riguardavano la definizione dei contenuti dei piani di bacino e le espressioni centrali dello Stato che si reputava dovessero assumere dei ruoli nelle attività volte alla difesa del suolo. Quanto al primo profilo, basti dire che si puntava a renderne più ricca la latitudine e più incisiva l’efficacia. Quanto al secondo profilo, si proponeva la costituzione, anziché di un Comitato nazionale per la difesa del suolo composto da tecnici, di un Comitato interministeriale per la difesa del suolo composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per i Beni culturali e ambientali, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro della Marina mercantile, dal ministro per il Coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile. Gli stessi ministri, o loro delegati, era previsto facessero parte dei comitati istituzionali dei bacini a regime speciale, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non meno di sette rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque inferiore (salvo il caso del bacino del Po), di rappresentanti delle regioni. Per l’assolvimento delle funzioni tecnico-consultive si proponeva la trasformazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, ampliandone consistentemente la composizione. E si proponeva che i servizi idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico fossero riorganizzati nell’ambito dell’istituendo Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente.

Meno di un paio d’anni dopo la presentazione della proposta di legge ora sommariamente illustrata, il confronto parlamentare ebbe esito nell’approvazione della legge 18 maggio 1989, n. 183. In essa i bacini idrografi ci erano suddivisi non più in due, ma in tre categorie: bacini di rilievo nazionale, bacini di rilievo interregionale, bacini di rilievo regionale. Quantomeno ai bacini di rilievo nazionale erano preposte autorità di bacino, i cui organi decisionali erano denominati comitati istituzionali. Dei comitati istituzionali dei bacini di rilievo nazionale si disponeva facessero parte il ministro dei Lavori pubblici, il ministro dell’Ambiente, il ministro dell’Agricoltura e foreste, il ministro per i Beni culturali e ambientali, o loro delegati, assieme a un rappresentante per ciascuna delle regioni interessate, per cui tali comitati sarebbero stati composti da non più di quattro rappresentanti del Governo statale, e da un numero variabile, ma comunque sempre inferiore (salvi i casi del bacino del Po e di quello dal Tevere), di rappresentanti delle regioni. La definizione dei contenuti dei piani di bacino faceva proprie le indicazioni della proposta di legge di Cederna, e anzi operava ulteriori arricchimenti. Veniva decisa laistituzione non già del Comitato interministeriale per la difesa del suolo proposto dal testo presentato da Cederna, ma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri e composto dal ministro dei Lavori pubblici, dal ministro dell’Ambiente, dal ministro dell’Agricoltura e foreste, dal ministro per il Coordinamento della protezione civile e dal ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Non veniva accolta l’ipotesi di riformare il Consiglio superiore dei lavori pubblici, trasformandolo in Consiglio superiore del territorio e dell’ambiente, e veniva riproposta e decisa l’istituzione ex novo di un Comitato nazionale per la difesa del suolo, composto da esperti nelle materie attinenti. Infine, era stabilito che i servizi tecnici nazionali (e innanzitutto quelli già esistenti: idrografico, mereografico, dighe, sismico e geologico) fossero riorganizzati presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, assicurando loro autonomia scientifica, tecnica, organizzativa e operativa.

Una generale quanto puntuale verifica dell’attuazione della legge 183/1989, e del conseguente stato di tutela dell’integrità fi sica del territorio, sarebbe stata, già parecchi anni addietro, e sarebbe tuttora, non essendo mai stata condotta, una delle più essenziali incombenze del Governo statale di un Paese appena appena civile. Il sospetto è che, non già nonostante i ripetuti interventi di modificazione, integrazione, sovrapposizione di dettati legislativi rispetto a quelli della legge 183/1989, ma anche in conseguenza di tali interventi, tale legge sia stata disattesa, soprattutto elusa nelle sue autentiche finalità.

Senza che fosse stata effettuata alcuna seria verifica dell’attuazione della legge 183/1989 e senza che fosse intercorso alcun trasparente dibattito sui suoi elementi di forza e di debolezza, sui risultati raggiunti e su quelli mancati, i contenuti della previgente legislazione per la difesa del suolo sono stati trasfusi, con alcune rilevanti modificazioni, nella Sezione I della Parte III del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, emanato sulla base della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega al Governo peril riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale, fortemente voluta, come il decreto legislativo derivatone, dalla maggioranza di centrodestra dominante nella trascorsa XIV legislatura.

La più incisiva innovazione rispetto al precedente assetto normativo (e organizzativo) è consistita nell’accorpare tutti i bacini idrografi ci, di rilievo nazionale, di rilievo interregionale e di rilievo regionale, definiti dalla legislazione previgente, in otto distretti idrografi ci, a ognuno dei quali era previsto fosse preposta un’autorità di bacino, del cui organo decisionale massimo, denominato conferenza istituzionale, era disposto facessero parte il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, il ministro delle Attività produttive, il ministro delle Politiche agricole e forestali, il ministro per la Funzione pubblica, il ministro per i Beni e le attività culturali, o i sottosegretari da loro delegati, assieme ai presidenti delle Regioni e delle Province autonome interessate, o agli assessori da questi ultimi delegati, nonché il delegato del Dipartimento della Protezione civile. Nelle conferenze istituzionali di quattro autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti dello Stato, in quelle di tre altre autorità di bacino sarebbero prevalsi i rappresentanti delle Regioni, nell’ottava i rappresentanti dello Stato e delle Regioni sarebbero stati in parità. In ogni caso, era previsto che i piani di bacino fossero approvati dal presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita la Conferenza Stato-Regioni.

Ben lungi dal deplorare che si persegua un assetto legislativo e organizzativo finalizzato alla pianificata tutela dell’integrità fisica del territorio, nel quale siano coinvolti sia il sistema regionale e degli enti locali che lo Stato, e anzi quest’ultimo sia decisore d’ultima istanza, e ciò a prescindere dai caratteri dei bacini idrografi ci considerati, si ha ben più di un motivo per ritenere che la soluzione concreta perciò definita dal decreto legislativo 152/2006 sarebbe destinata a mancare clamorosamente gli obiettivi. Innanzitutto perché, sulla base delle esperienze compiute, che hanno mostrato come sia arduo pervenire in circa trelustri alla definizione di piani afferenti singoli bacini idrografi ci (o tutt’al più alcuni, pochi, bacini di ridotte dimensioni), si può agevolmente prevedere che piani relativi a un quinto, o un sesto, del territorio nazionale, riuscirebbero a vedere la luce (forse) nel prossimo secolo. E ancora più agevolmente si può prevedere un succedersi di “piani stralcio”, approssimativi nell’apparato conoscitivo, grotteschi in quello precettivo, e dalle disposizioni ampiamente “negoziabili” in fase gestionale.

La riqualificazione della città di Roma, capitale della Repubblica

Il 6 febbraio 1985 la Camera dei Deputati aveva approvato, a larga maggioranza, una solenne mozione volta a impegnare ogni competente articolazione della Repubblica a operare per conferire a Roma un assetto degno della “capitale europea dello Stato alle soglie del 2000”.

Cederna aveva salutato l’evento correlandogli molte positive attese, e i migliori auspici. Poco meno di due anni appresso, aveva dovuto constatare che quasi nulla era stato attuato. In particolare, lo Stato si era limitato a un’“affannosa rincorsa dell’emergenza”, con il varo, nel 1987, di un primo decreto legge, e con l’emanazione, alla fine del 1988, di un secondo decreto legge, poi reiterato due volte per mancata conversione in legge nei termini, che nella primavera del 1989 non aveva ancora completato il suo iter. Entrambi i provvedimenti, riteneva Cederna, non rispondevano minimamente all’“esigenza di organicità” della redigenda legislazione per Roma che era sottesa alla mozione parlamentare di cui s’è detto, e che, comunque, era imperiosamente posta dall’obiettivo di riqualificare la città.

Decise quindi di presentare una propria proposta di legge. Per la sua messa a punto chiamò anche questa volta a collaborare Filippo Ciccone e l’autore di queste righe, ma, più ancora che nella precedente esperienza, fu l’autentico ispiratore dell’impianto generale, e attentissimo verificatore d’ogni elemento, e diretto redattore di ampie parti degli elaborati, soprattutto di quella relazione illustrativa che Vezio De Lucia ha più volte citato come “una delle più convincenti pagine dell’urbanistica moderna”.1

La proposta di legge, presentata il 26 aprile 1989, si articola in quattro capi:

- il capo I raggruppa e specifica con il massimo dettaglio possibile i concreti obiettivi del provvedimento;

- il capo II identifica gli organismi che dovranno attuare la legge e ne prescrive articolatamente la composizione e i compiti;

- il capo III è dedicato alla descrizione delle procedure;

- il capo IV contiene le norme per l’acquisizione pubblica dei beni immobili oggetto degli interventi previsti. Assunto che l’interesse dello Stato per “Roma capitale” si debba sostanziare nel deciso avvio della “riqualificazione” della città, Cederna afferma perentoriamente che

tale riqualificazione si potrà ottenere solo attraverso l’avvio simultaneo di tre operazioni:

- decongestionando e valorizzando l’area centrale insieme con il suo enorme patrimonio archeologico e storico-artistico;

- avviando, a partire dalla nuova localizzazione dei ministeri, la riqualificazione della periferia orientale della città;

- ristrutturando complessivamente il sistema di mobilità dell’area romana e basandolo sulla costituzione di una rete pubblica integrata, su ferro e in sede propria.

La prima operazione coincide con la realizzazione del parco storico- archeologico dei Fori e dell’Appia antica: un’operazione, anzi, scrive Cederna, “un’impresa”, i cui precedenti risalgono a più di un secolo prima, e che egli ricostruisce puntigliosamente e sinteticamente espone. Per concludere che il progetto che si propone

configura uno straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli Romani, una struttura fatta di spazi liberi, di vuoti, di verde, che si presenta come complementare a quella complessa struttura edilizia, stradale e di servizi che sarà il Sistema direzionale orientale (SDO). L’archeologia, la natura e il paesaggio diventano l’asse portante dell’immagine di Roma, per una sostanziale riqualificazione urbanistica.

La seconda operazione consiste, per l’appunto, nella costruzione del cosiddetto Sistema direzionale orientale (SDO), nelle aree della prima periferia romana, trasferendovi innanzitutto i ministeri allora (come ancora, larghissimamente, oggi) installati nel centro della città.

Un’operazione che, per Cederna, doveva avvenire “a saldo zero”. Così egli proclama nella più volte citata relazione illustrativa:

gli uffici ministeriali (e di altra natura) trasferiti ad oriente non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico sulle aree centrali. Di quelle sedi e di quei siti va fatto un uso leggero, finalizzato alla più ampia valorizzazione del sistema dei Fori e dell’Appia antica. […] Fin d’ora può […] dirsi che l’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’intervento.

In secondo luogo, fa presente Cederna ripetendo sue precedenti lezioni impartite almeno sei lustri prima,

la qualificazione della città non può essere perseguita operando solo sul centro storico. Anzi, è ormai noto che la stessa salvaguardia del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati ad ospitare funzioni di prestigio. È allora essenziale il controllo della qualità delle funzioni che si trasferiscono, e perciò nel sistema direzionale orientale devono essere collocati gli uffi ci ministeriali principali e rappresentativi. Se il trasferimento fosse limitato a uffici pubblici secondari e a funzioni private di tipo marginale, verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico e progressivamente dell’intera città.

In terzo luogo, specifica Cederna, è stato necessario “affrontare la questione della proprietà delle aree che formano il Sistema direzionale orientale”, giacché “l’esperienza italiana ed europea insegna che obiettivi ambiziosi come quello appena illustrato sonoincompatibili con la proprietà privata delle aree”, poiché “quando […] si perseguono finalità generali di riequilibrio funzionale e di trasformazione qualitativa, è indispensabile la preventiva acquisizione dei suoli da parte dell’amministrazione pubblica”. E non è stato possibile limitarsi soltanto a prevedere l’obbligo dell’acquisizione pubblica della totalità degli immobili interessati dalla creazione del Sistema direzionale orientale, sottolinea Cederna, ma è stato giocoforza necessario impegnarsi a delineare e a proporre un sistema di determinazione delle indennità espropriative, stante che, in argomento, presentemente (cioè al momento della presentazione della proposta di legge), l’ordinamento legislativo italiano presenta una vistosa lacuna. Per sopperire alla quale, viene precisato, è stato studiato, e viene proposto, un metodo di determinazione delle indennità di espropriazione che “tiene conto delle lecite ed effettive utilizzazioni degli immobili (suoli ed edifici), ma non delle trasformazioni urbanistiche potenziali, e cioè previste dai piani”. Vale la pena di soggiungere, incidentalmente, che se tale metodo fosse stato assunto (eventualmente affinandolo) dal legislatore, e traslato nel diritto positivo generale vigente, sarebbero stati, da ormai parecchi anni, perseguiti assai più efficacemente ed efficientemente, tutt’assieme, obiettivi equitativi e di drastico contenimento del peso della rendita immobiliare nelle trasformazioni urbane (a tutto vantaggio della loro qualità complessiva), nonché nell’economia nazionale.

“È evidente”, afferma infine Cederna concludendo l’esposizione dei capisaldi della riqualificazione della città di Roma da lui proposta, che il programma sostenuto

non può non essere accompagnato da una profonda trasformazione dei sistemi di circolazione, finalizzata a dotare la città di una rete su ferro in sede propria, che integri reti sotterranee, ferrovie di superficie e collegamenti di tipo più leggero. Tale rete deve avere un respiro metropolitano e servire gradualmente l’intera città a partire dal settore orientale. Solo in questo modo si avrà un rimedio effettivo e duraturo al grave inquinamento atmosferico e ai suoi nefasti effetti sulla salute pubblica e sul patrimonio storico-archeologico più volte denunciati.

L’esame della proposta di legge di Cederna e altri, e delle svariate diverse proposte presentate sul medesimo argomento, sortì infine l’approvazione parlamentare, e l’entrata in vigore, della legge 15 dicembre 1990, n. 396, recante “Interventi per Roma, capitale della Repubblica”.

Essa non aveva la nettezza, e la solidità d’impianto della proposta di legge di Cederna e altri, ma indubbiamente assumeva, seppure “annacquandoli” nel contesto dell’elencazione di altri obiettivi, i tre capisaldi strategici della riqualificazione della città di Roma additati da Antonio Cederna.

Recita, infatti, il comma 1 dell’articolo 1 della legge 396/1990, che

sono di preminente interesse nazionale gli interventi funzionali all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica e diretti a:

a) realizzare il sistema direzionale orientale e le connesse infrastrutture, anche attraverso una riqualificazione del tessuto urbano e sociale del quadrante Est della città, nonché definire organicamente il piano di localizzazione delle sedi del Parlamento, del Governo, delle amministrazioni e degli uffici pubblici anche attraverso il conseguente programma di riutilizzazione dei beni pubblici;

b) […] creare parchi archeologici e in particolare quello dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica […]; […]

d) adeguare la dotazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità urbana e metropolitana anche attraverso […] il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie; […].

Tutti e tre gli obiettivi sono stati, nella concreta attività delle istituzioni statali, regionali e locali, disattesi, contraddetti, esplicitamente negati, quand’anche le surriportate disposizioni di legge siano sempre vigenti.2

Infine, è il caso di fare presente che la dianzi ripetutamente citata legge 396/1990 affermava, con l’articolo 8:

Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […], il comune di Roma delibera un programma pluriennale contenente l’indicazione degli ambiti da acquisire tramite espropriazione e dei termini temporali al decorrere dei quali si intende procedere ad acquisirli, restando l’esecuzione delle espropriazioni subordinata solamente al decorrere dei predetti termini temporali.

Gli immobili acquisiti […], eccettuati quelli destinati ad utilizzazioni da parte del comune di Roma o comunque interessati alla localizzazione delle sedi pubbliche, sono dal comune medesimo ceduti, anche tramite asta pubblica, in proprietà o in diritto di superficie a soggetti pubblici o privati che si impegnano mediante apposite convenzioni ad effettuare le previste trasformazioni ed utilizzazioni. I prezzi di cessione sono determinati sulla base dei costi di acquisizione maggiorati delle quote, proporzionali ai volumi o alle superfici degli immobili risultanti dalle previste trasformazioni, dei costi delle opere, di competenza del comune, per la sistemazione e le organizzazioni degli ambiti in cui ricadono gli immobili interessati.

Per la realizzazione del sistema direzionale orientale […] è applicabile l’articolo 27 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, anche per insediamenti per attività terziarie e direzionali.

La Corte costituzionale, con sentenza 5-8 maggio 1995, n. 155, aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge ora riportate, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 42, terzo comma, della Costituzione.

Senonché, al momento di definire il decreto del presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, il legislatore delegato (Governo Amato), pensò bene di abrogare, con l’articolo 58 di tale provvedimento, non soltanto, com’era del tutto coerente, l’articolo 7 della legge 396/1990, che stabiliva i termini di determinazione delle indennità di espropriazione, ma anche l’articolo 8 della medesima legge, sopra riportato, il quale, invece, con una disposizione tutt’affatto “di merito” e “provvedimentale” (piaccia o meno questa tipologia di norme legislative), stabiliva che una determinata operazione urbanistica dovesse realizzarsi previa acquisizione pubblica, tramite espropriazione, della totalità degli immobili interessati. “Eccesso di delega”? è difficile dubitarne.

La salvaguardia di Venezia e della sua laguna

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, e a decorrere dall’inizio dei precedenti anni Settanta, quando il Parlamento italiano aveva voluto trarre, in qualche modo, le conclusioni del grande dibattito sviluppatosi a scala locale, nazionale e internazionale, sulla situazione e sulle prospettive della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, anche e soprattutto in conseguenza della disastrosa “acqua alta” eccezionale del 4 novembre 1966, la legislazione speciale “per Venezia” si era arricchita di numerosi provvedimenti.3

Antonio Cederna, che fin dagli esordi della sua attività di polemista aveva rivolto anche a Venezia e alla sua laguna particolarissime attenzioni, dopo averne ragionato con varie persone, con le quali si sentiva, sull’argomento e non soltanto, in sintonia culturale,4 si convinse della necessità di un forte intervento di integrazione e di coordinamento della legislazione speciale per Venezia, e decise di presentare una propria proposta di legge rivolta a tal fine. Fui ancora una volta chiamato a collaborare per la messa a punto della proposta, che, avendo Cederna ottenuto la sottoscrizione anche di Ada Becchi e di Franco Bassanini (entrambi appartenenti, come lui, al gruppo della Sinistra indipendente), fu presentata il 2 aprile 1991.

La proposta di legge, esordisce la relazione illustrativa,

si propone, in buona sostanza e in sintesi, i seguenti obiettivi, da perseguirsi congiuntamente:

a) correggere le prescrizioni della vigente legislazione speciale per Venezia che la riflessione, e soprattutto la prassi attuativa, abbia negli anni mostrato errate e/o di impossibile o difficile praticabilità;

b) integrare la medesima legislazione speciale con le disposizioni la cui necessità, o almeno utilità, si sia appalesata a seguito, anche in questo caso, di maturazioni teoriche scaturenti dalla verifica nella prassi;

c) risolvere le incongruenze, al limite della contraddittorietà, sedimentatesi in conseguenza del succedersi per accumulo di disposizioni legislative speciali (e ordinarie);

d) ricondurre le discipline speciali valevoli per Venezia nel l’alveo delle discipline ordinarie, nella misura in cui ciò sia reputabile utile e congruo, anche alla luce dell’essersi il complesso normativo ordinario arricchito di disposizioni attinenti tematiche che, precedentemente, erano state disciplinate con riferimento alla sola area veneziana;

e) porre le premesse e i presupposti per il coordinamento e la unificazione in un testo di agevole interpretabilità e praticabilità delle disposizioni legislative concernenti Venezia.

Così delineato il complesso degli obiettivi perseguiti, la relazione illustrativa procede a esporre le ragioni e i contenuti di una delle più incisive previsioni innovative della proposta di legge.

Premesso che

il faticato procedere delle azioni e degli interventi che, secondo la volontà del legislatore, avrebbero dovuto assicurare la salvaguardia di Venezia e della sua laguna […] è stato largamente insoddisfacente […], sicuramente e marcatamente, per quanto attiene alla tutela dell’integrità fisica […] del territorio lagunare,

si sostiene che

la ragione prima ed essenziale del procedere inceppato e sussultorio delle azioni e degli interventi dianzi detti […] risiede nel non compiutamente risolto confronto tra due approcci, due modelli, due logiche. Semplificando al massimo: tra una logica sostanzialmente meccanicistica, che tende a isolare i problemi (o tutt’al più a riconoscere tra essi nessi estremamente semplificati) e a dar loro soluzioni indipendenti e fortemente ingegneristiche, e una logica, per così dire, sistemica, che chiede di evidenziare le correlazioni tra tutte le dinamiche in atto, e quindi tra tutti i problemi da affrontare, e pertanto pretende una predefinizione globale, e costantemente ricalibrabile, di tutti gli interventi e le azioni da prevedersi, per collocarle in sequenze temporali che ne garantiscano ed esaltino le sinergie positive.

Occorre quindi, prosegue la relazione,

chiarire quale sia il vero nodo da sciogliere: non procedimentale, ma di merito. Il che non nega affatto che sia necessario ridisegnare l’attuale meccanismo decisionale e operativo degliinterventi e delle azioni per Venezia […]. Piuttosto, evidenzia come tale ridisegno, per essere efficace, non possa essere neutro, ma, al contrario, debba essere, finalmente, coerente e funzionale al pieno e incontrovertibile affermarsi dell’approccio sistemico ai problemi del territorio veneziano.

Inoltre, soggiunge, non si ritiene opportuno “inventare nuovi e straordinari soggetti (che tendono, di norma, a dare pessime prove)”, ma invece si reputa doversi “assumere come riferimento il modello ordinariamente configurato, per le autorità di bacino di rilievo nazionale, dalla legge 18 maggio 1989, n. 183”. Che è quello che fa la proposta di legge, istituendo l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, indicandone l’ambito territoriale di competenza, e dettando, per essa, alcune disposizioni particolari, parzialmente discostantisi da quelle di cui alla legge 183/1989.

Particolarmente rilevante risulta il fatto che, precisato di non ritenere

né opportuno né necessario negare radicalmente una scelta già affermatasi […], si prevede […] che sia le amministrazioni dello Stato che la Regione Veneto, che gli altri enti pubblici interessati, possano fare ricorso per la realizzazione di quanto rientri nelle rispettive competenze a concessioni a soggetti idonei sotto il profilo tecnico e imprenditoriale, anche individuando uno o più soggetti quali concessionari unici di più enti pubblici.

Ma, per converso, si afferma perentoriamente,

l’ambito del concedibile viene […] ristretto alla realizzazione di opere ed eventualmente alla loro gestione nonché alla redazione dei relativi progetti esecutivi, nella ferma convinzione che non possa né debba essere concessa (soprattutto dal momento in cui si costituisce un nuovo soggetto istituzionale dotato di propri robusti supporti scientifici, tecnici e operativi), in blocco e per di più allo stesso soggetto concessionario della realizzazione delle opere, l’effettuazione degli studi e delle ricerche preliminari e la progettazione generale e di massima (cioè, di fatto, la pianificazione e la programmazione degli interventi e delle azioni).

La previsione, palesemente non disarticolabile nei suoi elementi (i quali, si dirà in un dibattito pubblico organizzato a Venezia per illustrare la proposta di legge, simul stabunt aut simul cadent), di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia, e di riservare a essa la redazione e la definizione decisionale degli studi, delle ricerche, delle sperimentazioni, della pianificazione e della programmazione generale, della progettazione di massima degli interventi e delle opere, fu frontalmente respinta dai soggetti (istituzionali, politici ed economici) che avevano ottenuto, e sono riusciti fino ai giorni nostri a preservare, con le unghie e con i denti, la scelta, sancita legislativamente dai commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798, dell’affidamento in “concessione unica”, al Consorzio “Venezia Nuova”, di ogni competenza afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla realizzazione delle opere, riguardanti il riequilibrio idrogeologico della laguna di Venezia, l’arresto e l’inversione dei processi di degrado del bacino lagunare, la difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle “acque alte” eccezionali. “Concessione unica” in virtù della quale un consorzio di imprese di diritto privato è divenuto, grazie alle enormi risorse (erogategli dallo Stato) di cui poteva disporre, dominus pressoché incontrastato degli studi attinenti la laguna veneziana, della progettazione delle opere da effettuarsi in essa, del controllo della validità dei primi e della seconda, asservendo ai propri obiettivi e ai propri interessi gli organi decentrati (il Magistrato alle acque di Venezia) e quelli centrali delle amministrazioni statali.

Ma la previsione di istituire l’autorità di bacino di rilievo nazionale della laguna di Venezia fu, al momento della sua presentazione, fortemente criticata anche da molti esponenti e settori della sinistra, in particolare di quella radicale a ambientalista (nemica acerrima del Consorzio “Venezia Nuova”), in quanto “centralista”.

Per il vero, anche se la proposta di legge di Cederna per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare, il Parlamento nazionale, pochianni appresso, decise di superare radicalmente il sistema della “concessione unica”, dello Stato al Consorzio “Venezia Nuova”, stabilendo, con il comma 11 dell’articolo 12 della legge 24 dicembre 1993, n. 527, che

il Governo è delegato ad emanare, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, diretti a razionalizzare l’attuazione degli interventi per la salvaguardia della laguna di Venezia con l’osservanza dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) separare i soggetti incaricati della progettazione dai soggetti cui è affidata la realizzazione delle opere;

b) costituire, d’intesa tra lo Stato e la regione Veneto, ai fini della attività di studio, progettazione, coordinamento e controllo, una società per azioni con la partecipazione maggioritaria dello Stato nonché della regione Veneto, della provincia di Venezia ovvero della città metropolitana se costituita, dei comuni di Venezia e di Chioggia e di altri soggetti pubblici utilizzando a tal fine i finanziamenti recati da leggi speciali inerenti allo scopo;

c) conferire alla costituenda società i beni da individuare con provvedimenti delle competenti Amministrazioni, e ridefinire le concessioni di cui all’articolo 3 della legge 29 novembre 1984, n. 798.

Nell’immediato il Governo (Ciampi) ottemperava alla volontà e al mandato del Parlamento, ed emanava il decreto legislativo 13 gennaio 1994, n. 62. Alle cui disposizioni più di un ministro avrebbe dovuto, conseguentemente, dare concreta attuazione, con propri atti. Cosa che i ministri interessati, facenti parte del Governo (Berlusconi) nel frattempo subentrato, si guardavano bene dal fare: senza, se vogliamo dirla tutta, essere richiamati a compiere il proprio dovere né dalla Regione Veneto (governata dal centrodestra), né dalla Provincia di Venezia (governata dal centrosinistra), né dal Comune di Venezia (governato dal centrosinistra), né dal Comune di Chioggia (governato prima dal centrodestra e poi dal centrosinistra).

Nel frattempo, peraltro, lo stesso Parlamento nazionale aveva espressamente abrogato, con il comma 1 dell’articolo 6-bis (aggiunto dalla legge di conversione) del decreto legge 29 marzo 1995, n. 96, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 31 maggio 1995, n. 206, il terzo e il quarto comma dell’articolo 3 della legge 798/1984, vale a dire le basi giuridiche legittimanti la stipula, dello Stato con il Consorzio “Venezia Nuova”, della “concessione unica”. Malauguratamente la solita lobby dei “concessionisti” era riuscita a ottenere che fosse contestualmente votato un comma 2 del medesimo succitato articolo, secondo il quale “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni” abrogate. Emerse che la convenzione generale stipulata, per conto dello Stato, dal Magistrato alle acque di Venezia, con il Consorzio “Venezia Nuova”, aveva latitudine tale da ricomprendere, praticamente, ogni e qualsiasi studio, ricerca, sperimentazione, intervento fosse ipotizzabile nella laguna di Venezia nei prossimi secoli. Anche se la cosa non è mai stata puntualmente verificata, e men che mai sottoposta al giudizio di un soggetto dotato dell’opportuna indipendenza e “terzietà”, è “su questi bei fondamenti” (come direbbe il Manzoni) che da quasi quattro anni, ormai, si sta realizzando, con ritmi di lavoro forsennato, l’insieme delle opere costituenti il cosiddetto Modello sperimentale elettromeccanico (Mo.S.E.), alterando gli equilibri idraulici lagunari, facendo scempio dei valori paesaggistici della laguna e dei litorali, distruggendo siti naturalistici di primaria importanza europea e mondiale, e via massacrando.5

Nel frattempo, pare che nell’ambito del comitato di studio per la revisione del decreto legislativo 152/2006, di cui s’è detto in conclusione del primo paragrafo di questo scritto, si stia facendo strada l’ipotesi di ricomprendere in un unico bacino idrografico, governato da un’unica autorità di bacino, l’intero bacino scolante nella laguna veneziana, nonché, ovviamente, la laguna medesima, i suoi litorali e il mare a essi latistante, affidando a tale autorità ogni funzione afferente agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni preliminari, alla pianificazione generale del territorio attinente tutto quanto concerna la sua integrità fi sica, alla programmazione temporalizzata dei necessari interventi,alla progettazione di questi ultimi. A condizione, ovviamente, che fossero nel frattempo sospesi i lavori di realizzazione del Mo.S.E., sarebbe uno splendido omaggio alla lungimiranza di Antonio Cederna, nel decennale della sua morte.

Una seconda incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna per l’integrazione e il coordinamento della legislazione speciale per Venezia riguardava la pianificazione territoriale unitaria dell’entroterra e della laguna di Venezia. Tale pianificazione unitaria era stata già prevista dalla legge 16 aprile 1973, n. 171, e disciplinata dalla conseguente legge regionale 8 settembre 1974, n. 49, le quali, come si è dianzi accennato, avevano affidato la redazione e l’adozione di un “piano comprensoriale” (che avrebbe dovuto essere formato, e trovare vigenza, una tantum) a uno speciale Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, vale a dire a un soggetto pubblico “di secondo grado”, il cui organo decisionale, cioè, si prevedeva formato dall’assemblaggio dei rappresentanti degli enti territoriali (Comuni e Regione) interessati.

La relazione illustrativa della proposta di legge di Cederna rileva che

la debolezza intrinseca dell’organismo comprensoriale e il crollo verticale della cultura della pianificazione, avvenuto in tutto il Paese alla fine degli anni settanta, concorsero, assieme a irrisolte dinamiche di confronto politico, a non consentire che il piano comprensoriale (che comunque era stato redatto, e aveva notevolissimo valore culturale e tecnico), dopo aver conseguito un primo voto favorevole dell’organo competente, completasse il suo iter formativo.

La relazione prosegue:

occorre oggi prendere atto della mancata definizione dello speciale piano comprensoriale previsto dalla legge 171/1973, quasi tre lustri dopo la scadenza del termine previsto per tale adempimento. Ma anche del fatto che, nel frattempo, la legislazione urbanistica regionale ha definito ricche e articolate previsioni di strumenti di pianificazione territoriale sovracomunale (sia regionale che provinciale). E del fatto chela Regione Veneto è andata concretamente predisponendo strumenti di pianificazione territoriale, relativi sia all’intero territorio regionale che, specificamente, all’area veneziana. E soprattutto del fatto che la legge 8 giugno 1990, n. 142, ha sia attribuito funzioni proprie di pianificazione territoriale alle province, che previsto la costituzione, tra le città metropolitane, di quella di Venezia.

E conclude che

nella convinzione che sarà la città metropolitana di Venezia a rispondere, compiutamente, all’istanza […] di un governo unitario delle trasformazioni territoriali del sistema lagunare veneziano, ma anche nella consapevolezza dei tempi non brevi necessari all’avvio dell’operatività pianificatoria del nuovo ente territoriale, […] la presente proposta di legge stabilisce […] che il primo strumento di pianificazione territoriale, regionale, provinciale o metropolitano, che consideri unitariamente il territorio della laguna di Venezia e del suo entroterra e che giunga a vigenza, tenga luogo, a tutti gli effetti previsti, del piano comprensoriale di cui alla legge 171/1973.

La scarsa fiducia nel sollecito “avvio dell’operatività pianificatoria” dell’istituenda “città metropolitana” di Venezia doveva rivelarsi ben fondata, quand’anche eccessivamente ottimistica: la “città metropolitana” di Venezia, infatti, non soltanto non è mai divenuta operativa ma non è neppure stata costituita, come del resto tutte la altre previste “città metropolitane” d’Italia, e ciò a più di tre lustri dalla loro prima previsione, in una legge, quale la legge 142/1990, di rango immediatamente sub-costituzionale. A dimostrazione del fatto che nel Paese dell’incessante chiacchiericcio sulle “riforme istituzionali” e sulla “modernizzazione”, semmai accade che una legge delinei un’autentica riforma istituzionale modernizzatrice, semplicemente non le si dà attuazione, per non urtare la suscettibilità dei cacicchi, ovvero dei “nuovi sindaci” e dei “governatori regionali”.

Accadde peraltro che la Regione Veneto, in ottemperanza della sua allora vigente legge urbanistica regionale, la legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, e successive modificazioni e integrazioni,formò, tra la fine del 1986 e quella del 1999, sia il Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC) che tre “piani di area”, tra i quali il “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana” (P.A.L.A.V.), il cui ambito di applicazione era fi n dall’inizio del relativo iter formativo portato a coincidere con il territorio per il quale avrebbe dovuto essere definito il “piano comprensoriale” di cui si è trattato precedentemente. Per di più, nel corso di tale iter, veniva approvata la legge regionale 27 febbraio 1990, n. 17, la quale, così come modificata dall’articolo 2 della legge regionale 24 gennaio 1992, n. 8, con l’articolo 8, abrogava espressamente la legge regionale 49/1974, e, con il comma 4 dell’articolo 3, stabiliva che il “piano comprensoriale relativo al territorio di Venezia e al suo entroterra”, richiesto dalla legge 171/1973, fosse costituito dal “Piano di area della Laguna e dell’area veneziana”, integrato dal “Piano per la prevenzione dell’inquinamento e il risanamento delle acque del bacino idrografico immediatamente sversante nella Laguna di Venezia”. Le efficacie dei “piani di area vigenti”, quali “parte integrante del piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC)”, sono state poi confermate dal comma 2 dell’articolo 48, recante le “Disposizioni transitorie”, della nuova legge urbanistica regionale veneta 23 aprile 2004, n. 11.

Si può quindi asserire che, seppure per vie impreviste, e un po’ tortuose, un’ipotesi avanzata da Antonio Cederna nella sua proposta di legge sia stata attuata.

Una terza incisiva previsione innovativa della proposta di legge di Cederna che si sta qui illustrando riguarda la pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici.

La relazione illustrativa rammenta che la legge 171/1973 e il conseguente decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791

hanno ribadito la subordinazione di quasi ogni intervento negli insediamenti storici lagunari ai piani particolareggiati, e, per molti versi, assunto l’impianto complesso e farraginoso di disciplina delle trasformazioni (e di attuazione velleitariamente pubblicistica e dirigistica delle stesse) configurato dallo strumentario urbanistico allora in corso di formazione,

e che, peraltro,

il sistema pianificatorio definito si rivela impercorribile […], paralizzante rispetto alla generalizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio storico, suscitatore di spinte a interpretazioni disinvolte delle norme in assenza di una pertinente disciplina. Tant’è che, con l’inizio degli anni ottanta, lo stesso Comune di Venezia avvia un lavoro di integrale ripianificazione (di tipo generale) di Venezia insulare. In tale lavoro, viene assunta la metodologia che sinteticamente può essere denominata di analisi morfologica dell’insediamento urbano e tipologica delle unità di spazio (edifici e scoperti) che lo compongono. [E] occorre sottolineare che lo strumento relativo alla città storica di Venezia, finalmente in corso di completamento in questi mesi, si presenta ricco di affinamenti e innovazioni di grande valore, anche rispetto alle precedenti esperienze pianificatorie fondate sulla stessa metodologia.

Conseguentemente, conclude la relazione,

si reputa necessario che la nuova metodologia pianificatoria assunta dal Comune di Venezia trovi supporto anche nella legislazione speciale statuale, e comunque indispensabile che non possa in nessun caso trovare in essa ostacolo.

Occorre fare presente che la variante generale al piano regolatore per la città storica di Venezia, a cui Cederna alludeva nella relazione alla sua proposta di legge, e che aveva appassionatamente illustrato, come in seguito appassionatamente difenderà, in molteplici articoli su diversi organi di stampa, era stata in effetti messa a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della “giunta rossoverde” diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), essendo quasi al termine il mandato del consiglio comunale in carica. Lo strumento fu peraltro adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta, che oggi definiremmo di centrodestra, diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno). Per essere successivamente “disadottato”, e quindi riadottato, in una versione pesantemente manipolatrice non tanto dei suoi aspetti quantitativi, cioè dell’ingentissima mole delle sue cartografi e analitiche e classificatorie, e delle suepuntualissime prescrizioni normative, quanto in alcuni elementi cardine della sua ingegneria ed efficacia precettiva, alla fine del 1996 (all’epoca della giunta “progressista” diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino). L’esito di quest’ultimo strumento urbanistico, e della sua alquanto disinvolta gestione, è sotto gli occhi di chiunque voglia realmente “vedere” la città storica di Venezia: una squallida, degradata, volgare, tragica maschera imbellettata di sé stessa, con la residenza stabile dilagantemente ed enormemente erosa dal proliferare non soltanto di alberghi, quanto, soprattutto, di affittacamere e di (sedicenti) bed & breakfast, tutt’altro che una “città-museo” (espressione che, se usata per indicare un destino da combattere, faceva inferocire Cederna, e ben a ragione: il “museo”, alla fin fine, è “il luogo delle Muse”!) ma, piuttosto, una Disneyland di quart’ordine.

Come non è stato possibile neppure accennare alle disposizioni di dettaglio della proposta di legge afferenti alla pianificazione degli interventi negli insediamenti urbani storici e al controllo delle trasformazioni dei relativi immobili, così non è possibile neppure accennare a tutte le altre puntuali disposizioni, meno innovative di quelle che, in quanto tali, sono state sinora, seppure sinteticamente, esposte, ma non per questo di scarso rilievo, con le quali la proposta di legge si prefiggeva di perseguire il complesso degli obiettivi indicati all’inizio della relazione illustrativa, e riportati all’inizio di questo paragrafo. Si confida, ciononostante, di avere raggiunto almeno lo scopo di arricchire, di un po’, la conoscenza del pensiero e dell’azione di Antonio Cederna nell’assolvimento di uno dei non pochi ruoli che ricoprì nel corso di una vita tutta improntata dall’essere una “persona civile” per la quale con “i vandali odierni nessun compromesso è possibile”, dall’intransigenza (innanzitutto con sé stessi) praticata come serietà, rigore, precisione, rifiuto della superficialità e della sciatteria, ma anche come “forte posizione moralistica” (sono ancora parole sue): perché, aggiungeva con amara ironia, “in un Paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.

Note

1 Si veda, da ultimo, il contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, con relativa bibliografia.

2 Per quel che riguarda la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori e dell’Appia antica, oltre al contributo di Vezio De Lucia in questo stesso volume, si veda anche V. De Lucia, Antonio Cederna, le sue idee contro l’urbanistica fascista, in “Liberazione”, 21 settembre 2006 (e in http://eddyburg. it/article/articleview/7357/0/250/), e soprattutto Mauro Baioni, “Mussolini urbanista” e il pensiero di Cederna, postfazione al libro di A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006. In estrema sintesi, si può concludere con le parole di De Lucia: “abbiamo verificato che l’idea di Cederna è sparita dall’orizzonte della città”. Per quel che riguarda “il potenziamento del trasporto pubblico su ferro con sistemi integrati e in sede propria, sotterranea e di superficie”, si possono ricordare le parole di Filippo Ciccone, Quale medico propose la Cura del ferro? (intervento pubblicato in http://eddyburg.it/article/ articleview/7226/0/39/): “l’esperienza romana di cura del ferro è ben poca cosa: ferma l’evoluzione del Nodo Fs, ferme nella sostanza le metropolitane (ci si avvia a realizzare record al contrario già noti alla città: 25 anni per fare quattro miseri e brutti chilometri di linea A). E, con la copertura del ‘pianificar facendo’, qualche altro milione di metri cubi è stato realizzato ben distante da qualsiasi linea su ferro”.

Quanto al Sistema direzionale orientale, esso, come afferma De Lucia nel suo articolo sopra citato, “è stato silenziosamente cancellato” e, soggiunge, “non sono riuscito a capire che cosa lo ha sostituito”.

3 Si trattava di: la legge 16 aprile 1973, n. 171, recante “Interventi per la salvaguardia di Venezia”; il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 791, relativo a “Interventi di restauro e risanamento conservativo in Venezia insulare, nelle isole della laguna e nel centro storico di Chioggia” (emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 962, recante “Tutela della città di Venezia e del suo territorio dagli inquinamenti delle acque” (anch’esso emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); il decreto del Presidente della Repubblica 20 settembre 1973, n. 1186, recante “Adeguamento dell’organico del Magistrato alle acque di Venezia e delle soprintendenze alle antichità e belle arti delle province venete” (parimenti emanato in base alla delega conferita al Governo dalla succitata legge 171/1973); la legge 5 agosto 1975, n. 404, recante “Norme per l’indizione del bando dell’appalto concorso internazionale per la conservazione dell’equilibrio idro-geologico della laguna di Venezia e per l’abbattimento delle acque alte nei centri storici”; il decreto legge 11 gennaio 1980, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 10 marzo 1980, n. 56, recante “Studio delle soluzioni tecniche da adottare per la riduzione delle acque alte nella laguna veneta”; la legge 29 novembre 1984, n. 798, recante “Nuovi interventi per la salvaguardia di Venezia”.

4 Per citarne alcuni, oltre all’autore di queste righe: Antonio Casellati, primo assessore all’ecologia del Comune di Venezia (e d’Italia), tra il 1971 e il 1973, poi presidente della sezione veneziana di “Italia Nostra” e successivamente, dimessosi da quest’ultima carica, del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia, soggetto deputato a redigere e ad adottare la “ripianificazione” dell’area, e, dall’inizio del 1988 ai primi mesi del 1990, Sindaco di Venezia, con la cosiddetta Giunta “rosso-verde”; Edoardo Salzano, dal 1975 al 1985 assessore all’urbanistica del Comune di Venezia, e poi, per un ulteriore quinquennio, consigliere comunale di Venezia e regionale del Veneto; Vezio De Lucia, dal 1977 al 1980 Segretario del Comprensorio dei comuni della laguna e dell’entroterra di Venezia.

5 Per un’ampia rassegna in merito al progetto del Mo.S.E. si può consultare la sezione del sito eddyburg all’indirizzo: http://eddyburg.it/article/archive/ 178/.

Inseriamo in calce un ampio testo di Luigi Scano che costituisce una critica puntuale alla legge urbanistica della Regione Friuli – Venezia Giulia, nei confronti della quale fin dalle prime battute aveva tentato di mobilitare l’attenzione di chi avrebbe potuto modificarla. La particolare attenzione di Gigi per questa legge era determinata dal concorrere di tre ragioni. La prima del tutto personale: l’affetto che nutriva per quella regione, nella quale la sua famiglia affondava parte delle sue radici e alla quale lo legavano amicizie maturate anche nei lavori svolti. La seconda e la terza hanno a che fare con i suoi interessi culturali permanenti: quello per una corretta tutela delle qualità culturali del territorio (l’ambiente, il paesaggio, la bellezza, la funzionalità), e quella per la migliore, più compiuta e completa e chiara stesura delle componenti di quel sistema normativo che è l’indispensabile cornice di ogni civile convivenza, ed uno dei fondamenti della democrazia.

Ciò che quindi soprattutto lo scandalizzava nella legge di Illy e Sonego, e sollevava la sua più feroce e veemente critica, erano le violazioni – molteplici e grossolane – del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Riteneva quest’ultimo il prodotto più maturo di un’evoluzione legislativa che (dall’antico testo di Benedetto Croce fino alle ultime modifiche del Codice) aveva studiato come pochi altri, commentandola sia nei testi normativi e nella cultura che era alla loro base sia nelle loro applicazioni pratiche. Speriamo che le sue indicazioni critiche, se non sono state recepite dal legislatore regionale, lo siano da chi ha la responsabilità di valutarne la correttezza giuridica.

1. IL PIANO DEL 1992

Il 14 dicembre 1992 il Consiglio comunale di Venezia aveva adottato una variante generale al piano regolatore, relativa alla città storica insulare. Lo strumento, la cui redazione era stata faticosamente avviata nel 1982, per essere sospesa nel 1985, ripresa alla fine del 1987, ed infine conclusa all'inizio del 1990, al momento della sua presentazione aveva suscitato grande interesse, e larghi e talvolta entusiastici consensi: basti pensare ai giudizi espressi da Antonio Cederna, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Vittoria Calzolari, Raffaele Panella, Paolo Maretto, Tommaso Giura Longo, per citarne alcuni soltanto.

1.1. Il rigore analitico e la precisione prescrittiva: eliminate le discrezionalità

In particolare, si era ritenuto che il nuovo strumento costituisse un coerente sviluppo, ed un soddisfacente perfezionamento, delle esperienze sin'allora effettuate di disciplina dei centri storici in base al metodo cosiddetto dell'analisi e della classificazione tipologica delle unità edilizie.

Infatti, nelle precedenti applicazioni di tale metodo si aveva avuto modo di riscontrare un duplice ordine di carenze.

Sotto il profilo più propriamente "analitico" (delle unità edilizie) si aveva potuto rilevare frequentemente, anzi in termini pressoché generalizzati, nella costruzione delle "classi tipologiche", una certa indebita commistione tra valenze squisitamente strutturali e valenze più propriamente funzionali.

Per fare degli esempi, era facile trovare indicate come "classi tipologiche" quella delle "chiese", e quella dei "conventi". Ma tali denominazioni comunicano un "uso" (magari originario e consolidato), non un "tipo". La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite all'esercizio dei culti può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura unitaria", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite a luoghi di incontro, di ritrovo, di spettacolo, e simili. La "classe tipologica" alla quale appartengono le unità edilizie comunemente adibite a convivenza conventuale può piuttosto denominarsi delle "unità edilizie speciali a struttura modulare", e ad essa appartengono altresì unità edilizie comunemente adibite ad altre forme di convivenza collettiva, anche temporanea: come collegi, caserme, reclusori, complessi di uffici, e simili.

Vale la pena di sottolineare subito che (soltanto) un approccio analitico rigorosamente strutturale consente, in sede precettiva, cioè nel dettare le disposizioni pianificatorie, di definire la gamma di "utilizzazioni compatibili" di ogni "classe tipologica" (cioè di tutte le concrete unità di spazio che sia stato riscontrato appartenervi), concependo come "compatibili" tutte le utilizzazioni la cui efficiente esplicazione non sia necessariamente tale da contraddire, o da "forzare", le caratteristiche (anche solo di organizzazione spaziale) del "tipo".

Sotto il profilo, per l'appunto, "precettivo", si era poi rilevato che, nella più gran parte delle esperienze pianificatorie precedentemente condotte, le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" non erano affatto, od assai scarsamente, relazionate alle individuate "classi tipologiche" (cioè ai connotati distintivi di ognuna di esse), ma riferite a "categorie d'intervento" (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione, ecc.).

Così, sempre per fare un esempio, nell'ambito del "risanamento conservativo" venivano previsti "il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio" nel "rispetto degli elementi tipologici". Demandando pressoché totalmente il riconoscimento degli "elementi costitutivi" e degli "elementi tipologici" alla discrezionalità del progettista, o del soggetto pubblico competente a rilasciare il provvedimento abilitativo all'intervento.

Per la prima volta, invece, nel nuovo strumento per la città storica lagunare di Venezia, erano definite e descritte precisamente le caratteristiche ritenute identificative e distintive di ognuna delle individuate "classi tipologiche" (costruite sulla base di considerazioni esclusivamente strutturali), ed erano riferite puntualmente ad esse le disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" ed alle "utilizzazioni compatibili". Cosicché tali disposizioni potevano (quindi) assumere (anche) il carattere di "linee guida" alla progettazione degli interventi, di indicazione della, o delle, corrette possibilità di intervento: ma in assenza, o con la massima riduzione, d'ogni apprezzamento discrezionale e "caso per caso".

Si noti che questo modo di procedere non ha prodotto affatto un generalizzato irrigidimento delle possibilità trasformative dell'edilizia esistente nella città storica lagunare di Venezia, ma esattamente il suo contrario. L'avere valorizzato, indicandole come (pressoché uniche) caratteristiche meritevoli di mantenimento (o di ripristino) le caratteristiche strutturali connotanti le diverse "classi tipologiche" ha infatti consentito di giudicare ammissibili (indicandone le corrette modalità) trasformazioni ritenute (e di fatto stabilite) precluse in una diversa ottica "conservazionistica": quella del mantenimento di "tutto com'é".

Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di articolare, nel rispetto di precise regole, unità edilizie in più unità immobiliari funzionalmente autonome: compresi i sottotetti, e compresi i piani cosiddetti "nobili" delle unità edilizie comunemente chiamate "palazzi", cioè dotati di grandi saloni passanti. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di modificare l'assetto interno della più gran parte dei vani. Basti pensare alle possibilità, che sono state date, di inserire servizi igienici e tecnologici, secondo plurime soluzioni.

E basti pensare, sotto un altro profilo, alla vasta gamma di utilizzazioni che, come s'é già detto, il nuovo strumento aveva potuto definire "compatibili" con le unità edilizie appartenenti alle diverse "classi tipologiche".

E' il caso di far presente che lo stesso approccio culturale, e quindi sia analitico che prescrittivo, era stato unitariamente assunto con riferimento sia alle unità edilizie "preottocentesche" che a quelle "ottocentesche" che a quelle "novecentesche", sia alle unità edilizie "di base residenziali" che a quelle "di base non residenziali" (a capannone) che a quelle "speciali".

Relativamente alle unità edilizie novecentesche, peraltro, si era ritenuto di esprimere altresì un giudizio puntuale circa la loro "qualità", e di individuare quelle unità edilizie le cui caratteristiche strutturali, distributive e compositive, ed i cui elementi costitutivi, non presentassero alcun interesse storico e/o artistico, nemmeno di carattere testimoniale. Tali unità edilizie erano state poi distinte tra quelle "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto il loro impianto fondiario e le loro caratteristiche dimensionali risultavano in ogni modo coerenti con le regole conformative che hanno presieduto la vicenda storica dell'insediamento, e comunque con l'assetto urbano risultante da tale vicenda, e quelle "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", in quanto risultavano invece contrastanti con le predette regole conformative, o tali da configurare un assetto urbano contraddittorio con esse, e comunque incongruo. Delle prime era stabilita possibile anche la demolizione integrale e la ricostruzione, ma sul medesimo sedime, delle seconde era prevista la sostituzione con unità edilizie tali da configurare un assetto urbano riproponente le suddette regole conformative storiche, e comunque più congruo.

Tali scelte discendevano da un rigoroso convincimento in ordine alla produzione edilizia. Secondo il quale, nel corso della vicenda storica, fino ad un (relativamente recente) "momento" di "rottura", al costruire hanno presieduto regole conformative, estrinsecantisi nelle caratteristiche tipologiche strutturali dei manufatti edilizi, e da esse ricostruibili, capaci di consentire anche una crescita organica del manufatto, ed il mutamento della sua forma, del suo aspetto (espressione degli "stili" succedutisi nel tempo, od anche sincronicamente confrontantisi), talvolta delle sue funzioni, senza negarsi né contraddirsi. Regole tali da rendere possibile la riconoscibilità di precisi "tipi" edilizi, quali modalità peculiari di portare a sintesi struttura, forma e funzione, e quindi la costruzione di "classi tipologiche", ma al contempo tali da produrre il costituirsi di ogni manufatto come individuo irriducibile ad ogni altro, non fungibile con gli altri.

A partire da un determinato "momento" che costituisce, per l'appunto, una riconoscibile "rottura" nella continuità della vicenda storica delle dinamiche urbane (quand'anche le relative datazioni variino considerevolmente da luogo a luogo), il costruire manufatti edilizi inizia a rispondere a regole sostanzialmente indifferenziate, con l'applicazione di tecniche costruttive e di sistemi tecnologici e materiali largamente standardizzati, e, tutt'al più, a diversi "stili". Ne consegue la legittimazione del prescrivere la conservazione solamente di quegli specifici manufatti che siano giudicati costituire esemplari di rilevante pregio artistico-architettonico, od almeno testimonianze particolarmente significative di un particolare "stile".

Per il vero, l'operazione valutativa che si é appena sopra descritta (ed argomentatamente motivata), nello strumento urbanistico adottato nel 1992 si presentava compiutamente effettuata relativamente alle unità edilizie "di base", assai insufficientemente, o meglio discontinuativamente, rispetto alle unità edilizie "speciali", un certo numero delle quali, ove "novecentesche", avrebbero dovuto essere coerentemente classificate (anche e soprattutto), in base ai criteri dianzi indicati, come unità edilizie soltanto "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", od addirittura "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", mentre si ritrovavano classificate con esclusivo riferimento alle loro caratteristiche tipologiche strutturali.

Ma la carenza era rimediabile (senza stravolgere l'unitarietà di impianto concettuale dello strumento urbanistico, anzi rafforzandola) con un supplemento di analisi, e con conseguenti decisioni riclassificatorie correttive: operazioni entrambe successivamente effettuate dagli uffici competenti dell'urbanistica comunale nel predisporre le controdeduzioni alle osservazione presentate allo strumento adottato.

1.2. Il programmato governo delle utilizzazioni

In secondo luogo, al momento della presentazione del nuovo strumento, e nei mesi successivi, si era apprezzata la distinzione tra "utilizzazioni compatibili", con le caratteristiche degli spazi fisici, e "destinazioni d'uso", cioè utilizzazioni rese vincolanti in vista del perseguimento di interessi generali. E si era apprezzata la previsione per cui le prime erano valide a tempo indeterminato, mentre le seconde dovevano essere riviste, aggiornate, eventualmente variate ogni quinquennio, così da tener conto delle dinamiche sociali ed economiche, e delle esigenze collettive.

E' opportuno sottolineare che il nuovo strumento non imprimeva destinazioni d'uso vincolanti a tutte le unità di spazio (unità edilizie ed unità di spazio scoperto) disciplinate (nelle unità di spazio non interessate da destinazioni d'uso specifiche potendo quindi essere attivate tutte le utilizzazioni compatibili), né si preoccupava di rendere vincolanti più o meno vaste congerie di destinazioni d'uso.

Erano resi vincolanti, infatti, soltanto cinque tipi di destinazioni d'uso:

- quella per strutture pubbliche e/o per attività collettive,

- quella per attività ricettive,

- quella abitativa,

- quella manifatturiera,

- quella per strutture culturali private.

Destinare una congrua quantità di spazi, in ogni insediamento urbano, o parte di insediamento urbano, a strutture pubbliche e/o per attività collettive, in rapporto alla popolazione insediata, é, oltre che primario dovere culturale e politico di ogni operazione di pianificazione appena appena decente, un preciso obbligo giuridico, stabilito dalla legislazione statale italiana sino dal 1967, e (ovviamente) ribadito dalla legislazione regionale. Vale caso mai la pena di far presente come il nuovo strumento urbanistico per la città storica di Venezia rendesse flessibilmente governabili le destinazioni d'uso per strutture pubbliche e/o per attività collettive, consentendo che l'attribuzione della specifica destinazione (a scuola, o ad ufficio pubblico, o ad attrezzatura sociale, e così via) potesse essere definita, nel rispetto di taluni criteri di equilibrio, ma in relazione alle esigenze di volta in volta emergenti, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, senza seguire complesse procedure di variante allo strumento urbanistico.

Parimenti obbligatorio é imporre vincoli di destinazione d'uso relativamente alle attività ricettive, stanti i chiari disposti in materia della legislazione sia statale che regionale.

Relativamente poi alle altre destinazioni d'uso vincolanti impresse dallo strumento urbanistico adottato nel 1992, quella abitativa, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, occorre rammentare come esse fossero rivolte a preservare, sulla base di una scelta culturale e politica e mediante un atto amministrativo, nella competizione economica per l'uso degli spazi che si svolge nel cosiddetto "mercato" degli immobili, quote adeguate di spazi per funzioni che risultano, presentemente, tutte "deboli" in tale competizione, ma essenziali nel primo caso per conservare alla città storica i suoi stessi connotati urbani, nel secondo caso per mantenervi attività tradizionali componenti della sua identità, nel terzo caso per promuovere lo sviluppo di quelle attività che unanimemente o quasi sono ritenute suscettibili di ricostituire una nuova "base economica urbana" a Venezia: le produzioni di "beni immateriali".

In ogni caso, non si può dire che queste tre destinazioni d'uso "ingessassero" le dinamiche di trasformazione funzionale, o addirittura la vitalità economica e sociale della città.

Le ultime due, quella manifatturiera e quella per strutture culturali private, erano assai "sobriamente" impresse a pochissime unità di spazio, ritenute eccezionalmente idonee per i predetti usi.

La destinazione abitativa era attribuita soltanto a quelle parti delle unità edilizie che avessero utilizzazione abitativa in atto alla data di adozione dello strumento urbanistico.

Per le singole preesistenti unità immobiliari, o le parti delle stesse, site ai piani terreni delle unità edilizie destinate ad abitazioni, che non fossero componenti integranti, anche sotto il profilo funzionale, dell'unità edilizia e/o immobiliare cui appartenessero, e per le quali fossero definite ammissibili utilizzazioni diverse da quella abitativa, erano ammessi i mutamenti:

a) da qualsiasi utilizzazione in atto ad utilizzazioni per servizi di pertinenza agli alloggi, servizi di pertinenza degli esercizi commerciali al minuto, servizi di pertinenza dei pubblici esercizi, qualora le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, neppure a seguito dell'effettuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare;

b) dall'utilizzazione abitativa in atto ad utilizzazioni per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, artigianato di servizio, esercizi commerciali al minuto, pubblici esercizi, uffici aperti al pubblico, uffici privati, studi professionali, sedi espositive, strutture associative, a condizione che le unità immobiliari, o le loro parti, interessate, non fossero, o potessero essere rese, anche a seguito delle trasformazioni fisiche ammissibili, abitabili nel rispetto di ogni altra vigente disposizione legislativa e/o regolamentare, ed invece fossero, o potessero essere rese, nel rispetto di tali disposizioni, utilizzabili per le utilizzazioni non abitative predette.

Nelle unità edilizie di tipo C, cioè nei cosiddetti "palazzi", anche se destinati ad abitazioni, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avesse una superficie utile superiore a 400 metri quadrati, e le trasformazioni fisiche ammissibili non consentissero di ricavarne almeno due unità immobiliari ad utilizzazione abitativa, erano ammessi i mutamenti dell'utilizzazione da quella in atto, ivi compresa quella abitativa, a qualsiasi utilizzazione definita compatibile.

Infine, nelle unità edilizie destinate, in tutto od in parte, ad abitazioni, ove almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata avessero, alla data di adozione dello strumento urbanistico, un'unica utilizzazione, diversa da quella abitativa, ovvero ove fosse ammissibile il mutamento dell'utilizzazione di almeno i 2/3 dell'unità edilizia interessata per adibirli ad un'unica utilizzazione non abitativa, si prevedeva potesse essere concesso od autorizzato, su conforme deliberazione del Consiglio comunale, il mutamento dell'utilizzazione in atto delle restanti parti dell'unità edilizia, per adibirle alla medesima predetta utilizzazione, purché ricorressero i seguenti presupposti:

a) l'utilizzazione prevista delle restanti parti dell'unità edilizia fosse compatibile;

b) l'utilizzazione degli spazi interessati fosse condizione per l'efficiente svolgimento di funzioni particolarmente coerenti con le caratteristiche della città storica di Venezia, quali attività direzionali pubbliche e private, culturali, di istruzione superiore, e quindi per il mantenimento nella città storica di Venezia di dette funzioni;

c) i soggetti interessati si impegnassero con il Comune, mediante convenzione, a provvedere a propria cura e spese alla riallocazione degli utilizzatori delle parti dell'unità edilizia, che avessero un'utilizzazione abitativa in atto e delle quali venisse concesso od autorizzato il mutamento dell'utilizzazione, in altri congrui immobili, siti nell'ambito della città storica di Venezia e che non avessero un'effettiva utilizzazione abitativa in atto;

d) fossero date dai soggetti interessati idonee garanzie reali o finanziarie per l'adempimento degli obblighi assunti con la convenzione.

In ogni caso, si stabiliva che non fosse considerata utilizzazione difforme dalla destinazione l'utilizzazione parziale delle singole unità immobiliari, destinate ad abitazioni, per artigianato di produzione di beni artistici o connessi con le persone e le abitazioni, per artigianato di servizio, per studi professionali, qualora tale utilizzazione riguardasse non più del quaranta per cento della superficie utile dell'unità immobiliare interessata, e fosse effettuata da un residente nella medesima unità immobiliare.

Era quindi amplissimamente prevista la possibilità non soltanto di utilizzare per vaste gamme di funzioni non abitative (se del caso variando l'utilizzazione specifica) unità edilizie, od immobiliari, originariamente adibite ad uso abitativo, e che avessero legittimamente in atto utilizzazioni non abitative, ma anche di attivare utilizzazioni non abitative di unità edilizie, od immobiliari, o di loro parti, che avessero in atto utilizzazioni abitative. Fermo restando che ad utilizzazioni non abitative era adibita la grande quantità di "unità edilizie di base non residenziali a capannone" e di "unità edilizie speciali", nonché (virtualmente tutte) le unità edilizie realizzabili in conseguenza della (eventuale o prescritta) ricostruzione delle "unità edilizie coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano" e delle "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano".

Insomma: non si sarebbe potuto in alcun modo sostenere (argomentatamente) che la nuova disciplina avrebbe bloccato le dinamiche insediative delle attività produttive. Perfino ove si fosse voluto ripetere la sesquipedale sciocchezza per cui l'"esodo" degli abitanti dalla città storica di Venezia sarebbe dovuto soprattutto, od almeno anche, ad una carenza di posti di lavoro, e quindi di attività produttive insediate, in tale ambito.

Mentre é necessario riconoscere che "si commette un errore quando si vede nell'esodo della popolazione anche il sintomo di una decadenza economica della città. Anzi, poiché esso si accompagna ad una crescita dei prezzi immobiliari, va visto al contrario come la conseguenza della crescente appetibilità di Venezia, e del suo centro storico in particolare, come effetto della localizzazione in esso di famiglie ricche e di attività remunerative, in grado di competere con successo con quelle già insediate, provocandone l'espulsione. Al limite, si può dire addirittura che l'esodo sia la conseguenza indesiderata del successo di Venezia come città" [1] .

Infatti, pur in presenza, negli ultimi due decenni, di una vivace (ed assolutamente positiva) dinamica di incremento della domanda di lavoro nella terraferma veneziana, e soprattutto nei comuni dell'area veneziana diversi dal capoluogo, ha continuato a crescere, rilevantemente, in termini assoluti, il numero dei lavoratori pendolari che trovano lavoro nel Comune di Venezia, ed in particolare proprio nella città storica, gli spostamenti pendolari per motivi di lavoro con origine dalla quale, e verso ogni destinazione, si sono invece fortemente ridotti. Così, al 1991, a fronte di circa 28 mila pendolari in entrata nella città storica, si avevano circa 7 mila pendolari in uscita dalla stessa città storica.

I trasferimenti di attività produttive dalla città storica di Venezia non sono, ad ogni buon conto, mai avvenuti in conseguenza di una impossibilità di reperire spazi attribuibile ad una disciplina urbanistica denegante la sottrazione di spazi alla funzione abitativa. Sono avvenuti per incompatibilità tra le modalità di esercizio contemporaneo (o degli ultimi trascorsi decenni) di tali attività, o di parti di esse, e gli assetti tipologici e morfologici degli spazi veneziani. Sono avvenuti per dinamiche afferenti strategie aziendali, o riassetti del capitale finanziario, o ristrutturazioni dei settori di appartenenza, comunque estranee alle discipline urbanistiche, e rispetto alle quali le discipline urbanistiche, ed in genere le politiche degli enti territoriali, sono (giustamente, secondo l'opinione prevalente ed ormai quasi unanime nel nostro Paese come nel resto del mondo) del tutto ininfluenti.

La "mortalità" delle "unità locali", cioè la cessazione di attività economiche, ha riguardato essenzialmente quelle strettamente legate (in termini di produzione e vendita di beni e servizi) alla funzione abitativa, cioè all'entità (ed in qualche misura alla composizione) della popolazione residente (panetterie, drogherie, lavanderie, per fare qualche esempio). La "natalità" di "unità locali" ha invece riguardato essenzialmente quelle legate all'uso temporaneo, soprattutto turistico, della città: non tanto, anzi per nulla affatto, la ricettività, quanto la produzione e vendita di beni e servizi rivolti ai turisti.

E' vero che nell'ultimo decennio intercensuario i posti di lavoro nella città storica di Venezia risultano diminuiti di un po' meno di 4 mila unità, ma di più di 5 mila, nello stesso decennio, sono diminuiti gli attivi residenti nella stessa città storica che in essa lavorano (la qual cosa ha ovviamente prodotto un ulteriore incremento dei pendolari in entrata). Per cui si può ritenere che anche tale fenomeno sia effetto delle dinamiche intercorse nell'entità e nella composizione della popolazione residente.

In conclusione, si può ben dire che il problema prioritario non è quello di facilitare, nella città storica di Venezia, l'insediarsi di qualsivoglia attività produttiva (in concreto, stanti le inerzie degli operatori, le dinamiche delle rendite, non solo immobiliari, le capacità "pervasive" e "totalizzanti" di certi settori economici, sempre quelle legate all'uso turistico della città). Ma é piuttosto quello di mantenere nella medesima città storica una qualche ricchezza di funzioni, e soprattutto una popolazione stabile di congrua entità e fisiologicamente articolata per ceti e classi d'età.

Per la qual cosa non basta certamente riservare spazi alla funzione abitativa, mediante una disciplina urbanistica che ne vincoli la destinazione d'uso. Non basta, ma é necessario.

1.3. Gli ambiti di trasformazione della morfologia urbana

Mentre, come dianzi si é ricordato, per la più gran parte della città storica il nuovo strumento urbanistico dettava disposizioni immediatamente precettive e direttamente operative (nel senso che nel loro rispetto potevano essere richieste ed abilitate le trasformazioni, fisiche e funzionali, delle singole unità di spazio), per 50 "ambiti" il medesimo strumento stabiliva che le più radicali trasformazioni in essi previste (non tutte le trasformazioni ammissibili, quindi) fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio. Ciò in quanto per gli stessi ambiti (tranne che per uno di essi, l'Arsenale, assoggettato alla stessa disciplina per garantirne l'unitarietà di concezione e gestione fisico-funzionale) lo stesso strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica".

Si trattava, in buona sostanza, delle aree oggetto di interventi edificatori in epoca successiva a quella che si può considerare la conclusione di una vicenda storica insediativa veneziana presieduta da regole precise e costanti: vuoi interventi di nuovo impianto, vuoi interventi di estesa riedificazione, vuoi ad elevato specialismo morfologico e funzionale (il Mulino Stucky, l'area della ex Junghans, la Marittima, Piazzale Roma, l'Isola nuova del Tronchetto, i cantieri ex CNOMV, tanto per fare qualche esempio), vuoi di tipo tradizionalmente residenziale (i quartieri di edilizia pubblica economica e popolare).

Tali scelte discendevano da una precisa nozione di insediamento urbano storico (in senso proprio, e stretto). Secondo tale nozione l'insediamento storico é inteso come l'area urbana che conserva, nelle caratteristiche dell'organizzazione territoriale, dell'assetto urbano, dell'impianto fondiario, nonché nelle caratteristiche strutturali, tipologiche e formali sia dei manufatti edilizi che degli spazi scoperti, i segni delle regole che hanno presieduto alla vicenda storica della sua conformazione.

Con tale definizione non si vuole affatto aderire ad una (banale ed infondata) lettura degli insediamenti storici quali prodotti (necessariamente) "armoniosi" di una unitaria (sincronicamente e diacronicamente) "visione" dell'organismo urbano. Si é al contrario ben consapevoli dell'essere gli insediamenti storici frutto e risultante di "conflitti": di conflitti degli uomini con i supporti fisico-ambientali del loro insediarsi, e di conflitti (di interessi materiali, religiosi, culturali) tra gli uomini, cioè tra individui, famiglie, gruppi, ceti, classi.

Il fatto é che la dinamica di tali conflitti si é dipanata, foggiando e trasformando gli insediamenti storici, nel rispetto di alcune regole di fondo, di alcune costanti dei rapporti tra l'attività trasformativa antropica ed il suo supporto fisico-ambientale (quello specifico supporto fisico-ambientale), tra le caratteristiche del sito (di quello specifico sito) e le esigenze umane (funzionali e di rappresentazione), tra i materiali disponibili e le tecniche costruttive.

Queste regole, queste costanti, sono identificabili, e danno ragione di quel che la vicenda storica degli insediamenti ha prodotto, e consentono l'autentica conservazione di quanto é essenziale degli elementi e degli aspetti in cui esse si sono inverate, conferendo ai relativi oggetti qualità di componenti del "patrimonio culturale" della comunità insediata, e dell'intera umanità, presente e futura, in quanto in essi sono sedimentate le memorie della loro vicenda.

Inoltre, come s'é già detto, esse sono specifiche di ogni singolo insediamento storico, la cui identità é pertanto irriducibile a quella di qualsiasi altro.

Questa é la ragione per la quale si assume che dell'assieme di ogni insediamento storico debba essere prescritta:

- la conservazione delle individuate caratteristiche, mediante la manutenzione, il restauro ed il risanamento conservativo degli elementi fisici in cui, e per quanto, esse siano riconoscibili e significative;

- il ripristino delle predette caratteristiche, mediante trasformazioni degli elementi fisici, in cui, e per quanto, esse siano state alterate.

E per la quale, concretamente, si assume che di ogni insediamento storico nel suo insieme si debbano prescrivere il mantenimento, ovvero la ricostituzione negli aspetti alterati in termini incompatibili od incongrui rispetto alle identificate caratteristiche e regole conformative:

- della maglia insediativa e dell'impianto fondiario storici;

- della giacitura e della larghezza degli elementi viari, nonché dei relativi arredi,

- del sistema degli spazi scoperti, nonché dei rapporti tra spazi scoperti, spazi coperti e volumi edificati.

Con ciò non si esclude affatto che di altre aree urbane, diverse dall'insediamento storico, non si prescriva, parimenti, la conservazione dei connotati concreti dell'esistente organizzazione morfologica, con il mantenimento finanche delle essenziali caratteristiche dimensionali e formali delle unità di spazio (unità edilizie e spazi scoperti) che le compongono.

Ma, in tali casi, la prescrizione discende da un giudizio positivo puntuale circa la "qualità" dell'organizzazione morfologica della specifica area urbana considerata. La qual cosa é legittimata dal fatto che, in epoca relativamente recente, a partire da quel determinato "momento" di "rottura" di cui precedentemente s'é detto a proposito delle unità edilizie, nella conformazione delle aree urbane le regole di fondo, le costanti, che avevano presieduto alle fasi precedenti della vicenda (raramente e comunque scarsamente formalizzate, ed in ogni caso, come s'é detto, con caratteri di specifica ed irriducibile individualità), sono state soppiantate da nuove regole (di norma formalizzate, anche se in termini assai differenziati), scarsamente, o per nulla, correlate alla specificità dei supporti fisico-ambientali e dei siti: regole largamente "riproducibili", cioè riproponibili (e di fatto riproposte) in luoghi diversi, e largamente, quindi, "fungibili". Per cui della loro applicazione é concettualmente legittimo prevedere di conservare non ogni esito (perché irripetibile), ma soltanto gli esiti giudicati più significativi e "riusciti" (in termini di "qualità").

Ad ogni buon conto, per gli "ambiti" che il nuovo strumento urbanistico disponeva fossero oggetto di trasformazioni riconducibili alla nozione di "ristrutturazione urbanistica" il medesimo strumento urbanistico dettava:

- precise direttive per la formazione dei prescritti relativi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio;

- disposizioni circa le trasformazioni, fisiche e/o funzionali, effettuabili prima dell'entrata in vigore di tali strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio.

La componente del nuovo strumento urbanistico ora sommariamente esposta fu la prima (e per un po' l'unica) ad incontrare obiezioni critiche, nell'approssimarsi dell'adozione dello strumento stesso, e nel periodo immediatamente successivo, da parte di tre esponenti della cultura urbanistica: il prof. arch. Leonardo Benevolo, il prof. arch. Pierluigi Cervellati, l'arch. Roberto D'Agostino.

Essi affermarono [2] che il nuovo strumento era "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche di accesso e di frangia sul cui uso si giocheranno i destini di Venezia".

Si replicò che così non era. Riferendosi ad una delle aree da essi citate, quella dello Stucky, si fece presente che per essa erano indicate dal nuovo strumento urbanistico, con puntuale riferimento a sue specifiche parti, destinazioni per archivi pubblici, per centro congressuale polivalente privato, per alberghi, per abitazioni, e che soltanto per una specifica parte si consentiva la successiva scelta (da parte del consiglio comunale, non della proprietà) tra destinazioni per alberghi e destinazioni per attività direzionali, uffici privati, sedi espositive, comunque funzionalmente integrate con il centro congressuale. Riferendosi ad un'altra delle aree da essi citate, quella della Marittima, si fece presente che per essa il nuovo strumento urbanistico disponeva di "destinare ad impianti portuali marittimi [...] la parte dell'ambito che risulti necessaria nel contesto di una riorganizzazione delle funzioni portuali nell'area lagunare veneziana, la quale comunque mantenga in Venezia insulare gli scali del traffico passeggeri, di linea e crocieristico", nonché di "destinare a spazi d'ormeggio attrezzati ed a ricovero, manutenzione, riparazione e noleggio di piccole imbarcazioni la totalità, o comunque una congrua quota, della parte dell'ambito che non risulti necessaria per le utilizzazioni [predette]", essendo possibile destinare una quota di tale seconda parte dell'ambito a strutture turistico-ricettive, purché di livello medio (pressoché mancanti in Venezia).

Gli stessi critici affermarono allora di ritenere inammissibile che il nuovo strumento urbanistico si permettesse di decidere in merito ad "aree strategiche" di rilievo addirittura sovracomunale, pur trattando soltanto la città storica insulare.

Si replicò che tale affermazione (oltretutto contraddittoria con la prima) era infondata, giacché, come il già fatto esempio di Marittima stava a dimostrare, in tali casi il nuovo strumento urbanistico subordinava esplicitamente la propria operatività, prima che ai redigendi strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, a scelte da operarsi da parte della pianificazione sovraordinata (neppure generale comunale, ma provinciale o metropolitana o regionale). E che comunque le scelte indicate per le "aree strategiche" erano conformi, se non a determinazioni di strumenti di pianificazione territoriali vigenti (all'epoca, come per il vero tuttora, tale requisito non era posseduto neppure dal piano regionale per l'area della laguna di Venezia), agli orientamenti di quei disegni pianificatori a scala d'area vasta (in primis il piano comprensoriale dei primi anni '80) che avevano ricevuto i più vasti consensi culturali e politici, nonché ai più condivisi e più precisamente formulati orientamenti delle forze politiche localmente maggioritarie ed egemoni.

2. LA NUOVA GIUNTA, IL SUO OPERATO ED I SUOI ESITI

Il programma sulla cui base era stato eletto il sindaco Cacciari aveva previsto di procedere sollecitamente a definire la pianificazione attuativa di alcuni degli "ambiti" ad essa assoggettati dallo strumento generale adottato nel 1992, dando quindi per scontato il perfezionamento dell'iter formativo di quest'ultimo.

Per quasi due anni, invece, la nuova giunta non si è preoccupata di programmare la predisposizione, da parte degli uffici competenti, delle controdeduzioni alle osservazioni (non molte, anzi straordinariamente ed inconsuetamente poche) presentate allo strumento adottato.

Dopodiché, nell'estate del 1995, ha varato quattro proposte di deliberazioni consiliari, redatte dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, che avrebbero modificato profondamente lo strumento adottato, intaccandone le caratteristiche salienti, snaturandolo e smantellandone l'impianto precettivo, per la qual cosa hanno ricevuto pesantissime critiche, tra le altre, da una quindicina di illustri urbanisti di tutta Italia, da Antonio Cederna a Tommaso Giura Longo, da Paolo Maretto a Bernardo Rossi Doria, da Antonio Iannello a Sandro Dal Piaz a Lucio Barbera, tanto per ricordare qualche nome.

Successivamente, tali proposte di deliberazioni consiliari, già sottoposte all'esame della competente commissione consiliare, sono state accantonate in quanto l'assessore all'urbanistica ha maturato la convinzione di doversi procedere non a controdedurre alle osservazioni presentate allo strumento adottato nel 1992 (pur essendo stato consegnato, nel ottobre del 1995, il progetto di controdeduzioni elaborato dall'ufficio comunale competente) e neppure a modificarlo per quanto necessario od opportuno, ma piuttosto a redigere, in qualche mese, un nuovo strumento urbanistico, e quindi "ricominciare da capo", con adozione, pubblicazione, osservazioni, ecc. ecc. A tale scelta operativa si sono espressamente dichiarate contrarie tre delle quattro componenti della originaria maggioranza (Verdi, Rifondazione Comunista ed Alleanza Democratica) ed una forza politica, come il PPI, con la quale, stante le nuove dinamiche nazionali, si punterebbe a trovare ampie intese. Ma l'assessore all'urbanistica non ne ha tenuto alcun conto, ed ha fatto conoscere (con un documento, redatto dal consulente generale prof. arch. Leonardo Benevolo, del 29 novembre 1955) le fondamentali caratteristiche innovative (rispetto allo strumento adottato nel 1992) dell'impostazione del nuovo strumento (che ricalca largamente quella espressa nelle quattro proposte di deliberazioni di cui dianzi s'è detto). Le medesime caratteristiche innovative sono state poi rienunciate, più sinteticamente, nel "progetto preliminare al piano regolatore generale", presentato alla fine di marzo del 1996.

Nel frattempo l'assessore comunale all'urbanistica faceva produrre ed esibire ponderose riflessioni in merito alle disposizioni che dovessero ritenersi ancora vigenti dei "piani particolareggiati" per la città storica degli anni '70, il cui periodo di tempo di piena efficacia, dopo un paio di proroghe, era definitivamente scaduto. Le conclusioni di tali riflessioni erano, in estrema sintesi, che dovessero ritenersi sempre vigenti soltanto le disposizioni relative alle trasformazioni fisiche effettuabili sui singoli edifici nelle cosiddette "zone di conservazione", e null'altro. In particolare, che non dovessero ritenersi più vigenti le cosiddette "destinazioni d'uso", neppure se riferite ad intere aree urbane.

Il fatto è che tutte quelle riflessioni, e le relative conclusioni , muovevano dal presupposto che quelli degli anni '70 fossero tipici "piani particolareggiati", e cioè strumenti urbanistici di specificazione del piano regolatore generale.

Così non era, e la cosa era stata puntualmente chiarita nei pareri della Commissione tecnica regionale fatti propri dalla Giunta regionale nelle deliberazioni di approvazione di quei piani.

Infatti, per ammettere la legittimità dei piani adottati dal Comune, si precisò che essi, correttamente ai sensi di molteplici disposizioni di leggi speciali per Venezia, "hanno assunto non solo la forma, ma anche il contenuto di piani di ricostruzione, ai quali può riconoscersi la duplice funzione di Piano regolatore generale e di piano particolareggiato, e, conseguentemente, l'attitudine autonoma a variare un Piano regolatore generale". E si aggiunse che "la funzione reale di piano particolareggiato" era invece riservata ai cosiddetti "piani di coordinamento".

Ne deriva che i piani per la città storica di Venezia formati negli anni '70 hanno da considerarsi "decaduti" quanto ad una parte dei loro contenuti tipici di "piani particolareggiati", ma vigenti a tempo indeterminato quanto ai loro contenuti di variante, modificativa ed integrativa, del Piano regolatore generale del 1962.

Ma, stanti le caratteristiche proprie sia di quei piani che del Piano regolatore generale del 1962, distinguere le due speci di contenuti appare impresa improba, e probabilmente impossibile. Cosicché si può tranquillamente asserire che vigono a tempo indeterminato tutte le disposizioni dei "piani particolareggiati" degli anni '70, con l'eccezione dei "vincoli" di destinazione per usi pubblici e/o collettivi che implichino l'espropriazione dei relativi immobili, in quanto essi "decadono" dopo cinque anni dall'entrata in vigore del Piano regolatore generale, o della sua variante, che li abbia posti.

Tra l'altro, deve ritenersi vigere a tempo indeterminato, in quanto in variante (integrativa) del Piano regolatore generale, la disposizione per cui quei "piani particolareggiati" dovevano essere specificati e dettagliati da "piani di coordinamento": disposizione, tra l'altro, rafforzata da una legge regionale [3]. 55/1977. E parimenti l'altra disposizione, derivante dalla prima, per cui, in assenza di vigenti "piani di coordinamento", e di successivi "progetti di comparto", erano ammissibili soltanto le opere di manutenzione ordinaria ed una parte di quelle di manutenzione straordinaria.

Insomma: deve ritenersi vigente a tempo indeterminato quell'infernale meccanismo di pianificazione "a scatole cinesi" che ha, o avrebbe, ove non fosse stato sovente disinvoltamente aggirato (ma tali disinvolture non sono di certo apprezzabili), davvero "ingessato" totalmente la città storica, per di più senza garantire affatto la qualità culturale delle trasformazioni, e cioè la preservazione dei valori dell'edilizia storica.

Quell'infernale meccanismo che si voleva correttamente superare con la variante generale per la città storica finalmente completata alla fine degli anni '80, ed adottata nel 1992: quella variante che sarebbe stato necessario fare rapidamente entrare in vigore, indirizzando gli uffici competenti ad attribuire la massima priorità alla formulazione delle controdeduzioni alle osservazioni pervenute, sottoponendo al consiglio comunale le medesime controdeduzioni non appena formulate, inoltrando lo strumento alla Regione per l'approvazione.

Mentre ricominciando da capo (a decorrere da non si sa quando) con l'adozione di un nuovo strumento, la pubblicazione dello stesso, il ricevimento delle osservazioni, la formulazione e la deliberazione delle controdeduzioni, nemmeno con la massima buona volontà si può supporre che tale nuovo strumento, capace di superare la situazione dianzi descritta, entri in vigore prima della fine del 1998.

E c'è dell'altro. All'inizio del mese di febbraio del 1996 è entrato in vigore il "Piano di area della laguna e dell'area veneziana" (PALAV), finalmente approvato dalla Regione. L'articolo 35 delle sue norme stabilisce che siano considerati "centri storici" quelli come tali perimetrati negli "atlanti provinciali" pubblicati a cura della stessa Regione: nel caso di Venezia, tra l'altro, l'intera città insulare, compresi Piazzale Roma, la Marittima, l'Isola Nuova del Tronchetto, e simili. Sono quindi dettate alcune direttive per l'adeguamento degli strumenti urbanistici generali comunali, e si stabilisce che, fino a quando non si sia provveduto a tale adeguamento, nei "centri storici" sono consentiti soltanto, oltre alle opere manutentorie, o gli interventi disciplinati da vigenti strumenti urbanistici attuativi (piani particolareggiati o strumenti equivalenti), o quelli disciplinati da Piani regolatori generali redatti in conformità alla legge regionale 31 maggio 1980, n.80 (la quale, in estrema sintesi, prescrive, per la disciplina urbanistica dei centri storici, l'uso del metodo dell'analisi e della classificazione tipologica).

Ebbene: i "piani particolareggiati" formati negli anni '70 sono indubbiamente "decaduti" in quanto strumenti urbanistici attuativi; vigono invece, come s'è visto, in quanto varianti del Piano regolatore generale, ma in quanto tali non sono conformi ai dettati della legge regionale 80/80. Per cui, o per una ragione, o per l'altra, non possono essere consentiti gli interventi da essi disciplinati. Alla predetta legge regionale 80/80 era invece conforme la variante generale per la città storica adottata nel 1992, ma non si è voluto farla entrare rapidamente in vigore. Con la conseguenza, ancora una volta, che in tutta Venezia insulare sono presentemente consentibili soltanto gli interventi manutentori, nonché qualche intervento disciplinato da alcuni strumenti urbanistici attuativi, relativi a pochissime e circoscritte aree, formati negli ultimi anni.

E non basta: la situazione è quella sommariamente descritta, ma che così sia non si è voluto riconoscere. Per cui, presumibilmente, sono state rilasciate quantità non irrilevanti di provvedimenti abilitativi (concessioni ed autorizzazioni) eccedenti i limiti strettissimi di quel che era consentibile, e quindi illegittimi.

(segue)

[1] Mariolina Toniolo, La formazione dell'area metropolitana letta attraverso il mercato immobiliare, I.R.S.E.V., riprodotto in proprio, Venezia, 1991.

[2] "Tre grandi urbanisti italiani bocciano il piano regolatore", in Il Gazzettino di Venezia del 29 novembre 1992.

[3] La legge regionale 9 settembre 1977, n.55, recante "Attuazione dei piani particolareggiati nell'ambito del Comune di Venezia".

3. IL NUOVO PIANO

Alle metà di giugno del 1996 l'attuale Giunta comunale ha varato, e sottoposto al Consiglio, una nuova variante generale al piano regolatore di Venezia, relativa alla città storica insulare, che, in buona sostanza, assorbe i lavori compiuti, e gli elaborati prodotti, in funzione di quella adottata alla fine del 1992, snaturando peraltro le caratteristiche essenziali di quest'ultimo strumento con alcune ben mirate modificazioni.

Tali modificazioni corrispondono, sostanzialmente (con qualche correzione rivolta ad ovviare alle più sfacciate violazioni di legittimità, od ai più evidenti "svarioni" culturali, messi in luce dal dibattito dei mesi precedenti), a quelle indicate, circa un anno prima, dalle quattro proposte di deliberazione di cui s'è detto.

Per effetto di tali modificazioni un complesso sistematico di "regole", discendenti dalle caratteristiche in essere del territorio, dotato di interni meccanismi di correzione e di adeguamento che ne garantivano sia la flessibilità che la coerenza, definito nella trasparenza del processo democratico, qual'era la variante adottata nel 1992, verrebbe sostituito da un catalogo di "suggerimenti", che tutti (e soprattutto i detentori di "poteri forti", e quelli che avessero "santi in paradiso", e meglio sapessero "contrattare") potrebbero seguire o non seguire, scegliendo à la carte in funzione dei propri interessi, e concordando caso per caso i propri obblighi, in uno scenario di opaca discrezionalità che corromperebbe profondamente i titolari dei pubblici poteri, sia politici che amministrativi, ed i loro rapporti con i cittadini.

Ma non sarebbe soltanto snaturato un piano: concretamente, e di conseguenza, sarebbe snaturata la città storica di Venezia, nelle sue essenziali caratteristiche sia fisiche che sociali.

3.1. Trasformazioni fisiche valutabili discrezionalmente, caso per caso

Una prima modificazione muove dal falso presupposto che nel classificare (nello strumento adottato nel 1992) le unità edilizie preottocentesche non si sia tenuto adeguato conto delle intervenute alterazioni delle caratteristiche tipologiche originarie. Falso in quanto, proprio a questo fine, erano state identificate le due classi delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni".

In base al predetto presupposto si vorrebbe prevedere (articolo 4 delle Norme del nuovo strumento) che, al momento della domanda dell'abilitazione ad operare trasformazioni, si effettui un "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto".

Secondo tale "procedimento" il proprietario dell'unità edilizia dichiarerebbe l'unità edilizia stessa "integra", oppure "ristrutturata in modo reversibile", oppure "trasformata in modo irreversibile". Per suffragare tale dichiarazione sarebbe tenuto a produrre nulla più che i medesimi elaborati relativi alla documentazione dello stato di fatto dell'unità edilizia che lo strumento adottato nel 1992 prescriveva in tutti i casi di richieste di provvedimenti abilitativi ad operare trasformazioni. La dichiarazione sarebbe esaminata da una "commissione scientifica comunale" (non si specifica né cosa sia né da chi sia composta), che avrebbe tempo non più di venti giorni per dire la sua, e sarebbe accettata o respinta dal "responsabile del procedimento" (cioè da un funzionario comunale dell'edilizia privata) entro novanta giorni, trascorsi i quali, con il meccanismo del "silenzio assenso", sarebbe automaticamente confermata la dichiarazione del proprietario.

Soltanto ove lo stato dell'edificio fosse, con questa procedura, definito "integro", varrebbero le precise disposizioni relative alle "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992, puntualmente riferite alle caratteristiche identificative e distintive di ognuno dei "tipi" edilizi, dallo stesso strumento definite e descritte.

Mentre per le unità edilizie dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le medesime "trasformazioni fisiche ammissibili" dettate dallo strumento del 1992 (chiamate, chissà perché, di "restauro"), "combinate" con quelle di "ripristino" delle situazioni originarie, "in modo da avvicinarsi il più possibile al modello descritto" (dallo strumento del 1992), oppure, a discrezione, "altri interventi volti a conservare o a modificare ulteriormente la situazione presente, purché il nuovo assetto non risulti incompatibile, o maggiormente incompatibile, col recupero del modello originario".

E per le unità edilizie dichiarate "trasformate in modo irreversibile" sarebbero ammissibili, alternativamente, le trasformazioni "volte a salvaguardare gli elementi antichi superstiti, e a conservare o modificare ulteriormente la situazioni presente, che comunque non vadano ad alterare i rapporti col contesto, ad accrescere il volume, la superficie lorda, il numero dei piani, né a modificare l'inviluppo complessivo", oppure, a discrezione "la ricostruzione dell'organismo originario mediante il ripristino filologico o tipologico".

Secondo le definizioni delle "tipologie di intervento" (articolo 3 delle Norme del nuovo strumento), che si vorrebbe ad ogni costo introdurre, il "ripristino filologico" si effettuerebbe "quando è disponibile una documentazione individuale del manufatto, attraverso i resti superstiti e/o i disegni e le descrizioni dell'edificio", ed il "ripristino tipologico" si effettuerebbe "quando si conosce solo il modello tipologico del manufatto, desunto dal sedime, dall'appartenenza a una serie di edifici circostanti, e/o dalle rappresentazioni storiche in pianta e in alzato", nel qual caso "è possibile edificare un nuovo manufatto, che sia la replica del modello tipologico": cioè realizzare un bel falso architettonico !.

Non occorre, si ritiene, sottolineare l'estrema genericità e vaghezza delle disposizioni alle quali dovrebbe sottostare la progettazione, e l'attuazione, delle trasformazioni, ogniqualvolta l'unità edilizia fosse dichiarata, con il procedimento discrezionale e "caso per caso" dianzi descritto, "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile".

Si noti inoltre che in ogni caso (cioè in qualsivoglia stato siano dichiarate le unità edilizie) si vorrebbe precisare che sono ammissibili comunque (quindi a prescindere dal rispetto delle disposizioni replicate o introdotte ex novo) le trasformazioni di manutenzione sia ordinaria che straordinaria. Palesemente non essendo riusciti a comprendere la logica dello strumento adottato nel 1992, che assoggettava alle stesse disposizioni, puntualmente riferite alle caratteristiche riconosciute di ogni unità edilizia, tutte le trasformazioni fisiche, in qualsivoglia delle (famigerate, verrebbe da dire, per gli usi che si è preteso e si continua a pretendere di farne) "categorie d'intervento" esse rientrassero.

3.2. Pressappochismi e sciatterie

Il "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", e quanto ne consegue in termini di disposizioni da osservare, è dalla sistematica dell'apparato normativo del nuovo strumento (si veda l'articolo 4 delle Norme), riferito a tutte le "unità di spazio", quindi, secondo l'impostazione dello strumento adottato nel 1992, e confermata da quello nuovo, sia alle "unità edilizie" che alle "unità di spazio scoperto". Ma, sia per la terminologia usata che per le concrete indicazioni date (e largamente citate nel precedente paragrafo 3.1.), appare smaccatamente pertinente alle sole unità edilizie.

Non basta: riferendosi alle unità edilizie, i predetti dispositivi dovrebbero valere per tutte quelle classificate dagli elaborati grafici e dall'apparato normativo, od almeno da uno dei suoi elaborati, e quindi anche, ad esempio, per le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e per le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" (le uniche categorie, come si dirà in prosieguo, introdotte dal nuovo strumento, non comparenti nelle Norme, ma comparenti nell'Appendice 1, che ne costituisce parte integrante). Per le prime, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto", la Scheda 28 dell'Appendice 1 dispone che siano ammissibili sia la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", sia, a determinate condizioni, la demolizione e ricostruzione. Per le seconde, le "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto", la Scheda 29 dell'Appendice 1 dispone che in assenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" siano ammissibili, oltre alle trasformazioni manutentorie, soltanto la demolizione senza ricostruzione, e che lo "strumento urbanistico esecutivo" possa prevedere anche la riedificazione. In entrambi i casi, quale applicabilità può aversi dei succitati dispositivi?

Dalle Norme del nuovo strumento non sono trattate le categorie di unità edilizie che, come si è detto nel precedente paragrafo 3.1., lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni". La cosa potrebbe essere considerata coerente conseguenza del previsto "procedimento di accertamento e di definizione dello stato di alterazione del manufatto", per cui qualsiasi unità edilizia potrebbe essere definita "ristrutturata in modo reversibile" o "trasformata in modo irreversibile" (per usare la terminologia del nuovo strumento), e quindi, anche, "parzialmente trasformata" o "oggetto di fusioni od addizioni" (per usare la terminologia di quello del 1992). Ma, invece, le categorie delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche parzialmente trasformate" e delle "unità edilizie di base residenziali preottocentesche oggetto di fusioni od addizioni" continuano a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1 (che delle Norme costituisce parte integrante): col che ogni coerenza va a farsi benedire. Ed assieme alla coerenza va a farsi benedire anche l'applicabilità dello strumento: sia perché le disposizioni dettate nelle Schede 8 e 9 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, e fondamento, nelle Norme, sia perché le medesime disposizioni non sono registrate (né registrabili) con quelle date dall'articolo 4 delle Norme per le unità edilizie che siano dichiarate "ristrutturate in modo reversibile" o "trasformate in modo irreversibile".

Parimenti, dalle Norme del nuovo strumento non é trattata la categoria di unità edilizie che lo strumento del 1992 denominava "unità edilizie di base residenziali ottocentesche di ristrutturazione", che però continua a comparire negli elaborati grafici e nell'Appendice 1: anche in questo caso, le disposizioni dettate nella Scheda 11 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.

Le Norme del nuovo strumento trattano con un unico complesso di disposizioni (dettato dall'articolo 12) le "unità edilizie di pregio architettonico" sia "complessivo" che "limitato all'assetto esterno", laddove le Norme dello strumento del 1992 trattavano separatamente le due categorie delle "unità edilizie di complessivo pregio architettonico" e delle "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno". Le due categorie ora citate sono peraltro, nel nuovo strumento, distintamente individuate negli elaborati grafici, e distintamente trattate nell'Appendice 1: ma, essendo le disposizioni dettate dall'articolo 12 delle Norme rimaste quelle che lo strumento del 1992 aveva definito specificamente, ed unicamente, per le "unità edilizie di complessivo pregio architettonico", vi è piena ed insanabile contradditorietà con quelle dettate dalla Scheda 13 per le "unità edilizie di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", parimenti trascritte dallo strumento del 1992.

Nelle Norme del nuovo strumento non compaiono le "unità edilizie di base a tipologia mista", disciplinate dallo strumento del 1992. In questo caso, in coerenza con gli altri elaborati: infatti, negli elaborati grafici del nuovo strumento, le indicazioni di appartenenza di talune unità edilizie, o, meglio, di loro parti, a diverse categorie, sono state sostituite dalla riconduzione di tali unità edilizie ad un'unica categoria. Con il risultato che unità edilizie derivanti dall'addizione di uno o più piani, configurati come "residenziali", ad un "capannone", sono incluse nelle categorie delle "unità edilizie di base a capannone", e che anche tali piani aggiuntivi dovrebbero sottostare alle puntuali disposizioni dettate, in considerazione delle loro specifiche caratteristiche, già dallo strumento del 1992, per le "unità edilizie di base a capannone".

Il nuovo strumento riconduce tutte le unità edilizie novecentesche in sei sole categorie (contro le dieci dello strumento del 1992):

- le "unità edilizie novecentesche di complessivo pregio architettonico" e le "unità edilizie novecentesche di pregio architettonico limitato all'assetto esterno", delle quali già si è detto;

- le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo";

- le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto".

E' arduo intendere le ragioni per le quali l'assoluta non pertinenza delle classificazioni riferite alle caratteristiche "tipologico-strutturali" con l'edilizia novecentesca, sostenuta dagli estensori del nuovo strumento, non valga per le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone a fronte acqueo" e le "unità edilizie di base non residenziali novecentesche a capannone senza fronte acqueo", considerate anche dal medesimo nuovo strumento, e valga invece per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura unitaria", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare", per le "unità edilizie speciali novecentesche originarie o di ristrutturazione a struttura modulare complessa", per le "unità edilizie speciali novecentesche ad impianto singolare o non ripetuto", che, invece, erano considerate dallo strumento del 1992, e non lo sono dal nuovo strumento.

E' da verificare se, ed in quale misura, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" coincidano, in termini individuativi, cioè negli elaborati grafici, con le unità edilizie classificate, dallo strumento del 1992, "coerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", oppure "incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano". Tale ultima classificazione è stata contestata dagli estensori del nuovo strumento in quanto si è negato (in contrasto con i fondamentali studi di Saverio Muratori, Paolo Maretto, Gianfranco Caniggia) che siano esistite, e siano riconoscibili, delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano. In proposito, si potrebbe chiedersi perché l'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento dichiari che "la disciplina urbanistica riconosce le regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento".

Ad ogni buon conto, le "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" e le "unità edilizie non integrate nel contesto" non sono trattate dalle Norme del nuovo strumento, per cui, anche in questo caso, le disposizioni dettate nelle Schede 28 e 29 dell'Appendice 1 non trovano inquadramento, né fondamento, nelle Norme, con conseguente ardua applicabilità.

Delle "unità edilizie novecentesche integrate nel contesto" la Scheda 28 dispone che siano ammissibili, in base a provvedimento abilitativo in diretta applicazione dello strumento generale, la "ristrutturazione con vincolo parziale, di conservazione delle murature esterne e del volume", con "possibilità di limitate correzioni del partito architettonico esterno, motivate dalle trasformazioni interne". E' invece richiesta la vigenza di uno "strumento urbanistico esecutivo" per effettuare trasformazioni di "demolizione e ricostruzione sullo stesso sedime o su sedime diverso, con le limitazioni di volume e di altezza stabilite dallo strumento stesso". Non si vede per quale ragione la demolizione e ricostruzione, ove avvenga sull'identico sedime, e sia disposto avvenga con l'identico volume e l'identica altezza, di un edificio, debba essere subordinata ad un "piano urbanistico esecutivo", tipico strumento di specificazione di assetti morfologici diversi da quelli in essere

Delle "unità edilizie novecentesche non integrate nel contesto" la Scheda 29 dispone che "in assenza di indicazioni date da uno strumento urbanistico esecutivo, l'unico intervento ammesso, oltre la manutenzione ordinaria e straordinaria, è la demolizione senza ricostruzione, assimilando il suo sedime all'unità di spazio scoperto in cui è collocata", mentre "all'interno di uno strumento urbanistico esecutivo può essere indicata l'utilizzazione alternativa del sedime, come spazio scoperto o per una nuova edificazione non commisurata alle caratteristiche del manufatto edilizio". A prescindere dalla chiarezza espressiva, le disposizioni non sono sostanzialmente diverse da quelle dettate dallo strumento del 1992 per le "unità edilizie incoerenti con l'organizzazione morfologica del tessuto urbano", se non perché in quest'ultimo strumento non si prescriveva mai la demolizione senza ricostruzione.

La cura, l'attenzione e l'intelligenza con cui si è proceduto a "manomettere" gli elaborati dello strumento del 1992 sono, infine, ottimamente esemplificate dall'articolo 13 delle Norme del nuovo strumento, recante "prescrizioni comuni alle unità edilizie". Il comma 1 di tale articolo detta disposizioni da osservarsi nelle "trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli". Il comma 2 del medesimo articolo, "sforbiciato" per renderlo coerente con il fatto che nelle Norme non compaiono (come s'è già detto, ma non se ne intende la ragione) riferimenti a categorie di unità edilizie comparenti, invece, sia negli elaborati grafici che nell'Appendice 1, dispone che "il rispetto delle prescrizioni di cui al comma precedente può essere richiesto anche nei casi di effettuazione di trasformazioni fisiche consentite o prescritte nelle unità edilizie di cui ai precedenti articoli": cioè nelle stesse unità edilizie per le quali il rispetto delle medesime prescrizioni era, dal comma precedente, tassativamente richiesto!

Quanto agli spazi scoperti, non si intende la ragione per la quale nelle Norme del nuovo strumento, rispetto a quelle dello strumento del 1992, siano state soppresse le disposizioni generali relative ai "percorsi carrabili" ed ai "percorsi ferroviari", pur presenti, sebbene in termini assai limitati, in Venezia insulare.

3.3. Libertà di mutamenti d'uso

Una ulteriore modificazione essenziale riguarda la disciplina delle "destinazioni d'uso".

Una delle proposte di deliberazione di cui dianzi s'è detto prevedeva la totale eliminazione d'ogni vincolo di destinazione d'uso.

Il nuovo strumento, negando la distinzione, operata dallo strumento adottato nel 1992, tra momento "strutturale", valido a tempo indeterminato, che definisce le gamme di "utilizzazioni compatibili", e momento "programmatico", da aggiornare con periodicità quadriennale, che fissa (soltanto per quanto ritenuto necessario od opportuno) le "destinazioni d'uso", prevede l'"assorbimento" della determinazione delle "destinazioni d'uso" nella determinazione delle "utilizzazioni compatibili" (articolo 21 delle Norme del nuovo strumento).

Per cui le utilizzazioni in atto potrebbero essere generalmente modificate attivando una delle altre utilizzazioni già definite "compatibili" dallo strumento del 1992. Salvo che siano in atto utilizzazioni per "abitazioni", "industrie", "impianti per la cantieristica minore" od "impianti per la cantieristica minore", nel qual caso il mutamento sarebbe ammesso soltanto ove si pronunciasse favorevolmente la solita fantomatica "commissione scientifica comunale" e la commissione consiliare per l'urbanistica.

Di nuovo, quindi, un complesso di "regole", certe ed uguali per tutti quelli che ricadessero in predeterminate situazioni, quale quello definito dallo strumento del 1992 (e dettagliatamente descritto al precedente paragrafo 1.2.) sarebbe sostituito da un procedimento discrezionale, nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed addirittura un organo politico, chiamato il primo non all'interpretazione ed all'applicazione tecnica di una norma, ma a concorrere ad una decisione, ed il secondo non a stabilire regole, ma a decidere, di volta in volta, sui singoli casi concreti, senza predefiniti criteri di valutazione.

Nei fatti, si può agevolmente prevedere che chiunque si vedesse, eventualmente, su tali basi negata la facoltà di attivare un'utilizzazione diversa da quella in atto (abitativa, poniamo), e ricorresse al TAR avverso il diniego, otterrebbe ragione, proprio in conseguenza dell'inammissibile discrezionalità del procedimento. E conseguentemente la difesa delle funzioni "deboli" (di quella abitativa in primo luogo) si tradurrebbe in una mera finzione, in una drammatica burla.

Ci si deve ad ogni modo compiacere del fatto che, grazie alle polemiche suscitate dalla predetta precedente proposta di deliberazione, ci si è resi conto del fatto che eliminare (come quella proposta di deliberazione voleva) ogni vincolo d'uso relativamente alle destinazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive, così come alle destinazioni per attività ricettive, sarebbe stato illegittimo, in quanto non avrebbe rispettato le norme statali e regionali in argomento.

Così compare tra gli elaborati grafici del nuovo strumento (si veda il punto 2.4.3 dell'articolo 2 delle Norme) la "tavola contrassegnata dalla sigla B2, in scala 1:3.550 [perché questa scala anomala proprio per l'indicazione del "vincoli urbanistici"?] recante l'individuazione delle aree [...] pubbliche o riservate alle attività collettive a servizio della città antica [...] e l'individuazione delle strutture ricettive alberghiere".

Per il vero, in tele tavola compaiono, oltre alla voce "strutture ricettive alberghiere", le voci:

- aree per servizi esistenti

a. aree per l'istruzione

pubbliche

private

b. aree per attrezzature di interesse comune

pubbliche

private

c. aree per attrezzature per il gioco e lo sport

pubbliche

private

d. aree per parcheggi

pubbliche

private

- aree per servizi di progetto

L'elaborato grafico, pertanto, imprime specifiche, vincolanti destinazioni d'uso (per l'istruzione, per attrezzature d'interesse comune, per parcheggi), ad immobili privati, i quali già hanno la relativa utilizzazione in atto, precludendone il mutamento, in casi diversi da quelli normati dal dianzi citato articolo 21 delle Norme del nuovo strumento. Ma tale vincolo non trova alcun riferimento nelle Norme.

Si pretenderebbe, anche con tali "vincoli", di avere adempiuto agli obblighi di dotazione di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive posti dalle vigenti leggi, ma tali spazi, per potere soddisfare i predetti obblighi, devono essere pubblici, o deve essere prescritto lo divengano (si veda, in particolare, l'articolo 25 della legge regionale 27 giugno 1985, n.61, al comma dodicesimo e passim: soltanto per i parcheggi è ammesso, al quarto comma, il "vincolo convenzionale d'uso pubblico").

Vero è che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano espressamente che ove i soggetti pubblici istituzionalmente competenti all'utilizzazione delle unità di spazio destinate a specifiche utilizzazioni per strutture pubbliche e/o per attività collettive (teatri, cinematografi, locali di spettacolo, impianti scoperti per la pratica sportiva, impianti coperti per la pratica sportiva, impianti per lo spettacolo sportivo, parcheggi attrezzati scoperti, autorimesse, strutture per l'istruzione) non intendessero procedere all'acquisizione delle medesime unità di spazio, avrebbero potuto lasciarne temporaneamente la gestione a soggetti privati, ma in base ad idonee convenzioni, le quali stabilissero tra l'altro: "l'eventuale corrispettivo della concessione", nonché "i modi, le forme ed i limiti dell'utilizzazione e/o delle attività di gestione", e soprattutto "i modi ed i limiti della fruizione da parte dei terzi dell'unità di spazio [...], secondo le finalità d'ordine collettivo connaturate alla specifica destinazione d'uso". Ma, per l'appunto, una tale possibilità era considerata eccezionale, temporanea, circoscritta a peculiari funzioni, prevista da precise disposizioni, vincolata all'ottenimento di garanzie da stabilirsi in termini predeterminati. Nulla di tutto ciò nel nuovo strumento, giacché le sue Norme dell'argomento non fanno nemmeno menzione.

L'elaborato grafico, inoltre, vincola immobili, genericamente, a "servizi di progetto", senza articolarne tale generica destinazione neppure nelle quattro grandi categorie di cui al DM 1444/1968 (riprese dalla legislazione regionale).

Vero è, anche in questo caso, che le Norme dello strumento del 1992 prevedevano che la specifica destinazione d'uso, delle unità di spazio alle quali era attribuita la destinazione per strutture pubbliche e/o per attività collettive, potesse essere determinata, ovvero variata qualora già indicata, con semplice deliberazione del Consiglio comunale, ma ciò solamente all'interno delle destinazioni riconducibili alle due grandi categorie delle "aree per l'istruzione" e delle "aree per attrezzature d'interesse comune", ed a condizione che fosse dimostrato e garantito il rispetto delle vigenti disposizioni in merito alle dotazioni minime di spazi per servizi pubblici e/o d'uso collettivo, con riferimento alle predette "aree per l'istruzione" ed "aree per attrezzature di interesse comune". Anche in questo caso, nulla di tutto ciò nel nuovo strumento.

Per tutte le ragioni suesposte, è assai da dubitare che il nuovo strumento rispetti le vigenti disposizioni in ordine ai rapporti tra capacità insediativa e quantità (determinate distintamente per l'istruzione, le altre attrezzature, il verde ed i parcheggi) di dotazioni pro capite di spazi per strutture pubbliche e/o per attività collettive.

3.4. Gli "ambiti"

Una quarta modificazione essenziale consiste nella revisione delle disposizioni relative ai 50 "ambiti" per i quali lo strumento del 1992 prevedeva che le più radicali trasformazioni in essi previste fossero subordinate alla preventiva formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio (piani particolareggiati). Essa comporta innovazioni di approccio e procedimentali, ed innovazioni di merito.

Giova ricordare (se ne è parlato al precedente paragrafo 1.3.) che tale previsione dello strumento del 1992 fu la prima ad incontrare obiezioni critiche da parte del prof. arch. Leonardo Benevolo, del prof. arch. Pierluigi Cervellati e dell'arch. Roberto D'Agostino.

La severa critica per cui lo strumento urbanistico adottato nel 1992 sarebbe stato "del tutto indeterminato nelle scelte sulle grandi aree strategiche", oppure (basta mettersi d'accordo: con sé stessi, si vuole dire) si sarebbe permesso di decidere sulle stesse, pur avendo ambito di competenza subcomunale, ha continuato incessantemente ad essere reiterata, sempre con riferimento a quello strumento urbanistico.

Mentre, successivamente, si è affermato[1], il "micidiale dispositivo è [stato] disinnescato". Da che cosa? che cosa è cambiato? semplice: degli autori di quella critica uno é divenuto assessore all'urbanistica e l'altro suo consulente.

Uno dei due, il prof. arch. Leonardo Benevolo, contestando lo strumento adottato nel 1992, aveva scritto che il "percorso dal piano [...] del centro storico ai 50 piani particolareggiati [degli "ambiti"] é inaccettabile e rovinoso: offre lo strumento tecnico per dribblare un ragionamento di pianificazione generale ancora mancante, e per andare direttamente al fatto compiuto, area per area. Le norme registrano alcuni patteggiamenti già avvenuti come le localizzazioni universitarie alla Giudecca [2], le residenze e gli uffici un po' dovunque [3], e aprono la strada ad altri patteggiamenti [...]. Questo piano si arrende alla logica dominante e offre agli interessi forti l'occasione per restare defilati, di non affrontare il giudizio globale e democratico implicito nella procedura di un vero piano regolatore in scala adeguata".

Naturalmente, invece, definire in termini esecutivi le trasformazioni della sventagliata di aree (Stucky, ex Scalera, Junghans, tra le altre) interessate dal cosiddetto "Progetto Giudecca", al di fuori di uno strumento unitario riguardante almeno la città storica lagunare, era ed é accettabilissimo e benefico. Soprattutto se lo si fosse fatto senza definire (in molti casi) neppure un piano particolareggiato unitario per ognuno degli ambiti coinvolti, ed attendendo che scadesse il regime di salvaguardia delle previsioni dello strumento adottato nel 1992 per disattenderle ove dessero fastidio, spostando di sito alberghi, residence, abitazioni e quant'altro.

Com'era accettabilissimo e benefico proporre, già nell'estate del 1994, una deliberazione (poi fortunatamente, o fortunosamente, insabbiatasi presso la competente commissione consiliare) relativa all'Isola Nuova del Tronchetto, che avrebbe disatteso e contraddetto le scelte operate circa l'Isola, da atti di pianificazione e da altri atti amministrativi di istituzioni veneziane, da e per quasi quindici anni.

Che avrebbe negato, ridicolizzandola, l'esigenza di garantire prioritariamente, nell'Isola Nuova del Tronchetto, il soddisfacimento di tutte le esigenze di approvvigionamento, di magazzinaggio, di deposito, esprimibili dalle attività economiche operanti nella città storica. Che non avrebbe consentito di ovviare alle irrazionalità ed alle diseconomie del sistema degli approvvigionamenti della città storica di Venezia, così da potere, tra l'altro, regolamentare il trasporto delle merci nei canali e nei rii in termini sostenibili dal tessuto urbano ed edilizio veneziano. Che avrebbe riproposto, oltre un trentennio dopo la cancellazione dal Piano regolatore generale comunale del "centro direzionale" accanto alla "testa di ponte", la medesima scelta, esaltando lo squilibrio complessivo della città lagunare, e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri meno prossimi alla "testa di ponte".

In proposito, allora, il prof. arch. Leonardo Benevolo ammannì pubblicamente, al colto ed all'inclita, la fantasiosa fola per cui il piano comprensoriale, nella versione del 1979, da lui avallata come componente del comitato scientifico del Comprensorio, avrebbe precluso ogni e qualsiasi trasformazione ed utilizzazione dell'Isola Nuova del Tronchetto, al fine di indurre la SVIT a regalarne la proprietà al Comune, od a demolire l'isola con un gesto di titanica disperazione, mentre, tramando nell'ombra, l'allora assessore comunale all'urbanistica si inventava la destinazione ad "interscambio merci", cosi da rilanciare, con una scelta da allora (chissà perché) irreversibile, l'edificabilità dell'isola.

Fantasiosa fola: anzi, spudorata menzogna. Giacché nella versione del 1979 del piano comprensoriale, consegnata dal Segretario del Comprensorio arch. Vezio E. De Lucia al Presidente avv. Antonio Casellati, ed avallata dal prof. arch. Leonardo Benevolo come componente del comitato scientifico del Comprensorio, l'Isola Nuova del Tronchetto era inequivocabilmente destinata (tutta e soltanto, ma non é di questo che si discute) alla funzione di "interscambio urbano merci", con edificazione di strutture le cui superfici ed i cui volumi avrebbero dovuto essere determinati in riferimento all'integrale soddisfacimento delle esigenze di approvvigionamento della città storica veneziana. Anche i grandi urbanisti dicono le bugie (talvolta?).

Dell'Isola Nuova del Tronchetto, ad ogni buon conto, si tratterà di nuovo, diffusamente, in prosieguo.

3.4.1. Piani particolareggiati, progetti unitari e piani di recupero

Il nuovo strumento manterrebbe la prescrizione dell'obbligatoria formazione di piani particolareggiati (articolo 23, commi 1, 2, 3 e 4, delle Norme del nuovo strumento) soltanto per 16 "ambiti":

- Tronchetto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Marittima (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Stazione F. S. di S. Lucia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Piazzale Roma (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, al quale viene peraltro sottratto il complesso detto dei "Magazzini Parisi");

- Ex piazza d'armi (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Italgas" ed "Area Scomenzera");

- S. Marta/S. Basilio (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992);

- Ex orto botanico (corrispondente, con qualche incomprensibile modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "ENEL");

- Arsenale (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Arsenale" e "Cantieri C.N.O.M.V.");

- S. Pietro di Castello (introdotto dal nuovo strumento, salva una parte, inclusa dallo strumento del 1992 in un "ambito" denominato "I.A.C.P. Quintavalle");

- Ex cantieri A.C.T.V. (coincidente con metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");

- Giardini della Biennale (corrispondente, con una limitata modifica della perimetrazione, ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Ex cantieri Celli (coincidente con l'altra metà dell'"ambito" individuato dallo strumento del 1992, e da esso denominato "Cantieri A.C.T.V./Cantieri Celli");

- Area Muner (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Molino Stucky/Scalera/Trevisan (corrispondente all'unione di due "ambiti", individuati dallo strumento del 1992 e da esso denominati "Mulino Stucky" e "Scalera Film", nonché di una vasta area alle spalle, verso la laguna, del complesso del Mulino Stucky);

- Tappetificio Gaggio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Area Junghans (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Junghans 1" e "Junghans 2").

I piani particolareggiati relativi ai predetti "ambiti" dovrebbero rispettare le direttive (sempre, anche se in diversa misura, assai più generiche di quelle stabilite dallo strumento adottato nel 1992) dettate da un'apposita appendice alle Norme. E, per il vero (ma lo si deduce soltanto dal punto 2.4.4.2 dell'articolo 2 delle Norme del nuovo strumento), anche le indicazioni di tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante".

Peraltro, è precisato (al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle Norme del nuovo strumento), "le trasformazioni fisiche e funzionali e la configurazione dell'assetto territoriale degli ambiti [...] possono - motivatamente e su conforme parere della Commissione scientifica comunale - essere rispettivamente definite e organizzate in termini diversi da quelli previsti negli elaborati costituenti l'Appendice". La formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei piani particolareggiati dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale.

Con ciò, le decisioni pianificatorie generali, capaci di considerare unitariamente l'intera città, attribuendo, in una visione unitaria d'insieme, pesi (cioè quantità di spazi, edificati e non edificati) e funzioni alle sue diverse parti, sarebbero svuotate di significato, potendo successivamente essere contraddette "a pezzi e bocconi".

Oltretutto, la cosa sarebbe patentemente in contrasto con la vigente legislazione regionale, che prevede che gli strumenti urbanistici particolareggiati siano autonomamente definiti dai comuni, proprio in quanto esige che essi siano conformi a strumenti urbanistici generali, i quali, invece, devono essere controllati da un'istituzione sovraordinata (la regione o, in prospettiva, la provincia), per garantirne al rispondenza ad interessi più complessivi. E come potrebbe essere effettuata tale verifica, ove uno strumento urbanistico generale non dettasse disposizioni vincolanti neppure relativamente agli elementi essenziali, quali le quantità e le dimensioni dell'edificabile, e le funzioni prevalenti, ed i loro rapporti, che potrebbero essere decise a discrezione da piani sottratti a qualsiasi controllo?

Si stabilisce poi (articolo 23, comma 4, delle Norme del nuovo strumento) che prima dell'approvazione dei piani particolareggiati siano ammissibili non soltanto le trasformazioni specificamente definite tali, ambito per ambito, dalle relative schede (come nello strumento del 1992), ma anche, generalizzatamente, gli interventi di manutenzione (ordinaria e straordinaria, si suppone) e quelli di restauro. E che c'azzecca (direbbe l'attuale titolare del dicastero dei lavori pubblici) il restauro con i manufatti edilizi, peculiarmente e massicciamente presenti negli "ambiti", per i quali le disposizioni generali consentono sinanco la demolizione? Ma questo non è che un altro episodio della ricorrente sciatteria.

Per altri 11 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 5, 6 e 7, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi eccedenti la manutenzione ordinaria e straordinaria, volti a modificare i servizi pubblici insediati [...], ovvero a sostituirli con altri servizi pubblici, sono autorizzati [????] mediante semplice progetto edilizio - nelle forme e con gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia - a condizione che tale progetto sia esteso a tutta l'area perimetrata". Mentre si dovrebbe ricorrere alla preventiva formazione di un piano particolareggiato per "gli interventi volti a destinare il compendio immobiliare o parte dello stesso ad insediamenti privati, ovvero volti a por fine - frazionandola - all'unità funzionale e/o dominicale del compendio medesimo".

Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:

- Area ASPIV (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "S. Andrea");

- Tabacchificio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Carcere (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "Santa Maria Maggiore");

- Ospedale S. Giustinian [4] (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992 e da esso denominato "G.B. Giustinian");

- Macello (corrispondente all'unione di due "ambiti" individuati dallo strumento del 1992, e da esso denominati "Macello/Cantiere Oscar" e "Mulino Passuelo");

- Sacca S. Biagio /Genio Civile (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Area Umberto I (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Ospedale SS. Giovanni e Paolo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Caserma S. Daniele (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Sacca Inceneritore (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Sacca S. Biagio/AMAV (corrispondente a circa metà di un "ambito" individuato dallo strumento del 1992).

Non si intende per quale ragione l'essere gli "ambiti" suelencati appartenenti al patrimonio di soggetti pubblici (enti pubblici territoriali, ma anche enti pubblici strumentali, ed altri enti pubblici), e l'essere destinati alla produzione di servizi pubblici, dovrebbe esentare dal definire gli assetti urbani (ché di questo si tratta) di intere zone attraverso gli ordinari strumenti, e procedimenti, della pianificazione urbanistica.

Tale esenzione comporterebbe, essenzialmente, che i "progetti" relativi agli "ambiti" suindicati sarebbero definitivamente approvati senza obbligo di preventiva pubblicazione, di raccolta delle osservazioni della "società civile", di assunzione motivata di determinazioni in ordine a tali osservazioni.

Ma comporterebbe anche, a legislazione invariata, che solamente l'approvazione dei "progetti preliminari" (che [5] consistono soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici"), relativi ai predetti "ambiti", competerebbe [6] al consiglio comunale, mentre l'approvazione dei "progetti definitivi" (che [7] contengono "tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni") competerebbe alla giunta municipale.

E ciò, ovviamente, soltanto laddove si trattasse di opere pubbliche di competenza comunale. Mentre non v'é nessun presupposto giuridico per imporre che i progetti di soggetti diversi dal Comune debbano essere approvati (con la correlativa discrezionalità tecnica, politica ed amministrativa) da un organo decisionale del Comune, anziché abilitati, dal medesimo Comune, ma a seguito di mero riscontro di conformità con la disciplina urbanistica.

Si noti infine che la Corte costituzionale, con sentenza 7/19 ottobre 1992, n.393, ha dichiarato l'illegittimità di una norma di legge statale (della legge 17 febbraio 1992, n.179) perché nella figura del "programma integrato d'intervento" unificava strumento urbanistico attuativo e progetto delle trasformazioni, e sopprimeva la distinzione tra approvazione dello strumento urbanistico attuativo e successivo rilascio del provvedimento abilitativo.

Anche i "progetti" relativi agli "ambiti" da ultimo elencati dovrebbero rispettare le direttive dettate dall'apposita appendice alle Norme (ed alle indicazioni delle tre tavole, in scala 1:2.000, "indicative dell'assetto urbanistico risultante").

Ma, anche in questo caso, è precisato (al comma 6 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento, e con rinvio al punto 1.3.2 dell'articolo 1 delle stesse Norme) che i "progetti [...] possono discostarsi" da tali direttive "su conforme parere della Commissione scientifica". Anche in questo caso, la formulazione è tale da non precludere (quali che fossero le intenzioni degli estensori e dei proponenti del nuovo strumento) alcuna difformità, foss'anche la più radicale, dei contenuti dei "progetti" dalle direttive per essi dettate dallo strumento generale. E valgono quindi tutte le obiezioni dianzi fatte alla medesima disposizione riferita ai previsti piani particolareggiati.

Relativamente all'"ambito" denominato "Ospedale SS. Giovanni e Paolo" si stabilisce (al comma 7 dell'articolo 23 delle Norme del nuovo strumento) che "il progetto può riguardare una parte soltanto dell'ambito [...] purché sia accompagnato da un progetto di massima riguardante l'assetto di tutta l'area". Evidentemente, si ignora che, secondo "le forme e gli atti previsti per le opere pubbliche dalle disposizioni vigenti in materia" [8], la "figura" del "progetto di massima" non è contemplata, e si intende comunemente sostituita da quella del "progetto preliminare", che, come già s'è detto, consiste soltanto in una "relazione illustrativa" ed in "schemi grafici".

Per altri 14 "ambiti" sarebbe invece disposto (articolo 23, commi 8 e 9, delle Norme del nuovo strumento) che "gli interventi di manutenzione, restauro e ristrutturazione che non modificano gli assetti esterni e le sistemazioni a terra sono immediatamente autorizzabili [???] mediante semplice progetto", mentre "gli interventi di modifica alle facciate degli edifici e alle sistemazioni a terra, quelli di demolizione e ricostruzione e di nuova costruzione sono [...] soggetti alla preventiva approvazione di uno o più piani di recupero di iniziativa pubblica o privata".

Gli "ambiti" in questione sarebbero i seguenti:

- I.A.C.P. S. Marta (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con limitate modifiche di perimetrazione);

- I.A.C.P. Sacca S. Biagio (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Girolamo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Alvise (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Madonna dell'Orto (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Gesuiti (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Celestia (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. Quintavalle (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, salva una parte, inclusa dal nuovo strumento nell'"ambito" denominato "S. Pietro di Castello");

- Quartiere S. Elena (introdotto dal nuovo strumento);

- Sacca Fisola (introdotto dal nuovo strumento);

- I.A.C.P. Campo della Rotonda (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- I.A.C.P. S. Giacomo (coincidente con un "ambito" individuato dallo strumento del 1992);

- Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione);

- I.A.C.P. Campo di Marte (corrispondente ad un "ambito" individuato dallo strumento del 1992, con una incomprensibile modifica della perimetrazione).

Non si intende per quale ragione le trasformazioni che comportino modificazione delle facciate degli edifici, ovvero delle semplici "sistemazioni a terra", ed anche quelle di demolizione e ricostruzione, ove avvengano sul medesimo sedime, debbano essere subordinate alla formazione di uno strumento urbanistico, qual'è, o dovrebbe essere, un piano di recupero. Per converso, non si intende come trasformazioni di demolizione e ricostruzione, ove avvengano su diverso sedime, e addirittura di nuova costruzione, possano essere accettabilmente disciplinate da piani di recupero non obbligatoriamente riferiti, ciascuno, in termini unitari, ad un perimetrato "ambito", ma invece, potenzialmente, plurimi, cioè riguardanti anche un solo edificio, od un solo lotto. Di certo, si rinuncerebbe a prevedere e promuovere operazioni di ridisegno, anche morfologico, e di riqualificazione, complessivamente riguardanti "ambiti" di bassa, o bassissima, qualità complessiva, largamente degradati, e profondamente "estranei" all'organizzazione morfologica del tessuto urbano insulare veneziano.

Inoltre, relativamente a tali ultimi "ambiti", non è dettata alcuna direttiva, neppure riferita alle ammesse trasformazioni di demolizione e ricostruzione, e di nuova costruzione, nemmeno meramente quantitativa. Per cui, ancora una volta, sarebbe (illegittimamente) eluso l'obbligo di decidere nello strumento urbanistico generale, in una visione unitaria d'insieme, in ordine ai pesi, cioè alle quantità di spazi, edificati e non edificati, oltre che alle funzioni, da assegnare alle diverse parti del territorio considerato (e di consentire il controllo di tali decisioni da parte della competente istituzione sovraordinata).

Resta da aggiungere che, rispetto allo strumento adottato nel 1992, non sarebbe più necessario formare strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio relativamente ai seguenti "ambiti":

- Fatebenefratelli;

- I.A.C.P. San Giobbe;

- I.A.C.P. San Leonardo;

- I.A.C.P. Campo della Lana;

- Cotonificio Olcese Veneziano;

- I.A.C.P. Corte Colonne;

- I.A.C.P. Sant'Anna.

Le ragioni sono del tutto imperscrutabili. Documenti prodotti dall'assessorato all'urbanistica, prodromici al nuovo strumento pianificatorio, avevano affermato che si potevano riconoscere "integrati al contesto", e quindi non richiedenti la formazione di strumenti urbanistici di specificazione e di dettaglio, i seguenti "ambiti": I.A.C.P. San Giobbe; I.A.C.P. San Leonardo; I.A.C.P. Campo della Lana; Cotonificio Olcese Veneziano.

E' francamente arduo comprendere in cosa e perché I.A.C.P. San Giobbe, I.A.C.P. San Leonardo e I.A.C.P. Campo della Lana (almeno per la più gran parte) si differenzino da altre aree, interessate da edificazioni pubbliche, per le quali si detterebbe la disciplina da ultimo ed appena sopra esposta.

In ogni caso, ci si compiace che non sia riproposta l'ipotesi, avanzata in un suo precedente scritto dal prof. arch. Leonardo Benevolo, di ripristinare, nell'area detta I.A.C.P. San Leonardo, il "tessuto storico precedentemente esistente", ignorando il fatto che immediatamente prima della realizzazione degli edifici attuali sulla più gran parte della predetta area insistevano una raffineria di zolfo ed una fabbrica di conterie, e prima ancora (all'epoca del cosiddetto "Catasto napoleonico") la stessa area risultava in gran parte inedificata.

Ancora, è arduo comprendere come si possa riconoscere "integrato al contesto" il Cotonificio Olcese Veneziano. Ed il complesso del Fatebenefratelli? e gli "ambiti" I.A.C.P. Corte Colonne e I.A.C.P. Sant'Anna? si attendono, almeno, motivazioni (non necessariamente condivisibili).

3.4.2. Contenuti delle direttive

Si è già segnalata l'estrema "povertà" delle direttive dettate dal nuovo strumento relativamente agli "ambiti" per i quali sia prescritta la formazione di piani particolareggiati, o di "progetti unitari", rispetto a quelle dettate dallo strumento del 1992.

Tale "povertà" è particolarmente acuta, con riferimento sia agli assetti morfologici da perseguire sia (perfino) alle quantità di spazi edificati da mantenere, o da realizzare, di spazi scoperti da sistemare, nonché di spazi (edificati o scoperti) da destinare alle diverse funzioni, laddove si tratti di "ambiti" di pertinenza di soggetti pubblici di qualsivoglia genere. Così per l'"ambito" della Marittima (relativamente al quale l'Autorità portuale ha competenze anche pianificatorie [9] , che peraltro devono esplicarsi "previa intesa con il comune" e non potendo "contrastare con gli strumenti urbanistici vigenti"), per l'"ambito" denominato "area ASPIV" (di pertinenza di un'azienda speciale municipale), per l'"ambito" del Tabacchificio, per l'"ambito" del Carcere, per l'"ambito" dell'Ospedale S. Giustinian [10] , per l'"ambito" del Macello, per l'"ambito" di Sacca S. Biagio/Genio Civile, per l'"ambito" dell'Ospedale Umberto I, per l'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, per l'"ambito" della Caserma S. Daniele, per l'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore (di pertinenza di un'altra azienda speciale municipale), per l'"ambito" di Sacca S. Biagio (di pertinenza, anch'esso, di quest'ultima azienda speciale municipale).

Di poco più "ricche" sono le direttive dettate per l'"ambito" della Stazione F. S., tra le quali, ad ogni buon conto, non ricompare quella, dettata dallo strumento del 1992, di "prevedere una riorganizzazione delle attrezzature ferroviarie che contempli una fermata di parte dei vettori, con connesse strutture per il carico/scarico degli utenti, verso l'estremità settentrionale dell'ambito, dove deve essere previsto un collegamento pedonale diretto, mediante ponte sul Rio della Crea, con l'ambito del Macello". Tra le nuove previsioni per tale ambito si può segnalare quella del mantenimento degli edifici adiacenti a quello del vero e proprio terminale ferroviario, dei quali lo strumento del 1992 prevedeva invece la demolizione, per fare luogo ad edificazioni di più spiccato rilievo formale, secondo un'organizzazione territoriale di più elevato livello qualitativo.

Del resto, una spiccata predilezione per il mantenimento di manufatti recenti di bassissima qualità emerge da buona parte delle nuove direttive: così, per fare soltanto qualche esempio, nell'espansione otto-novecentesca dell'Arsenale meglio nota come ex Cantieri C.N.O.M.V., nell'"ambito" denominato "Molino Stucky - Scalera - Trevisan" (laddove invece non ci si preoccupa di preservare gli edifici otto-novecenteschi, di altissimo valore storico-testimoniale, prospicienti il Rio di S. Biagio, da utilizzazioni, quale quella alberghiera, la cui efficiente esplicazione non potrebbe che comportare trasformazioni fisiche gravemente alteranti quantomeno il sistema delle aperture nei prospetti), nell'"ambito" della Junghans, nell'"ambito" dell'Ospedale G. B. Giustinian, nell'"ambito" dell'Ospedale SS. Giovanni e Paolo, e perfino nell'"ambito" della Sacca dell'Inceneritore.

L'altra predilezione che emerge è quella per i "falsi".

Nell'"ambito" che il nuovo strumento denomina "Ex piazza d'armi" (cioè nell'area meglio nota come ex Italgas), si prevede la "realizzazione di un nuovo canale in prosecuzione del rio di S. Maria Maggiore fino al canale della Scomenzera", secondo un tracciato che non ripropone alcuna storica via d'acqua, mentre giace parallelo a quello secondo il quale scorreva il poi interrato Rio dei Secchi.

Nell'"ambito" della Junghans si prevede la realizzazione di un nuovo rio con un percorso ad angolo (o ad "L"), perpendicolare per un tratto al fronte lagunare e per l'altro tratto al Rio del Ponte Longo: una previsione assolutamente gratuita, secondo un tracciato che non ripropone alcuna precedentemente esistente via d'acqua, né alcuna regola conformativa della morfologia storica veneziana. Una previsione utile soltanto a configurare uno stucchevole mini-insediamento residenziale "di prestigio" (per bas bleu), con casettine in linea, affacci sul nuovo rio e giardinini privati. Mentre, nello stesso "ambito", non si prevede né di ripristinare le due fondamente storicamente esistenti sia lungo il Rio del Ponte Piccolo che lungo il Rio del Ponte Longo, né di riproporre un ampio spazio scoperto sistemato a verde (da destinare, oggi, alla fruizione collettiva) verso la laguna.

Un ampio spazio scoperto sistemato a verde, anzi "organizzato in forma di parco pubblico", è invece previsto nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio, lungo "la riva del canale della Giudecca dal rio di S. Basilio al canale della Scomenzera". Ciò per "ricordare la presenza dell'antica spiaggia di S. Marta", che era tutt'un'altra cosa, ovvero per "concludere degnamente la riva delle Zattere, come i giardini napoleonici concludono la riva degli Schiavoni", come recita il recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale". Tralasciando l'insopportabile formalismo del proposito, si può agevolmente prevedere che la simmetria di tale nuovo "parco" non si istituirebbe con i giardini "selviani", ma piuttosto (anche e soprattutto in termini di immagine "spelacchiata" e miserella) con quelli della riva di S. Elena. E non si intende come la "inclusione" (anche in termini morfologici e formali) nel tessuto urbano veneziano di ambiti strutturati, or'è quasi un secolo, in termini tali da renderli ad esso profondamente estranei (come quelli degli Scali portuali di S. Marta e di S. Basilio) possa avvenire mediante la realizzazione di un "parco" lungo l'affaccio acqueo, cioè mediante una sistemazione da sempre estranea alle caratteristiche del medesimo tessuto urbano veneziano, in quanto mai ricorsa negli assetti prodotti dalle sue dinamiche storiche in epoca preottocentesca. Ma già: i nuovi protagonisti dell'attività pianificatoria veneziana non credono all'esistenza ed alla riconoscibilità delle "regole conformative che hanno presieduto alla vicenda storica dell'insediamento umano" veneziano!

Del resto, non si intende neppure come la predetta "inclusione" degli ambiti di cui si tratta nel tessuto urbano possa avvenire destinandone gli spazi edificati esclusivamente ad attività direzionali, ad attrezzature per l'istruzione, ad attrezzature culturali, ad attrezzature associative, ad attrezzature ricreative (lo strumento adottato nel 1992 sceglieva, tra le attrezzature per l'istruzione, quella universitaria, e, tra le attrezzature culturali, quella consistente in centri di ricerca, ma, soprattutto, prevedeva consistenti spazi per abitazioni collettive, intese come collegi, convitti studentati, ed anche per abitazioni ordinarie, con presenza di uffici privati, di studi professionali, di artigianato, di commercio al minuto, di pubblici esercizi)

Nell'"ambito" degli Scali di S. Marta e di S. Basilio si prevede anche un bel falso architettonico, ovvero la "riedificazione della fabbrica di tabacchi documentata nel catasto Napoleonico [...] secondo le modalità del ripristino tipologico o volumetrico, secondo la documentazione disponibile".

Come nell'"ambito" del Carcere si prevede "dismessa la destinazione carceraria, il ripristino tipologico o volumetrico dell'antico convento di S. Maria Maggiore".

Come nell'"ambito" di S. Pietro di Castello si adombra "la possibilità del ripristino filologico o tipologico del corpo di fabbrica conventuale relativo al secondo chiostro". Nel medesimo "ambito", per converso, si prevede la demolizione di buona parte degli edifici esistenti nell'"area retrostante la chiesa", da sistemare a "parco pubblico". Le demolizione riguarderebbe, tra l'altro, circa la metà del quartiere I.A.C.P. Quintavalle: niente di male, stante che "percorrendo tutto il grande complesso si rileva lo stesso sciatto disegno, la ripetitività ossessiva dei moduli, la medesima artificiosità dei giardinetti che impediscono all'edificio di stabilire un contatto diretto con la strada e negano l'inserimento di attività commerciali e artigianali ai piani terreni" [11]. E poi non si prevede la demolizione degli edifici prospicienti la laguna, forse valutando che "l'effetto alla distanza dell'affaccio lagunare appare non sgradevole e complessivamente accettabile" [12]. Però si prevede la demolizione di tre edifici che lo strumento del 1992 aveva classificato "preottocenteschi": è stata appurata, ed adeguatamente documentata, un'errata attribuzione?

Quello da ultimo citato non è l'unico caso di "discrasia", per così dire, tra le indicazioni (cartografiche) relative agli "ambiti" e le puntuali classificazioni delle unità edilizie. Si deve sempre pensare alla ricorrente sciatteria? Anche quando le indicazioni cartografiche relative all'"ambito" denominato "area Molino Stucky - Scalera - Trevisan" prevedono la demolizione senza ricostruzione di una "unità edilizia di base non residenziale a capannone senza fronte acqueo", magari giustificabilissima ed opportunissima, ma senza che nessuna norma esplicita ammetta, negli "ambiti", la derogabilità delle disposizioni generali che, di tali unità edilizie, prescrivono il mantenimento?

Di due ambiti, infine, è bene trattare separatamente, e specificamente: dell'Isola Nuova del Tronchetto e dell'Arsenale.

3.4.3. L'Isola del Tronchetto

Vale la pena di rammentare che proprio a proposito dell'Isola del Tronchetto la nuova giunta aveva mostrato, a meno di un anno dal suo insediamento, il gran conto in cui intendeva tenere il programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari aveva chiesto il consenso degli elettori, ed ottenuto quello della maggioranza di essi.

Aveva infatti proposto al consiglio comunale di controdedurre, in termini radicalmente difformi da quanto in argomento puntualmente specificato nel programma, alle osservazioni presentate ad una variante al Prg relativa alla sola Isola del Tronchetto.[13]

Occorre ricordare che per qualche decennio, in questo dopoguerra, le componenti più consapevoli e mature della cultura nazionale e le forze politiche della sinistra si erano battute per evitare che l'ambito veneziano della Marittima, di Piazzale Roma e del Tronchetto divenisse un unico, grande, insensato, devastante "centro direzionale", che avrebbe esaltato lo squilibrio complessivo della città lagunare, accentuando le sue gravitazioni verso la "testa di ponte", e condannando all'impoverimento funzionale i suoi quartieri ad essa meno prossimi, e che avrebbe aggravato il peso dei mezzi di trasporto su gomma nel sistema della mobilità a servizio della stessa città lagunare, determinando addirittura più consistenti penetrazioni di tali mezzi nel suo stesso contesto. E che le stesse componenti e forze si erano battute per ottenere che l'Isola Nuova del Tronchetto, sorta dalle acque, per iniziativa privata (e privata è tuttora la più gran parte dell'isola), negli anni '50, in un contesto di torbide manovre, fosse almeno destinata a funzioni di generale interesse della città di Venezia e dei suoi abitanti.

Finalmente, il "piano comprensoriale" veneziano, adottato all'inizio del 1980 ma mai entrato in vigore, aveva assegnato, come già si è ricordato, all'Isola del Tronchetto innanzitutto funzioni di "interscambio urbano di merci", e, soltanto in via residuale, di ricovero delle auto degli abitanti della città storica.

Un bel po' di anni appresso, la variante generale per Venezia insulare adottata nel 1992 aveva prescritto la formazione di un nuovo piano particolareggiato per l'Isola del Tronchetto, aveva ridotto drasticamente la volumetria complessiva prevista nell'isola, aveva precisato che gli spazi destinati alla funzione di "interscambio merci" dovevano essere tali da soddisfare la relativa domanda globale esprimibile dalla città storica, ed aveva ammesso attività di tipo direzionale soltanto negli spazi eventualmente residui, purché tali attività avessero raggio d'influenza almeno regionale e non fossero insediabili in unità edilizie esistenti nel tessuto urbano storico.

Irridentemente dichiarando di volere sostanzialmente accogliere una osservazione (presentata da Stefano Boato, Pierluigi Cervellati, ed altri) che chiedeva di escludere a priori ogni attività di tipo direzionale, nonché commerciale e legata alle funzioni turistiche, il nuovo assessore all'urbanistica, arch. Roberto D'Agostino, aveva proposto di modificare le scelte adottate in senso diametralmente opposto a quello auspicato, e cioè di assegnare alle volumetrie ancora edificabili nell'isola in via principale la generica destinazione di "strutture di servizio alla città", e, soltanto secondariamente, una volta quantificata la relativa domanda, la funzione di "interscambio merci".

Quanto correttamente poi si intendesse procedere alla quantificazione della domanda per funzioni di "interscambio merci" era stato fatto intravedere da uno studio, del quale erano anticipatamente divulgate le conclusioni, in base al quale gli spazi necessari sarebbero risultati di risibile entità, per l'ottima ragione che erano state valutate non le esigenze di mercati all'ingrosso, depositi, magazzini, e simili, di tutti gli operatori economici insediati e insediabili nella città storica, ma soltanto quelle di movimentazione delle merci di una parte dei trasportatori in conto terzi presentemente operanti.

L'impegno, solennemente assunto con i cittadini nel programma per realizzare il quale il sindaco Cacciari era stato eletto, di "realizzare al Tronchetto solo l'interscambio merci e i servizi per la mobilità non turistica", era stato perentoriamente rammentato alla giunta non soltanto da qualche voce isolata, ma anche da componenti della maggioranza consiliare (i Verdi, Rifondazione comunista, esponenti del PDS). Nel competente consiglio di quartiere una proposta di parere favorevole non era riuscita ad ottenere un solo voto positivo.

Alla fine, la proposta di deliberazione era scomparsa dall'ordine del giorno del consiglio comunale.

Sembra però che si vogliano ora ottenere gli stessi risultati per altra via. Alcuni accenni testuali del recentemente divulgato "progetto preliminare al piano regolatore generale" già avevano indotto, infatti, a ritenere che l'Isola Nuova del Tronchetto dovesse costituire, assieme agli scali di Santa Marta e San Basilio all'area ex Italgas, a Santa Maria Maggiore, al Tabacchificio, il nucleo essenziale di quel "centro della città bipolare" la cui creazione costituisce la (sola) "idea forza" del predetto documento.

Si veda la perentorietà con cui si asserisce [14]

1. Il comma 1 dell’articolo 149 (“Piani territoriali paesistici”) del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n.490, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n.352”, dispone che:

Le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso e di valorizzazione ambientale il territorio includente i beni ambientali indicati all'articolo 146 mediante la redazione di piani territoriali paesistici o di piani urbanistico-territoriali aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali.

Come annotato nell’epigrafe dell’articolo, la disposizione parafrasa quella del comma 1 dell’articolo 1bis del decreto legge 17 giugno 1985, n.312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n.431. Quest’ultima norma, infatti, stabiliva che:

Con riferimento ai beni e alle aree elencati dal quinto comma dell'articolo 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, come integrato dal precedente articolo 1, le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso e di valorizzazione ambientale il relativo territorio mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali da approvarsi entro il 31 dicembre 1986.

I beni e le aree elencati dal quinto comma dell'articolo 82 del D.P.R. 616/1977, come integrato dall’articolo 1 del decreto legge 312/1985, coincidono con i beni ambientali indicati all'articolo 146 del Testo unico. Si tratta, cioè, degli elementi territoriali che la prima delle due disposizioni ora citate aveva dichiarato “sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497”, e che l’articolo 146 del Testo unico dichiara, “in ragione del loro interesse paesaggistico”, sottoposti alle disposizioni del Titolo II (“Beni paesaggistici e ambientali”) del medesimo Testo unico. Essi sono:

a) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare;

b) i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia anche per i territori elevati sui laghi;

c) i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici approvato con regio decreto 11 dicembre 1953, n. 1775, e le relative sponde o piede dogli argini per una fascia di 150 metri ciascuna;

d) le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole;

e) i ghiacciai e i circhi glaciali;

f) i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi;

g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento;

h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;

i) le zone umide incluse nell'elenco previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448;

l) i vulcani;

m) le zone di interesse archeologico. [1]

La disciplina del territorio includente i beni ambientali di cui s’è detto deve essere dettata dalle regioni mediante piani territoriali paesistici oppure mediante piani urbanistico-territoriali che, secondo la disposizione del Testo unico, devono avere “le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali”: non sembra di ravvisare differenze rispetto al disposto dell’articolo 1bis del decreto legge 312/1985, secondo il quale dovevano avere “specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali”.

Non è stabilito, nel Testo unico, diversamente che nel decreto legge 312/1985, un termine per l’adempimento regionale. Del resto, anche nella logica del decreto legge 312/1985 (e della legge di conversione 431/1985), il termine fissato, pure se ritenuto perentorio in quanto munito di effetti sanzionatori dell’inadempimento (o reputato tale), una volta decorso inutilmente, non avrebbe certamente fatto venire meno il dovere/diritto delle regioni a disciplinare (almeno) i beni ambientali di cui s’è detto mediante i previsti strumenti di pianificazione. D’altro canto, si era da più parti notato che, con l'eccezione (almeno secondo i ritmi dei tempi storici) delle montagne per la parte eccedente 1.600, o i 1.200, metri sul livello del mare, tutti i beni appartenenti alle categorie elencate possono subire (e di fatto frequentemente subiscono) variazioni dinamiche nel tempo, quanto a conformazione ed estensione. Per cui assai opportunamente il Testo unico, non ribadendo un termine per l’adempimento regionale, ha indirettamente posto a carico delle regioni l’obbligo di provvedere costantemente, cioè con i necessari aggiornamenti e adeguamenti, a disciplinare mediante la pianificazione i beni ambientali elencati, con ciò perseguendo quella “riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” che, secondo la sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 1986, n.151, costituisce l’essenziale volontà, e la valenza di “grande riforma” della legge 431/19985.

2. Ad ogni buon conto, nella disposizione di cui al comma 1 dell’articolo 149 del Testo unico (come già in quella di cui al comma 1 dell’articolo 1 bis della legge 431/1985) appare innanzitutto evidente la più piena presa di coscienza del fatto che può aversi efficace tutela dei valori culturali, paesaggistici e ambientali, riconoscibili in determinati elementi (o contesti di elementi) territoriali, solamente attraverso una pianificata definizione dei modi d'uso e delle trasformazioni in essi ammissibili, le une e gli altri dovendo essere coerenti con le loro specifiche caratteristiche essenziali ed intrinseche, cioè con le "regole" dedotte da tali caratteristiche, al fine di non eccedere le capacità di fruizione e di modificazione tipiche e peculiari dell'elemento, o contesto di elementi, territoriale (o di omogenee loro categorie). Definizione pianificata, per l'appunto, cioè sottratta alla causale successione nel tempo di progetti di intervento ineluttabilmente angusti, in quanto parziali, nonché di altrettanto anguste, in quanto frammentarie, loro autorizzazioni.

Per il vero, una tale consapevolezza era già sostanzialmente presente nella relazione con la quale il Ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai, aveva presentato alla Camera, il 15 giugno 1939, il disegno di legge destinato a dare luogo alla legge 29 giugno 1939, n.1497 [2]. Ed era centrale nelle elaborazioni delle commissioni che avevano operato, lungo quasi tutto l'arco degli anni '60, al fine di proporre una riforma dei sistemi di tutela dei beni culturali. [3]

Tale raggiunta piena consapevolezza, peraltro, era apparsa, all’indomani dell’entrata in vigore della legge 431/1985, contraddittoria con la prescrizione che a tale definizione pianificata fosse fatto obbligo di pervenire solamente con riferimento ai luoghi ed ai beni vincolati (ai sensi della legge 1497/1939) ope legis, e non anche a quelli vincolati con specifici provvedimenti amministrativi. In effetti, tale contraddittorietà pareva la risultanza di un difetto di coordinamento, anche alla luce delle disposizioni di cui ai successivi articoli 1 ter e l quinquies della medesima 431/1985 per cui le aree sottoposte ad “immodificabilità” transitoria (sino all’entrata in vigore dei prescritti strumenti di pianificazione) erano individuabili, oltre che tra i luoghi vincolati ope legis, anche tra quelli vincolati con specifico provvedimento amministrativo.

Sta di fatto che la discrasia ora lamentata sussiste (e non può non sussistere) nell’articolo 149 del Testo unico, il cui comma 2 precisa che “la pianificazione paesistica prescritta al comma 1 è facoltativa per le vaste località indicate alle lettere c) e d) dell’articolo 139”, e cioè per “le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”, nonché per “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, vincolati, e vincolabili, con i procedimenti disciplinati dagli articoli da 140 a 143 del medesimo Testo unico.

3. I piani territoriali paesistici erano previsti e regolati dall'articolo 5 della legge 1497/1939 e dagli articoli 23 e 24 del relativo regolamento approvato con regio decreto 3 giugno 1940, n.1357.

Successivamente, il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 8, con il primo comma dell'articolo1, ha trasferito alle Regioni a statuto ordinario “le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica”, concernenti, tra l'altro, l'approvazione dei piani territoriali di coordinamento, dei piani regolatori generali e delle relative varianti, dei piani particolareggiati e delle relative varianti, dei regolamenti edilizi comunali e dei programmi di fabbricazione, la concessione del nulla osta all'autorizzazione comunale dei piani di lottizzazione, nonché “ogni altra funzione amministrativa esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato” nella materia dell'urbanistica. Pur in presenza di una formulazione generale e onnicomprensiva quale quella ora riportata, il medesimo articolo1 del D.P.R. 8/1972 ha stabilito, con il successivo quarto comma, che “il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all'articolo 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”. La formulazione della norma rendeva esplicito come non venisse affatto considerata rientrante nell'"urbanistica" la finalità cui è preordinata la redazione e approvazione dei piani territoriali paesistici, e come, al contrario, il trasferimento delle relative funzioni venisse disposto solamente, come affermerà la Corte costituzionale, “a causa della inscindibilità esistente tra l'attività urbanistica e la tutela delle bellezze naturali”. [4]

Per effetto del trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative concernenti la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici è stata comunque conferita alle regioni medesime la possibilità di legiferare in merito sia alle caratteristiche (contenuti tipici ed elementi costitutivi) di tali "figure pianificatorie", sia agli aspetti procedimentali inerenti la loro redazione, adozione, pubblicazione, approvazione, sia infine ai livelli istituzionali e/o agli organi competenti per le fasi dell'accennato procedimento.

Non tutte le regioni hanno peraltro utilizzato la sopra descritta possibilità di legiferare, sicché per alcune di esse adempiere alla disposizione di cui al comma 1 dell’articolo 149 del Testo unico (come, prima, a quella di cui al comma 1 dell’articolo 1 bis della legge 431/1985) mediante il ricorso a piani territoriali paesistici implicherebbe il dovere fare riferimento alle disposizioni della legge 1497/1939 e del regio decreto 1357/1940 (il quale ultimo il Testo unico, con il comma 2 dell’articolo 161, dispone resti in vigore fino all’emanazione di un nuovo regolamento) vuoi per gli aspetti contenutistici, vuoi per quelli procedimentali, vuoi per entrambi. Il fatto è che le prescrizioni di cui all'articolo 23 del regio decreto 1357/1940 attinenti i contenuti tipici dei piani territoriali paesistici appaiono assolutamente inadeguate all’obiettivo di redigere piani che disciplinino, con finalità di tutela, le vastissime componenti territoriali vincolate ope legis, che le disposizioni procedimentali di cui all'articolo 24 del medesimo regio decreto appaiono totalmente non pertinenti, e che le disposizioni procedimentali di cui all’articolo 5 della legge 1497/1939 (non granché pertinenti, per il vero) non possono trovare applicazione stante l’integrale abrogazione, disposta dallo stesso Testo unico, della legge da ultimo citata.

Per converso, dall’intervenuta abrogazione della legge 1497/1939 pare doversi far discendere anche la conseguenza della caducazione della limitazione (precedentemente fatta derivare da buona parte della dottrina, e dalla giurisprudenza prevalente, dalla lettera del primo comma dell’articolo 5 della legge) della facoltà di formare piani territoriali paesistici alle “vaste località” di cui s’è detto dianzi, nonché, grazie all’entrata in vigore della legge 431/1985, ai luoghi ed ai beni vincolati ope legis.

4. In buona sostanza, il comma 1 dell’articolo 149 del Testo unico, (come già il primo comma dell'articolo 1 bis della legge 431/1985) si limita a sancire l'obbligo, per le regioni, di provvedere a regolamentare adeguatamente. con strumenti di piano, le trasformazioni e gli usi dei luoghi e dei beni vincolati ope legis, e la facoltà di procedere analogamente con riferimento ad ogni altro elemento territoriale riconosciuto meritevole di tutela per ragioni di interesse culturale e ambientale, la qual cosa può bene ritenersi principio fondamentale della legislazione dello Stato, anche in riferimento al dettato del secondo comma dell'articolo 9 della Costituzione.

Fermi restando il predetto obbligo, e la predetta facoltà, è amplissima la potestà regionale di individuazione e scelta dei modi e delle forme in cui darvi seguito, purché non siano sostanzialmente "elusivi" dell'obbligo medesimo, in quanto non coerenti con le finalità per cui l'obbligo è posto.

5. Il comma 3 dell’articolo 149 del Testo unico dispone che:

Qualora le regioni non provvedano agli adempimenti previsti al comma 1, si procede a norma dell'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, come modificato dall'articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59.

Il riferimento pertinente è al secondo comma dell'articolo 4 del D.P.R. 616/1977, come modificato dall'articolo 8 della legge 59/1997, il quale stabilisce che:

Il Governo della Repubblica, tramite il commissario del Governo, esercita il potere di sostituzione previsto dall'articolo 2 della legge n. 382 del 22 luglio 1975.

A sua volta, l’articolo 2 della legge 382/1975 specifica che:

In caso di persistente inattività degli organi regionali nell'esercizio delle funzioni delegate, qualora le attività relative alle materie delegate comportino adempimenti da svolgersi entro termini perentori previsti dalla legge o risultanti dalla natura degli interventi, il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente, dispone il compimento degli atti relativi in sostituzione dell'amministrazione regionale.

Per il vero, “la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici” non costituiscono funzioni delegate, ma funzioni trasferite (dal quarto comma dell’articolo1 del D.P.R. 8/1972). E, per le funzioni trasferite, non si danno, né possono darsi, disposizioni afferenti l’esercizio di “poteri sostitutivi”.

C’è per converso da rammentare che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1985, la circolare del Ministro per i beni culturali e ambientali 31 agosto 1985, n. 8 (Applicazione della legge 8 agosto 1985, n. 431) aveva affermato che, per effetto del secondo comma dell'articolo 1 bis della stessa legge 431/1985 (secondo il quale, in caso di inadempimento regionale nei termini, “il Ministro per i beni culturali e ambientali esercita i poteri di cui agli articoli 4 e 82 del D.P.R. 616/1977”), lo stesso Ministro , in caso di inadempienza delle regioni nel termine prescritto dal primo comma del medesimo articolo, avrebbe esercitato il “potere sostitutivo nella redazione dei piani paesistici”.

E che la Corte costituzionale, con sentenza 24 giugno 1986, n. 153, pur riconoscendo “improprio” il riferimento ai poteri sostitutivi previsti per le funzioni regionali delegate dall'articolo 4 del D.P.R. 616/1977, ha affermato che il medesimo riferimento va interpretato “in senso pregnante”, e ha concluso che “spetta allo Stato, in caso di mancata redazione dei [ piani di cui all'articolo 1bis della legge 431/1985] entro il 31 dicembre 1986 da parte delle Regioni, provvedere, sollecitate e sentite le Regioni stesse, all'adozione [...] dei piani paesistici”.

Più recentemente la stessa Corte Costituzionale, con sentenza 6 - 13 febbraio 1995, n. 36, ha dichiarato che “spetta allo Stato disporre [...] la sostituzione dell'amministrazione regionale della Campania con il Ministero per i beni culturali e ambientali ai fini del compimento degli atti necessari per la redazione e l'approvazione del piano territoriale paesistico” (in verità, la Regione Campania, ricorrente, non ha eccepito sul punto del rientrare le funzioni attinenti la formazione dei piani paesistici tra le funzioni delegate, ma ha sostenuto l’assenza del requisito fondamentale della persistente inattività degli organi regionali).

C’è infine da rilevare che potrebbe aversi inadempimento non soltanto per totale inattività regionale nei termini prescritti, ma anche qualora i provvedimenti regionali fossero "elusivi , cioè non sostanzialmente conformi agli obiettivi di tutela posti dalla legge. E da chiedersi se anche in tale caso debba (e possa) trovare applicazione il comma 3 dell’articolo 149 del Testo unico, nella forma dell’esercizio di poteri sostitutivi da parte del Governo.

6. Il comma 3 dell’articolo 149 del Testo unico si limita a disporre che, fermi restando gli obblighi di rimessione in pristino, o di alternativo pagamento di una indennità pecuniaria, posti a carico di chi abbia trasgredito alle disposizioni poste a tutela dei beni paesaggistici e ambientali (comunque “vincolati”), il Ministero per i beni e le attività culturali, d'intesa con il Ministero dell'ambiente e con la regione, può adottare misure di recupero e di riqualificazione dei suddetti beni “i cui valori siano stati comunque compromessi”.

7. Il comma 1 dell’articolo 150 del Testo unico dispone che:

Le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda i valori ambientali, con finalità di orientamento della pianificazione paesistica, sono individuate a norma dell'articolo 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

L’articolo da ultimo citato stabilisce che “hanno rilievo nazionale i compiti relativi alla identificazione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese”, e che tali compiti “sono esercitati attraverso intese nella Conferenza unificata” (Stato, regioni, città e autonomie locali).

Può essere interessante l’asserzione per cui per quanto riguarda i valori ambientali le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale dovrebbero assumere la valenza di “orientamento della pianificazione paesistica”, la quale compete, almeno in primo luogo, alle regioni. E si potrebbe sostenere che un comportamento pianificatorio regionale, afferente i beni paesaggistici e ambientali, contraddittorio con gli stabiliti “orientamenti”, configurerebbe una elusione degli obblighi posti in capo alle regioni tale da dare luogo all’esercitabilità dei poteri sostitutivi da parte del Governo. Fermo peraltro restando che la definizione delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, avente tale valenza di “orientamento”, avrebbe dovuto realizzarsi non soltanto nella Conferenza unificata, ma anche attraverso “intese”, cioè sulla base dell’adesione di tutti i soggetti interessati.

8. Il comma 2 dell’articolo 150 del Testo unico dispone che:

I piani regolatori generali e gli altri strumenti urbanistici si conformano, secondo l'articolo 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e le norme regionali, alle previsioni dei piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali di cui all'articolo 149. I beni e le aree indicati agli articoli 139 e 146 sono comunque considerati ai fini dell'applicazione dell'articolo 7, n. 5, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, come sostituito dall'articolo 1 della legge 19 novembre 1968, n. 1187.

Il riferimento, del primo periodo della disposizione ora riportata, alle “norme regionali”, conduce ad escludere che con la disposizione medesima si sia voluto affermare che l’efficacia dei piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali (aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali) non può che essere quella riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza ai piani territoriali di coordinamento di cui all’articolo 5 della legge 1150/1942, cioè consistente unicamente nell’obbligatorio adeguamento a tali piani degli strumenti di pianificazione generali comunali.

Si deve infatti rammentare che il trasferimento alle regioni, operato dal primo comma dell'articolo1 del D.P.R. 8/1972, di tutte “le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica”, implicava il conferimento alle regioni medesime della possibilità di legiferare in merito alle caratteristiche, ai procedimenti formativi e alle efficace di tutte le "figure pianificatorie", con il solo limite del rispetto dei “principi fondamentali delle leggi della Repubblica”. E che la peculiare (limitata) efficacia riconosciuta ai piani territoriali di coordinamento di cui all’articolo 5 della legge 1150/1942 non è stata ritenuta “principio fondamentale” né dalla più gran parte delle regioni, che hanno, a partire dalla fine degli anni ‘70, conferito agli strumenti di pianificazione territoriale regionali (e provinciali) anche efficacia immediatamente prevalente sui piani sottordinati, prescrittiva erga omnes e direttamente operativa, né dal governo nazionale, che non ha sollevato eccezioni avverso tali previsioni, né dalla Corte costituzionale, la quale anzi, con la sentenza 26 giugno 1990 n. 327, ha riconosciuto la piena legittimità costituzionale delle leggi regionali che conferiscano agli strumenti di pianificazione territoriali sovraccomunaIi tale pregnante efficacia.

Quanto al secondo periodo della disposizione dianzi riportata, non può riconoscerglisi altra valenza che quella di sancire che i beni paesaggistici e ambientali (comunque “vincolati”) devono essere in ogni caso, cioè, particolarmente, ove non siano oggetto di disposizioni di piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali (aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali), adeguatamente disciplinati dagli strumenti di pianificazione generali comunali, giacché questi ultimi, a norma dell'articolo 7, n. 5, della legge 1150/1942 (come sostituito dall'articolo 1 della legge 19 novembre 1968, n. 1187), devono tra l’altro indicare “i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico”.

9. Il comma 3 dell’articolo 150 del Testo unico dispone che:

Le regioni e i comuni possono concordare con il Ministero speciali forme di collaborazione delle competenti soprintendenze alla formazione dei piani.

Desta stupore che tale possibilità non sia esplicitamente riconosciuta anche alle province, le quali, per contro sono l’unico soggetto istituzionale considerato dall’articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, laddove, al comma 1, dispone che:

La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n.142 assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.

[1] Il comma 2 dell’articolo 146 del Testo unico, parafrasando il sesto comma dell’articolo 82 del D.P.R. 616/1977, precisa che non sono sottoposte alle disposizioni del Titolo II, quand’anche rientranti nelle componenti territoriali elencate, le “aree che alla data del 6 settembre 1985:

a) erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone A e B;

b) limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione, erano delimitate negli strumenti urbanistici a norma del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 come zone diverse da quelle indicate alla lettera a) e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati a norma dell'articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865”.

Il comma 3 dell’articolo 146 del Testo unico, parafrasando il sesto comma dell’articolo 82 del D.P.R. 616/1977, precisa che non sono sottoposti alle disposizioni del Titolo II i fiumi, i torrenti ed i corsi d'acqua di cui alla lettera c) dell’elenco “che, in tutto o in parte, siano ritenuti irrilevanti ai fini paesaggistici e pertanto inclusi in apposito elenco redatto e reso pubblico dalla regione competente” fermo restando che “il Ministero [...] può tuttavia confermare la rilevanza paesaggistica dei suddetti beni”.

[2] Camera dei fasci e delle corporazioni - Documenti - Disegni di legge e Relazioni -XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - disegno di legge n. 221. Il dibattito alla Camera è riportato in: Camera dei fasci e delle gente corporazioni -Commissioni legislative - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 22 maggio 1939 – XVII. Il dibattito al Senato è riportato in: Senato del Regno - Commissione educazione nazionale e cultura popolare - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 5 giugno 1939 - XVII.

[3] La prima Commissione è costituita, in adempimento alla legge 26 aprile 1964, n.310, con decreto del Presidente della Repubblica 10 novembre 1964, e diviene e resta nota come “Commissione Franceschini” dal nome del suo presidente, l’on. Francesco Franceschini. La seconda e la terza commissione, entrambe presiedute dal prof. Antonino Papaldo, sono insediate dal governo, rispettivamente il 9 aprile 1968 e il 31 marzo 1971.

[4] Sentenza 24 luglio 1972, n. 141.

Premessa

Nel mio intimo, avrei voluto intitolare questa comunicazione “Alcuni assunti irrinunciabili di una legge statale in materia di governo del territorio”. Laddove la perentorietà dell’asserita irrinunciabilità di quanto affermato (secondo il mio opinare, certamente, seppure confortato dal consenso di un gruppo di autorevolissimi maestri e amici), sarebbe stata compensata dalla circoscrizione del campo di intervento ad “alcuni” soltanto degli “assunti” (non ancora tutti compiutamente qualificabili di “principi” secondo le tecnicalità espressive delle leggi statali “quadro”, o “cornice” che dir si voglia) che dovrebbero a mio parere guidare la messa a punto di un’ottimale legge statale, rispettosa del nuovo Titolo V della Costituzione repubblicana, in una materia a competenza legislativa concorrente (o ripartita se così si preferisce) estremamente complessa come quella denominata “governo del territorio”.

Ebbene: mi sono convinto del fatto che un tale atteggiamento, tutt’assieme “minimalista” e vanagloriosamente “perfezionista”, sarebbe eticamente scellerato, nel concreto contesto culturale, politico e istituzionale in cui ci troviamo a operare.

Possiamo permetterci di darci il tempo di ragionare sulla costruzione di un modello di leggi statali “quadro”, a partire dai termini in cui si produce la legislazione concorrente (o ripartita che dir si voglia) negli stati a più moderna e matura struttura “federale”: nella Repubblica federale tedesca, per esempio? E di darci il tempo di costruire una proposta di provvedimento legislativo capace di enunciare la totalità dei “principi fondamentali” inerenti la materia “governo del territorio” che si possa e si debba ritenere ragionevole appartengano alla competenza decisionale quantomeno dello stato nazionale, in applicazione del famoso “principio di sussidiarietà” rettamente espresso e inteso?

Palesemente, non possiamo.

Non possiamo permettercelo, in presenza, in questa fase storica, nel nostro Paese, di una maggioranza di destra aggressivamente e spregiudicatamente “innovatrice”, impegnata a smantellare, celermente, la più gran parte dei valori e degli assunti che avevano costituito, nel passato, un tessuto connettivo comune e indiscusso per le più diverse, anche radicalmente diverse, posizioni politiche (e conseguentemente diverse interpretazioni e proposte applicative dei medesimi valori e assunti): dall’esistenza, riconoscibilità e prevalenza, nella regolamentazione degli assetti e delle trasformazioni del territorio, di “interessi pubblici”, alla “demanialità” (in senso forte, giuridico e, oserei dire, meta-giuridico) del patrimonio immobiliare dello Stato e delle sue articolazioni, a cominciare da quello di interesse culturale e paesaggistico.

Non possiamo permettercelo, in presenza, in questa medesima fase storica, peculiarmente nel nostro Paese, di un profondo disorientamento (per non dire di peggio) degli ambienti cultori delle specifiche discipline, componenti cospicue, ed esponenti illustri, dei quali, sono preda, quando non portatori, delle “alcinesche seduzioni” del concepire il complesso delle istituzioni pubbliche come “una voce tra le voci” nel “continuo confronto tra ragioni” al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, comunque scandita da contratti, anziché da decisioni di un soggetto istituzionale democratico rappresentativo, stante anche la tranquillamente assunta “mercatizzazione” totale del territorio e degli immobili che lo compongono (che avrebbe fatto gridare alla bestialità, più che alla bestemmia, i massimi teorici dell’economia liberale classica dei secoli trascorsi).

Non possiamo permettercelo. E allora, dobbiamo invece, in alternativa, contrapporre alle”leggi-manifesto”, alle “leggi-proclama” degli avversari (anche approfittando del fatto che essi presentano proposte siffatte), le nostre”leggi-manifesto”, le nostre “leggi-proclama”.

Consapevoli del fatto che se vengono presentate contrapposte “leggi-proclama” non può darsi, poi, che si concordino, “testi unificati”.

Ma. parafrasando l’Ecclesiaste (o, se preferite, Qoelet), c’è un tempo per l’”etica della responsabilità” e un tempo per l’”etica della convinzione”.. Questo, per tutte le forze politiche e culturali che si contrappongono, nel nostro Paese, alla destra realmente esistente, e purtroppo per ora dominante, non può che essere il tempo dell’”etica della convinzione”.

Un tempo paragonabile a quello in cui Benedetto Croce affermava: “A noi non compete almanaccare sui risultati della lotta, e sulle probabilità della prossima vittoria. A noi spetta proclamare, come Lutero dinanzi alla Dieta di Worms, ‘Qui sto io. Non posso altrimenti. Dio mi assista, E così sia’”.

Propongo che oggi ci si dedichi a fissare, e a proclamare, dove stiamo noi. Quanto inizierò fra un attimo a esporre vorrebbe quindi essere l’ipotesi di base di tale proclama: a tutti i presenti competa discuterne, ai rappresentanti delle forze politiche di opposizione a questa destra decidere se e come costruire un proclama, essenzialmente culturale e politico, unitario.

Ipotesi di principi fondamentali in materia di governo del territorio

0. La materia del governo del territorio, oggetto di legislazione concorrente ai sensi dei commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione, concerne la disciplina delle tutele, degli assetti, delle trasformazioni e delle utilizzazioni del territorio e degli immobili che lo compongono.

Con i principi fondamentali determinati dalla legislazione dello Stato in materia di governo del territorio sono coordinati quelli nelle materie di protezione civile, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, parimenti oggetto di legislazione concorrente ai sensi dei commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione.

L’esercizio della potestà legislativa delle Regioni nella materia del governo del territorio si svolge nel rispetto, oltreché della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, dei principi fondamentali suindicati, nonché delle disposizioni della legislazione dello Stato nelle materie in cui quest’ultimo ha competenza esclusiva, con particolare riferimento:

- alle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;

- alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

- all’ordinamento civile e penale;

- alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;

- alla tutela della concorrenza e alla perequazione delle risorse finanziarie.

1. Al governo del territorio si provvede, oltre che con norme legislative e regolamentari, esclusivamente con strumenti di pianificazione, formati ai sensi delle leggi.

Gli strumenti di pianificazione sono rivolti a regolare tutte le trasformazioni, fisiche o funzionali, del territorio e degli immobili che lo compongono, nonché le azioni suscettibili, singolarmente o nei loro effetti cumulativi, di indurre tali trasformazioni, e a conferire a tali trasformazioni e azioni coerenza, in relazione sia alla loro collocazione nello spazio che alla loro successione nel tempo.

Gli atti delle pubbliche amministrazioni concernenti le trasformazioni e le azioni suindicate devono essere conformi a strumenti di pianificazione, ovvero inseriti in essi secondo procedimenti che ne preservino le coerenze, e che rispettino gli elementi essenziali di quelli ordinari di formazione e variazione dei medesimi strumenti di pianificazione. Fanno eccezione unicamente gli atti assunti nei casi di straordinaria necessità di provvedere, con interventi urgenti, alla difesa militare o alla sicurezza della Nazione, ovvero a prevenire il verificarsi di calamità naturali, di catastrofi e di altri eventi calamitosi, o di rimediare ai suddetti eventi, e comunque nel rispetto delle specifiche norme legislative.

2. Il governo del territorio compete esclusivamente a pubbliche autorità.

La formazione degli strumenti di pianificazione spetta ordinariamente agli enti territoriali: Stato, Regioni, Province o Città metropolitane, Comuni.

Il riconoscimento delle competenze pianificatorie delle Province, delle Città metropolitane, dei Comuni, è operato dalla legislazione dello Stato anche con riferimento alla sua competenza esclusiva di definizione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane.

La legislazione dello Stato e quella regionale possono attribuire competenze nel campo della formazione di strumenti di pianificazione specialistica o settoriale, attinenti la difesa del suolo, le aree naturali protette, l’erogazione di servizi di interesse collettivo, e simili, ad altre autorità pubbliche, che si configurino come organi misti, con la concorrenza di diversi enti territoriali, fermo restando che anche in tali casi la competenza decisionale finale deve spettare all’ente territoriale nella cui circoscrizione rientri l’intero ambito oggetto dello specifico strumento di pianificazione.

La legislazione dello Stato e quella regionale, nell’ambito delle rispettive competenze, specificano i casi di prevalenza dei suddetti strumenti di pianificazione specialistica o settoriale sugli ordinari strumenti di pianificazione e le modalità di adeguamento di questi ultimi alle disposizioni dei primi. Sono altresì specificati i casi in cui il raggiungimento di intese con le autorità pubbliche competenti conferisca agli ordinari strumenti di pianificazione delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, le valenze e le efficacie dei suddetti strumenti di pianificazione specialistica o settoriale.

La legislazione dello Stato e quella regionale, nell’ambito delle rispettive competenze, definiscono comunque i procedimenti tecnici e decisionali di formazione di tutti gli strumenti di pianificazione così da conferire a tali procedimenti la massima unitarietà, attraverso il concorso, in termini di leale collaborazione, di tutte le pubbliche autorità cui siano riconosciuti ruoli, anche differenziati, in relazione agli oggetti degli specifici strumenti di pianificazione considerati.

In ogni caso la definitiva approvazione degli strumenti di pianificazione, da parte del soggetto pubblico pianificatore, è subordinata solamente alla condizione sospensiva della verifica della loro conformità agli strumenti di pianificazione cui è conferita dalle leggi efficacia prevalente. Tale conformità è, di norma, verificata mediante conferenze di amministrazioni.

3. Le attività di governo del territorio hanno per obiettivi prioritari le tutele dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio stesso, da assumere quali condizioni di ogni ammissibile scelta di trasformazione, fisica o funzionale, nonché il conferimento al medesimo territorio, e in particolare al sistema insediativo antropico, di più elevati caratteri di qualità, formale e funzionale, al fine di perseguire uno sviluppo sostenibile, nonché la massima coesione sociale e un sempre maggiore benessere individuale e collettivo.

4. La legislazione regionale può disporre che la pianificazione si esprima attraverso strumenti, o componenti dei medesimi strumenti, aventi efficacia conformativa delle facoltà di operare trasformazioni, fisiche e funzionali, degli immobili, connesse al diritto di proprietà sui medesimi, e strumenti, o componenti dei medesimi strumenti, non aventi tale efficacia, ma soltanto valenza di direttive vincolanti rivolte a successivi atti pianificatori aventi la predetta efficacia conformativa.

5. Le regole conformative delle facoltà di operare trasformazioni, fisiche e funzionali, degli immobili, dettate dagli strumenti di pianificazione, con riferimento alle articolazioni del territorio, o alle categorie di elementi territoriali, definite dai medesimi strumenti, possono essere variate discrezionalmente, seppure motivatamente, dagli strumenti stessi, secondo i procedimenti stabiliti dalle leggi.

Le predette facoltà non possono essere soppresse o modificate dalle variazioni degli strumenti urbanistici soltanto ove sia stato ottenuto il provvedimento abilitativo a operare le trasformazioni, e i relativi lavori abbiano inizio entro un periodo di tempo predeterminato dalle leggi.

6. Le trasformazioni, fisiche e funzionali, degli immobili, sono effettuabili, di norma, previo ottenimento, anche tacito, di un titolo abilitativo comunale.

L’ottenimento dei titoli abilitativi relativi alle trasformazioni, fisiche e funzionali, suscettibili di variare il carico urbanistico puntuale e le necessità di dotazioni di opere di urbanizzazione e di spazi per servizi pubblici e per la fruizione collettiva, è subordinato al versamento di un corrispettivo commisurato ai costi effettivi di realizzazione delle suddette dotazioni.

7. Trasformazioni del territorio non urbanizzato, sia a prevalenza di naturalità che oggetto di attività colturali, al fine di realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano, o ampliamenti di insediamenti esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, possono essere definite ammissibili o prescritte dagli strumenti di pianificazione soltanto ove non sussistano alternative consistenti in trasformazioni volte al riuso degli insediamenti ovvero delle infrastrutture esistenti.

Il territorio non urbanizzato, sia a prevalenza di naturalità che oggetto di attività colturali, individuato dagli strumenti di pianificazione come non interessabile da nuovi insediamenti di tipo urbano, o da ampliamenti di insediamenti esistenti, è qualificato bene ambientale in forza di legge, conseguendone ogni relativo effetto. In tale territorio la legislazione regionale, le norme regolamentari, gli strumenti di pianificazione, non possono ammettere nuove edificazioni, demolizioni e ricostruzioni, consistenti ampliamenti di manufatti edilizi esistenti, se non con esclusivo riferimento ai manufatti edilizi strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali ed eventualmente delle attività escursionistiche, nonché alle opere di difesa del suolo e di tutela dell’ambiente e alle infrastrutture alle condizioni suindicate.

8. I provvedimenti abilitativi comunali relativi a trasformazioni, fisiche o funzionali, di beni ambientali, ove siano conformi a disposizioni immediatamente precettive e operative della pianificazione comunale che, anche in adeguamento a strumenti di pianificazione provinciale e regionale, siano state definite d’intesa con la competente Soprintendenza, costituiscono provvedimenti definitivi. In tali casi non trovano applicazione i poteri di controllo e di annullamento riconosciuti all’amministrazione statale per i beni culturali.

9. In forza della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali, sono qualificati come tali, per effetto dell’essere individuati dagli strumenti di pianificazione delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze, d’intesa con la competente Soprintendenza:

- gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane, le addizioni urbane aventi un impianto urbanistico significativo, le strutture insediative, anche minori o isolate, che presentino, singolarmente o come complesso, valore di testimonianza di civiltà, nonché le rispettive zone di integrazione ambientale;

- le unità edilizie, e gli spazi scoperti, siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali, ovvero, comunque, costituenti esemplari significativi, sotto il profilo del valore artistico o anche soltanto dell’interesse testimoniale, della cultura architettonica.

Resta ferma la competenza della Soprintendenza di integrare le predette individuazioni con propri provvedimenti amministrativi.

Le trasformazioni ammissibili e le utilizzazioni compatibili degli immobili suindicati sono disciplinate dagli strumenti di pianificazione delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze, come definite dalla legislazione regionale. Laddove e nella misura in cui siano oggetto di disposizioni immediatamente precettive e operative definite d’intesa con la competente Soprintendenza, i provvedimenti abilitativi comunali conformi a tali disposizioni tengono luogo delle speciali autorizzazioni dell’amministrazione statale dei beni culturali richiesti dalle vigenti norme di legge.

10. Non danno luogo a obbligo di corrispondere indennizzi le limitazioni alle trasformazioni fisiche ammissibili e alle utilizzazioni compatibili degli immobili, anche comportanti totale immodificabilità, disposte dagli strumenti di pianificazione, ovvero da altri atti amministrativi producenti effetti nel governo del territorio, dello Stato, delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze, per finalità di tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica del territorio, nonché in conseguenza del riconoscimento delle caratteristiche intrinseche degli immobili considerati, sotto il profilo dell’interesse culturale, oppure sotto il profilo delle condizioni di fragilità o di pericolosità.

11. Non danno parimenti luogo a obbligo di corrispondere indennizzi le limitazioni alle trasformazioni fisiche ammissibili e alle utilizzazioni compatibili degli immobili, anche comportanti totale immodificabilità, disposte dagli strumenti di pianificazione, ovvero da altri atti amministrativi producenti effetti nel governo del territorio, dello Stato, delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze, con riferimento a intere categorie di immobili che si trovino in predefinite relazioni con altri immobili, ovvero con interessi pubblici preminenti (come nel caso delle fasce di rispetto delle strade, delle ferrovie, degli aeroporti, e simili).

12. Non danno infine luogo a obbligo di corrispondere indennizzi le regole conformative delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili degli immobili, pure se fortemente differenziate nelle diverse articolazioni del territorio riconosciute o definite dalla pianificazione, disposte dagli strumenti di pianificazione, ovvero da altri atti amministrativi producenti effetti nel governo del territorio, dello Stato, delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze, nell'esercizio del potere di disciplinare il godimento della proprietà privata per assicurarne la funzione sociale, e comunque al fine di perseguire assetti del territorio, e in particolare del sistema insediativo antropico, dotato delle volute qualità, formali e funzionali.

13. Gli immobili esattamente individuati dagli strumenti di pianificazione che siano dagli stessi assoggettati a disposizioni immediatamente precettive e operative che comportino la loro utilizzazione solamente per funzioni pubbliche o collettive, attivabili e gestibili soltanto dal soggetto pubblico competente, devono essere acquisite dal predetto soggetto pubblico entro il termine perentorio di dieci anni dalla data di entrata in vigore delle suindicate disposizioni.

Decorso inutilmente il suddetto termine, gli immobili sono acquisiti in forza di legge al patrimonio del soggetto pubblico competente. I proprietari di tali immobili hanno diritto a una somma pari all’indennità di espropriazione determinata ai sensi delle leggi con riferimento al momento del perfezionamento del loro acquisto da parte del soggetto pubblico. Tale diritto si estingue a norma dell’articolo 2946 del codice civile. La somma suindicata è rivalutata di anno in anno con riferimento alla data della sua liquidazione, in base alle intervenute variazioni dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati accertate dall’ISTAT. Sulla somma rivalutata di anno in anno sono dovuti gli interessi, in misura pari a quella del tasso di sconto, fino alla data della liquidazione.

Gli strumenti di pianificazione possono stabilire che non abbia applicazione quanto sopra sancito, laddove l’attivazione delle destinazioni d’uso imposte agli immobili, anche se per funzioni pubbliche o collettive, non comporti necessariamente la loro preventiva acquisizione, e la loro gestione, da parte del soggetto pubblico competente, trattandosi di utilizzazioni per loro natura attivabili e gestibili nell’ambito dell’ordinaria iniziativa economica privata, pur se regolata da convenzioni che garantiscano gli obiettivi di interesse generale.

Può essere prevista, dalla legislazione regionale e dagli strumenti di pianificazione, la permuta degli immobili destinati a funzioni pubbliche o collettive con immobili di proprietà del soggetto pubblico competente suscettibili, secondo gli strumenti di pianificazione, di trasformazioni e utilizzazioni nell’ambito dell’ordinaria iniziativa economica privata, e di valore equivalente a quello che sarebbe stato conferito agli immobili destinati a funzioni pubbliche o collettive dall’entità e dalla qualità delle utilizzazioni definite ammissibili dagli strumenti di pianificazione nell’articolazione del territorio nella quale ricadono questi ultimi immobili.

Può altresì essere previsto, dalla legislazione regionale e dagli strumenti di pianificazione, il trasferimento, ad altri immobili di proprietà del medesimo soggetto, dell’effettuabilità di trasformazioni di entità e qualità equivalenti a quelle definite ammissibili dagli strumenti di pianificazione nell’articolazione del territorio nella quale ricadono gli immobili destinati a funzioni pubbliche o collettive, quale compensazione della cessione gratuita di questi ultimi immobili al soggetto pubblico competente alla loro utilizzazione e gestione.

14. In forza della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, la legislazione dello Stato determina i requisiti quantitativi, qualitativi e relazionali inderogabili delle dotazioni di opere di urbanizzazione e di spazi per servizi pubblici e per la fruizione collettiva che devono essere assicurate negli strumenti di pianificazione delle Regioni, delle Province o Città metropolitane, dei Comuni, nell’ambito delle rispettive competenze.

15. Gli strumenti di pianificazione dello Stato individuano, tra l’altro, l’insieme delle grandi opere di rilevanza sovraregionale di competenza dello Stato medesimo. La definizione della localizzazione, o del tracciato, nonché delle caratteristiche, di tali opere, è effettuata mediante conferenze di amministrazioni.

16. Le trasformazioni degli assetti morfologici del sistema insediativo, quali i nuovi impianti urbanizzativi ed edificatori, le ristrutturazioni urbane con demolizione e ricostruzione di ingenti quantità di manufatti edilizi esistenti e modificazione della maglia insediativa, e simili, devono essere disciplinate da strumenti di pianificazione specificamente e unitariamente riferiti agli ambiti territoriali interessati dalle predette trasformazioni.

Tali strumenti di pianificazione garantiscono la massima perequazione tra gli eventuali diversi proprietari degli immobili compresi negli ambiti ai quali si riferiscono. La partecipazione ai benefici e ai gravami conferiti ai predetti immobili dagli strumenti di pianificazione è definita in misura proporzionale alle superfici dei suoli, e a quelle degli edifici eventualmente esistenti, appartenenti ai diversi proprietari.

Relativamente alla materia denominata “governo del territorio” la Camera dei Deputati ha approvato, com’è noto, il 28 giugno 2005, un disegno di legge recante i relativi “principi”, che tutto, dal testo base assunto al relatore, legittima a continuare a chiamare, come nel gergo corrente, “legge Lupi”, e che attualmente si trova trasmesso dal Presidente della Camera a quello del Senato in data 29 giugno 2005 (Atti Senato n.3519). Di seguito si analizzano due aspetti del ddl, relativi a due aspetti, rilevanti anche ai fini degli argomenti che saranno tratti nelle “scuola estiva di Eddyburg” del settembre prossimo: il territorio non urbanizzato e i beni culturali. Su questo secondo argomento ci si intratterrà con maggiore ampiezza, anche per il carattere particolarmente ambiguo, contraddittorio e oscuro del testo legislativo. (in calce il testo in formato -pdf)

Il governo del territorio e il territorio non urbanizzato

All’articolo 6 del suddetto disegno di legge, attinente in genere alla pianificazione territoriale, ma nel contesto dei commi relativi al “piano urbanistico” comunale, si afferma che “nell'ambito del territorio non urbanizzato si distingue tra aree destinate all'agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili”(comma 5), e altresì che “nelle aree destinate all'agricoltura e nelle aree di pregio ambientale la nuova edificazione è consentita solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente. Nelle aree urbanizzabili gli interventi di trasformazione sono finalizzati ad assicurare lo sviluppo sostenibile sul piano sociale, economico e ambientale” (comma 6).

Salvo intervento precettivo autonomo della legislazione regionale, ovvero della pianificazione sovraordinata al “piano urbanistico” comunale, nulla pertanto orienterebbe il medesimo “piano urbanistico” comunale nel ripartire il territorio non urbanizzato nelle tre categorie delle aree destinate all’agricoltura, delle aree di pregio ambientale e delle aree urbanizzabili. Si vuol dire che, nel rispetto dei “principi fondamentali” della legge statale in materia di “governo del territorio”, ove il disegno di legge puntualmente succitato divenisse tale nelle sue attuali formulazioni, le aree urbanizzabili definite dal “piano urbanistico” comunale potrebbero interessare qualsiasi percentuale del territorio presentemente non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, il quale, assegnato all’una o all’altra delle altre due categorie previste, potrebbe vedersi ridotto in termini puramente residuali: lacerti di verde in un territorio pressoché totalmente urbanizzato e urbanizzabile (essendo comunque anche il secondo produttivo di indebite rendite sia assolute che relative, secondo il gioco dell’ontologicamente distorto “mercato” immobiliare).

In secondo luogo, non è dato intendere cosa dovrebbe distinguere le aree destinate all’agricoltura dalle aree di pregio ambientale, dato che in entrambe è indifferentemente previsto possa realizzarsi “la nuova edificazione […] per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente”.

Sotto il primo, e più rilevante, profilo, in un Paese che ha visto, nell’ultimo cinquantennio del secolo scorso e nei primi anni di questo, il proprio territorio in prevalente condizione naturale ovvero oggetto di attività agricola o forestale sia urbanizzato ed edificato in misura variabilmente multipla a quella in cui in fenomeno si era prodotto in tutta la precedente vicenda storica, sia oggetto di “rururbanizzazione”, o “svillettamento” che dir si voglia (tanto sono entrambi termini orrendi come ciò che vogliono significare), sarebbe decisamente il caso che la legge statale recante i “principi” del “governo del territorio” si facesse carico di perseguire (seppure nei suoi limiti di efficacia non immediata) la preservazione pressoché totale del rimanente territorio non urbanizzato.

E’ quindi da caldeggiarsi l’accoglimento della proposta, avanzata da “Italia Nostra” per cui il territorio presentemente non urbanizzato, individuato come non interessabile da nuovi insediamenti di tipo urbano, o da ampliamenti di insediamenti esistenti, dagli strumenti urbanistici vigenti, modificabili per questo aspetto soltanto d’intesa con la competente Soprintendenza, dovrebbe essere qualificato bene paesaggistico in forza di legge, conseguendone ogni relativo effetto.

Ma non basta. Una appena dignitosa legge statale afferente al “governo del territorio” dovrebbe sancire il “principio fondamentale”, gia presente nella legislazione di alcune Regioni (basti ricordare, per la particolare icasticità della formulazione, quella della Regione Toscana), per cui l’utilizzazione del territorio ancora non urbanizzato al fine di realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, può essere definita ammissibile, negli strumenti di pianificazione, esclusivamente ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.

La medesima legge statale dovrebbe altresì dettare alcuni essenziali “principi” direttamente afferenti alla disciplina pianificatoria del territorio non urbanizzato.

Dovrebbe stabilire che le leggi regionali assicurino che in tale territorio non urbanizzato gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi. I predetti parametri dovrebbero determinare l’entità massima dell’ammissibile edificazione, sia di abitazioni rurali che di annessi rustici, comprensiva di quella preesistente, destinata a tali due tipi di utilizzazione, nei fondi delle aziende agricole interessate.

Alle leggi regionali dovrebbe inoltre essere richiesto di prevedere che le trasformazioni appena sopra indicate siano assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa.

Sempre alle leggi regionali dovrebbe essere affidato il compito di disciplinare altresì le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi esistenti con utilizzazioni in atto non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, limitandole a quelle di manutenzione, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia senza ampliamenti, ovvero con ampliamenti fortemente contenuti. E anche quello di disciplinare i mutamenti dell’uso dei manufatti edilizi esistenti, fermo restando che nei casi di attivazione di utilizzazioni funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale dovrebbero valere le disposizioni attinenti le omologhe trasformazioni fisiche. E soprattutto essendo stabilito dalla legge statale (assumendo un’interessante innovazione della legislazione toscana) che sia prevista la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria e per la parte in cui abbiano entità dimensionale eccedente le determinazioni delle leggi o degli strumenti di pianificazione, e siano privi di interesse anche soltanto storico-testimoniale.

Dovrebbe infine essere in ogni caso previsto che siano disposte ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente.

Il governo del territorio e il patrimonio culturale

A norma dell’articolo 9, rientrante tra i “principi fondamentali”, della Costituzione della Repubblica italiana “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Quand’anche l’esame e la valutazione degli atti formativi di un atto avente forza di legge (o di legge fondamentale, come in questo caso) siano un criterio esegetico tutt’al più residuale, vale la pena di ricordare come la formulazione ora riportata sia stata decisivamente condizionata, all’Assemblea costituente, da un emendamento proposto da Emilio Lussu (notoriamente uno tra i più accesi regionalisti e autonomisti) tendente a sostituire la parola “Repubblica” alla parola “Stato” caratterizzante nelle precedenti versioni il precetto succitato. L’intendimento dell’emendamento presentato da Lussu, infatti, non poteva che leggersi alla luce dell’asserzione, gia presente, al momento dei fatti che si rammentano, nel progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione, per cui “la Repubblicasi riparte in Regioni e Comuni”. Con la sua proposta, cioè, Lussu voleva non già traslare i compiti della “tutela” dallo Stato alle Regioni e egli enti locali, ma istituire competenze concorrenti.

Presentemente, la Costituzione della Repubblica italiana, come novellata, al suo Titolo V, dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, afferma, al primo comma dell’articolo 114, che “la Repubblicaè costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Anche in ragione del criterio, accolto pacificamente da tutta la dottrina e la giurisprudenza costituzionalistica, per cui, in caso di supposto contrasto tra un “principio fondamentale” della Costituzione e un altro suo dettato, o di dubbio esegetico circa i contenuti di un precetto costituzionale non rientrante tra i “principi fondamentali”, si deve prescegliere l’interpretazione che possa accordarsi con i “principi fondamentali”, occorre convenire che, checché affermino i disposti puntuali del Titolo V della Costituzione (per non dire della legislazione ordinaria) in merito alle competenze dei soggetti istituzionali che compongonola Repubblica, non uno di tali soggetti può essere deprivato di ogni competenza finalizzata alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La qual cosa non implica affatto distribuzione delle medesime competenze a tutti i soggetti istituzionali enumerati, né equiordinazione delle competenze (cioè, in parole povere, mancata identificazione di una sequela di decisori in ultima istanza), ma, per l’appunto, puramente e semplicemente, obbligo di modulare le competenze in termini tali per cui tutti i soggetti istituzionali enumerati concorrano alla finalità costituzionalmente posta, e affidata alla Repubblica.

Del resto, in epoca antecedente alla concreta costituzione delle Regioni, e in presenza di una temperie cultural-politica tutt’altro che accentuatamente “autonomistica” (per non parlare di “federalismo”), nel riformulare, con l’articolo 1 della legge 19 novembre 1968, n.1187, l’articolo 7 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n.1150, si inserirono tra i contenuti dei piani regolatori generali comunali “i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico”. Con ciò nemmeno sognandosi di intaccare le competenze statali in argomento di tutela delle “cose d’interesse artistico e storico” (cioè dei “beni culturali”) di cui alla legge 1° giugno 1939, n.1089, e delle “bellezze naturali” (cioè del “paesaggio”, o dei “beni ambientali”, o dei “beni paesaggistici” che dir si sia detto, e si voglia dire) di cui alla legge 29 giugno 1939, n.1497.

Una volta concretamente costituitesi le Regioni, poi, pure nel clima, lungamente perdurato, di un’occhiuta vigilanza del Governo dello Stato in merito alle (vere o supposte) “evasioni” della produzione legislativa regionale dall’elenco tassativo delle sue competenze stilato dal primo comma dell’articolo 117 della Costituzione allora vigente (si pensi soltanto alle controversie in argomento di attività economiche), non risultano peculiarmente contestate le disposizioni dettate dalla legislazione di quasi tutte le regioni circa la tutela, da assicurarsi nella pianificazione (della stessa Regione, delle province, dei comprensori –finché ne durò la moda-, dei comuni), sia delle componenti territoriali paesaggisticamente e/o ambientalmente rilevanti che degli elementi territoriali di interesse storico-archeologico, storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale.

Allorquando, nel contesto di una larga e consapevole maturazione di un atteggiamento assai più equilibrato tra istanze “centralistiche” e istanze “autonomistiche”, verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, si ridisegnarono complessivamente le competenze e le funzioni amministrative dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, si provvide tra l’altro, con l’articolo 80 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, a definire la latitudine della materia “urbanistica”, rientrante tra quelle per le quali, a norma del primo comma dell’articolo 117 dell’allora vigente Costituzione, “la Regione emana […] norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. Ai sensi di tale definizione, la suddetta materia concerne “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione ambientale”. Ciò non impedì che, alcuni anni appresso, in materia di tutela del “paesaggio” (ovvero di “zone di particolare interesse ambientale”, come allora le si denominò) venissero emanate disposizioni legislative anche – e soprattutto – immediatamente operative e direttamente precettive, con il decreto legge 27 giugno 1985, n.312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n.431 (meglio nota come “legge Galasso”). E men che meno impedì che le ora citate disposizioni legislative statali fossero dichiarate, dalle sentenze della Corte costituzionale 24 giugno 1986, n.151 e n.153, perfettamente legittime.

In tempi assai più recenti, il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (e più noto come “Codice Urbani”), si è premurato di proclamare che “in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’articolo 117 della Costituzione” (articolo 1, comma 1) e che “il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” (articolo 2, comma 1).

Per ragionare sulla portata di tali disposizioni è opportuno premettere che, nel frattempo, con la già citata legge costituzionale 3/2001, è stata operata la mai abbastanza vituperata (a giudizio di chi stila queste note) riscrittura del Titolo V della Costituzione. Ai sensi di tale riformulazione della carta costituzionale, che ripropone, esaltandolo, il criterio dell’attribuzione delle competenze (legislative, e conseguentemente amministrative) per “materie” differenziate, rigidamente enunciate ed elencate, appartengono, a norma del novellato articolo 117, alla legislazione esclusiva dello Stato, tra l’altro, la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”(comma 2, lettera s.), mentre è materia di legislazione concorrente (in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”), tra l’altro, il “governo del territorio” (comma 3), fermo restando che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (comma 4).

C’è quindi da chiedersi se il “Codice Urbani”, costruendo nei termini sopra riportati l’unitaria nozione di patrimonio culturale, non abbia richiamato (o inteso richiamare) anche la tutela del paesaggio nell’ambito delle competenze legislative esclusive dello Stato. La risposta (almeno circa gli effetti raggiunti, impregiudicate restando le intenzioni) non può che essere negativa. Il che può asserirsi (trascurando altri più sofisticati ragionamenti) per una motivazione sostanziale: le disposizioni della Parte terza del decreto legislativo 42/2004, attinenti ai “beni paesaggistici”, non possono, in ragione dei propri contenuti, trovare concreta applicazione, quantomeno con riferimento alla pianificazione paesaggistica (ma in realtà in termini ben più estesi), in assenza di una produzione legislativa regionale che specifichi, dettagli, renda operativi i precetti attinenti ai contenuti, agli elementi costitutivi, ai procedimenti formativi, alle efficace, di tale pianificazione paesaggistica. Ne discende che, volendo incasellare i prodotti legislativi nel rigido schema del novellato articolo 117 della Costituzione, le disposizioni del “Codice Urbani” attinenti ai “beni paesaggistici” sono ascrivibili piuttosto alla materia a legislazione concorrente denominata “governo del territorio”, anziché alla materia a legislazione esclusiva (dello Stato) denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Occorrerebbe riconoscere che tali disposizioni, pur configurandosi come “principi fondamentali”, sono peculiarmente ricche di specificazioni, ma ciò non dovrebbe recare scandalo, quanto piuttosto indurre a convenire, anche alla luce della consolidata esperienza di altri stati europei ad assetto “federale”, che nei campi delle materie a legislazione concorrente non è affatto detto che i “principi” della legislazione dello stato federale debbano corrispondere ad affermazioni generali, generiche e vacue.

Relativamente alla materia denominata “governo del territorio” la Camera dei Deputati ha approvato, com’è noto, il 28 giugno 2005, un disegno di legge recante i relativi “principi”, che tutto, dal testo base assunto al relatore, legittima a continuare a chiamare, come nel gergo corrente, “legge Lupi”, e che attualmente si trova trasmesso dal Presidente della Camera a quello del Senato in data 29 giugno 2005 (Atti Senato n.3519)

Secondo tale disegno di legge “il governo del territorio consiste nell'insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l'urbanistica, l'edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie” (articolo 1, comma 2). La frase evidenziata in corsivo è frutto di uno dei pochi emendamenti accolti tra quelli proposti dai deputati dell’opposizione di centrosinistra (nella fattispecie dall’on.Sandri e altri), e di tale accoglimento tale schieramento pare vada particolarmente orgoglioso e soddisfatto.

Resta il fatto che il comma immediatamente successivo dello stesso articolo recita che “la potestà legislativa in materia di governo del territorio spetta alle regioni,salvo che per la determinazione dei principi fondamentaliead esclusione degli aspetti direttamente incidenti […] sulla tutela dei beni culturali e del paesaggio […]”. La dizione in questo caso evidenziata in corsivo è parte integrante del disegno di legge originario, non è stata corretta, e appare sommamente equivoca, e potenzialmente contraddittoria con il dettato del comma immediatamente precedente. Vorrebbe significare che la legislazione regionale che attenga il paesaggio, e anche i beni culturali, non può contraddire la legislazione, anche di dettaglio, emanata in materia dallo Stato? non vi sarebbe nulla da obiettare, se non che la forma espressiva è particolarmente oscura. Vorrebbe invece significare che è inibito alla legislazione regionale (per non dire della susseguente attività amministrativa, segnatamente pianificatoria) avere a proprio oggetto la tutela dei beni culturali, e financo del paesaggio, dettando prescrizioni immediatamente operative e direttamente precettive? Sarebbe inaccettabile per contrasto, oltre che con l’articolo 9 (“principio fondamentale”) della Costituzione, come dianzi esposto e commentato, anche con la ragionevolezza in genere, e con quella che deve presiedere l’attribuzione e l’esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali in particolare.

La possibile equivocabilità, e la presumibile contraddittorietà, di disposizioni del medesimo disegno di legge, è accentuata se si pone attenzione al dettato del comma 3 dell’articolo 6, per cui “il piano urbanistico è lo strumento di disciplina complessiva del territorio comunalee deve ricomprendere e coordinare, con opportuni adeguamenti, ogni disposizione o piano di settore o territoriale concernente il territorio medesimo. Esso recepisce le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici, nonché quelli imposti ai sensi delle normative statali in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio”. Significa che la legislazione regionale deve stabilire che il “piano urbanistico” si limita a “recepire”, per quanto concerne la tutela dei beni culturali e del paesaggio, i contenuti dei piani paesaggistici, e le prescrizioni dettate direttamente in base alla legislazione di esclusiva competenza statale, oppure che la legislazione regionale, nel fare carico alla pianificazione (anche) comunale di stabilire (magari prioritariamente) le disposizioni volte alla tutela dell’identità culturale del territorio, deve specificare che, ciò facendo, essa deve in primis rispettare la pianificazione paesaggistica, e le eventuali disposizioni immediatamente precettive dettate in base alla legislazione statale?

Ragionevolezza vorrebbe che si propendesse decisamente, e tranquillamente, per il secondo corno del dilemma. Ma non una sola affermazione dell’intero disegno di legge pone la finalità generale della tutela dell’identità culturale del territorio (né della sua integrità fisica, per il vero) come finalità da perseguirsi, anche autonomamente, a opera dell’attività pianificatoria di ogni soggetto istituzionale. E questo già induce a pensar male: il che facendo, diceva un vecchio statista italiano, di norma si fa peccato ma ci s’azzecca….Epperò c’è di più: c’è che il Governo attualmente in carica, espressione della stessa coalizione di maggioranza che ha varato, alla Camera, il disegno di legge in esame (la “legge Lupi”, per capirsi in gergo) ha l’anno scorso presentato ricorso alla Corte costituzionale avverso la legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n.11 (“Norme per il governo del territorio”) per avere tale Regione (governata allora come ora, tra l’altro, da una solida maggioranza omogenea a quella nazionale) previsto, con l’articolo 40 della legge citata, che il piano di assetto del territorio (comunale) determini, con riferimento a tutti gli edifici componenti gli insediamenti urbani storici, a tutti i manufatti edilizi di interesse storico ovunque localizzati, e anche relativamente alle “ville venete”, e a ogni altro edificio di valore monumentale e testimoniale “vincolato” in base alla legislazione statale di settore, “le categorie in cui gli stessi debbono essere raggruppati per le loro caratteristiche tipologiche, attribuendo in tal modo specifici valori di tutela e, quindi, individuando per ciascuna categoria gli interventi e le destinazioni d’uso ammissibili”, la qual cosa veniva considerata “lesiva dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), e sesto comma, della Costituzione, che rispettivamente riservano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e alla sua potestà regolamentare la tutela dei beni culturali”.

La Corte costituzionale si è pronunciata con sentenza del 16 giugno 2005, n.232 (dal cui “ritenuto in fatto” sono traslate anche le citazioni del capoverso immediatamente precedente). Dichiarando la questione non fondata.

Infatti, argomenta la Corte, “la tutela dei beni culturali […] è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l'indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività, come questa Corte l'ha già definita (vedi sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell'ambiente […]. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina”.

Prosegue la Corte rammentando di avere affermato che “la tutela dell'ambiente, più che una materia in senso stretto, rappresenta un compito nell'esercizio del quale lo Stato conserva il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste, e che ciò non esclude affatto la possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione o di quella residuale di cui all'articolo 117, quarto comma, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale”.

Per converso, sostiene ancora la Corte, ”la materia del governo del territorio, comprensiva dell'urbanistica e dell'edilizia […], rientra tra quelle di competenza legislativa concorrente. Spetta perciò alle Regioni, nell'ambito dei principi fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici. Ora, non v'è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine”.

In via generale, è specificato incidentalmente, “nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi”.

Nello specifico, sentenzia conclusivamente la Corte, “la norma regionale impugnata non è invasiva della sfera di competenza statale […], in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni. La legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell'ambito dell'ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia”.

Sarà il caso che dell’ora sunteggiata dottrina del “giudice delle leggi”, cioè del più autorevole interprete del dettato costituzionale, si tenga debito conto in quell’integrale riscrittura della legge statale contenente i principi del governo del territorio che, anche ma certamente non soltanto per le ragioni esposte in questo scritto, si pone come un’esigenza inderogabile rispetto al delineare l’ordinamento legislativo di un Paese appena appena civile.

Secondo Giovanni Valentini (“Non si muore di referendum”, la Repubblica, 11 giugno 2005, pag.18) “tutti sanno che in Italia, senza i referendum, non avremmo ottenuto grandi conquiste civili come il divorzio o l’aborto”.

Sorprende che un giornalista con la storia professionale e l’autorevolezza di Valentini non sappia, o si sia dimenticato, che, tutt’al contrario, sia l’istituto del divorzio che la regolamentata liceità dell’aborto sono state ottenute a seguito di dure, lunghe, defatiganti battaglie parlamentari, e che i referendum tendenti all’abrogazione delle relative leggi sono stati promossi, in entrambi i casi, dalle forze dell’oscurantismo clericale e integralista (e, nel secondo caso, dal fondamentalismo radical-pannellato, insoddisfatto degli esiti parlamentari raggiunti). Fortunatamente, in entrambi i casi, si manifestò e si pronunciò la maggioranza laica (di credenti e non credenti) del Paese, che prevalse in entrambi i casi (nel secondo ancora più clamorosamente che nel primo). E le “grandi conquiste civili” (ottenute in Parlamento) furono confermate, fatte salve, preservate.

Vero è che l’istituto del referendum abrogativo degli atti aventi forza di legge ordinaria, previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948, non era stato attivato, né reso attivabile in assenza di una legge che ne disciplinasse puntualmente le procedure, sino a quando, nel corso delle vicende parlamentari di formazione della legge sul divorzio, non si concordò, tra forze “divorziste” e forze “antidivorziste”, di definire tale legge procedimentale (che dava alle forze “antidivorziste” l’arma dell’appello alla “volontà popolare”), in cambio di un’attenuazione delle manovre ostruzionistiche dell’iter della legge di regolamentazione del divorzio. Ma ciò conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che, nella concreta storia politico-istituzionale italiana, l’istituto del referendum non nasce sul versante laico e progressista (o vogliamo dimenticare anche che perfino il confronto referendario tra Repubblica e Monarchia nasce da un compromesso con le sinistre, che originariamente avrebbero voluto demandare all’Assemblea costituente la scelta della forma istituzionale dello Stato?).

Dopodichè, alcuni referendum sono stati promossi dalle forze “di sinistra” e/o “ambientaliste”, in genere con risultati nulli, per mancato raggiungimento del quorum, e talvolta a seguito di sonora sconfitta (penso a quelli sulla riforma della “scala mobile”, e a quelli sul sistema televisivo). Fidandomi soltanto della mia memoria, e senza compulsare i miei archivi, né testi di storia contemporanea, oserei dire che l’unico esito “positivo” sia stato quello che ha inibito la prosecuzione della produzione energetica nucleare. Personalmente, non riesco a rinnegare del tutto l’appoggio che diedi al prevalere della risposta positiva ai questi referendari “elettorali” tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, che pure ritengo facciano “storia a sé”, e che, in conseguenza dell’arroganza di parte dei promotori, e della inimmaginabile pochezza degli altri, e dell’inqualificabile disorientamento del complesso delle forze politiche democratiche, hanno posto le premesse dell’”iper-personalizzazione” del sistema politico italiano, e dello sfacelo dei meccanismi e degli istituti della partecipazione democratica di massa.

Quanto a tutti gli altri referendum promossi negli ultimi decenni, con particolare riferimento alle loro carrettate volute dai soliti radical-pannellati, possono essere tranquillamente ricondotti, come i primi due, alle “forze oscure dalla reazione in agguato”, non più di tipo “clericale”, ma di tipo “neo-liberista”, o “neo-conservatore” che dire si voglia (presi nel loro insieme, configuravano il più compiuto smantellamento dello “Stato sociale” di modello europeo che forza politica novecentesca si fosse mai sognata di prospettare).

In conclusione: il raggiungimento del quorum, e la vittoria del “sì”, nel referendum, in corso, per modificare sostanzialmente la vigente legge sulla fecondazione medicalmente assistita, sarebbero il primo episodio di vittoria in un’iniziativa referendaria promossa dalle forze laiche (non credenti e credenti) contro le forze dell’oscurantismo clericale e integralista relativamente a una problematica riguardante i “diritti umani”.

Per questo, per qualche ora ancora, sino al pomeriggio di domani, continuo a nutrire spem contra spem.

Il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato, il 18 novembre 2005, uno “schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dei beni culturali e del paesaggio […], in relazione al paesaggio” (d’ora in poi chiamato semplicemente “nuovo schema di decreto”), come comunicato e precisato nella lettera di trasmissione di tale provvedimento al fine di acquisire il prescritto parere della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali. Ciò sulla base dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n.137, con cui si è emanato il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, d’ora in poi denominato semplicemente come il Codice). Infatti Il medesimo articolo 10 conferisce al Governo la delega ad adottare disposizioni correttive e integrative dei decreti emanati, dovendosi tale delega esercitare entro due anni dall’entrata in vigore dei predetti atti legislativi, e quindi, per quanto riguarda il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, entro il 1° maggio 2006

Le modifiche e le integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice sono, a mio parere, nel complesso e singolarmente considerate, migliorative del provvedimento legislativo sul quale intervengono: talvolta rilevantemente migliorative, talaltra volta più apparentemente che sostanzialmente tali, più spesso appena correttive, quasi mai peggiorative, e in tali casi in termini marginali e agevolmente correggibili.

Ho recentemente avuto l’occasione di esporre e motivare dettagliatamente la mia opinione in una comunicazione intitolata “Contenuti, efficacia e possibili conseguenze della pianificazione paesaggistica”, tenuta a un seminario organizzato dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali e dalla Regione Emilia-Romagna, e conseguentemente di confrontarmi sul merito della medesima opinione con gli autorevoli partecipanti allo stesso seminario. In ogni caso, qualsiasi frequentatore di eddyburg.it potrà formarsi i propri specifici e complessivi pareri esaminando partitamente, e valutando, le innovazioni proposte, ed evidenziate in quanto tali, nel “confronto sinottico tra Codice originario e modificato”.

In questo intervento mi limiterò pertanto a fare presenti, a grandi linee e con qualche ineluttabile apoditticità valutativa, le più consistenti modifiche e integrazioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di introdurre nel Codice.

Correzione di errori materiali

Si propone, innanzitutto, di correggere alcuni veri e propri errori materiali, presenti nel Codice, e derivanti da sciatteria, imprecisione, difetti di coordinamento finale tra i diversi passaggi del testo. Errori largamente e abbastanza facilmente ovviabili in sede interpretativa, ma che ciononostante avevano suscitato gravi equivoci, e corrispondentemente accese polemiche.

Vale la pena di citare, quale esempio particolarmente significativo, l’infelicissima espressione del comma 1 dell’articolo 142 del Codice per cui i beni enumerati nel medesimo comma sarebbero stati sottoposti ope legis alle disposizioni del Titolo del Codice recante “Tutela e valorizzazione” dei “beni paesaggistici” soltanto “fino all'approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 156”. Anche esponenti di organizzazioni e movimenti aventi quale ragione sociale la tutela del patrimonio culturale hanno, autolesionisticamente, sospettato, o dato addirittura per scontato, che l’espressione appena sopra riportata implicasse la possibilità, per il piano paesaggistico, di abrogare tout court la qualità di “beni paesaggistici” di taluni degli elementi territoriali enumerati, o di loro parti. Con ciò privilegiando l’interpretazione maggiormente capace di stimolare lo sdegno verso gli atti e le intenzioni vandaliche e criminogene del Governo in carica (come se per ciò mancassero ben più solidi argomenti!), anziché quella, argomentabile senza soverchie cavillosità, più suscettibile di garantire la tutela dei beni per cui si faceva mostra di battersi. A ogni buon conto, il “nuovo schema di decreto” propone, puramente e semplicemente, la soppressione dell’espressione dianzi riportata, con ciò risolvendo drasticamente equivoci e polemiche. Ometto di citare altri esempi, pur aventi con quello fatto consistenti analogie, per rispettare i caratteri dichiarati di questo intervento.

Ritocchi integrativi

Si prevedono, in secondo luogo, un certo numero di “ritocchi” integrativi al Codice.

Tale è, a mio parere, quello che il “nuovo schema di decreto” propone di operare all’articolo 136 del Codice, nel quale vengono delineate (in termini pressoché letteralmente riproducenti quelle di cui all’articolo 1 della legge 29 giugno 1939, n.1497) le categorie di beni che possono essere qualificati “beni paesaggistici” attraverso specifici provvedimenti e atti amministrativi singolarmente afferenti a ognuno di essi. Il “nuovo schema di decreto” prevede di inserire espressamente tra “gli immobili e le aree” definibili “beni paesaggistici” i “centri storici” e le “zone di interesse archeologico”.

Quest’ultima categoria è stata indicata, essenzialmente, per sovvenire a (veri o supposti) problemi individuativi, e non rileva granché darne conto. Mentre può dare la sensazione di una forte innovazione l’esplicita citazione del “centri storici”: la quale invece, a un’appena più attenta riflessione, finisce con il doversi considerare assai modesta (la stessa relazione illustrativa del “nuovo schema di decreto” riconosce trattarsi nulla più che del chiarimento di una possibilità già suggerita, nientepopodimeno, dall’articolo 9 del Regio Decreto 3 giugno 1940. n.1357, recante il regolamento di attuazione della legge 1497/1939, e comunque “già ampiamente praticata dalla prassi amministrativa degli ultimi decenni”) e forse addirittura foriera di rischi. Mi riferisco al fatto che la sottolineatura della prospettiva di definizione dei “centri storici” quali “beni paesaggistici” può stimolare una concezione della tutela dei medesimi “centri storici”, e delle unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) che li compongono, limitata alla preservazione dell’”aspetto esteriore”, ignorando le elaborazioni, e le centinaia (almeno) di discipline pianificatorie e regolamentari definite in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni, volte a garantire la conservazione delle caratteristiche tipologiche strutturali delle unità di spazio, con particolare riferimento, tra l’altro, agli assetti distributivi interni delle unità edilizie.

Miglioramenti sui contenuti della pianificazione paesaggistica

Più rilevanti e positive ritengo siano le correzioni che il “nuovo schema di decreto” prevede di apportare agli articoli 135 e 143 del Codice, i quali, nel loro insieme, definiscono innanzitutto i contenuti della pianificazione paesaggistica. Tali correzioni possono infatti sortire l’effetto di attutire, e di rendere evitabili (pur senza escluderli del tutto) i rischi di dare luogo a una pianificazione paesaggistica del tutto priva di reale pregnanza e incisività precettiva, insiti nelle norme dell’originaria, e vigente, stesura del Codice.

Queste ultime norme, infatti, pretendono la costruzione di astratte categorie di “trasformabilità”, relazionate a presumibilmente assai soggettivi “gradi di valore”, attribuiti a “ambiti omogenei”: la qual cosa porterebbe quasi inevitabilmente, se non attraverso scappatoie sostanzialmente elusive del dettato legislativo, a dettare disposizioni assai poco, o per nulla, relazionate alle specifiche e peculiari caratteristiche conformative, meritevoli di tutela conservativa, delle concrete componenti territoriali considerate. Altrimenti detto, laddove, in sede di redazione di uno strumento di pianificazione paesaggistica si sia individuato un “ambito” di “elevatissimo pregio paesaggistico” racchiudente (ipotizzando a casaccio) un’area boscata, una prateria montana sommitale, qualche corso d’acqua torrentizio, un’area di interesse archeologico, si potrebbe sfidare chiunque a dettare precetti pregnanti circa le trasformazioni, le attività, le utilizzazioni ammissibili, anziché vaghi e vacui auspici, con riferimento all’”ambito” in quanto tale. Mentre, per converso, da un lato sarebbe estremamente agevole stabilire prescrizioni conformative precise per ognuno degli elementi territoriali presenti, dall’altro sarebbe certamente auspicabile, e da perseguire, quand’anche più complesso, modulare tali prescrizioni conformative sia in relazione agli intrinseci gradi di valore di ognuno di tali elementi territoriali, sia in relazione alle reciproche interrelazioni degli specifici elementi territoriali presenti.

Mi permetto di soggiungere che quanto ora asserito risulta confermato dall’unico, formidabile, provvedimento pianificatorio di efficace tutela dell’identità culturale di un intero (tendenzialmente) territorio regionale, varato negli ultimi tre lustri: il piano paesaggistico regionale della Sardegna recentissimamente adottato dalla Giunta regionale presieduta da Renato Soru. Non essendo, a mio parere, dubitabile che se gli straordinari valori connotanti tuttora la grandissima parte dell’isola in cui affondano metà delle mie radici (mi si passi l’allusione personalistica e la debolezza sentimentaloide) saranno preservati per il godimento delle generazioni presenti e future dell’umanità tutta, lo si dovrà a quelle parti del piano che disciplinano partitamente e puntigliosamente concrete componenti territoriali, e specifiche categorie di elementi.

Il controllo e la gestione dei beni tutelati

Ma le modifiche e integrazioni più consistentemente innovative riguardano, per il vero, il controllo e la gestione dei beni (paesaggistici) soggetti a tutela.

Si prevede, infatti, di stabilire la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni alle quali è subordinata l’effettuabilità di trasformazioni dei beni soggetti a tutela (modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto” all’articolo 146 e passim).

Si badi bene che non è minimamente intaccata la previsione del Codice (articolo 143) per cui la pianificazione paesaggistica, qualora sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, può sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, all’ordinario regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata.

Ciò, peraltro, viene considerato ammissibile solamente con riferimento ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.

E si badi altresì che la vincolatività del parere del competente soprintendente in merito al rilascio, o meno, delle speciali autorizzazioni, è esclusa (comma 4 dell’articolo 143 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) in tutti i casi in cui la pianificazione paesaggistica sia formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti. Quantomeno laddove le regioni stabiliscano di esercitare direttamente la funzione autorizzatoria, o di delegarne l’esercizio alle province, essendo stabilito (comma 3 dell’articolo 146 come risulterebbe dalle modifiche e integrazioni proposte dal “nuovo schema di decreto”) che, ove invece intendano delegare tale esercizio ai comuni, da un lato possono farlo soltanto ove sia stata approvata la pianificazione paesaggistica formata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti e i comuni vi abbiano adeguato i propri strumenti urbanistici (il che ritengo assolutamente sensato e condivisibile), da un altro lato permarrebbe comunque la vincolatività del parere della competente soprintendenza relativamente al merito della rilasciabilità delle autorizzazioni (il che, invece, propendo a ritenere scarsamente giustificato).

In buona sostanza, e in estrema sintesi, l’assunto concettuale fondamentale della più rilevante innovazione proposta dal “nuovo schema di decreto”, è quello per cui, ove e fino a quando i beni (paesaggistici) soggetti a tutela non siano disciplinati da regole conformative, immediatamente precettive e direttamente operative, definite d’intesa tra tutti i soggetti istituzionali che costituiscono la Repubblica, ivi compreso lo Stato, e per esso la sua amministrazione specialisticamente competente, non può essere escluso un ruolo decisionale di quest’ultima amministrazione nell’apprezzamento discrezionale, caso per caso, delle trasformazioni ammissibili dei predetti beni soggetti a tutela.

Proteste delle regioni e degli enti locali

Non si vuole minimamente negare che l’ora sunteggiato assunto concettuale sia stato tradotto, dal “nuovo schema di decreto”, in concrete disposizioni, e in combinati disposti precettivi, tutt’altro che privi di sbavature, di particolari discutibili, di eccessi scarsamente giustificati di cautele: criticabili, ovviabili, correggibili.

Così come l’intero “nuovo schema di decreto” avrebbe potuto dar luogo, in primis proprio nella sede deputata a esprimere il primo parere in merito a esso, cioè nell’ambito della cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, a un approfondito confronto rivolto a perfezionarne i contenuti, e quindi a ottimizzare il modello giuridico e operativo della concorrenza dei soggetti che costituiscono la Repubblica (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato) in quella tutela del paesaggio che della Repubblica è un compito indeclinabile secondo il relativo “principio fondamentale“ proclamato dall’articolo 9 della Costituzione. Avendo ben chiaro che, in questa come in consimili fattispeci, il termine concorrenza (purtroppo di non univoco significato anche nel nostro dovizioso lessico italiano) significa collaborazione compartecipativa con altri soggetti alla realizzazione di un fine comune, e non, come (sacrosantamente) in altri contesti, confronto competitivo con altri soggetti nell’acquisizione, produzione e vendita di beni.

Risulta invece che, una volta approdato il “nuovo schema di decreto” nella cosiddetta “Conferenza unificata” Stato, Regioni, enti locali, esso sia stato dichiarato, dal “fronte” delle regioni e degli enti locali, con prontezza scarsamente ricorrente, e con raramente tanto piena convergenza trasversale (rispetto alle formazioni e alle coalizioni politiche di appartenenza dei rappresentanti dei soggetti istituzionali partecipanti), assolutamente inaccettabile e inemendabile.

E risulta altresì che, a fronte di tale atteggiamento, il Ministro per i beni e le attività culturali, Rocco Buttiglione, abbia operato, nei confronti del povero “nuovo schema di decreto”, un veloce e disinvoltissimo (quanto scarsamente avvalorabile: ma parimenti pacificamente accettato) “disconoscimento di paternità”.

Per cui si dice (senza nulla precisare) che ci si accingerebbe a riformulare un nuovo testo, muovendo dai (non meglio indicati) desiderata del “fronte” delle regioni e degli enti locali, senza la benché minima garanzia (anzi, nell’assoluta improbabilità) di riuscire a completare l’iter definitorio del provvedimento legislativo delegato entro il termine stabilito dalla legge di delegazione (1° maggio 2006).

Assieme ad altri collaboratori di eddyburg.it, e ad altri ancora, ho veementemente e severamente condannato il tentativo, portato avanti dall’attuale maggioranza parlamentare in sede di formazione della cosiddetta “legge Lupi”, di estromettere il sistema regionale e degli enti locali dalla compartecipazione all’attività sia legislativa che amministrativa (pianificatoria, innanzitutto) in argomento di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Così come ho veementemente e severamente condannato i concreti atti con cui l’attuale Governo ha deferito alla Corte costituzionale provvedimenti legislativi regionali che pretendevano (nientepopodimeno) di includere la tutela dell’identità culturale del territorio tra i contenuti necessari della pianificazione d’ogni livello: beccandosi dalla Corte, in risposta, sentenze paragonabili a ceffoni sul grugno, se è lecito usare metafore così popolane per temi tanto aulici.

Altrettanto veementemente e severamente ritengo vada oggi condannato l’atteggiamento del “fronte” delle regioni e degli enti locali, il quale, proprio per il suo rifiuto a entrare dettagliatamente nel merito di ogni singolo punto, si appalesa come uno “sgomitare” rivolto a ridurre entro termini irrisori, se non ad azzerare, il ruolo dello Stato nella tutela dei “beni paesaggistici”.

Con ciò mostrandosi altrettanto (pur se su posizioni simmetriche) estraneo allo spirito e alla lettera di quel, già ricordato, “principio fondamentale” di cui all’articolo 9 della Costituzione del 1948 per cui la tutela del paesaggio (e del patrimonio storico e artistico) compete alla Repubblica, e quindi alla totalità delle sue articolazioni, nessuna potendo esserne esclusa.

Per questo, cioè per la profonda aspirazione a una riscoperta della “forza propulsiva” della Costituzione del 1948 che penso animi, magari quasi inconsciamente, la stragrande parte del “popolo progressista” (o “riformista”, o “democratico”, fate voi) di questo Paese, oltre che per i profili più strettamente di merito, ritengo altresì, e per concludere, che i problemi posti dalle vicende qui sommariamente esposte e raccontate, esigerebbero l’assunzione di chiare prese di posizione da parte del gruppo dirigente dell’Unione (delle calate di calzoni del ministro attualmente in carica, francamente, mi importa assai meno che di un fico secco).

Candidato premier Romano Prodi, batterai un colpo?

Qui allegati i file in formato Adobe .pdf contenenti:

- Il testo dello schema di nuovo decreto

- Un quadro sinottico di confronto tra il decreto vigente e il nuovo proposto

- Il testo della lezione tenuta da Luigi Scano all'IBC Emilia-Romagna

Da qualche giorno (il 12 maggio scorso) sono entrate in vigore le modificazioni e integrazioni apportate al “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157, emanato a norma della legge 6 luglio 2002, n.137, che dava delega al governo per l’adozione di disposizioni correttive e integrative dei decreti antecedentemente emanati, quale appunto il Dlgs 42/2004, di approvazione del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.

Già prima della definitiva approvazione e pubblicazione del Dlgs 157/2006, si è trattato di vari suoi aspetti in eddyburg. In tale scritto, tuttavia, non si è fatto cenno ai contenuti del nuovo provvedimento legislativo che hanno inciso sul sistema sanzionatorio delle violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio, e sulle previsioni di condonabilità delle medesime violazioni, definite dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e dalle sue precedentemente apportate integrazioni e modificazioni.

La deplorevole legge 15 dicembre 2004, n.308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) conteneva anche, per l’appunto, alcune “misure di diretta applicazione”, immediatamente integrative e modificative del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Con esse, dopo avere disposto un aggravamento delle sanzioni penali stabilite per le violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio ritenute (discutibilmente) “più gravi”, si prevedeva l’esenzione dall’applicazione delle sanzioni penali le violazioni predefinite (altrettanto discutibilmente) come “meno gravi”, a condizione che le violazioni medesime ottenessero un accertamento della loro “compatibilità paesaggistica” da parte dell'autorità amministrativa competente, previo parere vincolante della soprintendenza.

E, quel che è peggio, si prevedeva che violazioni (potenzialmente) di qualsiasi genere ed entità fossero esentate dall’applicazione delle sanzioni penali, sempre che ottenessero “l'accertamento di compatibilità paesaggistica” da parte dell'autorità amministrativa competente, previo parere (in questo caso non definito vincolante) della soprintendenza, e che fossero corrisposte sia la sanzione amministrativa pecuniaria ordinariamente prevista dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, maggiorata, sia un’ulteriore sanzione pecuniaria. In buona sostanza, si riproponeva la consueta, ormai, purtroppo, simoniaca vendita delle indulgenze.

Il Dlgs 157/2006, opera, relativamente alle disposizioni della legge 308/2004 che si sono ora ricordate, poco più che un’azione razionalizzatrice. Con essa, sostanzialmente, rende possibile la conclusione sia delle pratiche di “condono edilizio”, disciplinate dai pregressi specifici provvedimenti legislativi in argomento, laddove la sua concedibilità sia stata sottoposta (tra l’altro) al conforme parere favorevole delle autorità preposte alla gestione dei “vincoli paesaggistici”, sia delle pratiche di “condono paesaggistico” di tipo “straordinario”, previsto e disciplinato dalla legge 308/2004, di cui appena sopra s’è detto (e peraltro chiarendo che, in questi ultimi casi, il parere della soprintendenza“si intende vincolante”.

Assai più incisive sono state le modificazioni e integrazioni apportate dal Dlgs 157/2006 in tema di sanzioni amministrative previste per le violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio. E’ necessario rammentare che fin dalla legge 29 giugno 1939, n.1497, la sanzione ripristinatoria (cioè la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili delle trasformazioni illegittime) era stata prevista in alternativa, in ogni caso discrezionalmente optabile dall’autorità competente, con la sanzione pecuniaria quantificata nel maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. Secondo le nuove norme del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, come modificate e integrate per effetto del Dlgs 157/2006, invece, in caso di violazione delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici “il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese”.

Per converso, non essendosi,ritenuto di eliminare la distinzione, introdotta ai fini dell’applicazione delle sanzioni penali dalla legge 308/2004, tra violazioni “più gravi” e violazioni “meno gravi”, ci si è, conseguentemente, posti il problema della contraddizione concettuale che sarebbe insorta laddove si fosse prevista l’irrogazione della sanzione amministrativa ripristinatoria a casi di violazione dei cui effetti fosse stata accertata la “compatibilità paesaggistica” da parte dell’autorità competente, previo parere vincolante della soprintendenza. Per cui relativamente soltanto a tali casi si è riproposta la sanzione amministrativa pecuniaria. Per la prima volta nell’evoluzione della legislazione di tutela del paesaggio, quindi, le norme presentemente vigenti circoscrivono a priori i casi in cui l’autorità competente (con il parere vincolante della soprintendenza) può, accertata la “compatibilità paesaggistica” del risultato delle trasformazioni illegittime, applicare la sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, configurata come ordinariamente prevalente nella generalità delle fattispeci.

In conclusione, l’insieme del sistema sanzionatorio delle violazioni delle disposizioni di tutela del paesaggio (e delle previsioni di condonabilità delle medesime violazioni), quale risulta dalle relative disposizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” come modificate e integrate per effetto della legge 308/2004 e del Dlgs 157/2006, presenta un panorama di luci e ombre. Ed è comprensibile che un approccio rigoroso e severo al tema della repressione dei comportamenti contrastanti con le regole stabilite concluda con il giudicare che le ombre sopravanzino le luci.

Non è, invece, né comprensibile né accettabile che riprenda a serpeggiare, come già avvenne immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge 308/2004, nei discorsi anche di esponenti di associazioni ambientaliste, la confusione tra “condono paesaggistico” e “condono edilizio”. Ed è da rammaricarsi che tale confusione non sia espressamente e puntualmente denegata, nei testi, e anzi quasi stimolata dall’enfasi delle titolazioni, dalla più diffusa e seguita pubblicazione di settore (“Edilizia e territorio”, tabloid, 8-13 maggio 2006, pag.3, Bianca Lucia Mazzei, “Possibile regolarizzare mini abusi realizzati su beni soggetti a tutela – Paesaggio, sanatoria permanente – Ammessi gli interventi che non hanno comportato aumenti di volumetria o di superficie”).

Il primo, cioè il cosiddetto “condono paesaggistico”, riguarda infatti soltanto la “sanabilità” delle trasformazioni effettuate in assenza delle speciali “autorizzazioni paesaggistiche” o in difformità da esse, ovvero su immobili comunque sottoposti a “vincoli paesaggistici” (e, in questo secondo caso, limitatamente ai profili attinenti la tutela del paesaggio), e attiene soltanto l’irrogabilità (e la tipologia, e la misura) delle sanzioni, penali e amministrative, disciplinate dalla speciale legislazione di tutela del paesaggio. Il secondo, cioè il cosiddetto “condono edilizio”, riguarda invece la “sanabilità” delle trasformazioni effettuate in contrasto con le norme (nell’accezione più vasta del termine) urbanistiche ed edilizie, e/o in assenza degli ordinari provvedimenti abilitativi a operare le trasformazioni medesime, e/o in difformità da tali provvedimenti abilitativi, e attiene l’irrogabilità (e la tipologia, e la misura) delle sanzioni, penali e amministrative, disciplinate dalla legislazione urbanistica ed edilizia.

Le disposizioni attinenti la “sanabilità” delle trasformazioni illegittimamente effettuate riguardano esclusivamente il “condono paesaggistico”, e possono interferire con il “condono edilizio” solamente laddove le specifiche (e sciagurate) leggi che hanno previsto quest’ultimo facciano espresso riferimento alla necessità di ottenere anche il primo. Il che significa che l’ottenere un’”autorizzazione paesaggistica in sanatoria”, con la conseguente esenzione dalle relative sanzioni penali, e l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, non comporta affatto che le trasformazioni effettuate non siano perseguite, con le diverse peculiari sanzioni, amministrative e penali, previste, qualora abbiano violato la disciplina urbanistica ed edilizia (a meno che non si rientri in uno dei casi di concedibilità del “condono edilizio” previsti dalle altre leggi che lo hanno puntualmente, e malauguratamente, ammesso e regolato).

Il governo Berlusconi, e la maggioranza parlamentare che nell’ultimo quinquennio l’ha espresso e sorretto, hanno fatto tali e tanti danni al territorio e all’ambiente del nostro Paese che non si sente per nulla il bisogno di attribuire loro, infondatamente, la responsabilità di provocarne degli altri.

D’altro canto, troppi amministratori locali (non necessariamente coincidenti con quelli di centrodestra) sono già piuttosto restii a impegnarsi nel perseguire e reprimere efficientemente ed efficacemente l’abusivismo edilizio, per cui occorre evitare di instillare in loro l’equivoco convincimento che viga un combinato disposto legislativo per cui si sarebbe instaurata una sorta di condonabilità edilizia permanente, riferita a tutt’altro che trascurabili tipi di intervento, fondata sul rilascio di attestazioni di “compatibilità paesaggistica”, per di più a valere nelle zone presumibilmente più pregiate, in quanto sottoposte alla disciplina di tutela del paesaggio!

La Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi da un ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri sulla legittimità costituzionale di due disposizioni della legge urbanistica della Toscana (legge 1/2005), per contrasto con il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (Dlgs 42/2004). La Corte si è pronunciata con la sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006, n.182, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di entrambe le disposizioni legislative regionali.

La prima delle suddette disposizioni legislative regionali (il comma 3 dell’articolo 32 della legge toscana 1/2005) prevede che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, possa derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata. Tale possibilità è ammessa dal “Codice”, che però la subordina all’essere la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio). Questa condizione non è riportata espressamente dalla legge toscana.

Per il vero, la legge toscana omette anche di chiarire che la possibilità di cui si è detto è prevista, dal “Codice”, solamente con riferimento ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica), mentre sono esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi, evidentemente ritenendosi (per quanto opinabile e discutibile possa essere tale convinzione) che il pregio intrinseco posseduto da questi ultimi beni esiga un controllo puntuale e discrezionale della coerenza con esso delle trasformazioni via via proposte, non bastando alla bisogna la verifica della conformità di tali trasformazioni alle regole definite dalla pianificazione.

Stante la valenza generale che l’opinione della Corte può (deve) assumere, va sottolineato che, nello sviluppare le proprie considerazioni in diritto, la medesima Corte ha assunto che il “Codice” contenga, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., del novellato articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del medesimo articolo).

Per cui, ha affermato la Corte, relativamente all’insieme delle disposizioni del “Codice”, le regioni “devono sottostare nell'esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente a una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato”. Giacché “la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato […], mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente […]: da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, e, dall'altro, le leggi regionali, emanate nell'esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato”. Cosicché, ha concluso sul punto la Corte, “appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale”.

E ha ulteriormente specificato che “in relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella Parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le regioni devono conformarsi, provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici […]. L'opzione per questo secondo strumento […] comporta che, nella disciplina delle trasformazioni – com'è negli scopi del piano urbanistico –, la tutela del paesaggio assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente […]”.

La seconda delle disposizioni legislative regionali delle quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale (il comma 3 dell’articolo 34 della legge toscana 1/2005) prevede semplicemente che l’operazione di cui dianzi si è trattato, di sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, trovi la sua sede puntualmente individuativa e precettiva nella componente denominata (nella legge toscana 1/2005) “statuto del territorio” dei piani definiti “strutturali” dei comuni (seppure in conformità a quanto previsto dal “piano di indirizzo territoriale” regionale e dal “piano territoriale di coordinamento” provinciale). Ha sostenuto la Corte che, ciò facendo, la disposizione legislativa regionale sottrae “la disciplina paesaggistica dal contenuto del piano, sia esso tipicamente paesaggistico, o anche urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici, che deve essere unitario, globale, e quindi regionale, e al quale deve sottostare la pianificazione urbanistica ai livelli inferiori”.

Ha argomentato infatti la Corte che l’articolo 135 del “Codice” è “tassativo, relativamente al piano paesaggistico, nell'affidarne la competenza alla regione”, che il successivo articolo 143 elenca dettagliatamente i contenuti dello stesso piano e che l'articolo 145 definisce i rapporti con gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province “secondo un modello rigidamente gerarchico (immediata prevalenza del primo, obbligo di adeguamento dei secondi con la sola possibilità di introdurre ulteriori previsioni conformative che risultino utili ad assicurare l'ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani)”.

E ha concluso che la legislazione regionale non può porsi “in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela non derogabile”, stante che, come già si è fatto presente, secondo la dottrina della Corte il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Infatti, ha precisato, pur avendo la giurisprudenza costituzionale “ammesso che le funzioni amministrative, inizialmente conferite alla Regione, possano essere attribuite agli enti locali, […] è l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull'intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali”.

Vorrei soggiungere che le argomentazioni della Corte costituzionale hanno una valenza che va ben oltre la specifica disposizione, dianzi puntualmente citata, della legge toscana, dichiarata costituzionalmente illegittima. Quantomeno, la collocazione delle disposizioni del “Codice” nell’assetto delle competenze legislative definito dal novellato articolo 117 della Costituzione, e la ricostruzione dei contenuti fondamentali di tali disposizioni (dei quali implicitamente, e talvolta esplicitamente, si riconosce la perfetta aderenza al dettato costituzionale), fanno da un lato giustizia di ogni tesi sulla “equiordinazione” degli strumenti di pianificazione di competenza dei diversi livelli istituzionali, e mettono da un altro lato in crisi gravissima tutte quelle legislazioni regionali che hanno escluso, del tutto o quasi, la possibilità di avere anche efficacie immediatamente vincolanti, e direttamente operative, sia per gli strumenti di pianificazione sovraccomunali che (come per l’appunto nel caso della Regione Toscana) per la “figura pianificatoria” comunale “di primo livello”, di norma denominata “piano strutturale”.

Più generalmente, il “Codice” (soprattutto come novellato per effetto del Dlgs 157/2006) e la dottrina della Corte costituzionale ormai consolidatasi circa lo stesso, pongono a tutte le regioni l’esigenza di una vasta riconsiderazione della propria legislazione afferente alla pianificazione territoriale e urbanistica e di quella (ove e per quanto sia distinta dalla prima) afferente alla tutela dei “beni paesaggistici” (e, in senso lato, dei “beni culturali”), nonché di una profonda (e presumibilmente immediata) rimodulazione di molti propri regolamenti, atti, comportamenti amministrativi riguardanti la gestione delle misure di tutela.

Premessa

Il dibattito dipanatosi negli ultimi mesi a partire dal “caso Monticchiello”, meritoriamente denunciato da Alberto Asor Rosa, e proseguito con le altrettanto meritorie denunce, provenienti dai più diversi soggetti, di numerosissimi altri scempi paesaggistici intervenuti, o paventati e incombenti, e, quasi in parallelo, alimentato dalle notizie circa gli sforzi e i (provvisori? permanenti?) successi del Presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, e dei suoi alleati e collaboratori, istituzionali, politici e tecnici, nel tutelare almeno (per ora) gli strepitosi valori culturali della fascia costiera dell’isola, ha concorso a riportare all’attenzione dell’opinione pubblica del Paese (anche in un’accezione vasta, a giudicare dalla tiratura, o dell’audience, rispettivamente degli organi di stampa e dei programmi radiofonici e televisivi che vi si sono dedicati) il tema della pianificazione paesaggistica, ovvero, più latamente, di un’attività pianificatoria che assuma come sua finalità centrale la tutela dell’”identità culturale” del territorio.

Per contro, era agevole riscontrare, in larga parte degli interventi che si succedevano, il ricorrere di svariate, e numerose, imprecisioni, nei riferimenti al quadro legislativo, dottrinario e giurisprudenziale che regola, e supporta, la politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio, e ciò anche, talvolta, anzi spesso, nelle prese di posizione e nelle proposte dei fautori della “tutela”, i quali invece, a mio parere, data la delicatezza dei temi trattati, e la tendenzialmente soverchiante potenza degli “avversari”, non si possono in alcun caso permettere di indulgere a formulare affermazioni imprecise.

Era altrettanto agevole riscontrare, compulsando le elaborazioni, e verificando gli intendimenti, della più gran parte delle regioni italiane (di norma rintracciabili nei relativi “siti”), e frequentando convegni e confronti promossi dai più svariati soggetti, un’orientamento diffuso volto a procedere, ancora una volta (anzi, ancor più che in precedenti similari occasioni), eludendo, in termini sostanziali, se non addirittura formali, l’obbligo di ottemperare ai dettati del “Codice dei beni culturali e del paesaggio", approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successivamente modificato e integrato, per quanto di interesse di questo scritto, con decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (in prosieguio per brevità denominato semplicemente “Codice”).

Mi ero di conseguenza accinto a redigere un elaborato che, simultaneamente, puntualizzasse (in termini adeguatamente precisi, quand’anche non totalmente esaustivi) il quadro normativo nazionale vigente in “materia” di tutela dei “beni paesaggistici”, e richiamasse l’attenzione su quelli che oggi sono, presumibilmente, i più incombenti rischi di sviamento della ripresa di una seria, efficace ed efficiente politica di tutela del paesaggio, e in genere dell’”identità culturale” del territorio.

Sono stato indotto ad accelerare il mio lavoro, e a (provvisoriamente, magari) concluderlo, dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis intitolato Un patto per la tutela del paesaggio su la Repubblica del 18 novembre 2006, e della postilla (di cui condivido pienamente i contenuti) che eddyburg ha fatto seguire alla sua riproduzione (entrambi qui). Persino nel citato articolo di Settis, infatti, ho riscontrato (come del resto già aveva fatto la predetta postilla) un certo numero di imprecisioni, che ritengo debbano essere chiosate (e corrette) con maggiore dovizia di particolari. Non nascondo di provare un certo imbarazzo nell’accingermi (anche) a “fare le bucce”, per usare un’espressione popolaresca, a un “gigante” come Salvatore Settis, del quale da anni leggo con ammirazione, e gratitudine per gli arricchimenti conoscitivi che ne ricavo, i libri, e gli interventi giornalistici, dapprima in il Manifesto e quindi in la Repubblica. Ma da quand’ero giovanissimo non ho mai saputo frenare l’audacia che mi portava, quand’ero certo delle mie cognizioni, e/o della bontà dei miei argomenti, a “correggere”, e se del caso a contestare, sommi “maestri”, e insigni leader. Dopo parecchi decenni, da un lato non posso certo dismettere tale viziaccio, da un altro lato constato che esso mi ha fruttato sempre il rispetto, spesso la stima, talvolta l’affetto, di coloro, tra quei personaggi, che il tempo abbia confermato essere stati, o essere, davvero “grandi”. Confido che il prosieguio di questo mio scritto non impedisca a Settis di rivolgermi anche soltanto il primo dei suddetti sentimenti.

La legge del 1939…

Non è fondato asserire che secondo la legge 29 giugno 1939, n.1497, “la tutela si esprime con atti generici che vincolano sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato”.

Nella relazione svolta dal Ministro dell'educazione nazionale, Giuseppe Bottai, per presentare alla Camera il disegno di legge recante “Protezione delle bellezze naturali” [1], si asserisce infatti che “i piani territoriali paesistici […] si collegano alla protezione delle bellezze d’insieme (paesistiche o panoramiche) e valgono a rivelare che cosa s'intenda per conservazione d'una bellezza panoramica o paesistica”. Infatti, si specifica, mentre “la conservazione d'una bellezza individua quasi si identifica con la sua invariabilità”, non si può né si deve pretendere “l'invariabilità d'una bellezza d'insieme, la quale è composta di molteplici elementi che reciprocamente si influenzano”, per cui “possono alcuni di questi elementi cangiare d'aspetto anche radicalmente senza che la bellezza del quadro naturale sia offuscata o deturpata”. Ma, si afferma, “quello che è essenziale alla conservazione d'una bellezza d'insieme è che le variazioni [...] siano in armonia con un piano preventivo concepito con un'unità di criteri razionali ed estetici. E questo preventivo piano […] è appunto il piano territoriale paesistico [...]; esso, sottraendo le modificazioni al capriccio del singolo che se anche voglia prestare omaggio alle esigenze estetiche non può ispirarsi a una veduta d’insieme soverchiatrice delle sue possibilità, fa sì che una bellezza paesistica o panoramica si conservi come essere vivente, ossia trasferendo nel mutabile o mutato suo volto i segni suoi caratteristici e cioè i lineamenti costitutivi della sua bellezza”.

Pare a me che il Ministro Bottai colga, e voglia esplicitare, l'assunto per cui può aversi efficace tutela dei valori riconoscibili in determinati elementi (o contesti di elementi) territoriali, solamente attraverso una pianificata definizione dei modi d'uso e delle trasformazioni in essi ammissibili, le une e gli altri dovendo essere coerenti con le loro specifiche caratteristiche essenziali e intrinseche, cioè con le "regole" dedotte da tali caratteristiche, al fine di non eccedere le capacità di fruizione e di modificazione tipiche e peculiari dell'elemento, o contesto di elementi, territoriale (o di omogenee loro categorie). Definizione pianificata, per l'appunto, cioè sottratta alla causale successione nel tempo di progetti di intervento ineluttabilmente angusti, in quanto parziali, nonché di altrettanto anguste, in quanto frammentarie, loro autorizzazioni.

Il fatto che, in tutto il periodo di tempo in cui le competenze relative alla formazione dei “piani territoriali paesistici” rimangono esclusivamente statali (dal 1939 al 1972), giungano a vigenza soltanto 14 piani, è certamente deplorevole, ma non inficia la ricchezza, la compiutezza e la bontà delle intenzioni e delle previsioni della legge 1497/1939.

Semmai, facendo un salto temporale, è il caso di rammentare un’innovazione sostanziale introdotta dal “Codice” [2]: quella per cui, relativamente ai beni paesaggistici individuati e “vincolati” con specifici provvedimenti amministrativi [3], sia le “proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico” che le “dichiarazioni di notevole interesse pubblico” devono contenere “una specifica disciplina di tutela, nonché l'eventuale indicazione di interventi di valorizzazione degli immobili e delle aree cui si riferiscono, che vanno a costituire parte integrante del piano paesaggistico da approvare o modificare”.

…e gli eventi successivi

Negli esiti dei lavori delle Commissioni (parlamentari miste, o ministeriali e tecniche) che, nel corso degli anni ’60 del secolo scorso, si succedono nell’impegno di proporre una riforma delle leggi di tutela della fine dei precedenti anni ’30, si può agevolmente rintracciare un indubbio ed esplicito orientamento a ricondurre gli obiettivi della tutela dei beni culturali (comprensivi di quelli paesaggistici) nell'ambito dell'ordinaria pianificazione territoriale e urbanistica, ma è altrettanto certo e palese il tentativo di disegnare dei percorsi logici, metodologici e procedimentali che rispettino, pur puntando a ricondurla all'unitarietà e alle coerenze del processo di piano, la concorrenza dei poteri locali e statuali in vista della finalità della tutela dei predetti beni, sulla base dell'assunto per cui, essendo essi patrimonio dell'intera collettività nazionale, non sono attribuibili alla piena ed esclusiva disponibilità di istituzioni rappresentative soltanto di parti di tale collettività.

I formulatori e proponenti di tale impostazione non avrebbero mai accettato che essa fosse disarticolata delle sue due essenziali componenti. Ciò invece avviene nell’evoluzione successiva dell’ordinamento legislativo in argomento, per essere ripresa soltanto in parte dal decreto legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, e quindi più pienamente recuperata dal “Codice”. Quest’ ultimo peraltro sollecita le regioni a provvedere alla formazione della pianificazione regionale e subregionale, per quanto attinente alla tutela dell’”identità culturale” del territorio, d’intesa con le amministrazioni statali specialisticamente competenti, ma sanziona l’eventuale opzione regionale di procedere in assenza di tale intesa soltanto con il mantenimento in essere di forti limitazioni alla possibilità regionale di sub-delegare agli enti locali la “gestione” dei beni “vincolati” (cioè, sostanzialmente, il rilascio delle speciali autorizzazioni a operare modificazioni, fisiche e funzionali, interessanti tali beni), nonché con la preclusione della possibilità di sottrarre taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento delle predette speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti (comunali) abilitativi delle trasformazioni.

Il “progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle regioni” che lamenta Settis, infatti, non inizia nel 1977, ma cinque anni prima, quando il decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n.8, con il primo comma dell'articolo 1 trasferisce alle Regioni a statuto ordinario “le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica”, e, con il successivo quarto comma, precisa che “il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici”.

Il terzo comma dello stesso articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 8/1972 precisa che “il trasferimento delle funzioni amministrative [...] riguarda anche le attribuzioni esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n.765”. Col che vengono soppresse le disposizioni che prevedevano l'attiva partecipazione dell'amministrazione statale preposta alla tutela dei valori culturali e paesaggistici nelle procedure di definizione degli strumenti di pianificazione.

Il successivo decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, detta che “sono delegate alle regioni le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato per la protezione delle bellezze naturali per quanto attiene alla loro individuazione, alla loro tutela e alle relative sanzioni” [4], con particolare riferimento al rilascio delle speciali autorizzazioni di cui s’è detto, e con facoltà, piena e incondizionata, delle stesse regioni, di sub-delegare l’esercizio di tali funzioni ai soggetti che esse ritenessero più opportuni.

E non è esatto asserire, come fa Settis, che viene mantenuto “un finale giudizio di conformità da parte delle soprintendenze”. Nel 1977, infatti, viene piuttosto mantenuto “il potere del Ministro per i beni culturali e ambientali, sentito il Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali, di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvati dalle regioni” [5], mentre soltanto con la legge 431/1985 si introduce la possibilità, per il Ministro per i beni culturali e ambientali, di “annullare, con provvedimento motivato, l'autorizzazione regionale [o subregionale, nei casi di sub-delega] entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa comunicazione” [6]. La giurisprudenza, negli anni successivi, si attesta sull’ammissibilità di tali “annullamenti” soltanto per regioni di legittimità, e solamente la riformulazione della disposizione operata dal “Codice” [7] si deve ritenere li renda possibili anche per ragioni di merito.

I prescritti connotati della pianificazione paesaggistica…

Secondo il "Codice”, la dottrina interpretativa in merito sinora conosciuta, e le pronunce della Corte costituzionale, il "piano paesaggistico" (per esso intendendosi sia la figura pianificatoria così denominata e tipizzata che il "piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici") deve essere formato dalla regione e riguardare “l'intero territorio regionale” [8]. Esso, conseguentemente, deve disciplinare sia gli immobili "vincolati" (a seguito di specifici provvedimenti amministrativi, ovvero ope legis) che ogni altro immobile, ivi compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate [9].

Il piano deve riferire le sue disposizioni sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) [10] che ad ambiti (definiti con criteri olistici, in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche pregresse e previste, e soprattutto in relazione all'intensità specifica delle interrelazioni tra gli elementi territoriali in essi ricadenti) [11]. Tutte le categorie di elementi territoriali, nonché tutti gli ambiti, sono disciplinati in ragione delle loro caratteristiche intrinseche, non in ragione di inesistenti "scale di valori".

Le disposizioni del piano possono avere efficacia sia immediatamente precettiva e direttamente operativa (presumibilmente, buona parte di quelle riferite agli elementi territoriali) che efficacia di direttive necessitanti, per trovare applicazione, della mediazione di uno strumento di pianificazione sottordinato (presumibilmente, la più gran parte di quelle riferite agli ambiti) [12]. In ogni caso, tutte le disposizioni del piano sono tassativamente vincolanti per la pianificazione sottordinata (provinciale e comunale, nonché di qualsiasi altro soggetto, ivi compresi gli enti di gestione dei parchi e delle altre aree protette) [13].

…e gli effetti derivanti dalla sua definizione

Ai sensi del “Codice” le regioni che abbiano provveduto a definire la pianificazione paesaggistica a norma della legislazione in argomento previgente sono tenute a verificarne, entro il 1° maggio 2008, la conformità alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, e a provvedere agli adeguamenti eventualmente necessari [14].

Ed è stabilito che, decorso inutilmente il predetto termine, il Ministero per i beni e le attività culturali provveda in via sostitutiva [15]. Ma non è specificato se, e attraverso quali modi e procedimenti, il suddetto Ministero possa verificare la conformità degli atti regionali di formazione degli strumenti di pianificazione paesaggistica, ovvero del loro adeguamento, ai relativi precetti del “Codice”.

E’ invece inconfutabile la piena discrezionalità, sacrosantamente lamentata da Salvatore Settis, di ogni regione circa il procedere, nella formazione del "piano paesaggistico", ovvero nel loro adeguamento, in base a un’intesa di “copianificazione” con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, oppure del tutto autonomamente [16].

Per contro, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con gli appena sopra citati ministeri è subordinata la possibilità che il medesimo "piano paesaggistico" possa decidere, in buona sostanza, la già accennata sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici” [17], o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in essi operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi (comunali) delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata, fermo restando che tale decisione può iniziare ad avere effetto soltanto a decorrere dall’adeguamento alla pianificazione paesaggistica di quella comunale [18].

Analogamente, alla definizione del "piano paesaggistico" d’intesa con i citati ministeri è subordinata la possibilità che le regioni sub-deleghino le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” anche ai comuni (anziché soltanto, eventualmente, alle province o “a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all’uopo definite”), fermo restando che, in tale caso, il parere (endoprocedimentale) della competente soprintendenza resterebbe vincolante (nelle fattispeci, si deve ritenere, in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto) [19].

Infatti, a norma del “Codice”, fino al dianzi ricordato termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, l’ottenimento di speciali autorizzazioni permane necessario per l’effettuazione di tutte le trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, restando il relativo procedimento sostanzialmente analogo a quello definito dalla legislazione previgente, cioè, in estrema sintesi, essendo il rilascio competenza della regione, ovvero del soggetto istituzionale al quale la regione l’abbia sub-delegato, ferma restando la facoltà della competente soprintendenza di “annullare” l’autorizzazione rilasciata, per ragioni, come si è già sostenuto, non soltanto di legittimità, ma anche di merito [20].

Successivamente al termine temporale, ovvero alle date di accadimento degli eventi, appena sopra indicati, le speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sono, sempre in estrema sintesi, parimenti rilasciate dalla regione, ovvero dal soggetto istituzionale al quale la regione abbia sub-delegata la relativa competenza, previa acquisizione del parere della competente soprintendenza, il quale è, ordinariamente, vincolante.

Come già s’è detto, la regione può sub-delegare ai comuni le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” soltanto qualora abbia definito il "piano paesaggistico" d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, fermo restando che, comunque, in tale caso, il parere della competente soprintendenza resterebbe vincolante (ma soltanto, a mio parere, nelle fattispeci in cui l’ottenimento delle speciali autorizzazioni non sia stato dichiarato del tutto non richiesto dal "piano paesaggistico" formato attraverso la suddetta intesa) [21].

Non è quindi vero che in forza del “Codice”, come afferma Settis, “le soprintendenze perdono il potere di annullare a valle le autorizzazioni”, e “possono solo partecipare, a monte, alla redazione dei piani paesaggistici”. Com’è stato puntualmente ricostruito ed esposto, infatti, le soprintendenze mantengono il potere di annullare le speciali autorizzazioni, potendo finalmente farlo anche per ragioni di merito, fino al 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami del “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, dopodichè acquisiscono il potere di esprimere un parere vincolante relativamente al rilascio, o meno, di tali speciali autorizzazioni, salvo che per quegli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici” ope legis (ovvero, a mio parere, dalla stessa pianificazione paesaggistica) relativamente ai quali la pianificazione paesaggistica regionale, formata d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, abbia deciso che la tutela sia adeguatamente garantita dal rispetto delle regole fissate dalla stessa pianificazione paesaggistica, e comunque non prima che a essa si sia adeguata l’ordinaria pianificazione provinciale, e quella comunale.

Resta da approfondire il problema se la disposizione del “Codice” relativa ai limiti della sub-delegabilità, da parte delle regioni, delle funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, sia immediatamente precettiva, e abrogativa delle previgenti disposizioni legislative statali in argomento, in base al principio della successione delle disposizioni di legge nel tempo. Si dovrebbe propendere per la risposta affermativa riflettendo sulla natura della disposizione, suscettibile di immediata applicabilità, nei limiti del ripristino della competenza al rilascio delle predette speciali autorizzazioni in capo alle regioni, e ascrivibile (secondo gli insegnamenti ricavabili dalla giurisprudenza della Corte costituzionale) alla categoria dei precetti dettati dal “Codice” con riferimento alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione come riscritto per effetto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), e non alla categoria dei precetti dettati dal medesimo “Codice” con riferimento alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del novellato articolo 117 della Costituzione). Si dovrebbe, invece, propendere per la risposta negativa ponendo mente alla perentorietà dell’affermazione per cui fino al termine del 1° maggio 2008, ovvero, qualora sia precedente, alla data di approvazione, o di adeguamento ai dettami dello stesso “Codice”, del “piano paesaggistico” regionale, trova applicazione la disciplina dettata “in via transitoria” dianzi sunteggiata [22].

Va considerato che, qualora la risposta al suindicato quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe l’illegittimità di tutte le speciali autorizzazioni rilasciate dai comuni dopo l’entrata in vigore della predetta disposizione del “Codice” [23].

Venendo alla Toscana…

Trattando di tutela del paesaggio, ben comprensibilmente Salvatore Settis finisce con il rammentare, nel suo intervento giornalistico, il “caso Monticchiello” e il dibattito sulla tutela paesaggistica in Toscana. Dibattito che, per potere “volare alto” (si è in molti a pensarlo), senza precludere a qualsiasi soggetto a cui spetti istituzionalmente, o vi abbia interesse, di approfondire ogni aspetto dello specifico “caso”, deve affrontare il nodo dei contenuti e dell’efficacia della futura definenda pianificazione (regionale e subregionale) toscana, e della sua funzionalità all’obiettivo della tutela dell’”identità culturale” del territorio regionale (quanto alla tutela dell’”integrità fisica” se ne parla, magari, un’altra volta, presumibilmente in termini, al di là degli specialismi, non troppo dissimili).

Va detto innanzitutto che il dianzi sunteggiato insieme di precetti del “Codice” (i quali, secondo la Corte costituzionale, costituiscono inderogabili “principi fondamentali” della legislazione dello Stato, in materia – concorrente di Stato e regioni – di “governo del territorio”) relativo ai contenuti e alle efficacie del piano non avrebbe potuto, né potrebbe, trovare traduzione operativa nell’attività pianificatoria della Regione Toscana, e, susseguentemente, in quella, di adeguamento alla prima, degli enti locali subregionali, in assenza di una rivisitazione, magari non estesa, ma certamente profonda, della vigente legge regionale per il governo del territorio, la legge regionale 3 gennaio 2005, n.1.

Tale legge regionale, innanzitutto, definisce in termini alquanto diversi da quelli desumibili dagli obiettivi e dalle intenzionalità del “Codice” i contenuti dello strumento di pianificazione di competenza regionale, il Piano di indirizzo territoriale (e ciò al di là di talune stucchevoli trascrizioni letterali di parti di norme dello stesso [24]). E soprattutto ne determina in modo tutt’affatto diverso le efficacie. Secondo la suddetta legge regionale, infatti, gli strumenti di pianificazione sovraccomunali (nonché il piano strutturale comunale) non hanno, sostanzialmente, mai efficacia immediatamente precettiva, e direttamente operativa. Né tampoco efficacia realmente cogente nei confronti della pianificazione sottordinata, secondo quel “modello rigidamente gerarchico” che, secondo la Corte costituzionale, costituisce un “principio fondamentale” in materia di “governo del territorio”, quantomeno per quanto afferisce ai contenuti della pianificazione riguardanti la tutela dell’”identità culturale” del territorio stesso. Ciò in quanto la legge regionale toscana 1/2005 è interamente e rigidamente improntata all’assunto per cui, a seguito dell’entrata in vigore del novellato Titolo V della Costituzione, comuni, province, città metropolitane, regioni, e Stato sarebbero soggetti “equiordinati”, e altrettanto “equiordinati” sarebbero gli strumenti di pianificazione di competenza di tali livelli e soggetti istituzionali. Con la conseguenza che il rimedio esperibile nei casi di strumenti di pianificazione comunali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione della provincia territorialmente competente (o dalla pianificazione regionale), ovvero di strumenti di pianificazione provinciali difformi (anche clamorosamente) dalla pianificazione regionale, consiste nel rivolgersi a una “conferenza paritetica interistituzionale”, alle cui pronunce il soggetto pianificatore responsabile della formazione degli strumenti difformi può peraltro non adeguarsi, residuando al soggetto responsabile dello strumento di pianificazione contraddetto la potestà di approvare “specifiche misure di salvaguardia” che comportano la “nullità di qualsiasi atto con esse contrastanti”.

A ogni buon conto, fattualmente, né il documento preliminare al Piano di indirizzo territoriale, divulgato dall’assessore regionale competente, né gli elaborati, in corso di perfezionamento, destinati a costituire tale piano, per quanto attendibilmente oggi li si conosca, configurano uno strumento regionale di pianificazione che, per quanto attiene, quantomeno, i suoi contenuti di tutela dell’”identità culturale” del territorio, abbia una sia pur vaga parentela con il "piano paesaggistico" il cui profilo si è dianzi voluto desumere dai precetti del “Codice”. Essi configurano, piuttosto, per usare la splendida espressione della postilla che eddyburg ha fatto seguire alla riproduzione dell’articolo di Salvatore Settis, un piano di chiacchiere.

La cosa è, del resto, sostanzialmente, seppur nebulosamente, ammessa e riconosciuta da uno degli elaborati fondamentali del medesimo Piano di indirizzo territoriale, laddove, all’articolo 37 delle norme, si afferma che “la Regione provvede a implementare la disciplina paesaggistica contenuta nel presente statuto, attraverso accordi di pianificazione e relative intese con il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, con i contenuti di maggior dettaglio propri degli strumenti di pianificazione provinciali e comunali” [25].

Poiché dianzi si sono trattati anche i profili “gestionali” della “tutela” dei “beni paesaggistici”, non si può mancare di segnalare che la Regione Toscana ha preteso di definire il procedimento di rilascio delle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati”, e di attribuire la relativa competenza ai comuni, oltre che agli enti-parco, totalmente a prescindere dalle condizioni alle quali il “Codice” subordina tali scelte [26]. La cosa non ha costituito, a suo tempo, e nei termini, oggetto di ricorso governativo presso la Corte costituzionale, così come altri profili della legge regionale toscana 1/2005 che sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi. Il che non toglie che la questione possa essere sollevata, in via incidentale, da chiunque vi abbia interesse.

…e a qualche altra regione

La Regione Friuli – Venezia Giulia, che già, con la legge 13 dicembre 2005, n.30, recante “norme in materia di Piano Territoriale Regionale”, aveva prefigurato, in termini addirittura eversivi del proprio precedente ordinamento in materia di “governo del territorio”, la formazione di un piano di chiacchiere, si sta accingendo a trasfondere, sostanzialmente, gli stessi precetti in una nuova legge organica, trasmessa dalla Giunta all’esame del Consiglio, pomposamente denominata “Riforma dell’urbanistica e disciplina dell’attività edilizia e del paesaggio”.

Si tenga presente che, pur rientrando la Regione Friuli – Venezia Giulia tra quelle “a statuto speciale”, a norma del suo specifico statuto, in materia di “tutela del paesaggio” essa ha soltanto “facoltà di adeguare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e di attuazione” [27] (mentre in materia di urbanistica “ha potestà legislativa […] in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato” [28]). Ciononostante il disegno di legge, sottoposto al Consiglio regionale, dianzi indicato, non si esime dal proclamare, a ogni pie’ sospinto, e del tutto infondatamente (eccettuate forse, in parte, le disposizioni afferenti alla “gestione” delle “tutele”, meno clamorosamente difformi di quelle toscane) la sua perfetta aderenza ai dettati del “Codice”.

Su questi bei fondamenti, direbbe il Manzoni, la Regione Friuli – Venezia Giulia ha predisposto, e sta facendo circolare, un documento preliminare al Piano Territoriale Regionale, zeppo di previsioni di linee viarie e ferroviarie, di porti, interporti e altre “pesanti” attrezzature, di elettrodotti, e via infrastrutturando, e che, per quel che riguarda il paesaggio e la sua tutela, non contiene molto più che l’intenzione di “offrire sostegno alla zootecnia e al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini, che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a fare paesaggio)”. Ed è con riferimento a un siffatto documento preliminare che la Regione Friuli – Venezia Giulia ha proposto al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio di stipulare un’ intesa interistituzionale per “l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici” [29].

Nella Regione Emilia – Romagna, che a seguito dell’entrata in vigore della legge 431/1985 aveva formato uno dei due (in tutta l’Italia) strumenti di pianificazione paesaggistica regionali pregnanti, incisivi, e, in una parola, degni dell’appena usata denominazione, e ciò a norma della legislazione regionale della fine degli anni ’70 del secolo scorso [30], e che successivamente (secondo una prassi ricorrente nell’empirismo politico-amministrativo emiliano-romagnolo) aveva modellato i profili attinenti alla tutela paesaggistica nella pianificazione (innanzitutto regionale) della nuova legge organica in materia di “governo del territorio” [31] sull’esperienza pianificatoria compiuta e (si doveva supporre) consolidata, è stato avviato ai primi di ottobre l’esame di un disegno di legge di revisione della legislazione regionale che, per quel che riguarda la pianificazione regionale in genere, e quella volta alla tutela paesaggistica in particolare, configura anch’esso piani di chiacchiere.

Si potrebbe proseguire esaminando, più o meno dettagliatamente, sia le normative regionali, vigenti e/o in esame, afferenti la pianificata definizione delle tutele dell’”identità culturale” del territorio, nonché la gestione della tutela dei “beni paesaggistici”, sia le concrete attività pianificatorie pregresse o in essere, con riferimento a molte altre regioni italiane, o a tutte. Ma questo scritto ha già superato di molto i limiti quantitativi propri di un elaborato del suo tipo. Mi si passi, quindi, l’apoditticità dell’asserzione (peraltro agevolmente verificabile, e, se ne si rinvengono i presupposti, falsificabile) con cui termino l’esposizione su questo tema: nessuna regione italiana dispone di un apparato legislativo pienamente aderente ai dettami del “Codice”, né con riferimento alla pianificazione paesaggistica, né con riferimento alla gestione della tutela dei “beni paesaggistici”; molti di tali apparati legislativi presentano, soprattutto sotto il primo profilo, distonie impressionanti; tali distonie verrebbero, spesso, rilevantissimamente accentuate dalle proposte, presentemente all’esame, di integrazione e modificazione degli apparati legislativi precedentemente, o tuttora, vigenti; le non numerose iniziative, in essere, di pianificazione regionale, o di aggiornamento di tale pianificazione, non manifestano, ictu oculi, pressoché alcuna parentela con la configurazione della pianificazione paesaggistica regionale ricavabile dalla lettera e dallo spirito del “Codice”.

Conclusione provvisoria ma preoccupata

Essendo, come credo, il quadro complessivo che ho appena delineato del tutto rispondente alla situazione reale in essere, se ne deve dedurre che non v’è alcuna prospettiva che entro il termine del 1° maggio 2008, e meno che mai antecedentemente a esso, si completi anche soltanto una operazione di pianificazione paesaggistica regionale conforme ai dettati del “Codice”, e cioè efficacemente capace di avviare una pianificata definizione delle misure di tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio regionale.

E si rammenti che fino a quando ogni regione non abbia definito un “piano paesistico” conforme ai dettami del “Codice”, e per di più formato d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, la medesima regione non potrà né sub-delegare ai comuni (ove lo voglia fare) le funzioni relative alle speciali autorizzazioni all’effettuazione delle trasformazioni attinenti agli immobili “vincolati” quali “beni paesaggistici”, né tantomeno decidere la sottrazione di larga parte degli elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata (realizzando così una straordinaria, colossale semplificazione, consistente anche in un rilevantissimo snellimento temporale, dei procedimenti ai quali debbono, giustamente, sottostare i cittadini promotori di trasformazioni di immobili).

Sarà sgradevole, magari drammatico, ma certamente non tragico: non sarebbe, infatti, spazzata via la ragionevole speranza che si addivenga, in un futuro ancora una volta un po’ differito, a porre in essere un generalizzato sistema di efficace ed efficiente tutela dell’”identità culturale” dell’intero territorio nazionale.

Ciò che preoccupa, veramente, è l’orientamento, formalizzato da una sola regione (pare, per ora), ma presente in molte altre (e, ove alle prime andasse a buon fine, di certo, un domani, in tutte), a proporre (pretendere?) la sottoscrizione di “intese interistituzionali” al Ministero per i beni e le attività culturali e al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, per la formazione congiunta di piani di chiacchiere.

E ciò che angoscia è il pensare ( male, certamente, con il che si fa peccato, ma come diceva quel politico italiano “di lungo corso”, ci s’azzecca) sia possibile che i suddetti ministeri si acconcino a tali sottoscrizioni, vuoi perché consapevoli dello stato disastrato dei propri apparati tecnici, oggi del tutto inadeguati alla prospettiva di partecipare attivamente e incisivamente a una grandiosa operazione di ripianificazione dell’intero territorio nazionale, e dell’infame esiguità delle risorse messe a disposizione, vuoi perché incapaci di resistere alle lusinghe, o alle pressioni, dei vertici delle regioni, nella stragrande maggioranza appartenenti allo stesso schieramento politico che esprime l’attuale esecutivo centrale (e non potendo di certo, poi, negare l’identica acquiescenza alle eventuali pretese dei pochi vertici regionali appartenenti allo schieramento avverso).

In quest’ultimo caso sarebbe definitivamente uccisa anche la speranza, che ha animato per più di un settantennio alcune delle migliori menti (e dei più generosi cuori) di questo Paese, di vedere, un giorno, tutelata la sua bellezza.

Allora si moltiplicherebbero gli “schifi” di Monticchiello, e le colate di cemento sulla riva del lago Inferiore di Mantova, e si riprodurrebbero i “mostri” di Fuenti, per non dire dell’ auditorium di Ravello, e resterebbero e si riproporrebbero i complessi di Punta Perotti e i “Villaggi Coppola”, e via enumerando teratologie varie.

Ma consoliamoci: in qualche quadrato residuo di prato, tra un capannone e l’altro, pascolerebbero ancora parecchie carinissime vaciutis furlanis.

[1] Camera dei fasci e delle corporazioni - Documenti - Disegni di legge e Relazioni -XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - disegno di legge n. 221.

Il dibattito alla Camera è riportato in: Camera dei fasci e delle corporazioni -Commissioni legislative - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 22 maggio 1939 – XVII. Il dibattito al Senato è riportato in: Senato del Regno - Commissione educazione nazionale e cultura popolare - XXX legislatura – I° della Camera dei fasci e delle corporazioni - Seduta del 5 giugno 1939 - XVII.

[2] Con il comma 2 dell’articolo 138, e con il comma 2 dell’articolo 140.

[3] Secondo i procedimenti di cui agli articoli da 136 a 141.

[4] Articolo 82, primo comma.

[5] Articolo 82, primo comma, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977.

[6] Con il nono comma dell’articolo 82 del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977, aggiunto per effetto dell’articolo 1 della legge 431/1985.

[7] Con il comma 3 dell’articolo 159, ai sensi del quale “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […] può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione”.

[8] Articolo 135, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[9] Articolo 143, comma 1, lettera g), del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[10] Articolo 135, comma 3, lettera a), articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[11] Articolo 135, comma 2 e passim, articolo 143, comma 1, passim, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[12] Articolo 142, comma 2, articolo 145, commi 3, 4 e 5, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[13] Articolo 145, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[14] Articolo 156, comma 1, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio". Nulla peraltro è detto relativamente alle regioni che non abbiano affatto adempiuto agli obblighi pianificatori con finalità di tutela del paesaggio posti dalla previgente legislazione.

[15]Ibidem.

[16] Articolo 143, comma 3, articolo 156, comma 4, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[17]Per essere precisi, limitatamente ai “beni paesaggistici” così qualificati ope legis (e, a mio parere, con riferimento ai “beni paesaggistici” qualificati come tali dalla stessa pianificazione paesaggistica). Essendo esplicitamente esclusi da tale possibilità i “beni paesaggistici” definiti come tali con specifici provvedimenti amministrativi.

[18] Articolo 143, commi 5 e 6, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[19] Articolo 146, comma 3, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[20] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[21] Articolo 146, con particolare riferimento ai commi 3 e 8, del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[22] Articolo 159 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[23] Per il vero, introdotta per effetto dell’articolo 16 del decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157.

[24] Si veda, per esempio, il comma 3 dell’articolo 33 della legge regionale 1/2005.

[25] Il riferimento è agli elaborati sottoposti dall’assessorato regionale competente al cosiddetto “tavolo di concertazione”, ed è quindi suscettibile di successive modificazioni.

[26] Articoli 87, 88 e 89 della legge regionale toscana 1/2005.

[27] Articolo 6.

[28] Articolo 4.

[29] Deliberazione della Giunta regionale del Friuli – Venezia Giulia del 28 luglio 2006, n.1873.

[30] Per la precisione, della legge regionale 7 dicembre 1978, n.47.

[31] Legge regionale 24 marzo 2000, n.20.

Intervengo sul progetto Fori. Dico sempre le stesse cose. Almeno da questo punto di vista, non ci sono dubbi che sono un allievo esemplare di Antonio Cederna. Il quale – come sanno tutti coloro che lo hanno frequentato – continuava a ripetere che non solo non bisogna vergognarsi di ripetere gli argomenti di cui si è convinti, ma anzi si ha l’obbligo morale di farlo, fino a convincere tutti della loro bontà.

Solo due parole per ricordare ai più giovani – stasera non sono pochi – che cos’è il progetto Fori. All’inizio degli anni Trenta Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe (cerimonia che l’Italia repubblicana ha impunemente ripreso), aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma, che si trovava dove oggi la via dei Fori corre in trincea (e dove sono esposte le mappe in marmo delle fasi di espansione dell’impero romano). A seguito dello sventramento, migliaia di sventurati cittadini furono deportati in lontanissime borgate, dando inizio alla tragedia della periferia di Roma.

Cinquant’anni dopo, alla fine degli anni Settanta, il soprintendente archeologico Adriano La Regina, per sottrarre le rovine romane ai danni dell’inquinamento e del traffico, propose di eliminare la via dei Fori Imperiali, ripristinando la continuità del tessuto archeologico sottostante, suturando la lacerazione prodotta dallo sventramento degli anni Trenta. La proposta del soprintendente fu fatta propria da Luigi Petroselli, che per solo due anni (dal 1979 al 1981) fu insuperato sindaco di Roma. Egli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto ordinando la demolizione della via del Foro Romano (che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro repubblicano), unendo poi il Colosseo (sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico) all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. Il progetto Fori divenne il capitolo più importante della strategia politica di Petroselli per l’unificazione sociale e culturale della città. Il sindaco voleva che non solo gli studiosi, ma tutto il popolo di Roma, anche quello delle più remote periferie, fosse coinvolto nel rispetto e nell’amore per il patrimonio storico della capitale.

Terzo grande protagonista del progetto Fori fu Antonio Cederna. Non fu solo il geniale propagandista dell’operazione, ma contribuì alla sua definizione da vero e proprio urbanista (qualità riconosciuta da più di un autore del libro curato da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala). Secondo Cederna, il progetto Fori doveva diventare il vertice intra moenia del grande parco dell’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani. Ma anche l’asse intorno al quale costruire una nuova immagine della città, attraverso l’allontanamento dal centro storico dei ministeri (da trasferire nel cosiddetto Sdo – Sistema direzionale orientale), proponendo, tra l’altro, un radicale potenziamento del trasporto su ferro. Il futuro di Roma disegnato da Cederna è oggetto della sua proposta di legge per Roma capitale. La relazione che illustra la proposta è una delle più belle pagine dell’urbanistica contemporanea e dovrebbe essere materia di insegnamento accademico.

All’inizio degli anni Ottanta, il progetto Fori raccolse in tutto il mondo vasti e qualificati consensi. Ma favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa alla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Fu forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea. Ma durò poco. Il 7 ottobre del 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Antonio Cederna scrisse su Rinascita dello scandalo Petroselli, lo scandalo di un sindaca comunista che aveva capito l’importanza della storia nel futuro di Roma e non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.

Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori, gradualmente accantonato, messo in crisi da successive manifestazioni di prudenza, di opportunismo, di viltà. In verità, per venti anni del progetto Fori si è continuato a parlare – e ancora se ne parla – sono andati avanti, stentatamente, gli scavi ai lati della via ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali, continuamente rinviando però la promessa chiusura definitiva della strada alle automobili (l’ultimo alibi dovrebbe cadere con la realizzazione della linea C della metropolitana).

Ma nel 2001, a venti anni dalla morte di Petroselli, è stata posta la pietra tombale sul progetto Fori con un decreto di vincolo monumentale che congela lo stato di fatto e rende addirittura illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano. E così, l’idea di Antonio Cederna, come ha scritto Francesco Erbani presentando la nuova edizione di I vandali in casa, “è sparita dall’orizzonte della città”. L’immagine ufficiale di Roma moderna resta quella definita negli anni Trenta, quella di Benito Mussolini. Sta scritto in un decreto della Repubblica italiana. È una tristissima operazione di revisionismo, di ammiccamento alla destra neofascista, che non ha suscitato proteste né indignazioni, che io sappia, a eccezione di Leonardo Benevolo.

Ed eccomi a un’indispensabile riflessione conclusiva. È ovviamente fuori discussione che si possa cambiare idea e che l’amministrazione capitolina e quella dei Beni culturali (anche se governate dal centro sinistra) possano confermare l’impianto urbano degli anni Trenta, quello voluto da Benito Mussolini. Nessuno può pretendere il rispetto di un progetto alternativo (quello di Adriano La Regina, Luigi Petroselli, Antonio Cederna, Italo Insolera) se non è più condiviso. Non di questo si discute. Ma non si può non discutere del modo in cui è avvenuto il ribaltamento del fronte, senza aver mai formalmente dichiarato che il progetto Fori era stato archiviato. Si continua invece a evocarlo abusivamente, e ad abbinarlo al nome di Antonio Cederna. Solo che, con la medesima denominazione, si indicano oggi soluzioni ben diverse da quella che sosteneva Cederna. Il quale, della via dei Fori voleva cancellare la memoria (“operazione antistorica, antiurbanistica, antisociale, antiarcheologica per eccellenza”).

Per non cedere alla costernazione, ricordo infine che, nel dicembre 2006, è stata insediata un’autorevolissima commissione mista Stato – SPQR incaricata di procedere a “un ridisegno urbano” dell’area archeologica centrale “che si configuri come una nuova ricerca progettuale”. Dum spiro spero.

Ho letto il commento di eddyburg sulla proposta di legge Mariani di riforma del governo del territorio ( eddytoriale n. 102) e lo condivido quasi completamente. Penso che siano stati introdotti sostanziali correttivi alla precedente proposta. Trovo giusti anche i rilievi avanzati, sia di tipo linguistico (ma poi non tanto), sia quelli relativi alla delega alle regioni di argomenti che dovrebbero essere invece stabiliti a livello nazionale (come la salvaguardia e il rispetto degli standards).

C’è però un punto che mi sembra sottovalutato. Si tratta del tema del ruolo del privato nell’attuazione della pianificazione operativa aperto dall’art. 20 denominato “concorrenzialità”. L’articolo, pur ribadendo la “titolarità pubblica della pianificazione del territorio”, consente alle regioni di istituire “forme di confronto concorrenziale” “obbligatorie” per “promuovere e selezionare capacità e risorse imprenditoriali e progettuali private e pubbliche, garantendo pubblicità e trasparenza del processo, nonché un equo trattamento della proprietà e assicurando la coerenza con il piano strutturale”.

Mi sembra un argomento della massima importanza e delicatezza che non viene regolato con la precisione necessaria. Anche nelle relazioni di accompagnamento della proposta di legge questo punto è inspiegabilmente taciuto.

E’ ovvio che una nuova forma di coinvolgimento dei privati nell’attuazione dei piani, rispetto a quella tradizionale, può essere molto utile, ma credo che si debba definire un equilibrio intelligente senza rinunciare al coordinamento pubblico delle iniziative, pena l’unità della manovra di pianificazione alla scala urbana complessiva.

Peraltro le due regioni “rosse” (Emilia Romagna e Toscana) hanno già inserito questo dispositivo nelle loro leggi di governo del territorio. Le prime sporadiche applicazioni tuttavia, a quanto mi risulta, sono discutibili. In Toscana ci sono Regolamenti urbanistici che hanno aperto una complicata fase di trattative e altri che hanno introdotto norme ambigue come le “aree a previsione urbanistica differita”, per le quali l’approfondimento delle indicazioni del Piano strategico (localizzazione delle edificazioni, degli spazi pubblici e delle infrastrutture, ripartizione delle funzioni, modalità di realizzazione) è rinviata al bando di avviso pubblico.

Segnalo due punti che mi sembrano importanti per i dubbi che sollevano.

Il primo riguarda il “progetto di città”, che la legge ribadisce essere di titolarità pubblica, ma che al contempo affida ai privati nella parte operativa, conculcando l’idea che al pubblico competa solo la definizione, sempre più vaga, “strutturale“ e “strategica” del piano.

Questa linea, che mi sembra generalizzata nell’area milanese, è stata difesa nelle regioni “rosse” con lo slogan “piano pubblico e progetti privati”: è una linea che contrasta con la tradizione della pianificazione urbanistica e con i risultati del dibattito culturale e della prassi del buongoverno delle città europee degli ultimi trent’anni, come dimostrano le più acclamate esperienze (da Barcellona a Parigi e alle altre città francesi e spagnole), nelle quali le grandi operazioni di trasformazione urbanistica hanno avuto sempre oltre ad una forte regia pubblica anche un “disegno” pubblico delle localizzazioni e delle modalità di trasformazione. Abbandonare il controllo delle localizzazioni e delle modalità di trasformazione ai privati perché non si riesce ad operare con gli strumenti intermedi tradizionali di attuazione mi sembra un’approssimazione molto riduttiva, con due rischi: da un lato quello di non considerare gli effetti sociali ed ambientali complessivi delle trasformazioni (che solo un punto di vista generale può prendere in considerazione); dall’altro quello di sminuire il valore innovativo della perequazione trasformandola da strumento che dovrebbe garantire un organico disegno urbanistico con la distribuzione equilibrata di vantaggi e oneri in semplice patto economico fra operatori.

Il secondo punto riguarda i principi di “concorrenzialità” e “trasparenza”.

Siamo sicuri che la trasposizione di un dispositivo tipo appalto dei lavori pubblici alla sistemazione delle città (cioè ad azioni di grande complessità con riflessi sulla struttura sociale ed economica) possa funzionare meglio di quanto gli appalti funzionino oggi e in condizioni di maggior “trasparenza”? E’ giusto non definire i criteri di selezione delle diverse proposte e lasciare che ogni regione decida magari delegando ai comuni per quel malinteso principio di “federalismo” oggi tanto in voga? E’ giusto non introdurre, parlando di “trasparenza”, degli obblighi di reale partecipazione non tanto dei proprietari e degli imprenditori interessati alle operazioni, ma degli abitanti coinvolti? Ed è giusto generalizzare l’attuazione dei piani in quel modo o non è meglio limitarla a casi precisi e pensare a munire i comuni di strumenti e mezzi più idonei alla trattativa definendo forme di rafforzamento delle strutture tecniche (ad esempio, nel caso di comuni piccoli, forme di associazionismo obbligatorio ed economicamente assistito, compartecipazione delle altre istituzioni per il principio di sussidarietà, ecc.)?

Infine, non credo ci sia bisogno di insistere sul fatto che sguinzagliare lo strumento dell’avviso pubblico fra privati per l’attuazione delle previsioni (come una specie di “asta dei diritti edificatorii” come è stata definita) senza disciplinarlo adeguatamente rischia di ingenerare uno stato di confusione e di incertezze (criteri di giudizio e di selezione fra le proposte, varianti ai piani, trattativa continua) che possono aprire la porta a pressioni indebite.

Penso comunque che su questi argomenti sia necessario e urgente raccogliere altri elementi di valutazione. Ti segnalo al riguardo che al dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’università di Firenze intendiamo promuovere un seminario sul tema del rapporto pubblico/privato verso la fine di maggio del quale a parte ti invio il programma in bozza.

Postilla

Le preoccupazioni di Marco Massa sono del tutto condivisibili. Si dimentica spesso in Italia che la proprietà immobiliare non è l'impresa, e che è sbagliato voler introdurre regole proprie del mercato concorrenziale in un ambiente economico che del mercato concorrenziale ha poco o nulla. Comunque, la p.d.l. firmata dall'on. Mariani e da moltissimi altri deputati dei DS e di DL è stata - da nostre informazioni - ulteriormente modificata. Speriamo di poterla mettere a disposizione dei nostri lettori nei prossimi giorni. Allora la valutazione potrà essere più completa.

L'intervento, nel quale l’attuale Presidente di Italia Nostra rivendica, con grande determinazione e lucida analisi, la necessità di proseguire la battaglia contro le distorsioni “storicistiche “ di ieri e di oggi, è stato tenuto in occasione del convegno: “Politiche culturali e tutela: dieci anni dopo Antonio Cederna”. Sull'iniziativa, che si è svolta a Roma, nella sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, il 6 giugno 2007, occasione di ricordo di Antonio Cederna, ma anche di discussione sugli attuali problemi della difesa del patrimonio culturale e paesaggistico e sulla situazione dell'urbanistica italiana ed in particolare romana, v. su eddyburg (m.p.g.)

E’ certamente presente alla intelligenza di chi ha progettato e curato questo originalissimo libro la consapevolezza che anche la più appassionata e insieme lucida commemorazione può nascondere qualche insidia. Nel momento in cui si rivendica la persistente attualità e fecondità del patrimonio ideale che resta documentato nella pagina scritta (oggi riletta con i più raffinati strumenti di analisi testuale) può accadere di non resistere alla tentazione di storicizzare anche talune delle fondamentali proposizioni della riflessione di Cederna. E farle figlie della suggestione di quei tempi duri (ci si misurava allora con la folle proposta di sventramento nel cuore di Roma per un rettifilo da via Margutta a piazza Augusto Imperatore). Se dunque la fermezza e il rigore di certi principi erano imposti dalla necessità di fermare la violenza distruttiva minacciata negli anni cinquanta del novecento alla integrità delle nostre città storiche, anche il diktat della Carta di Gubbio (figlia diretta della riflessione di Cederna) con la sua assolutezza non sarebbe più lo strumento adeguato ad affrontare le forme nuove che l’aggressione alla città e al territorio storici è venuta assumendo nei dieci lustri da quel tempo. Insomma storicizzare Cederna per liberarlo dalle occasioni di allora, meglio comprenderlo e renderlo perciò maestro anche dell’oggi. E anzi c’è chi si è sforzato di cogliere nello sviluppo della sua stessa riflessione i segni di un progressivo adeguamento al nuovo. (Anche il sindaco Veltroni ha storicizzato Cederna e in una recente manifestazione commemorativa in Campidoglio ha detto compatibile con la sua memoria lo sventramento del Pincio per farne il sottile involucro di una autorimessa multipiano).

Ma se è certamente vero che il prontuario dettato dalla Carta di Gubbio è di per sé insufficiente ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico, perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale, è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti. La fermezza di quei principi Cederna non vide ragione di attenuare e anzi li riaffermò con la consueta acribia in uno dei suoi ultimissimi scritti, quello letto a Napoli nel dicembre del 1995 al convegno di Italia Nostra sui centri storici. Volle riprendere alla lettera il pronunciamento di una ventina di giovani (allora, 1957) architetti pubblicato nel primo numero del bollettino di Italia Nostra. Il pronunciamento era stato provocato da una proposizione di Roberto Pane ancora fondata su una attitudine selettiva dei tessuti antichi e su una concezione tutta esteriore dei centri storici, la cui tutela poteva essere affidata alla mera conservazione del rapporto volumetrico, con divieto di superare, in caso di ricostruzione, cubature e altezze degli edifici preesistenti. Il pronunciamento dunque “enunciava alcune inoppugnabili verità:

I. L’epoca attuale per la prima volta nella storia ci pone in grado di accostarci con eguale capacità di comprensione alle opere e agli ambienti di tutte le epoche passate: e questo ha fatto sorgere l’esigenza tutta moderna della loro conservazione integrale.

II. Di qui l’obbligo tassativo della rinuncia a introdurre nuovi edifici nei centri storici, limitando gli interventi al risanamento conservativo, al restauro, alla dotazione dei servizi essenziali.

III. Non è questione di progetti più o meno belli: uno dei presupposti della modernità è quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire.

IV. Il vero problema non è architettonico, ma urbanistico: il piano regolatore deve assicurare ai centri storici destinazioni compatibili con il loro tessuto antico, sistemando altrove le strutture moderne che hanno esigenze. scala e funzioni del tutto diverse”.

E’ una sintetica parafrasi, si riconoscerà, degli articoli che Cederna andava scrivendo sul Mondo dai primi anni cinquanta del novecento e in particolare di quello del febbraio 1954 (che avrei visto con piacere scelto da uno degli autori di questo nostro libro) dove indicava le ragioni di cultura della tutela che si opponevano alla operazione Wright in Canal Grande (la “laguna organica” ironizzava in un occhiello sul titolo) e che valgono, tali e quali ancor oggi, per resistere alla forza intimidatrice delle archistars internazionali.

Questi sono i principi, disse, che “considero indiscutibili, immutabili, perenni da qui all’eternità. Da riaffermare con forza, da diffondere, da acquisire in questo paese in cui nulla è dato per acquisito e dove anche le cose ovvie che dovrebbero essere patrimonio comune vengono rimesse in discussione. E da riaffermare con forza oggi che tante cose vanno cambiando nelle nostre città e nuove minacce si addensano sui centri storici”. Forse è dir troppo, francamente, “immutabili indiscutibili perenni” e converrà – fuor dalla consueta iperbole cederniana- relativizzare l’affermazione; ma certo diremo principi fermissimi fino a persuasivi argomenti che abbiano dignità concettuale e l’efficacia di contrastarli e ancora non abbiamo udito, perché continuano a venir opposti, e pure da chi altrimenti benemerita della cultura, quelli vecchi di allora, dell’antistorico storicismo per intenderci, come li irrideva Cederna, e cioè che non si può fermare la storia, che sempre si è fatto così, che il linguaggio autentico dell’architettura di oggi deve potersi esprimere pure nei contesti antichi e dunque è solo questione di controllo della qualità, garantita, se il caso lo richiede, da autorevoli giurie internazionali. In ogni caso sono lì pronti a intervenire pure una apposita direzione generale e un comitato tecnico scientifico per la qualità architettonica e urbana e per l’arte contemporanea, costituiti, forse proprio a questo scopo, presso il ministero per i beni e le attività culturali. E appunto un concorso internazionale, promosso e gestito dalle stesse istituzioni della tutela, ha prescelto Arata Isozaki per la inutile pensilina a proteggere l’uscita dagli Uffizi (moderna loggia dei Lanzi, secondo l’assicurazione del progettista) voluta per arricchire il disadorno posteriore prospetto sulla piazza Castellani della fabbrica del Vasari. Insomma all’antistoricostoricismo si è adeguata l’amministrazione della tutela, approvando pure lo scatolone dell’Ara Pacis che completa il quadrilatero littorio della piazza Augusto Imperatore e schiaccia le chiese di San Rocco (facciata del Valadier) e di San Girolamo degli Illirici (facciata tardocinquecentesca rinfrescata dai getti della fontana sul sagrato). E approvando la nuova Scala Botta-Piermarini con la vertiginosa moltiplicazione dei volumi, che neppure rispetta non solo il piano regolatore milanese (capovolto il principio cederniano della subordinazione dell’architettura all’urbanistica), ma pure la regola aurea che Pane aveva suggerito per l’architettura minore.

A contrastare la cultura ufficiale e ormai pervasiva dell’antistorico storicismo ci manca la lucida contestazione di Cederna che aveva, con ragioni rimaste inconfutate, negato anche al sommo Wright il diritto sul Canalgrande. E si era rifiutato di discutere il suo progetto (certamente di qualità), perché opponeva ragioni di principio e di metodo che neppure la più alta qualità formale dell’architettura può valere a superare. Sono i principi nei quali Cederna aveva espressamente indicato, nel suo intervento di Napoli del 1995, “le radici di Italia Nostra”. Pure con il rischio (accettato) dell’isolamento Italia Nostra rimane fedele a quei principi.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro dei lavori pubblici, è purtroppo assai significativo che il Parlamento torni ad occuparsi di quello che anche in un documento ufficiale, qual è la relazione Martuscelli, viene definito “il saccheggio di Agrigento”, dopo che, nel mese e mezzo circa che è trascorso fra la conclusione del dibattito al Senato e l'inizio della discussione in questo ramo del Parlamento, l'opinione pubblica, le forze politiche, il Parlamento stesso hanno dovuto concentrare la loro attenzione sugli eventi dolorosi e drammatici che hanno sconvolto e ancora purtroppo sconvolgono intere regioni del paese. Le recenti calamità hanno fatto comprendere a tutti gli italiani, salvo forse al Presidente del Consiglio e al suo Governo, l'entità dei pericoli che minacciano la struttura fisica del nostro paese e la sopravvivenza stessa della fisionomia tradizionale di città come Firenze e Venezia, le quali, come Agrigento, rappresentano anelli insostituibili di un processo storico e culturale di fronte al quale non si dovrebbe essere insensibili se si è, non dirò dotati di coscienza nazionale, ma uomini civili e moderni, e cioè animati da quel senso della storia che all'uomo moderno è o dovrebbe essere proprio.

Ho detto che è assai significativo perché - nonostante i fatti di Agrigento pongano, come vedremo, anche molti altri e complessi problemi - vi è almeno un elemento comune che non può non apparire chiaro a chiunque si volga con l'occhio attento alla tragedia di Firenze e della Toscana, di Venezia e del Veneto e di Agrigento stessa: è il fatto che, per favorire un certo tipo di sviluppo economico nel nostro paese (tipo di sviluppo che non solo ad Agrigento ha assunto le forme di speculazione parassitaria che in questa città sono arrivate a una misura aberrante), si sono calpestati i diritti della natura e della storia, si sono volute ignorare le caratteristiche fisiche del nostro paese e le sue caratteristiche storiche, con la conseguenza da un lato di costruire il falso gigante dell'Italia moderna e industrializzata con i piedi di argilla (e qui mi appello alle parole pronunciate da un autorevole esponente della democrazia cristiana particolarmente competente di queste cose: il senatore Medici) e dall'altro di avere non solo inferto a centri urbani come Agrigento ferite - dice la relazione Martuscelli - difficilmente cicatrizzabili, ma di avere operato in questi centri urbani in modo tanto mostruoso (anche questo è un aggettivo del dottor Martuscelli), da far apparire la frana che, ha travolto un terzo della città dei templi come una reazione inevitabile, anzi coerente (è sempre la relazione Martuscelli che parla) della natura; allo stesso modo, in un certo senso, che una reazione inevitabile e coerente della natura di fronte al modo in cui le sue leggi sono state ignorate e calpestate ci può apparire il comportamento dell'Arno e di tutti gli altri fiumi straripati in Toscana, nel Veneto e in altre regioni d'Italia. Del resto, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in un documento che purtroppo, onorevole ministro dei lavori pubblici, anche il suo giornale non ha voluto presentare all'opinione pubblica in quel modo completo in cui sarebbe desiderabile che esso (credo che ella ne sia convinto) venga a conoscenza delpaese, perché è desiderabile che il paese comprenda questo...

[omissis]

Del resto, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, in questo documento non a caso mi sembra, anzi con molta perspicacia, mette in luce il legame che passa fra difesa del suolo e sviluppo urbanistico delle città, non solo là dove sottolinea i limiti che ad un razionale sviluppo urbanistico e ad una razionale sistemazione del suolo sono imposti dalla necessità di rispettare fino all'assurdo i diritti della proprietà privata, ma là dove rivendica una sistemazione globale dei problemi dell'assetto territoriale del paese e la loro assoluta priorità nell'ambito della programmazione economica.

Ho voluto fare questa premessa per sottolineare, signor Presidente, come l'affare di Agrigento sia più che mai attuale, anche dopo e, anzi, soprattutto dopo i tragici eventi del 3, 4 e 5 novembre. Guai a noi se i responsabili dei fatti di Agrigento dovessero essere, onorevole Zaccagnini, “amnistiati per alluvione”, cioè dovessero beneficiare, oltre che del sistema di omertà, politica dal quale sono stati fin qui anche troppo favoriti, anche di una distrazione dell'opinione pubblica! Vorrei prendere a nome del mio partito l'impegno che, per quanto ci riguarda, questa distrazione dell'opinione pubblica non ci sarà. Guai a noi se non traessimo con maggiore energia, proprio dopo l'alluvione, tutta la lezione che dai fatti di Agrigento va tratta! E dico guai a noi, sebbene, purtroppo, nel modo con cui il Governo fino a questo momento ha mostrato di volersi muovere di fronte al fatto di Agrigento e di fronte alle questioni della difesa del suolo messe così tragicamente in luce dall'alluvione, sembra che siamo ancora ben lontani da una sia pur iniziale presa di coscienza della entità e della qualità del problema.

Ciò premesso, sono convinto che questa nostra discussione può non essere e, anzi, non deve essere una ripetizione di quella già del resto così autorevolmente svoltasi al Senato, ma deve prendere le mosse proprio da quelle conclusioni per vedere se gli impegni là assunti sono stati mantenuti, per vedere quali altri impegni è necessario assumere, e infine, e soprattutto, per controllare se si è manifestata nel Governo, nella democrazia cristiana e negli altri partiti di maggioranza la volontà politica di fare veramente giustizia, cioè di colpire, ora che la fase degli accertamenti è esaurita, i veri responsabili di quanto è accaduto ad Agrigento, e di iniziare ad Agrigento e in Sicilia la necessaria opera di risanamento politico e amministrativo dando, almeno là, un colpo esemplare non solo alla speculazione e alla politica di rapina delle nostre città, ma al malgoverno e alle connivenze politiche che tali speculazioni hanno tollerato, e favorito, alla omertà politica che tale malgoverno ha protetto e ha fatto prosperare.

Questo secondo aspetto è di vitale importanza perché, rappresentando certamente Agrigento un punto limite non soltanto del disordine edilizio ed urbanistico ma anche del malgoverno, della mancanza di giustizia nell'amministrazione, sarebbe veramente un fatto pieno di conseguenze drammatiche per le nostre istituzioni, per la Repubblica, per il costume del nostro paese, se proprio ad Agrigento e dopo Agrigento nulla dovesse accadere, come, a quattro mesi e più dalla frana e a due mesi ormai da precise rivelazioni in proposito, pressoché nulla sul piano delle responsabilità amministrative e politiche è accaduto.

Orbene, proprio perché la nostra discussione può e deve rappresentare, un passo avanti rispetto a quella svoltasi al Senato, debbo porre al ministro Mancini una questione pregiudiziale. Nel suo discorso al Senato ella, onorevole Mancini, ammise che nel dibattito erano state sollevate questioni politiche di carattere generale alle quali ella, pur riconoscendone la validità e la legittimità, non poteva dare una risposta, perché questa spettava a d un interlocutore più adatto per competenza istituzionale e politica.

Io penso che ella si riferisse all'uomo che, secondo la Costituzione, è il coordinatore e il responsabile politico del Governo: al Presidente del Consiglio. Ebbene, onorevole Mancini, ha ella avuto il mandato di rispondere di fronte alla Camera su queste questioni più generali? 0, se ella tale mandato non ha avuto (e non gliene faccio colpa), che cosa significa l'assenza del Presidente del Consiglio? Significa forse – vorrei richiamare su questo fatto anche l'attenzione del Presidente della nostra Assemblea – che alla fine di questo dibattito ci si verrà a dire (e, ripeto, non nefaccio un'accusa personale al ministro Mancini) che il ministro Mancini ci risponderà soltanto sugli aspetti edilizi ed urbanistici della questione?

Ho voluto porre la questione all'inizio della discussione (e per questo mi riferisco anche a lei, signor Presidente della nostra Assemblea), perché credo che il Governo debba decidere il suo atteggiamento e far sapere alla Camera qual è l'orientamento che di fronte a questa questione intende assumere prima della fine del dibattito.

Naturalmente, non posso non avvertire che già questo fatto fa pensare al nostro gruppo, come coerente sviluppo della posizione da noi presa – certamente tutti lo ricordano – il 4 agosto in questa Camera, che dovremo cercare altri sbocchi a questa discussione, sbocchi che consentano di toccare quelle questioni politiche che il Governo sembra qui deciso ancora una volta ad eludere.

Fatta questa pregiudiziale, riprenderò lo svolgimento del mio intervento secondo lo schema logico che avevo preannunciato, vale a dire partendo dagli impegni assunti dal Governo al Senato per verificare quali di essi siano stati mantenuti, quali non mantenuti e quali altri ancora noi sollecitiamo.

Il.ministro Mancini si impegnò allora (non riferisco questi impegni in ordine di enunciazione) in primo luogo ad emanare subito alcuni provvedimenti di emergenza volti a modificare e ad integrare le norme vigenti sulla legislazione urbanistica; in secondo luogo a presentare al Parlamento, entro il 30 novembre, Ia legge urbanistica.

Orbene, dopo un mese e mezzo il Consiglio dei ministri ha formulato, se non erro venerdì scorso, alcuni di questi cosiddetti provvedimenti di emergenza, che fin dall'inizio abbiamo riconosciuto positivi e sui quali non abbiamo sostanziali osservazioni da fare, salvo una: perché il Governo, che così spesso è stato solerte nell’adoperare lo strumento del decreto-legge quando poteva farne a meno, non lo ha adoperato per questi provvedimenti che, mirando ad integrare norme già vigenti nella legislazione, con il proposito evidente di frenare gli abusi, presentavano e presentano indubbiamente carattere di urgenza? Ha invece preferito un iter che, particolarmente per le questioni urbanistiche, sappiamo quanto lento, faticoso e difficile a concludersi sia stato e sia nel nostro Parlamento. Nel dire questo naturalmente è implicito un impegno preciso del nostro gruppo ad approvare al più presto, a tamburo battente, questi provvedimenti.

Inoltre: che cosa intendono essere questi provvedimenti? Qui la questione cambia. È molto strano che uno dei vicesegretari del partito socialista unificato abbia cominciato a parlare di “stralcio” di legge urbanistica. Capisco che l'onorevole Brodolini non è obbligato ad essere competente nella materia; è però una questione, onorevole Tanassi, così delicata, che bisognerebbe essere prudenti nel linguaggio. Questi provvedimenti, infatti, non riguardano affatto quello che deve essere l'oggetto di una legge urbanistica. Essi intervengono per cercare di frenare abusi nell'applicazione dei piani regolatori, mentre la legge urbanistica deve fissare i criteri, gli strumenti per determinare quale tipo di indirizzo urbanistico noi vogliamo imprimere allo sviluppo delle nostre città.

Quando sarà pronto il disegno di legge urbanistica, onorevole Mancini? Ella si era formalmente impegnato per la scadenza del 30 novembre scorso. Noi abbiamo seguito tutta la questione di Agrigento, non lesinando i riconoscimenti che alla sua attività devono essere dati: questo era anche uno dei motivi per cui al Senato non demmo un giudizio completamente negativo alla conclusione di quel dibattito.

Chiedevo: quando verrà dunque questa legge urbanistica? Uno dei suoi sottosegretari, l'onorevole de' Cocci, forse anche lui, onorevole Tanassi, imprudente nel linguaggio...

[omissis]

Non si tratta di terminologia, ma del fatto che l'onorevole d'e' Cocci, conversando con i giornalisti, ha detto che ormai bisogna approvare questi provvedimenti perché della legge urbanistica si potrà parlare solo nella prossima legislatura.

Se non mi inganno, siamo di fronte ad una delle questioni di politica generale che sarà inevitabile sollevare in questo dibattito. Si dice che in questi giorni si stia sviluppando tra i partiti della maggioranza una certa verifica, per lo meno per stabilire il calendario di applicazione del programma di Governo. Quale posto ha in questa verifica la legge urbanistica? La maggioranza, i partiti che ne fanno parte, il Governo, devono dire al Parlamento, nel corso di questo dibattito, la verità su questa questione fondamentale.

È venuto di moda, signor Presidente, negli ultimi tempi – ella lo avrà notato – il gusto di cercare di scaricare su tutta indistintamente la burocrazia italiana la colpa delle cose che non vanno nel nostro paese, dicendo che non abbiamo una burocrazia, ma una “lentocrazia”. Ma io penso, in verità, che almeno nel caso di Agrigento non siamo di fronte a una “lentocrazia”: funzionari dello Stato come il Di Paola, l'ufficiale dei carabinieri Barbagallo, il professar Martuscelli (nonostante le contumelie che contro di lui sono state scagliate), come l'ispettore dell'assessorato agli enti locali della regione siciliana, Mignosi (autore di una relazione d'inchiesta di cui parlerò di qui a poco), hanno ben meritato dell'opinione pubblica. Se ella, signor Presidente, presiedesse la Convenzione giacobina, io proporrei di decretare la corona civica per questi funzionari...

[omissis]

....per questi coraggiosi e onesti funzionari e per quel coraggioso e onesto ufficiale dei carabinieri, che hanno dimostrato, nel corso di tutta questa vicenda, sensibilità appassionata per la verità e per la giustizia.

[omissis]

Ad ogni modo, per quanto riguarda la legge urbanistica, può parlarsi di governo-lentocrazia, perché anche qui siamo di fronte a una precisa responsabilità dei governi (e, purtroppo, onorevoli colleghi della maggioranza e onorevoli colleghi socialisti, del centro-sinistra), i quali sono stati incapaci, durante questi quattro o cinque anni, da quando il centro-sinistra esiste, di avviare una discussione in Parlamento sulla legge urbanistica. è bene infatti chiarire che la responsabilità di questa inerzia risiede interamente nella mancanza di una precisa volontà politica del Governo e della maggioranza, mentre nessuna colpa può ascriversi al Parlamento (nonostante questo sia ormai d'uso da parte di alcuni uomini politici, non soltanto della democrazia cristiana).

Questo è tanto più grave in quanto, come ho detto prima (di qui il mio riferimento non occasionale, non retorico, alle alluvioni), i problemi della difesa del suolo, dell'assetto territoriale del nostro paese, sono oggi venuti in primo piano. Qui purtroppo devo dire, onorevole Mancini, che anche il suo due volte collega Pieraccini (in quanto ministro e in quanto membro del suo stesso partito) ha tanto parlato in.questi ultimi giorni di logica di piano, mia non ci ha spiegato bene come mai nella logica di piano, di un piano che deve essere attuato in un paese che ha le caratteristiche fisiche del nostro, il problema della pianificazione territoriale non sia concepito come il punto di partenza di tutto un programma di sviluppo. E quando parlo di pianificazione territoriale mi riferisco anche al problema degli squilibri laceranti esistenti, nella compagine del nostro paese, nella distribuzione delle forze produttive e all'accentuarsi di questi squilibri che, come sappiamo – se vogliamo ragionare con animo aperto davvero alla logica – sono alla base anche del disordine urbanistico, anche del dissesto così grave manifestatosi nel suolo.

Dunque, per quanto riguarda, onorevole Mancini, gli impegni assunti – meglio: per quanto riguarda le conseguenze da trarne sul piano edilizio ed urbanistico - ad un mese e qualche giorno dalla conclusione del dibattito al Senato noi siamo in una situazione tutt'altro che tranquillizzante quando già sono scaduti i termini che per l’ennesima volta il Governo aveva posto per la presentazione della legge urbanistica; siamo in particolare di fronte (mi riferisco qui a tutta la recente discussione sul piano di sviluppo economico) ad una visione dei problemi della pianificazione territoriale, dell'assetto territoriale del paese, che ci trova profondamente contrari e soprattutto ci lascia profondamente preoccupati: cosa diversa e grave, perché la nostra preoccupazione è molto sentita e purtroppo, riteniamo, giustificata dalla realtà dei fatti.

[omissis]

Noi abbiamo atteso già troppo: per questo alla fine di questo dibattito noi chiederemo impegni precisi in questo senso, oltre che sul problema che ho toccato nella prima parte del mio intervento, anche per quanto concerne la legge urbanistica. Qualora voi non ci deste una risposta precisa, sarà inevitabile porre di fronte al Parlamento il problema di un'inchiesta parlamentare. Noi abbiamo riluttato di fronte a questo, perché ci sembrava una inchiesta superflua dinanzi alla chiarezza della inchiesta Di Paola-Barbagallo e di quella Martuscelli. Ma se il Governo, se i partiti di governo non traggono le conseguenze politiche di quanto queste inchieste hanno posto in luce, bisogna che almeno sia posto di fronte al Parlamento (poi vedremo il risultato di questo fatto) il problema che sia il Parlamento stesso ad indicare le conseguenze politiche che dai fatti di Agrigento bisogna trarre.

[omissis]

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