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In allegato, anche il testo del D. lgs. 42/2004, nella versione aggiornata ai D. lgs.i 156/2006 e 157/2006 (formati .doc e .pdf)

INDICI

Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156

Art. 1 - Modifiche alla Parte prima

Art. 2 - Modifiche alla Parte seconda

Art. 3 - Modifiche alla Parte quarta

Art. 4 - Modifiche alla Parte quinta

Art. 5 - Modifiche all'Allegato A

Art. 6 - Abrogazioni

Decreto Legislativo 24 marzo 2006, n. 157

Art. 1 - Modifiche all'articolo 5 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 2 - Modifiche all'articolo 6 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 3 - Modifiche all'articolo 131 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 4 - Modifiche all'articolo 134 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 5 - Sostituzione dell'articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 6 - Modifiche all'articolo 136 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 7 - Sostituzione dell'articolo 137 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 8 - Sostituzione dell'articolo 138 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 9 - Sostituzione dell'articolo 139 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 10 - Sostituzione dell'articolo 140 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 11 - Sostituzione dell'articolo 141 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 12 - Sostituzione dell'articolo 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 13 - Sostituzione dell'articolo 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 14 - Modifiche all'articolo 144 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 15 - Modifiche all'articolo 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 16 - Sostituzione dell'articolo 146 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 17 - Modifiche all'articolo 147 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 18 - Sostituzione dell'articolo 148 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 19 - Modifiche all'articolo 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 20 - Modifiche all'articolo 150 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 21 - Modifiche all'articolo 152 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 22 - Modifiche all'articolo 154 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 23 - Modifiche all'articolo 155 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 24 - Sostituzione dell'articolo 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 25 - Modifiche all'articolo 157 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 26 - Sostituzione dell'articolo 159 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 27 - Sostituzione dell'articolo 167 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 28 - Modifiche all'articolo 181 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 29 - Modifiche all'articolo 182 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Art. 30 - Modifiche all'articolo 183 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42

Piccolo comune ai margini della conurbazione milanese, Cassinetto non è importante solo per il ruolo che assunto nella battaglia per la difesa dei parchi. Lo è anche per la politica urbanistica che ha saputo coraggiosamente praticare. Fabrizio Bottini ne parla più ampiamente sul sito di Carta. Voglio sottolinearne un aspetto. Il sindaco ha ottenuto l’approvazione di un piano urbanistico (PGT) a crescita zero. Un risultato eccezionale in una situazione nella quale i comuni sono ormai spinti a “monetizzare” il territorio per finanziare le spese correnti: da alcuni anni infatti centrodestra e centrosinistra hanno spinto a dirottare verso le spese correnti i proventi degli oneri di urbanizzazione, vincolati dalle leggi che li istituirono a realizzare i servizi collettivi e il verde (Carta, 1/2008). Attraverso riunioni e assemblee, la Giunta ha fatto passare il principio che le nuove opere pubbliche necessarie sono realizzate per mezzo di nuove tasse. Di fronte al dilemma: “se vuoi la scuola materna, preferisci realizzarla con ulteriore espansione edilizia o maggiori tasse?” non c'è stata, ha scritto il Sindaco, “la levata di scudi in nome dello slogano meno tasse per tutti”. Hanno vinto l’interesse comune e la responsabilità verso il futuro.

Un suggerimento per quei propugnatori dell’ ”ambientalismo del fare” che girano l’Italia nel variopinto autobus. Sarebbe bello se si impegnassero a combattere, insieme ad altri più convinti sostenitori dell’equilibrio tra comune e individuale e tra pubblico e privato, per ripristinare la regola secondo la quale chi trasforma il territorio e ci guadagna paga il prezzo delle opere necessarie per compensare il nuovo impatto sociale e ambientale. Appunto, gli “oneri di urbanizzazione e costruzione”, saggiamente previsti dalle leggi della Prima Repubblica.

Il numero chiuso con relativo ticket a Bidderosa fa scuola, tanto che Orosei estende la formula anti-assalto ad altre spiagge da tutelare. Da alcuni anni nei 500 ettari dell'oasi naturalistica (cinque cale incastonate nel bosco), Comune e Ente foreste collaborano per tutelare l'ambiente e garantire un minimo di servizi ai visitatori. Un modello vincente, come dimostra la risonanza internazionale rimbalzata anche sul New York Times, messo a punto nel tempo e affinato nel dialogo tra istituzioni, fino all'ultimo accordo tra l'organismo regionale e gli amministratori locali che ha sancito l'affidamento della gestione degli accessi al Comune di Orosei, attraverso la Pro loco. Ogni giorno possono entrare nell'oasi fino a un massimo di 130 autovetture per un costo di dieci euro (12 dal 21 luglio al 20 agosto), cinque euro per le moto e due per le biciclette. Biglietti che i visitatori pagano senza protestare anche perché hanno a disposizione alcuni servizi (tavoli da pic-nic, bagni, bidoni per la spazzatura) e, soprattutto, sanno che in base alla convenzione con il Comune, l'Ente foreste reinveste il 30 per cento delle somme incassate in progetti di miglioramento. Il modello di sviluppo turistico ecosostenibile nell'oasi di Orosei ha già dato i suoi frutti e gli amministratori del centro baroniese, hanno deciso di estenderlo alle pinete e alle spiagge di Sa Curcurica e di Su Barone, due zone da sempre al centro dell'assalto incontrollato dei bagnanti da salvaguardare urgentemente perché dichiarate siti di interesse comunitario e inserite nella rete europea “Natura 2000”. Un provvedimento «a carattere provvisorio e sperimentale» entrato in vigore tra non poche polemiche soprattutto tra i residenti e chi ritiene che si tratti solo di un modo di far cassa. Accusa respinta dagli amministratori che, proprio nel nome della tutela, hanno previsto un tetto massimo: 250 auto e 125 moto a Sa Curcurica, 850 auto 400 moto negli oltre cinque chilometri della pineta che costeggia il mare a Su Barone (regno del campeggio abusivo), Su Petrosu e Avalè. Non pagano pedoni e ciclisti, mentre, con cifre dimezzate per i residenti, gli automobilisti forestieri dovranno versare quattro euro e i centauri due. Oltre a calmierare gli accessi, si punta molto anche sulla regolamentazione dei parcheggi. Le areesosta,infatti, scongiureranno i parcheggi selvaggi in pineta, a ridosso delle spiagge e, addirittura, nelle dune, con benefici diretti sulla prevenzione degli incendi e l'accesso dei mezzi di soccorso. «Non a caso le chiamiamo misure di salvaguardia ambientale, ma nei limiti del possibile cercheremo di offrire qualche servizio», spiega il sindaco di Orosei Gino Derosas, soddisfatto per i primi risultati «anche se ogni novità deve essere metabolizzata». I nuovi barbari, camper compresi, rischiano però di spostarsi impunemente a Siniscola dove, salvo che a Berchida (confinante con Bidderosa), anche questa estate non ci saranno regole e ticket. Soprattutto nelle dune di Capo Comino già negli anni scorsi non sono mancate le segnalazioni di mezzi in transito e sosta nelle dune aggravate anche da episodi di campeggio abusivo. Il rischio di un notevole aumento delle presenze dai centri vicini non sfugge al sindaco Lorenzo Pau: «Siamo intenzionati recuperare il tempo perduto - dice il primo cittadino di Siniscola - credo però si debba procedere tutti insieme accelerando sul piano di utilizzo dei litorali, come vuole la Regione, detti regole omogenee a Orosei, Siniscola e Posada». Una svolta invocata anche da Orosei dove, aspettando gli altri Comuni, è stata avviata una sperimentazione destinata forse a diventare un altro modello-Bidderosa. «L'anno prossimo», conclude Derosas lanciando un preciso segnale politico, «il piano di gestione intercomunale deve essere pronto e con largo anticipo sulla stagione turistica per consentirci di offrire tutti i servizi necessari».

Il Centrodestra ha raggiunto il numero di firme sufficienti per avviare il referendum ( forse due) contro il regime di protezione del paesaggio costiero realizzato dal governo Soru in questi anni (per questo il Piano paesaggistico sardo è gratificato da riconoscimenti di organismi europei e internazionali.

Succede in Sardegna che ci siano forze politiche berlusconizzate, che non si curano di questo, e si mobilitano per fare più volumi ( “lotte dure per altre cubature” – ha scritto eddyburg di recente). Succede che le forse politiche del Centrosinistra non siano tutte fermamente decise a consolidare il progetto di tutela.

Ma anche, e per fortuna, capita che ci siano comuni che tengono duro per conservarli intatti i paesaggi unici che hanno in consegna, e in questo caso è bene sottolinearla la straordinarietà.

Si tratta del compendio Curcurica-Biderrosa in Comune di Orosei, provincia di Nuoro, nella costa orientale, a sud della Gallura (del Billionaire e di villa Certosa, direbbero sbrigativamente a Rete4). Un luogo che ho visitato in condizione di assoluto privilegio, con tanto di guida esperta, dato che collaboro con l’ amministrazione per mettere a punto il Piano urbanistico ( mi sono sentito corrispondente, su un altro registro, a quei fortunati conservatori- restauratori che possono toccare le pareti e le tele dipinte dai grandi maestri del Rinascimento).

E’ un ambiente privo di case – innanzitutto; e questa è di per sé una condizione di privilegio che la Sardegna; caratterizzato dalla presenza di stagni a ridosso del mare, che devono la loro origine al divagare lento dei rispettivi corsi d’acqua, in prossimità della foce, approfittando della speciale depressione di retrospiaggia. Il fenomeno è legato a particolari condizioni che per come le descrivono gli studiosi (i bassi valori di portata dei torrenti ed le modeste dimensioni dei bacini imbriferi) potrebbero apparire sfavorevoli condizioni. Luoghi nel passato stramaledetti, perché da qui venivano le malattie prima del Ddt americano, dato in quantità enormi pure da queste parti.

Questo luogo è rimasto fuori dai riti della balneazione: non ci sono case, nè rotonde sul mare e c’è silenzio ( anche il silenzio è una bella differenza).L’unico artificio a monte è per mano di caprai di un altro tempo, un ovile che avrà all’incirca trecento anni. E allora si capisce perché i miei amici del posto siano preoccupati che i pochi ombrelloni sulla spiaggia possano diventare molti di più.

La linea di difesa intransigente di quel paesaggio, che è pure un Sito di interesse comunitario, dove si vedono i fenicotteri e gli aironi rossi al tempo giusto, si è ormai consolidata; e su questo la classe politica locale conviene nella sostanza, tanto che non ha mai ceduto alle richieste, pure recenti, di “mettere a frutto” queste splendide risorse di proprietà comunale (!) in cura alll’Ente foreste della Regione.

Chi vuole avere un’idea di com’era la Sardegna prima di “Sapore di sale” deve vedere luoghi come questi: può fare una visita da queste parti, avendo cura di prenotare nella stagione estiva, perché l’accesso è consentito a non più di centoventi automobili e venti moto e non si fanno eccezioni. Biderrosa spiega la Sardegna che non compare sui giornali: perché non ci sono vip in giro e ricche ville di cattivo gusto. E sarà facile per chi vorrà venire da queste parti, capire perché il referendum – che mira a omologare luoghi come questo agli standard dei villaggivacanze – deve essere contrastato.

Si deve fare capire, ne devono essere consapevoli le forze di sinistra, che una controriforma, a partire dalla Sardegna, potrebbe nei prossimi anni mettere a rischio ambienti come questi. L’attacco ai programmi di tutela del paesaggio costiero sardo non è nell’interesse delle comunità locali, come qualcuno potrebbe credere, ma a sostegno di interessi di pochi a trasformare in merce luoghi preziosi, specialmente per le generazioni future. La rendita è il motore vero dell’attacco ai beni comuni.

La spiaggia di Biderrosa,nell'immagine, è una foto di Francesco Luche, ed è tratta dal sito del comune di Orosei

Premessa

Se volessimo sintetizzare le nostre esperienze urbanistiche a Napoli in questo primo secolo di unità nazionale, potremmo dire di aver conosciuto il ventennio dell'abbandono, fino all'80, quello dello sven­tramento fino al '900, quello delle bonifiche fino all'avvento del fascismo ed i conseguenti smantellamen­ti in pace ed in guerra, ed infine questi ultimi venti anni di progressiva disarticolazione con la benedizio­ne clericale.

In tutti questi lunghi anni di direzione quasi incontrastata della attuale classe dirigente la capitale del Mezzogiorno è stata ridotta ad un caos nel quale la maggioranza dei napoletani sopravvive solo per virtù della sua capacità di adattamento e del suo coraggio nelle lotte per la vita e la affermazione dei suoi diritti. Se la popolazione non deve sopportare le crisi acute delle epidemie dell'86 e del '19 o le distruzioni belliche del '14 e del '40, le sue sofferenze quotidiane non sono meno dure e senza alcuna giustificazione; tanto più intollerabili se paragonate all'accrescimento di ricchezza ed all'accentramento di benessere nelle mani di pochi gruppi di privilegiati i quali dirigono, nel quadro di tutta una politica di rapina, anche la programmazione economica e la pianificazione urbanistica nel loro egoistico interesse.

Denuncia

Dati statistici generali e considerazioni particolari documentano drammaticamente questa denuncia. Risulta infatti dagli stessi dati ufficiali del Comune che la durata media della vita dei lavoratori è di circa 20 anni inferiore a quella dei ceti possidenti, ed il loro reddito medio dieci volte minore.

Questo contrasto è direttamente visibile nei porticciuoli di Borgo Marinaro e di Mergellina dove nulla è mutato nella tradizionale miseria dei pescatori e dei barcaiuoli, mentre si sono moltiplicati in questi ultimi anni panfili e motoscafi, per valori di miliardi, e dove non a caso spiccano quelli delle nobili casate dei Lauro, dei Fiorentino, degli Ottieri, dei loro soci ed amici.

D'altra parte, tutte le categorie di cittadini pagano il prezzo del caotico sviluppo edilizio e l'arretratezza della rete stradale determinate dal prevalere della speculazione negli indirizzi programmatici della pubblica Amministrazione. Infatti, la riduzione della velocità media del traffico ed il forzato regime dei motori degli automezzi è causa di un maggior consumo di carburanti per un valore di circa 50 milioni al giorno. Va così disperso il reddito corrispondente ad un capitale di circa 200 miliardi che potrebbero essere utilmente investiti per l'ammodernamento delle opere di pubblica utilità.

I disagi provocati dal caotico sviluppo della città sono divenuti normale condizione di vita, grave per tutti, gravissima per i lavoratori e per i ceti ancora meno abbienti.

Centinaia di migliaia di napoletani escono di casa al mattino alla ricerca angosciosa di un minimo guadagno per sopravvivere. Migliaia di famiglie attendono, in alloggi fatiscenti fino al tardo pomeriggio, per sapere se sarà possibile fare la spesa o se sarà ancora necessario ricorrere allo scarso credito del bottegaio, o al pegno o all'usura. La sopravvivenza di costoro è legata ad un precario equilibrio ambientale, e quando vengono scacciati dal vicolo o dal quartiere per far posto alla speculazione edilizia, si profila in tutta la sua drammaticità lo spettro della fame.

Molti di questi napoletani si improvvisano artigiani, nei più vari e paradossali mestieri, e sono costretti spesso a lottare per incassare un modesto credito assai più che per la ricerca dello stesso lavoro. Anche peggiore è la condizione del contadino che coltiva il proprio pezzo di terra in un ambiente urbanistícamente ancora più arretrato. Egli è costretto a vendere i suoi prodotti a prezzi usurari, ma questo prodotto aumenta vertiginosamente il suo prezzo, passando per le mani di innumerevoli parassi­ti, nelle varie tappe della speculazione, contribuendo ad elevare il costo della vita senza che l'Ammini­strazione locale prenda nessuna delle iniziative che la legge le consentirebbe. Gli alti indici di disoccu­pazione, le incertezze e i disagi della emigrazione fanno poi spesso gravare sul bilancio delle famiglie che hanno la fortuna di un modesto reddito fisso il mantenimento del parente disoccupato o fornito di una pensione di fame.La incapacità di elaborare programmi razionali determina però il disagio maggiore nel campo della abitazione. Le carenze e gli sperperi in questo settore vengono accentuati dalla ubicazione fortuita dei nuovi quartieri, dalla mancanza dei servizi e delle opere pubbliche, dal caotico modo di produzione della edilizia. Trascorrono anni di stentati lavori per realizzare quartieri inabitabili, già vecchi e decrepiti prima ancora di essere occupati. A Fuorigrotta un quartiere INA, impostato con criteri relativamente più organici, viene squarciato da una strada di intenso traffico per favorire la speculazione edilizia privata realizzata alle spalle. A Soccavo, a Secondigliano, nella stessa zona di Fuorigrotta tra la ferrovia e la collina, le aree per i nuovi quartieri vengono scelte con evidenti criteri speculativi e si sviluppano come mucchi di case, in genere a molti piani, senza prevedere nessuno dei servizi essenziali al vivere civile. A Ponticelli le aree del nuovo quartiere vengono pagate non in base al loro primitivo valore di zone agricole, né a 1.200 lire a mq. secondo la richiesta dei proprietari, ma a 7.000 lire a mq. in base alle risultanze di una scandalosa perizia giudiziaria. l lavori si trascinano in questo quartiere per anni e si è costretti ad ubicare in maniera irrazionale un modesto Centro Sociale perché in base alle norme di esproprio si possono costruire solo vani di abitazione e non servizi, pena la retrocessione delle aree all'antico proprietario.

Questo per quanto riguarda le stentate realizzazioni della edilizia economica e popolare, mentre una lava di cemento trabocca dal Vomero verso i Colli Aminei, i Camaldoli e Soccavo, con volumi sproposi­tati, non solo senza programma urbanistico, ma in contrasto con la regolamentazione vigente, e senza alcuna previsione di attrezzature civili. La intera collina di Posillipo, sui due versanti di Fuorigrotta e del Golfo, denuncia iniziative incontrollate e l'intemperanza giunge fino alla approvazione di stralci partico­lari del Piano Regolatore bocciato per favorire particolari iniziative dei Cafiero, dei Russo e Scarano, dei Comòla.

Da molte zone della provincia, ancora più arretrate e disorganizzate, si spostano giornalmente a Napoli, con circolazione a carattere pendolare, altre masse in cerca di lavoro e molte decine di migliaia di famiglie emigrano stabilmente nella città. Sulla via Petrarca sorge un intero quartiere di aversani, mentre le famiglie dei militari della Nato hanno creato i loro quartieri a Posillipo, sulla via Manzoni, con proprie attrezzature scolastiche e sportive, per sopperire, come in un paese coloniale, alle deficienze locali.

Molta vecchia edilizia è pericolante per la impossibilità di manutenzione di gran parte della piccola proprietà, ma su questo nuovo dramma si innesta la speculazione che sfrutta pericoli reali o ipotetici per potersi accaparrare nuove aree nel centro urbano e disporne a suo piacimento; per invocare l'interesse pubblico di un maggior numero di nuovi vani allo scopo di violare le attuali norme edilizie ed accrescere gli illeciti arricchimenti. Pesa così, in misura ogni giorno crescente, sulla cittadinanza ed in modo particolare sui lavoratori il costo dell'alloggio o della bottega, annullando i risultati delle dure lotte rivendicative condotte per mesi per un adeguamento del salario reale. A questa situazione fa riscontro in maniera contraddittoria il disagio dei piccoli proprietari, numerosissimi a Napoli per il frazionamento della proprietà edilizia, vittime anch'essi, per altro verso, del disordine e dell'indirizzo speculativo della politica edilizia delle classi dirigenti.

Nella città si aggrava ancora un'altra situazione, in maniera sempre più appariscente. La circolazione il più delle volte è completamente paralizzata, e non solo nelle ore di punta del traffico. Eppure, si continua a tamponare le falle più gravi, solo con mutamenti quotidiani della segnaletica adattando alla meglio giorno per giorno i servizi pubblici su strada ordinaria e ferrata. Ma il piano di Ricostruzione della via Marittima resta incompiuto, ma il tracciato della Circumflegrea procede da quindici anni con lentezza esasperante, e la Piedimonte d'Alife, la Circumvesuviana, i vecchi pullman insufficienti conti­nuano a rappresentare l'incubo quotidiano di quanti sono costretti a servirsene. Ma l'ing. Vanzi si fa liquidare circa 70 milioni dalla Circumvesuviana ed affidare dal Volturno il progetto di metropolitana che dovrebbe, con il suo tracciato, sventrare ancora una volta per qualche anno la Riviera di Chiaia ed il Rettifilo, le sole strade disponibili oggi tra l'occidente e l'oriente della città.

A centinaia potrebbero elencarsi le inconcludenze e le speculazioni che nessuno ormai tenta più di nascondere e nemmeno di giustificare. Basterà citarne due. La Radiotelevisione spende 6 miliardi per un impianto a Fuorigrotta, in aree sottratte alla Mostra d'Oltremare, e che per la loro posizione non consentiranno di trasmettere direttamente spettacoli dal S. Carlo; ma esso rischia di non poter addirittu­ra funzionare perché ubicato di fronte ai nuovi laboratori dell'Istituto di Elettrotecnica che dovranno operare su alte tensioni di oltre 1.500.000 di Wolts. E la stessa nuova Sede della Facoltà di Ingegneria, cardine di ogni programma di industrializzazione del Mezzogiorno, si trascina nella fase esecutiva da oltre sei anni senza prospettive di rapido completamento di attrezzature proporzionate alle esigenze della ricerca scientifica moderna e dell'insegnamento. ll nuovo Palazzo di Giustizia viene ubicato secondo le scelte di un Commissario Prefettizio ed altri sei miliardi verranno investiti in una zona assolutamente errata dal punto di vista urbanistico e perfino contro il parere della attuale Commissione del Piano Regolatore.

Il volto di questa città esprime quindi la completa anarchia nel suo sviluppo economico ed urbanistico, sotto la spinta di una legge inesorabile, quella del massimo profitto. La speculazione edilizia ne è uno degli aspetti più evidenti, perché materializzata nel cemento e nel ferro, ma l'indirizzo generale della classe dirigente pesa anche in modo determinante sui costi di distribuzione, sulla alterazione del valore nutritivo degli alimenti, sconvolge tutto il settore dei prodotti farmaceutici, blocca il settore del credito ai limiti della usura e della discriminazione, fa crescere il costo della vita ogni giorno in modo più intollerabile.

La situazione è resa particolarmente grave dall'assetto di tipo precapitalistico ed addirittura feudale delle strutture economiche nel Mezzogiorno, dai contratti agrari ai rapporti nella fabbrica, ai processi distributivi. ll clientelismo democristiano e la camorra laurina sono possibili appunto su un tale terreno. Processi di questo tipo deteriore, che nel quadro della stessa economia liberista e di mercato sono stati stroncati da oltre un secolo in altri paesi capitalistici, si sviluppano ancora qui a Napoli contrastati solo dalla lotta inflessibile della classe operaia e dei suoi alleati. Si tratta spesso di aperte violazioni delle leggi stesse che sono a base del sistema.

Alcuni aspetti del fenomeno sono giunti a tale livello che anche certi settori della classe dirigente ritengono necessario un intervento. Di qui nascono i tentativi di razionalizzare i processi, senza toccare le basi del sistema. Così, fra incessanti contraddizioni, si cerca di sanare le situazioni più scandalose ed intollerabili con enunciazioni programmatiche, salvo a sabotare ogni pratica iniziativa, anche limitata­mente rinnovatrice, quando essa minaccia qualche gruppo di interessi particolari. Così avviene per le municipalizzazioni, dove servizi essenziali vengono riconsegnati nelle mani della speculazione attraver­so la scelta dei nuovi dirigenti fedeli al sistema, così per la pianificazione urbanistica, dove alla iniziativa formale non fa seguito alcun impegno continuativo e deciso per stroncare la speculazione, dove i Piani democraticamente elaborati e talvolta perfino approvati non vengono adottati dagli organi periferici di un governo che vanta la programmazione come base dei suoi programmi. Né questo può sorprendere in uno schieramento politico che non ha la capacità ed il coraggio di realizzare i propri programmi, di affrontare i gruppi più conservatori e rinvia da anni le leggi fondamentali sull'ordinamen­to regionale, sulla disciplina della attività urbanistica, sulla riforma agraria, su quella degli Enti Locali, rifiutando la collaborazione del possente movimento rivendicativo dei lavoratori ed anzi contrastando in ogni modo la spinta rinnovatrice che viene da ogni parte del paese.

Cause

Tra le cause principali di questo processo di degradazione della città è la proprietà privata del suolo e tutta la catena di speculazioni che questa disponibilità suggerisce, sia nel caso di proprietà diretta, dentro e fuori i limiti consentiti dalla legge, sia nel caso di acquisizione della disponibilità di suolo pubblico attraverso l'uso del potere nelle pubbliche Amministrazioni.

Come esempio del primo caso, si hanno fatti quali la autonomia da qualsiasi Regolamento Edilizio, da oltre 40 anni, di una intera zona della città, alla radice della collina di Posillipo, proprietà privata di una famiglia che maschera appena i suoi interessi sotto la sigla di Società Partenopea Edilizia Moderna Economica, una modernità che opera in regime quasi feudale di concessione, una economia che ha fruttato agli interessati parecchi miliardi di lire.

Come esempio del secondo caso vi è la sottrazione dell'intero arenile di Mergellina al lavoro produttivo dei pescatori per concederlo alla speculazione dei pescivendoli, dei locali di trattenimento, delle linee di navigazione di lusso del Golfo. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda la caotica promiscuità degli altiforni e del Cementificio con la edilizia multipiani nella zona dell'llva di Bagnoli; per la iniziativa napoletana dell'lng. Foddis, divenuto famoso per lo scandalo romano della Teti, di costruzione dell'edifi­cio della Società Esercizi Telefonici, un nuovo blocco di cemento in sostituzione dell'ultima zona verde di Monte Echia, un suolo di cui sarà interessante conoscere il nome del proprietario ed il prezzo di acquisto.

In nessun caso il carattere sociale della produzione è più marcato come nell'aumento di valore dei suoli urbani attraverso il lavoro di tutta una collettività, né l'odioso carattere privato della appropriazione più evidente come quando al massimo profitto consentito dalle leggi economiche capitalistiche si aggiunge un ulteriore guadagno, ricavato dalla complicità e dalla corruzione dei poteri pubblici nell'infrazione delle leggi e dei regolamenti vigenti, nel sabotaggio delle norme in corso di elaborazione.

Uno degli aspetti più caratteristici di questa azione è lo stato di arretratezza di tutta la cartografia, per la quale sono pur state spese decine di milioni. Si può certamente affermare che Napoli manca di una cartografia aggiornata perché talune precisazioni di confini sono di ostacolo all'azione di chi ha interes­se di operare sull'equivoco. Infatti, una delle prime azioni della Amministrazione laurina fu quella di distruggere materialmente tutta la documentazione approntata con grandi sacrifici nella formulazione del Piano del '46, perfino un plastico altimetrico della città ed il rilievo del sottosuolo, così importante per la sicurezza dell'edilizia e per la soluzione di alcuni problemi essenziali della circolazione.

Tutto questo spiega l'accanimento ad affossare il Piano Regolatore di Napoli che la Amministrazione unitaria uscita dai Comitati di Liberazione pose a base dei suoi programmi nel '46 per promuovere una rapida ed ordinata ricostruzione, per avviare la realizzazione di una città modernamente attrezzata per un radicale cambiamento del vivere civile, per creare uno sbarramento alle prevedibili aggressioni della speculazione sulle aree fabbricabili. Per far risorgere una città ordinata e moderna dalle rovine della guerra fascista, quel Piano prevedeva 70 miliardi all'anno, per 12 anni, razionalmente investiti e demo­craticamente controllati. 640 sono stati i miliardi investiti a Napoli dai gruppi speculativi facenti capo ai gruppi monarchici e democristiani, per disarticolare una città, comprometterne gli sviluppi futuri e non affrontare nessuno dei suoi problemi di fondo. Oltre 50 miliardi sono stati intascati dai proprietari delle aree fabbricabili che niente avevano fatto per guadagnare una tale immensa ricchezza.

Ma se è così evidente la sofferenza dei cittadini costretti tuttora a vivere nei tuguri e nelle baracche, se la durata stessa della loro vita è ridotta rispetto al resto della cittadinanza, non meno doloroso è il calvario giornaliero dei lavoratori che debbono usare di una rete di trasporti pubblici frammentaria ed insufficiente. Si tratta di linee gestite da privati in modo tanto inadeguato da aver determinato vere e proprie sollevazioni popolari da parte di utenti esasperati. Ma non solo queste linee date abusivamente in concessione sono motivo di disordine e di disagio. Anche quelle a gestione pubblica sono a tal punto condizionate dall'intervento di interessi privati, in particolare per la manutenzione ed i criteri generali di amministrazione, da rappresentare nella vita quotidiana dei lavoratori, già tanto dura a sopportare, i due periodi più dolorosi, all'alba ed alla fine della giornata.

Infatti, nessun tentativo è stato fatto per unificare gli orari e le tariffe di tutta la rete dei trasporti pubblici, delle Ferrovie dello Stato, dell'Ente Autonomo Volturno, del Comune, per quanto riguarda il risparmio del tempo libero, la salute, l'incidenza sul salario dei lavoratori.

In questa situazione esaminiamo quale è la linea di condotta degli attuali responsabili politici ed amministrativi di questo stato di cose.

Essi non possono sfuggire alla discussione su tali gravi argomenti, ma tendono a spostarla sul piano puramente tecnicistico, mentre la programmazione economica e la pianificazione urbanistica sono scelte politiche interdipendenti, vincolative a tutti i livelli delle strutture e degli sviluppi. Questo non può essere ignorato dagli esperti che a tali opere sono chiamati a dare il loro contributo. Questo non è mai ignorato dai responsabili della direzione politica ed amministrativa i quali fanno le loro scelte con obiettivi precisi ed in tal senso precostituiscono i gruppi di lavoro disposti alla collaborazione.

Le ragioni della proprietà del suolo condizionano tutta la vita economica e culturale, dalla scelta degli investimenti, agli indici di occupazione, agli indirizzi della scuola. L'intera città compromette il suo aspetto e l'ambiente nel quale si era formata nel tempo, e si degrada per rispondere alle scelte della appropriazione.

A questo processo, di cui non riescono a nascondere gli effetti disgregatori, gli avversari non sanno opporre che vaghi impegni programmatici per qualche concentrazione di investimenti con l'intervento dei Monopoli Industriali, nei settori di massimo profitto, per i quali hanno inventato la denominazione di Poli di Sviluppo.

Su dati imprecisi ed ormai superati per il mutare della situazione, su cartografie non aggiornate è stato elaborato un meccanismo di sviluppo della economia campana e sono state indicate le prospettive di espansione della occupazione e del reddito nella Regione. Ma, essendo partiti non dalle aspirazioni delle popolazioni campane e dalle loro capacità, ma dai limiti degli investimenti che sono disposti a fare in questa Regione, vengono non indicati nemmeno sulla carta programmi di piena occupazione ma si teorizza sulla necessità di una emigrazione forzata di oltre 450 mila abitanti senza neanche precisare dove si trovano le nuove fonti di lavoro per questi cittadini.

Di fronte ad una tale insostenibile promessa, di fronte alla reazione dei lavoratori, gli industriali non hanno potuto sostenere un tal Piano e lo anno formalmente abbandonato, senza peraltro sostituirlo con nuovi programmi, mostrando di voler insistere nella loro intenzione di dare mano libera ai Monopoli e di non prevedere nessun intervento massiccio delle industrie a partecipazione statale.

E così si continua a procedere sulla stessa strada attraverso i programmi dei Consorzi indicati dalla Legge proroga per la Cassa per il Mezzogiorno, e delle relative Aree di Sviluppo Industriale, facendo di nuovo venire dall'alto scelte fortuite, intese solo a potenziare quelle già fatte nelle varie zone in modo discontinuo e speculativo, con programmi di insediamenti industriali che non avranno nessuna funzione di serio incentivo regionale perché non tengono alcun conto della situazione generale degli altri settori produttivi, sopratutto della agricoltura, e non considerano né la necessità economica, né gli impegni costituzionali di profonde riforme di struttura.

A questo punto occorre ribadire ancora una volta i criteri che il Partito Comunista pone a base, anche nella nostra città, di una pianificazione urbanistica democratica.

Elementi di Alternativa

Poiché tutti i limiti ed i mali provengono dal sistema della proprietà dei suoli urbani, noi ci battiamo per concrete misure intese a realizzare la nazionalizzazione del suolo. A questo fine tende la proposta di legge dei nostri parlamentari sulla disciplina della attività urbanistica. Essa precisa come elementi fondamentali, ai quali non è possibile rinunciare, il rapporto di interdipendenza tra programmazione economica e pianificazione urbanistica, onde garantire alle pubbliche Amministrazioni gli strumenti necessari a determinare le caratteristiche strutturali dello sviluppo e la loro traduzione in Piani Territo­riali. Questa proposta indica inoltre la dimensione regionale come punto di incontro tra le scelte di carattere nazionale e quelle di carattere locale, facendo assumere a tutta la materia urbanistica la funzione di centro democratico di elaborazione e direzione dei processi di sviluppo. La proposta di legge suggerisce infine un radicale intervento pubblico per eliminare l'appropriazione privata dell'incre­mento della rendita urbana derivante dalla spesa pubblica.

Vi sono dunque premesse di fondo che hanno le loro radici fuori del territorio comunale. Infatti, abbiamo dati sufficienti per conoscere le condizioni di arretratezza o di sviluppo in quelle zone del territorio in cui l'attività produttiva prevalente resta quella agricola. Lo studio degli insediamenti resta quindi legato alla scelta delle strutture capaci di condizionare le trasformazioni colturali, gli incrementi di produzione, i collegamenti tra produzione e consumo, è condizionato dalla gradualità degli investi­menti necessari per riproporzionare la distribuzione della popolazione attiva su un territorio più vasto di quello comunale, degli addetti tra i nuovi ed i tradizionali settori di produzione, anche allo scopo di predisporre una razionale rete di viabilità, principale e minore, per gli spostamenti pendolari delle masse lavoratrici di tutto il territorio che gravita intorno al centro urbano, per evitare gli attuali sperperi e le improvvisazioni.

Inoltre, va tenuto conto delle esigenze di concentrazione della produzione industriale in zone determina­te, adeguatamente attrezzate e collegate con le fonti di materie prime, con la distribuzione della popolazione, con i nodi di smistamento dei mercati di consumo interni, locali e regionali, verso le correnti di esportazione.

Ma queste zone non devono essere intese come poli di sviluppo intorno ai quali vengano abbandonate al loro destino altre zone storicamente arretrate e depresse, nelle quali più impegnativi e di reddito meno immediato possano risultare gli investimenti.

Ed ancora, insieme all'analisi dello sviluppo di queste attività produttive, in zone particolari, vanno considerati anche i mezzi a disposizione dei centri urbani per contribuire al contemporaneo sviluppo della produzione a carattere artigiano, la quale si è dimostrata perfettamente idonea, in una economia moderna, allo sviluppo delle sue capacità produttive senza rinunciare alle caratteristiche economiche e culturali del proprio settore.

Tutto questo dimostra come la scelta degli obiettivi, degli strumenti, dei programmi rappresenti un momento unitario di qualsiasi programmazione economica e delle conseguenti linee direttrici dell'inter­vento urbanistico.

L'aumento della popolazione, le aspirazioni crescenti degli abitanti a migliori condizioni di vita, le iniziative pubbliche e private condizionate dalla ricerca del massimo profitto sul mercato delle aree e delle abitazioni, il disordine crescente dovuto alle precise scelte di politica edilizia da parte degli Enti Locali, hanno creata una nuova dimensione del problema delle abitazioni sul territorio comunale. È anzitutto urgente arrestare questa frana edilizia, ed occorre una scelta precisa nelle definizioni delle norme e nella loro applicazione intransigente ad ogni livello.

Questa scelta va diretta verso la creazione di nuovi quartieri residenziali, capaci di inserirsi nelle zone più salubri e nei paesaggi tradizionali, senza interferire con le scelte relative ai problemi delle trasforma­zioni culturali, della ubicazione delle zone industriali, e sopratutto rispondenti ai livelli del reddito medio degli abitanti. Quartieri completi di tutti i loro elementi, dal verde pubblico ai servizi, alle attrezzature culturali e sanitarie adeguate ad una vita civile. Quartieri ubicati in base a criteri urbanistici e non secondo i confini amministrativi, assolutamente inadeguati ai grandi processi di espansione quantitati­va e di rinnovamento radicale della vita civile.

Questa scelta è legata in due modi a quella delle zone di lavoro. Da un lato si pone il problema delle distanze in rapporto alla velocità dei moderni mezzi di trasporto collettivi. Ma si pone d'altro lato il problema del costo delle abitazioni in rapporto al reddito, il problema cioè di produzione degli elementi costituenti l'abitazione e le altre attrezzature edilizie con i mezzi culturalmente più avanzati ed economi­camente più adeguati della produzione industriale.

Non saranno quindi soltanto i percorsi tra le zone residenziali e quelle di lavoro, nelle città e nelle campagne, a guidare le scelte, ma anche le dimensioni produttive ed i raggi di influenza più convenienti delle industrie fornitrici di elementi normalizzati.

Impostata in questo modo la nostra pianificazione urbanistica si presenta non solo come elemento determinante di tutta la nostra azione politica per il rinnovamento della vita civile di Napoli, nei settori del lavoro, della abitazione, della circolazione, dei servizi e delle opere pubbliche, ma anzitutto come precisa alternativa alla impostazione che ancora una volta la D.C. intende dare alla soluzione dei problemi della città, affidandone lo studio a Commissioni ed Enti privati legati ai gruppi dirigenti, responsabili nel passato più lontano ed in quello recente, della disgregazione del tessuto urbano, della speculazione che abbiamo solo in parte documentato finora, in tutti i settori e gli interventi pubblici e privati.

Questi gruppi hanno già manifestato le loro intenzioni per quanto riguarda gli indirizzi generali, le premesse economiche e gli sviluppi urbanistici del Piano, per quanto riguarda le decisioni in merito alla prosecuzione delle iniziative edilizie speculative, alla applicazione della Legge 18 Aprile 1962, n° 167 sulle aree fabbricabili, alla utilizzazione dei fondi della Legge Speciale e, come si è visto, principalmen­te alla impostazione antidemocratica e monopolistica dei Consorzi industriali. Per quanto riguarda le premesse economiche, problema fondamentale della città di Napoli è il raggiungimento del nostro obiettivo di accrescere la forza politica, la capacità contrattuale e le prospettive di partecipazione alla direzione ed alle scelte da parte della classe operaia e di tutti i suoi alleati, nei vari settori della produzione e della cultura.

Anzitutto, per quanto riguarda lo sviluppo della agricoltura, nelle zone del Giuglianese, del Frattese, delle Padule, del Nolano, dei Colli Vesuviani, delle Foci del Sarno, è possibile raccogliere dalla collabo­razione delle masse contadine le indicazioni essenziali per le necessarie trasformazioni colturali, per la creazione delle premesse, per le riforme di struttura, per l'arresto della fuga della rendita fondiaria, per la creazione di condizioni di lavoro proporzionate alle possibilità di una agricoltura industrializzata e moderna, svincolata da tutte le forme di oppressione e di ricatto economico che oggi ne limitano lo sviluppo. Questa analisi ci dirà con precisione le aliquote di addetti alla agricoltura che dovranno trovare nuovi posti di lavoro in altre attività produttive.

Inoltre, l'analisi di questo particolare problema rappresenta ancora un contributo alle scelte di fondo nel settore delle abitazioni. Indica infatti la possibilità per gli attivi che dovranno spostarsi in altri settori di produzione, di abitare eventualmente nei nuovi quartieri previsti da un Piano Regolatore Comprensoria­le e della applicazione della Legge 167 anche nella zona agricola, nel quadro delle scelte generali per le direttrici di espansione e gli attuali centri urbani.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle aree industriali, occorre ribadire, per quanto riguarda gli indici di occupazione e gli investimenti, le critiche in merito alle scelte ed alla concretezza; mentre è possibile indicare nei dettagli gli impegni da richiedere al Ministero delle Partecipazioni Statali per quanto è di sua competenza.

A fianco di questi settori produttivi vi è a Napoli il grosso problema della pesca, sia come razionalizza­zione dell'allevamento nelle acque interne, sia come industrializzazione della pesca costiera e d'alto del mare che interessa nella provincia di Napoli 20 mila addetti e circa 120 mila abitanti. Questo problema va considerato sia nel settore cantieristico per quanto riguarda la produzione di pescherecci, che per la sistemazione dei porti e degli approdi di armamento e dei relativi servizi a terra (frigoriferi, mercati, industrie di trasformazione, assistenza ai pescatori) e quello delle zone di abitazione destinate stabil­mente a questo settore produttivo, nelle zone adatte.

Per quanto riguarda il turismo, il primo modo di contribuire allo sviluppo di questo notevole settore produttivo è la elevazione delle condizioni di vita civile in tutti i centri urbani vicini alle zone di interesse archeologico, paesistico e balneare e di porre un freno definitivo alle rovine che degli ambienti famosi in tutto il mondo, va compiendo la speculazione edilizia. L'altro problema riguarda le attrezzature recettive, incrementando dal punto di vista qualitativo e quantitativo anche i posti di lavoro in questo settore.

Per quanto riguarda lo sviluppo urbanistico, avvenuto in modo disordinato sotto la spinta della specula­zione edilizia, con la conseguente disarticolazione di questi centri della provincia e di quello di Napoli in particolare, occorre premettere che il primo elemento della soluzione consiste nello sviluppo delle fonti di lavoro. Ma è anche indispensabile operare delle scelte di fondo per quanto riguarda un nuovo sistema urbano articolato. Questo non significa soltanto il vecchio concetto di espansione e non rappresenta la subordinazione del nucleo abitato al luogo di lavoro, ma un collegamento razionale dei vecchi e nuovi quartieri residenziali con tutti i settori di lavoro del comprensorio. Occorre anzitutto combattere vigorosamente una impostazione intesa a favorire lo sviluppo a macchia d'olio, caro ai padroni delle aree. Costoro sostengono che il centro urbano di Napoli è bloccato a sud dal mare, a occidente dalle colline, a nord dall'altopiano, a sud-est dal Vesuvio. Non resterebbe quindi altra soluzione che sbloccare lo sbarramento artificiale creato dagli impianti ferroviari verso oriente, spostandoli di qualche chilometro. Questa impostazione sulla quale tenta di tornare oggi la nuova Commissione del Piano Regolatore, fu già proposta nel Piano del `39 dalla Commissione della SME e del Risanamento e venne bocciata per la opposizione delle Ferrovie dello Stato alle quali non si offriva alcuna alternativa.

Questo indirizzo speculativo poggia su equivoche premesse urbanistiche: infatti, i quattro settori a nord-ovest, a sud-ovest, a sud-est e a nord-est di possibile ampliamento possono essere perfettamente serviti migliorando e coordinando la rete di trasporti pubblici su strada ordinaria e ferrata, seguendo, sopratutto per questa seconda rete, le notevoli esperienze fatte da oltre cento anni nei maggiori agglomerati urbani di molti paesi. Si tratta quindi di realizzare non delle direttrici di espansione ma un nuovo sistema urbano articolato.

L'influenza determinante su questa scelta è data dalla posizione del porto di Napoli che è fra le principali fonti di lavoro della città e che dovrà vedere decisamente migliorate le sue attrezzature ed i collegamenti viari e ferroviari con la rete nazionale autostradale e ferroviaria, così come era previsto fin dal `47 nel Piano di Ricostruzione.

Il coordinamento di tutti i mezzi di trasporti collettivi dovrà considerare la unificazione degli attuali tracciati ferroviari della rete da Villa Literno a Castellammare e a Cancello con gli anelli della Circumvesuviana, della Circumflegrea e della Piedimonte d'Alife opportunamente integrata per i brevi tratti di galleria tra Quarto e Marano, per il tratto da Piazza Amedeo a via Gianturco, lungo il confine tra la via Marittima e la zona portuale, nei tratti tra Piscinola e Montesanto, tra S. Maria dell'Arco e S. Pietro e Patierno.

Questo programma potrà realizzare, con una spesa limitata, largamente compensata dalla valorizzazio­ne delle nuove aree edificabili da essa servita, una efficiente rete metropolitana capace di collegare rapidamente qualsiasi zona di abitazione con le zone di lavoro nelle aree industriali e nelle campagne, con una incidenza sui redditi dei lavoratori non superiore al 3% dei salari reali.

Una tale impostazione dello sviluppo urbano di Napoli presuppone evidentemente una articolazione del Piano su scala comprensoriale.

Le stesse ragioni che fanno opporre la nostra alternativa alle iniziative del Consorzio Industriale ed a quella ancora più determinante del Nuovo Piano Regolatore di Napoli impostato dalla Amministrazione D.C., consigliano di estendere il comprensorio a tutti 163 Comuni nella zona di Quarto, Casoria, Volla, Nola e Foci del Sarno, per complessivi 100 mila ettari circa, con una popolazione che si avvicina ai due milioni di abitanti, in modo da formare un Consorzio unico di questi Comuni, legati dagli stessi interessi politici, economici ed urbanistici, capaci di opporsi unitariamente al disegno dei Monopoli e di far prevalere alternative democratiche sia nella impostazione che nella gradualità, anche in previsione dell'impegno di azione di questo Comprensorio nel quadro degli sviluppi urbanistici della intera Regione.

Con la collaborazione responsabile di tutti gli abitanti degli attuali piccoli e grandi centri urbani del Comprensorio si possono cercare le soluzioni per la ubicazione ed il dimensionamento dei nuovi nuclei lungo gli assi delle strade ordinarie e ferrate.

Questo sviluppo degli insediamenti periferici, collegati da zone di verde pubblico con gli attuali centri ed i loro nuclei storici, determinerà un riproporzionamento di valori delle aree edificabili e della proprietà immobiliare nei centri attuali, favorendo tutti gli interventi di restauro e le zone storiche di risanamento dell'edilizia malsana, di sostituzione dell'edilizia fatiscente. La scelta generale di questo indirizzo avrà una influenza determinante sui criteri di applicazione della legge n° 167, per un vincolo immediato delle aree edilizie e delle zone da destinare a verde pubblico.

Ma proprio in previsione di questa pianificazione urbanistica a largo raggio occorre pronunziarsi su alcuni problemi di emergenza che richiedono scelte e decisioni immediate, per arrestare il caotico sviluppo delle iniziative in corso, l'aumento indiscriminato dei suoli edificatori. Per quanto riguarda la politica edilizia delle Amministrazioni comunali, in rapporto alla concessione di licenze edilizie fino alla entrata in vigore del nuovo Piano, la nostra azione si deve proporre di portare le licenze edilizie alla approvazione del Consiglio comunale, ritirando le deleghe ai sindaci, e previo esame della Commissio­ne del Piano Regolatore Generale ed apportando qualche variante essenziale al Regolamento Edilizio in vigore.

In quanto alla Legge 18 Aprile '62, n° 167, essa potrebbe essere applicata come stralcio immediato del Piano Regolatore comprensoriale, seguendone i criteri di impostazione generali e particolari. Questo indirizzo potrebbe essere legato al tracciato della nuova Metropolitana, unificata sotto la gestione democratica di un Ente a partecipazione statale sul tipo dell'Ente Autonomo Volturno, e con rappresen­tanza degli Enti Locali nel Consiglio di Amministrazione.

Per quanto riguarda la utilizzazione dei fondi della Legge Speciale, essa può essere valutata secondi i criteri già indicati dal gruppo consiliare di Napoli, utilizzandola in parte per un primo finanziamento delle opere interessanti il settore delle attrezzature e dei servizi delle aree acquisite dal Comune attraverso la applicazione della Legge n° 167, di quelle interessanti la realizzazione dei primi allaccia­menti essenziali della rete metropolitana ed il completamento dei servizi essenziali per le attrezzature civili.

Politica di Pianificazione

Queste nostre enunciazioni non sono nuove. Nuovo vuole essere l'impegno di lotta per avviarle a realizzazione. Questa nostra lotta è più che mai attuale ed ha probabilità di riuscita, poiché il suo potere, nel quadro della pianificazione democratica, risiede proprio nella attuale situazione politica. Essa si inserisce infatti con una propria qualificazione nella spinta rivendicativa generale così estesa e vigorosa in tutte le categorie dei cittadini, ma in modo particolare nelle testimonianze più recenti che continua a darne la classe operaia. Si tratta infatti della lotta non solo per i miglioramenti del salario ma per tutti gli aspetti della condizione operaia, all'interno ed all'esterno della fabbrica. Si tratta di tutte le azioni al livello delle Assemblee elettive, con la partecipazione dei cittadini nella loro funzione di stimolo e di controllo. Si tratta delle lotte politiche generali per attuare il programma delle riforme strutturali.

Un carattere particolare della nostra azione nasce da considerazioni di carattere storico. Nei paesi socialisti la classe operaia ha conquistato anzitutto il potere ed ha poi avviato l'opera di programmazio­ne e di pianificazione. Noi operiamo sin d'ora, in questa fase di lotta democratica per divenire maggio­ranza, nel corso di questa azione di denuncia e di rivendicazione. Infatti, mentre rivendichiamo alle classi lavoratrici il diritto di piena partecipazione alla direzione politica ed economica del paese, indichiamo a tutta la popolazione le cause profonde delle sue sofferenze e delle sue insoddisfazioni, ed indichiamo ancora quali sono i mezzi, gli strumenti, i sistemi per cambiare finalmente le cose in Italia e giungere non solo ad una pacifica coesistenza con gli altri popoli, non solo ad un aumento della produttività, ma ad una giusta distribuzione del reddito fra tutti i cittadini.

Non crederemo ai miracoli finché con essi ci si limita a moltiplicare pane e pesci sulle mense dei ricchi ed a lasciare gli altri a contentarsi dei resti. Crediamo solo alle lotte organizzate per trasformare la realtà intorno a noi a favore della maggioranza dei cittadini.

Alla organizzazione di questa lotta devono tendere tutte le nostre forze se vogliamo riuscire. Negli anni duri della dittatura aperta e senza maschera, furono il coraggio, la tenacia, la resistenza, lo studio, la organizzazione ad avere infine ragione della violenza e del male. Quella vittoria ha posto oggi nelle nostre mani un grande strumento di lotta organizzata.

Su questi temi e nel quadro della nostra linea politica generale, ogni sezione di città e di provincia, ogni circolo democratico, ogni Assemblea deve diventare centro di elaborazione e di chiarificazione, per la nostra grande azione rivoluzionaria che ha per obiettivo di affidare finalmente nelle mani dei napoletani la loro città con le sue grandi ricchezze economiche, con le sue spiccate capacità di lavoro, con la tradizione della sua cultura.

La relazione è stata ristampata, a cura della sezione “G. dello Jacovo” del PCI nella brochure Luigi Cosenza: l’uomo, il compagno, Napoli 1985, pp. 62-76.

“Non siamo qui per recitare una poesia, ma per alimentare il dibattito attorno alla nuova legge urbanistica nazionale”. Con queste parole Paolo Avarello introduce il terzo seminario sulla nuova legge urbanistica, promosso dall’Inu, giovedì 15 settembre 2005. Non c’è certamente nulla di poetico nelle parole di chi, qualche tempo fa, aveva rimproverato all’urbanistica di essere una pratica troppo grigia (“la nostra missione (è quella) di cancellare l'immagine cupa, noiosa e burocratica dell'urbanistica”, Urbanistica Informazioni, n. 197/2004). Che la discussione su una nuova legge urbanistica fosse potenzialmente più noiosa di un’analisi dell’ultima prodezza di Kakà è, purtroppo, chiaro a tutti. Il primo avvertimento di Avarello è, quindi, accolto con comprensione dall’uditorio del seminario. Più difficile è, invece, accettare l’invito che segue: “interroghiamoci però solo su quello che c’è scritto, non su quello che non c’è scritto!” Ma come, per una legge quadro di principi non si devono discutere gli argomenti trattati? Si deve discutere solo “quello che c’è scritto”, chè così famo prima?

Intanto, le parole del presidente dell’Inu cadono nel vuoto. Tutti i relatori che seguono dicono la loro su “quello che c’è scritto”, su “quello che non c’è scritto” e su quello che avrebbero scritto loro. Soprattutto quest’ultimo punto viene sviluppato a dovere. Per quanto riguarda il rapporto pubblico-privato è evidente che nella legge “il rapporto con il privato riguarda soltanto la parte attuativa del sistema pianificatorio” (Barbieri); “la perequazione è un principio fondamentale, deve essere un principio fondamentale” (tutti); “per governo del territorio la legge intende…” (e su questo punto le opinioni private si sprecano). Intanto, gli articoli di legge stanno lì, impassibili, a indicare l’esercizio delle funzioni amministrative (tutte le funzioni, sia quelle strutturali, sia quelle operative) “prioritariamente mediante l'adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi”, a stabilire che “il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi”, che il governo del territorio comprende “l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie”, mentre non comprende, evidentemente, l’ambiente, il suolo, l’energia, i rifiuti, il clima, eccetera.

Soprattutto la questione dei principi sembra confusa: se 2.000 anni fa bastavano tre principi a definire l’essenza dell’architettura (firmitas, utilitas, venustas), oggi, a definire il principio di governo del territorio, non basta l’essenza di un’intera storia politica.

È un seminario assai strano: ogniqualvolta prende la parola un dirigente dell’Inu (Barbieri, Avarello e, più tardi, Campos, Oliva, …), la legge Lupi sembra essere la panacea di tutti i mali dell’urbanistica italiana; quando, invece, tocca alle sezioni regionali dell’Inu o a relatori diversi, seppure vicini, culturalmente, alla dirigenza Inu ma, evidentemente, non interscambiabili con questa, la legge viene criticata dalle fondamenta: non convince la definizione di governo del territorio, c’è una grande preoccupazione per l’autorevolezza dell’amministra-zione pubblica e della definizione di interesse generale, mancano accenni fondamentali alle direttive europee sulla sostenibilità, l’ambiente urbano, il suolo, eccetera; manca soprattutto ogni riferimento alla realtà del territorio italiano, alle problematiche specifiche riscontrabili e alle opzioni politiche possibili. Ciononostante, ogni relatore, favorevole o contrario alla legge che sia (o sembra essere), viene salutato con un congruo applauso.

“E’ tutto merito mio” sussurra Campos, “è dal 1992 che sto lavorando a una riforma urbanistica”. E poco importa se dopo la formulazione dei principi per una riforma urbanistica al congresso dell’Inu nel 1995 si è passati alla proposta Lorenzetti nella precedente legislatura e, da lì, al disegno di legge Lupi, culturalmente situato agli antipodi! Importante è rivendicare la paternità della (contro)riforma urbanistica, non la propria coerenza intellettuale. Altrettanto importante è salvare l’esperienza di pianificazione di Roma con il suo “pianificar facendo” le sue “compensazioni urbanistiche”, i suoi “diritti edificatori” riconosciuti, riconoscibili e, in fin dei conti, riconoscenti.

C’è, in tutto ciò, una formidabile speranza: non è affatto vero che la linea dell’Inu collima perfettamente con quella degli estensori della legge Lupi. Semmai, sono i dirigenti dell’Inu che si “allupano”; gli associati delle sezioni locali, invece, hanno, da tempo, superato le (im)posizioni centrali. Infatti, le migliori leggi regionali non esistono grazie a una legge quadro nazionale, ma grazie alla sua assenza. Diversamente da quanto crede Oliva, ammesso e non concesso che sia vero che le quattro migliori leggi regionali (Basilicata, Emilia Romagna, Toscana e Veneto) siano già oggi conformi alla legge quadro nazionale, ciò non è indice della bontà della legge nazionale ma della tolleranza con la quale si osserva il centro dalla periferia.

Se volete ascoltare la registrazione della discussionea proposito del libro

LA CONTRORIFORMA URBANISTICA

Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio”(approvato dalla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005)

Contributi di Roberto Camagni, Luca De Lucia, Vezio De Lucia, Antonio Di Gennaro, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Paolo Urbani, coordinamento di Maria Cristina Gibelli

Alinea editrice

andate nel sito della Casa della cultura di Milano, cercate l'avvenimento del 6 febbraio e cliccate su Ascolta. Ascolterete Maria Cristina Gibelli, Roberto Camagni, Bruno Gabrielli, PietroMezzi, Alfredo Viganò, e gli interventi di Carlo Cerami e di Gianni Beltrame

Inseriamo di seguito il preambolo e la “dichiarazione di principi” del documento che l’Associazione nazionale degli urbanisti ha assunto come propria regola e ha trasmesso all’Ordine professionale degli architetti. Nell’attuale ordinamento i laureati in Urbanistica, in Pianificazione urbanistica e territoriale e in Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale (le varie denominazioni assunte dal corso di laurea fondato da Giovanni Astengo nel 1970), nonché i laureati nella facoltà di Pianificazione del territorio (istituita all’università Iuav di Venezia nel 2001) sono inquadrati in una sezione autonoma dell’Ordine degli architetti (parallela rispetto a quelle degli Architetti, dei Conservatori e dei Paesaggisti Il testo, che riteniamo molto positivo, riprende definizioni e principi presenti negli analoghi documenti di altri paesi: come quelle del “codice etico” dello statunitense “ American Institute of Certified Planners” e quella europea dell’ “ Accord et Déclaration Internationale des Urbanistes” In calce è scaricabile il documento integrale.

PROPOSTA di CODICE di DEONTOLOGIA

PIANIFICATORI TERRITORIALI ITALIANI

Adottato il 12 gennaio 2008

Preambolo

L'Associazione nazionale degli urbanisti e dei pianificatori territoriali e ambientali, in vista della predisposizione di appositi Codici deontologici per le nuove figure professionali inserite in appositi Ordini, ha proposto un articolato che si fonda su tre presupposti:

- che i pianificatori territoriali e urbanisti hanno un ruolo costituzionalmente rilevante (art. 117, sia quando si richiamava l'urbanistica fino al 2009. sia quando si richiama dopo il governo del territorio) perché il loro lavoro è destinato a prendere corpo all’interno di una azione di livello istituzionale

- che i pianificatori territoriali e urbanisti, in virtù del primo assunto, esercitano la loro professione esclusivamente nel dominio pubblico, dunque nell'interesse generale; quindi il loro operare ha come fulcro di riferimento il patrimonio e i beni comuni

- che i pianificatori territoriali e urbanisti, proprio per i due punti precedenti, hanno responsabilità non solo verso la loro clientela, quanto anche verso [il] pubblico e, soprattutto, verso le generazioni future; per questo devono esercitare la professione in modo etico e responsabile.

Per questi motivi i pianificatori territoriali esercitano la loro professione esclusivamente per il bene e l'interesse pubblico, e tengono in considerazione la qualità e l'efficienza della loro azione. Il pianificatore territoriale rispetta il territorio come risorsa comunitaria, fragile e limitata, contribuendo, così, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, favorendo lo sviluppo equilibrato delle comunità locali ed apportando miglioramenti alla qualità della vita. Poiché i pianificatori territoriali hanno responsabilità verso la loro clientela, il pubblico e le generazioni future, gli iscritti devono esercitare la loro professione in modo etico e responsabile. La presente dichiarazione di principi, che precede le norme deontologiche. dovrà essere fonte d'ispirazione e d'informazione per i pianificatori territoriali italiani nell'interesse pubblico generale.

Dichiarazione di princìpi

1. Rispettare ed integrare le necessità delle generazioni future.

I pianificatori territoriali riconoscono che il loro lavoro ha implicazioni intersettoriali e di lungo termine. Affrontando problematiche e rispondendo a bisogni di breve termine, i pianificatori territoriali, riconoscono le necessità future delle comunità, l'esistenza di altre specie e dei loro ambienti, ed evitano di compromettere risorse irripetibili o insostituibili. Essi devono, pertanto, garantire l'equilibrio degli spazi umani, socio­economici e fisici, nonché l'integrità dell'ambiente naturale e di quello antropico nel rispetto di tutte le invarianti territoriali come risorse di interesse pubblico limitate, fragili e insostituibili da consegnare alle generazioni future.

2. Superare o compensare le limitazioni dei confini.

I pianificatori territoriali sono consapevoli che il loro lavoro ha un impatto potenziale su numerose giurisdizioni e campi disciplinari, su molteplici interessi e settori di intervento; devono dunque realizzare la loro pratica professionale in modo olistico e riconoscendone la necessità di ampliarne i confini di interesse.

3. Valorizzare l'ambiente naturale e culturale.

I pianificatori territoriali credono che l'ambiente, le risorse naturali ed il patrimonio culturale debbano essere valorizzati. Assumono il loro ruolo di "sovrintendenti" di questi ambienti, equilibrando conservazione attiva e sviluppo duraturo; stabilendo così con i luoghi rapporti virtuosi.

4. Riconoscere e reagire positivamente di fronte all'incertezza.

I pianificatori territoriali credono che le previsioni di lungo periodo siano molto spesso imprevedibili, e che occorre sviluppare risposte adattabili e flessibili per fare fronte positivamente a quest'incertezza. Devono quindi prestare più attenzione alla costruzione dei temi collettivi e non solo garantire tecnicamente i cosiddetti servizi.

5. Rispettare la diversità.

I pianificatori territoriali rispettano e proteggono la diversità dei valori, delle culture, delle economie, degli ecosistemi, degli ambienti costruiti e dei luoghi distintivi, unici e caratterizzanti.

6. Equilibrare le necessità delle Comunità e degli individui.

I pianificatori territoriali cercano di equilibrare gli interessi delle Comunità con quelli degli individui, e riconoscono che le Comunità comprendono tanto Comunità geografiche che Comunità di interessi.

7. Stimolare la partecipazione del pubblico per una condivisione consapevole.

I pianificatori territoriali credono in una partecipazione pubblica significativa da parte degli individui e dei gruppi, e cercano di articolare le necessità di tutti quelli le cui necessità non sono state rappresentate. Assumono l'imperativo della cooperazione nella pianificazione e condivisione delle scelte.

8. Applicare e comunicare i valori.

I pianificatori territoriali credono nell'applicazione esplicita di questi valori al loro lavoro ed impegno professionale, e nella comunicazione della loro importanza alla loro clientela, ai loro datori di lavoro, ai loro colleghi ed al pubblico. Valori questi che assumono anche il ruolo di disvelatori di appartenenza e quindi di elemento di costruzione di nuova socialità.

Se noi tutti sapessimo interpretare, senza mediatori, le vicende legate governo del territorio – spesso rese ad arte di difficile comprensione – le nostre città, i nostri paesaggi sarebbero migliori. Edoardo Salzano, grande urbanista, ha pubblicato di recente un libro ( Ma dove vivi? edito da Corte del Fontego) “scritto per spiegare l’urbanistica al popolo “ – dice scherzando. Questa necessità è indicata da molti, specialmente da chi si occupa di scelte partecipate, come condizione indispensabile per impedire che le strumentalizzazioni di parte prevalgano sulla verità.

Così non solo è apparsa oscura ai più, ma è stata del tutto capovolta dai detrattori la realtà dei fatti dopo il pronunciamento del Tar sul piano paesaggistico sardo.

Per via delle recenti sentenze, che chiunque può leggere integralmente nel sito web del Tribunale amministrativo, non c’è la sbandierata liquidazione dei principi essenziali del Piano, come è stato detto, ma solo alcune puntualizzazioni (non sempre da un particolare, pure interessante, proviene una visione generale del mondo). E la cancellazione di un comma non modifica di molto, almeno nell’ ultima questione in causa, le disposizioni di un intero articolo, tanto meno incide sulla struttura complessa di un piano.

Alle molteplici richieste dei ricorrenti di annullamento di norme fondanti dello strumento di pianificazione ( e di fasi del processo decisionale), i giudici hanno risposto con puntuali osservazioni, attraverso un’accurata lettura dello strumento, pure con espressioni di apprezzamento del lavoro svolto e degli esiti “riversati nella documentazione (relazioni tecniche, cartografie, relazione generale) allegata al piano paesaggistico, e sono – scrivono i giudici – la oggettiva dimostrazione dello svolgimento di uno studio approfondito e dettagliato del territorio sardo mai in precedenza condotto con tanta accuratezza e specificità”. Basterebbe questo autorevole riconoscimento per dire della qualità del Ppr, solido proprio perché costruito sulla fondata premessa della ricognizione dei beni paesaggistici.

La sostanza del progetto del governo regionale è (ancora) ben ferma nei suoi fondamenti.

Stupisce però che nelle reazioni e nei commenti, volti a enfatizzare dettagli suggestivi, non ci sia traccia del principale argomento sollevato continuamente, non solo dalle opposizioni, nel corso del processo di formazione e approvazione del Ppr. I dubbi espressi sulla potestà della Regione di dettare norme impegnative per i comuni sardi hanno occupato per mesi le pagine dei giornali: una discussione protratta nonostante l’aspetto fosse già stato chiarito dalla Corte con la sentenza n. 182 del 2006. E comunque anche su questo slogan – “l’ autonomia comunale prevaricata” – il Tar ha fatto chiarezza.

Non stupisce l’aggressione ai contenuti del piano paesaggistico e delle disposizioni normative a monte. Era prevedibile. Continuerà, e non sarà agevole difendere i risultati. Nonostante i riconoscimenti di prestigiosi organismi internazionali sulla svolta della Regione nella tutela dei suoi luoghi, c’è in Sardegna una linea distruttiva (e demagogica) di ogni impegno a presidio del paesaggio. L’insuccesso della marcia su Cagliari, organizzata dai promotori del referendum per abrogare la legge “salvacoste”, non ammette però sottovalutazioni. Gli avversari sono determinati (e gli alleati non sempre adeguatamente motivati). E’ chiaro –questo è il punto – che l’attacco ai programmi di tutela del paesaggio costiero dell’isola non è nell’interesse delle comunità locali, come vorrebbero farci credere, ma a sostegno degli interessi di pochi a trasformare in merce luoghi preziosi, specialmente per le generazioni future. La rendita ( e che rendita!) è il motore vero delle manifestazioni contro il piano.

Come scrive il ministro Rutelli (“La Repubblica” del 15 novembre) tra i nemici del paesaggio c’è “la crescita formidabile dei valori immobiliari che rende remunerativo qualsiasi intervento edificatorio in ogni angolo del paese”. Nelle coste sarde questi valori sono più elevati (sono i nostri bei paesaggi che fanno il prezzo!), e qui le iniziative di “costruttori e developer” –Rutelli definisce in modo elegante i palazzinari – sono evidentemente più incentivate. Se si fa un po’ di attenzione non è difficile individuare le vere ragioni degli oppositori al Ppr.

Non si è risparmiato in nessuno dei mestieri che ha praticato per servire i suoi ideali e agire secondo i principi in cui credeva...Urbanista e politico, organizzatore culturale e protagonista di iniziative volte a migliorare la comprensione tra culture diverse, lo abbiamo trovato sempre sul versante giusto della ricerca e dell’azione. Quando le lagrime saranno asciutte cercheremo di contribuire alla prosecuzione del suo lavoro.

La camera ardente è presso la Sala Consiliare del Comune di Bolzano mercoledì 30 aprile 2008, dalle ore 9 alle 13. La messa e il ricordo degli amici presso il Duomo di Bolzano a partire dalle 14..

Qui un suo scritto su democrazie e partecipazione.

Il testo che segue contiene la relazione e il successivo intervento, entrambi rivisti dall’autore, svolti nel corso del convegno organizzato dalla Compagnia dei Celestini, dal Dipartimento di Architettura e Pianificazione dell’Università di Sassari e dal Dipartimento di Pianificazione dell’Università Iuav di Venezia. In calce il programma del convegno. Ringraziamo Piergiorgio Rocchi che, in memoria di Silvano, ha inviato a eddyburg il materiale

Relazione

Vorrei centrare questo mio contributo sul rapporto tra partecipazione e politica visto dalla parte della politica. Intendo cioè assumere il punto di osservazione che si possiede “stando seduti” ai tavoli della partecipazione dalla parte dove stanno gli amministratori pubblici.

Lo faccio mettendo a frutto la mia condizione di urbanista a cui è toccato un “turno di servizio” come assessore comunale. Per l’analisi dei processi partecipativi è un buon punto di osservazione: direi che è la ... trincea avanzata. Mi scuserete il linguaggio bellicista, ma è proprio quel posto che, se lo occupi, ti espone al doppio fuoco e sei spesso colpito dalle tue retrovie! Fuor di metafora: sei messo in mezzo. E da lì vedi, sotto nuova luce, dispiegarsi le complesse dinamiche dei conflitti urbani e dei processi partecipativi.

Ciò premesso, non esito a dichiarare che ritengo intrinseco al ruolo di amministratore comunale il compito di governare “sul campo” i processi di trasformazione territoriale in rapporto diretto con le dinamiche socio-culturali della comunità che su quel territorio esprime i suoi bisogni e i suoi diritti. Intendo con ciò connotare specificamente la mission della politica comunale in quanto segnata dall’obbligo dell’ hic et nunc territoriale e comunitario, cioè dall’imperativo etico e pratico della vicinanza-concretezza-particolarità-...., distinguendola dai ruoli assai diversi degli altri livelli politici e istituzionali (superiori?!) che possono e forse devono connotarsi per distanza-astrazione-generalità-....

Se queste considerazioni, per quanto sommarie, hanno un fondamento, allora non c’è scampo: la frontiera comunale della politica non può non essere la frontiera avanzata della democrazia partecipativa.

Allora si profilano compiti di grande delicatezza e di grande fatica, dove la complessità supera largamente le previsioni e i risultati appaiono sempre minori (o diversi) delle attese. Diffidiamo di ogni esaltazione dei risultati concreti e sforziamoci di studiarne le dinamiche, cogliendone sempre le contraddizioni e le difficoltà assieme agli esiti più propriamente politico-culturali.

Veniamo dunque ad alcune considerazioni sulla fenomenologia della partecipazione, vista dalla parte dell’amministrazione.

Si è già fatto cenno negli interventi precedenti alle resistenze del ceto politico e delle istituzioni a fare propria una autentica cultura della partecipazione, prima ancora che ad utilizzarne le tecniche e le procedure, che fanno della partecipazione l’elemento strutturale e qualificante dei processi di pianificazione e di governo della città.

E’ vero: il sistema politico-amministrativo esprime una diffusa avversità ai processi partecipativi. Quand’anche non fosse un pregiudizio ideologico e culturale (peraltro assai diffuso, purtroppo non solo nelle amministrazioni più conservatrici!), è diffusamente presente come pregiudizio ... funzionale. Ho esperienza diretta di amministratori di sicura fede democratica che temono (e osteggiano) i processi partecipativi perché li considerano “generatori di conflittualità”. Ovviamente questo timore ha una sua fondatezza. Ma qui sta il nocciolo della questione. Se si crede nel valore democratico del processo partecipativo, non è legittimo temere che esso produca esiti irreversibili di “presa di coscienza” e dunque di implementazione della conflittualità. E’ l’innesco di un processo virtuoso di “presa di potere” da parte dei cittadini, secondo le varie modulazioni che dal potere di conoscenza passa al potere di pronunciamento e dunque al potere di condizionamento delle decisioni... fino al potere autentico di co-determinazione.

Nessuna meraviglia dunque di fronte al senso di paura degli amministratori. Una classe dirigente e un ceto politico, che sono predisposti culturalmente ad una gestione etero-diretta e gerarchizzata del potere all’interno di istituti di democrazia delegata, non possono che essere impauriti e preoccupati. Ma nessun amministratore può programmaticamente rifiutarsi ai processi partecipativi.

Si forma di conseguenza un secondo atteggiamento che definirei di “riduzione del danno”: la declinazione del processo partecipativo secondo una pura formula comunicativa. Ci si convince che noi amministratori siamo bravissimi (e appositamente delegati) a pensare, decidere, programmare e possiamo avvalerci di tecnici eccellenti che danno forma compiuta alle nostre decisioni, ma alla fine il vero difetto è che non siamo capaci di vendere il prodotto!

Allora scattano le contromisure: il processo partecipativo viene scisso in fasi distinte. C’è una prima fase detta “di ascolto” in cui il cittadino è chiamato ad esprimere le sue attese. La seconda fase “di progetto” viene delegata ai tecnici. La terza fase “di decisione” viene consumata rigorosamente nel chiuso delle stanze della politica. La terza fase “di informazione” si ri-apre ai cittadini, ma rigorosamente a valle delle decisioni che sono ormai ... blindate! Un simile processo, pur nobilmente comunicativo, è totalmente spogliato di ogni potenzialità-pericolo di condizionamento reale dei processi progettuali e decisionali.

L’incremento del tasso di comunicazione dei processi amministrativi è certamente cosa buona e utile, ma è molto distante e radicalmente diversa dai processi partecipativi autentici ai quali vogliamo riferirci. Infatti, attraverso la partecipazione nella sua forma radicale non si tratta di comunicare decisioni già assunte per farle conoscere e accettare, ma si tratta di implementare e riconvertire dal basso i processi di analisi e di decisione, secondo la prassi più avanzata della “ricerca-azione”.

Devo dire che mi è capitato di subire pesanti interferenze e condizionamenti dalla politica che frena e minimalizza i processi partecipativi, più che da quegli amministratori che ne sono semplicemente spaventati.

C’è però un terzo atteggiamento che rappresenta lo stadio più avanzato della evoluzione opportunistica dell’amministrazione. Cresce infatti la propensione di molti ad appropriarsi di questi processi in forma esplicitamente strumentale. C’è infatti chi pensa di aver capito quale e quanta funzione possa avere la processualità partecipativa in ordine alla formazione del consenso ad esclusivo favore del soggetto gestore del processo stesso, sia esso il singolo assessore o un intero schieramento politico. In questo caso la politica si appropria di raffinate strumentazioni e di abili consulenti, emulando metodi e strumenti dei sistemi di consulenza aziendale che ormai sul mercato offrono prestazioni di altissimo livello tecnico. Il processo partecipativo si ammanta di sofisticate procedure e di buoni linguaggi per diventare una macchina di costruzione e manipolazione del consenso.

Dentro questa gamma di atteggiamenti, dalla timorosa resistenza passiva al minimalismo comunicativo fino alla strumentalizzazione propagandistica, si misura l’alternatività vera e sostanziale dei processi partecipativi autenticamente democratici. E la loro autenticità si misura nel pieno diritto di cittadinanza riconosciuto ai conflitti come luogo della partecipazione.

C’è un unico vero test d’ingresso: il giudizio sui conflitti urbani! Chi ne dà un giudizio negativo può al massimo accettare un processo partecipativo per mitigare il conflitto ovvero per vanificarlo, ma non accetterà mai di attivare processi di autentico protagonismo civico. Chi, invece, riconosce la conflittualità urbana, con tutte le sue asprezze e le sue contraddizioni, come risorsa sorgiva della democrazia, accetterà di porsi programmaticamente il problema di governare i conflitti ed accetterà di mettersi in gioco promuovendo processi partecipativi autenticamente democratici. Si tratta infatti di riconoscere nella conflittualità urbana la propensione al protagonismo dei cittadini e di ricondurla all’interno di trame partecipative complesse. E di riconoscere, al tempo stesso, che il problema fondamentale è di governare il conflitto attraverso processi virtuosi di negoziazione e di mediazione, non solo tra i cittadini e l’amministrazione, ma anche i conflitti infra-comunitari, cioè fra i cittadini stessi.

L’universo urbano è sempre più caratterizzato dall’insorgenza di fenomeni di micro-conflittualità diffusa e spontanea. I cittadini hanno imparato a protestare, a organizzarsi in comitati, a praticare forme di lotta, ad usare i media ... E’ la forma spontanea della partecipazione agita e rivendicata! Prevalgono ovviamente i toni contestativi: si denunciano situazioni di disagio, di fastidio, di disservizio .... si polemizza con l’amministrazione. Ma si tratta, nella grande generalità dei casi, di problematiche che, nella loro sana concretezza, scontano necessariamente caratteri di mono-tematismo, di settorialismo, di particolarismo e, in fondo, di “egoismo”. Sia essa la lotta contro il traffico “nella nostra strada” che prescinde dalla valutazione sul traffico delle strade limitrofe; ovvero la reazione alle cosiddette “localizzazioni indesiderate” (discariche o case per stranieri, ecc.) di cui “si chiede solo di farle in un altro quartiere”: al conflitto con l’amministrazione si mescola immediatamente il conflitto con altri cittadini ....

Generare partecipazione democratica significa riconoscere legittimità ad ogni istanza che comincia a esprimersi “in particolare e in negativo” per implementarla “in generale e in positivo”, attraverso un percorso che incrocia la complessità dei problemi e l’interesse collettivo.

Questa procedura è, per la politica, un esercizio complicato ma obbligato. Perchè inerisce al fondamento stesso della democrazia e si insinua proprio nel cuore della crisi attuale della politica. E qui si aprirebbe un discorso assai lungo....

Le risposte nel corso del dibattito

Dal dibattito emergono interrogativi di fondo sul “senso di necessità” della partecipazione. In alcuni momenti la riflessione ha assunto una dimensione di carattere talmente generale da coinvolgere il concetto stesso di democrazia. Su questo livello ho difficoltà ad esercitarmi e tendo a riferirmi più specificamente a quel frammento della democrazia che si sviluppa all'interno dei processi amministrativi e, in particolare, nel settore dell’urbanistica. Ma, pur in questo ambito “minore”, voglio essere radicale: la partecipazione nella gestione degli enti locali e, in particolare, nei processi di pianificazione territoriale è politicamente indispensabile, intrinsecamente funzionale e virtuosamente innovativa.

Verso esperienze di democrazia sostanziale

Il grado di necessità deriva dalla capacità propria dei processi autenticamente partecipativi di generare senso civico collettivo e, di conseguenza, sviluppo di democrazia sostanziale . Perfino quando la partecipazione non è coronata da successi pratici direttamente misurabili ai fini diretti dell’iniziativa, lascia sul campo esiti irreversibili di riconversione culturale del modo di fare politica. Induce i cittadini a riappropriarsi di conoscenze e di poteri in ordine agli usi del territorio e alla attività di governo della cosa pubblica e della casa comune. Costringe i politici a rifondare il proprio rapporto con i cittadini, uscendo dalla mera liturgia elettoralistica e dalla totale autoreferenzialità del sistema politico contemporaneo. Introduce elementi di innovazione gestionale in una macchina amministrativa ferma nella sua rigidità secolare di stampo autocratico, separato, ostile ed opaco.

A parità di quadro politico e istituzionale, che conserva la normale routine amministrativa, sia a livello progettuale che a livello decisionale, il processo partecipativo su una specifica attività di pianificazione o di progetto modifica decisamente la filigrana dell’operazione stessa. Restano nella forma le procedure amministrative, gli iter di approvazione e di decisione, ma modalità partecipative di approccio alle procedure “di diritto” producono mutazioni di senso, facendo virare “di fatto” i contenuti della manovra e gli atteggiamenti dei singoli attori del processo verso esperienze irreversibili di approssimazione alla democrazia sostanziale.

Su questa sfida per l’implementazione sostanziale dei processi democratici, ho investito molto nell’assolvimento del mio ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Bolzano. Ho voluto, costantemente e programmaticamente, segnare in questa direzione la mia pratica amministrativa, agendo con libertà e pragmatismo, nella piena consapevolezza di non possederne la “ricetta”. Intendo dire che non credo in un metodo certificato per “fare partecipazione”. Non c’è il manuale pronto per l’uso, ma esiste un ricco patrimonio di saperi e di buone pratiche a cui possiamo attingere secondo le geometrie variabili e lo spirito di sperimentazione che la peculiarità delle situazioni richiede. Perché a seconda delle varie esigenze, delle varie tipologie di procedure amministrative, delle diverse condizioni di partenza, delle peculiarità locali, ecc. sono possibili, anzi,sono necessarie declinazioni autonome, creative e sempre diverse del programma partecipativo.

In questa prospettiva posso presentare sinteticamente tre concrete esperienze bolzanine che evidenziano la diversità di declinazione pratica della stessa logica partecipativa.

Il progetto CasaNova

Abbiamo sviluppato (e felicemente concluso) un’esperienza di partecipazione attiva e diretta su un progetto di pianificazione attuativa. Si trattava di elaborare il piano di attuazione su un’area di 10 ettari destinata all’edilizia sociale. Era prevista la realizzazione di un nuovo quartiere di iniziativa pubblica per insediarvi mille famiglie, attraverso l’intervento dell’Istituto Case Popolari e delle Cooperative. Il tutto nasceva in un clima di aperta conflittualità. I contadini e gli ambientalisti si opponevano alla sottrazione di aree agricole. Gli abitanti delle zone limitrofe si opponevano alla nuova edificazione e confliggevano con i “senza casa” che aspiravano alle assegnazioni. Gli ordini professionali rivendicavano un concorso di progettazione e confliggevano con il movimento cooperativo che pretendeva l’assegnazione delle aree e la piena libertà di auto-pianificazione. E via confliggendo!

Ho scelto di mantenere saldamente in mano pubblica la regia pianificatoria dell’operazione con l’obiettivo programmatico di garantire alla manovra tre eccellenze: l’eccellenza urbanistica, l’eccellenza ambientale e l’eccellenza partecipativa. Si è proceduto ad un concorso pubblico non tra progetti, ma tra progettisti. Un bando europeo, già esplicito sul “programma di triplice eccellenza”, basato su “curricula professionali e concepts progettuali” ha prodotto l’affidamento dell’incarico ad un gruppo interdisciplinare italo-olandese coordinato da Frits Van Dongen. Il mandato era esplicito e formalmente contrattualizzato: il progetto andava gestito work in progress sulla base di scenari progettuali da valutare e sviluppare attraverso una serie di workshop a partecipazione diretta da parte di tutti i “portatori di interessi e di sensibilità” coinvolti nella manovra.

E così è stato. Si è costituito un tavolo di co-progettazione a cui sedevano i progettisti incaricati, i tecnici dell’IPES (istituto case popolari), i rappresentanti delle cooperative, i rappresentanti degli abitanti già insediati in zona, i tecnici dei vari uffici comunali competenti. Il tavolo ha lavorato in 6 workshop, a cadenza mensile, a partire da tre diversi scenari progettuali (variabili: densità edilizia, impianto insediativo, tipologia, morfologia) elaborati dai progettisti incaricati. Fissate le invarianti di eccellenza ambientale (basso consumo energetico a 35 KWh/mq. anno, teleriscaldamento a co-generazione ed energia solare, gestione integrale del ciclo dell’acqua, ecc.), il tavolo ha progressivamente valutato comparativamente gli scenari, procedendo consensualmente alla scelta del modello da assumere e alla sua concreta declinazione progettuale. In sei mesi il piano di attuazione è stato così compiutamente elaborato e, con la forza del consenso realmente costruito nel vivo della sua elaborazione, è stato rapidamente e unanimemente approvato dal Consiglio Comunale. Il Progetto CasaNova è ora in fase di concreta attuazione, attraverso i singoli progetti edilizi direttamente elaborati dall’IPES e dalle Cooperative che sono divenute assegnatarie dei singoli lotti edificabili.

Non si pensi che questa operazione sia stata semplice come una ... passeggiata. È stata un'operazione assai complicata, che ha continuamente generato contraddizioni e conflitti. Ma i conflitti venivano gestiti in corso d’opera e producevano virtuosi avanzamenti del processo. Cito, a titolo di esempio, i conflitti tra il movimento cooperativo e l’IPES in quanto rappresentanti di due diverse tipologie di destinatari finali degli alloggi. Ovvero i conflitti tra i destinatari delle nuove case e i cittadini già insediati nel quartiere: i primi avrebbero preteso esclusivamente per se stessi il nuovo verde e i nuovi servizi in dotazione all’insediamento; i secondi giustamente rivendicavano il verde e i servizi come integrazione alla qualità urbana della più vasta area gia urbanizzata.

In conclusione Bolzano ha un nuovo quartiere, coerente con il programma delle “tre eccellenze”, e ne va giustamente fiera. E ha vissuto un’esperienza di partecipazione su cui basare l’avanzamento del processo di sviluppo urbano e di riqualificazione della sua periferia.

La mappa dei conflitti

Mentre procedeva l’esperienza del CasaNova e si misuravano le virtù partecipative di quell’operazione puntuale, è cresciuta (fortemente in me, molto meno nella mia Giunta!) la curiosità politica generale verso la dinamica più generale dei conflitti urbani nella città intera.

Va detto preliminarmente che Bolzano ha un ingombrante ... scheletro nell'armadio. Ha nella sua storia e nella sua “pancia” un problema di conflitto etnico. Non posso qui dilungarmi e schematizzo: l’Alto Adige è l’antico Tirolo del Sud annesso all’Italia per esito bellico e sottoposto ad italianizzazione forzata sotto il regime fascista; Bolzano ne è il capoluogo ed è città mistilingue ma a maggioranza italiana in una provincia a maggioranza tedesca... Ne deriva che, in ogni momento e su ogni questione, si teme o si rischia o si paventa o si alimenta ... il conflitto etnico, pur sopito grazie al raffinato modello istituzionale della speciale autonomia provinciale. C’è dunque una contraddizione latente, un umore di fondo, una linea d'ombra sempre pronta a riemergere. Come, ad esempio, quando la giunta municipale, formata dal centro sinistra e dalla SVP (il partito maggioritario di rappresentanza tedesca), ha deciso (udite, udite!) di cambiare il nome di una piazza. La piazza della Vittoria, caratterizzata dalla presenza del monumento di Piacentini dedicato alla vittoria contro i tedeschi nella prima guerra mondiale, veniva ri-nominata Piazza della Pace. La ribellione dei cittadini italiani di Bolzano, alimentata dalle forze politiche della destra nazionalista, ha imposto e stravinto il referendum che ha ripristinato Piazza della Vittoria. Sic!

In seguito a questa vicenda ho attivato il gruppo di Avventura Urbana per un lavoro di mappatura dei conflitti urbani, ponendo una serie di interrogativi, compreso quello etnico, per cercare di capire se e quanto covi ancora sotto la cenere la brace del conflitto etnico e come questo male oscuro interferisca con la miriade di micro-conflitti urbani che attraversano costantemente la città. Ne è uscita una mappa dei conflitti territoriali e dei loro attori, così ricca di suggestioni e di conoscenze, che mi induce a consigliare vivamente un simile lavoro a tutte le amministrazioni. Se ne ricavano infatti significative chiavi di lettura analitica della complessità urbana.

Abbiamo lavorato sul riconoscimento dei temi del conflitto e sul loro contenuto valoriale, sulla dimensione territoriale e sulla capacità di penetrazione, sul grado di coinvolgimento sociale con la capacità di mobilitazione e sull’effetto di organizzazione, sulla durata nel tempo e sul potere di interferenza con le politiche urbane, ecc. Abbiamo ricostruito un'immagine nuova ed inedita della nostra città che esprime un’alta numerosità di questi conflitti, caratterizzati da una dimensione prevalentemente minuscola, gestita da piccoli comitati a dimensione micro-territoriale, con modesta capacità di diffusione e di organizzazione in rete. Prevalgono nettamente i conflitti estemporanei e fugaci, spesso su temi di scarso spessore valoriale (bar fracassoni...) o di evidente segno negativo (contro gli immigrati, i tossici, i diversi, ...), comunque segnati da un fondamentale mono-tematismo e da limiti localistico-egoistici (non nel nostro cortile, non nella nostra strada, non nel nostro quartiere, ...). E le forme di espressione del conflitto restano fondamentalmente destrutturate e occasionali, largamente inconcludenti e a scarsa incisività politica, anche quando si manifestano con forte combattività e su contenuti obiettivamente nobili (traffico, rumore, inquinamento, sicurezza...).

Limiti e contraddizioni, dunque, ma la diagnosi complessiva è positiva! La notevole presenza di conflittualità urbana non è “inquinata” dal tradizionale conflitto etnico locale e costituisce un segno di vitalità civica che merita di essere messa a frutto attraverso un’offerta qualificata di “arene partecipative” strutturate, capaci di implementare i processi partecipativi attorno alla complessità dei temi e al loro radicamento territoriale e sociale. La conflittualità urbana bolzanina si presenta dunque come una risorsa da valorizzare, capovolgendo il tradizionale approccio difensivo o ostile della politica.

Il progetto OHA!

Con questa consapevolezza, ha preso corpo un progetto di sperimentazione della progettazione partecipata applicata alla complessità di un brano territoriale omogeneo.

Abbiamo scelto un intero quartiere Oltrisarco-Haslach-Aslago e lo abbiamo messo al centro del Progetto OHA! E’ un ambito territoriale sufficientemente grande e sufficientemente omogeneo per superare il limite del localismo e per rappresentare la complessità urbana. E’ un quartiere ricco di identità propria e ricco di micro-conflittualità monotematiche (contro il traffico stradale, contro l’inquinamento della zona industriale, contro la condizione di perifericità e la scarsità di servizi, ...). A quell’intero quartiere, all’intera comunità in esso insediata, ai suoi numerosi (e settoriali) comitati di lotta e al suo consiglio di circoscrizione, all’intero spettro delle sue problematiche urbanistiche e delle sue criticità sociali ... a questo piccolo, ma completo, universo di urbanità abbiamo offerto l’occasione di auto-gestirsi un progetto integrato e partecipato di riqualificazione urbana. Abbiamo messo a disposizione un gruppo qualificato di consulenti (gli urbanisti di Avventura Urbana e l’antropologa Marianella Sclavi), con il ruolo di “facilitatori” del processo partecipativo, e un gruppo di 12 funzionari comunali di varia competenza amministrativa, con il ruolo di interfaccia in progress con la macchina amministrativa. Abbiamo riconosciuto ai partecipanti la piena dignità del protagonismo civico.... e li abbiamo lasciati camminare.

Ci è così successo di assistere alla straordinaria liberazione di risorse creative e al dispiegarsi di un’esperienza di intensa e diffusa partecipazione attiva, che ha coinvolto centinaia di persone di tutte le etnie, età, genere, estrazione sociale.... E alla fine ci siamo trovati tra le mani un progetto di straordinario fascino e di assoluta concretezza: per la qualità dei suoi contenuti, per la trasversalità delle sue attenzioni, per la operatività delle sue proposte, per la centratura delle sue risoluzioni, per il senso di responsabilità delle sue indicazioni operative, per l’intrinseco tasso di condivisione diffusa. E ci siamo trovati di fronte un gruppo di cittadini che è diventato protagonista (e non intende smettere di esserlo) e un gruppo di funzionari comunali irreversibilmente ri-convertiti, ri-qualificati e ri-motivati.

La sfida di OHA! è ovviamente aperta, ma c’è già chi in altri quartieri comincia a chiedersi “perché noi no?”.

Di Silvano Bassetti, su eddyburg, si veda anche lo scritto su democrazia e partecipazione. Sul convegno di Bologna anche l'intervento conclusivo di Edoardo Salzano

L’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che consistono nell’applicazione dell’art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell’ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L’importo così determinato è ridotto del 40 per cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell’espropriato, non si applica la riduzione di cui sopra.

Questa norma “la quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in rapporto al ragionevole legame con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale, la quale – come rileva il rimettente – si attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà”.

Dal sito UrbanisticaToscana.it riportiamo una sentenza costituzionale di indubbio interesse, perchè riafferma un principio fondamentale che la pratica legislativa di molte regioni, travolte dall’ondata devoluscionistica, aveva smarrito. Nella sintesi di UrbanisticaToscana, la sentenza afferma che è costituzionalmente “illegittima la legge urbanistica della regione Marche, perchè non prevede specificamente l'invio alla Regione - o alla Provincia - dei piani attuativi comunali”. La pianificazione attuativa, sostiene la Corte, “rientra nel governo del territorio, come prima rientrava nell'urbanistica, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare, ora come allora, i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale” (UrbanisticaToscana.it cit.).

L’argomentazione della Corte (allegato il testo integrale) è strettamente limitata agli aspetti letterali della legge. Essa afferma che la Regione non può rifiutarsi di venire a conoscenza di quanto i Comuni, con i piani attuativi (l’argomento da cui è partito il procedimento era un piano di lottizzazione a Civitanova Marche), per poter formulare eventuali osservazioni. poichè questo obbligo è sancito da una legge statale (la 47 del 1985). Ma la sentenza riflette un principio più generale, sul quale vale la pena di aprire una riflessione.

Molte regioni, e soprattutto quelle di sinistra, nell’empito di innovare e semplificare le procedure, hanno delegato ai comuni competenze sempre più ampie in materia di governo del territorio. In materia di pianificazione più d’una regione (la Toscana, l’Emilia-Romagna, ...) ha trasferito ai comuni l’approvazione dei piani urbanistici comunali (generali, oltre che attuativi), senza riservarsi nessun momento di verifica della conformità agli strumenti di pianificazione regionale o provinciale, i quali, peraltro, sono generalmente del tutto evanescenti e interpretabili nel modo più ampio.

E’ noto che il nuovo testo del Titolo V della Costituzione ha modificato i rapporti tra Stato, regione, provincia e città metropolitana, comune. Ma quale che sia la modifica apportata dalla maggioranza di centro-sinistra al testo costituzionale, essa non ha certo potuto significare che ciascuno degli istituti nei quali la democrazia si articola ha gli stessi poteri. E se la regione e la provincia hanno competenza in materia di governo del territorio, di ambiente, di mobilità e accessibilità, di tutela dei beni comuni, sembra evidente che nè l’una nè l’altra possono, nel concreto, spogliarsi delle loro responsabilità. Oggi siamo invece arrivati al paradosso che, se un piano comunale disattende un piano territoriale provinciale (consentendo, per esempio, di lottizzare ambiti di territorio nei quali la pianificazione sovraordinata lo escludeva) l’unica strada percorribile da chi voglia far intendere la propria ragione è quella del ricorso al giudice amministrativo.

Tutto ciò con un duplice risultato: aumentare la trasformazione del territorio da aperto e naturale a chiuso e costruito (poiché è noto che le tendenze all’edificazione e alla privatizzazione sono massime al livello comunale), e affidare la composizione dei diversi interessi alla magistratura anziché al corretto rapporto procedimentale.

Si può affermare che, nell’ultimo decennio del secolo scorso (dalla legge 142/1990 alle successive leggi urbanistiche regionali) era maturato un equilibrio costituito da un sapiente contemperamento dei diversi “punti di vista” (nazionale, regionale, provinciale, comunale) mediante procedure chiare, definizione di distinti campi d’interesse (gli oggetti e aspetti rilevanti a livello regionale non sono certo uguali a quelli rilevanti a livello comunale), sperimentazione di modalità di collaborazione diverse da quelle burocratiche del passato (conferenze di pianificazione, intese interistituzionali, tecniche di co-pianificazione). Ora invece, grazie alla ventata “federalista”, si sta rapidamente giungendo a una prassi, codificata legislativamente, per cui la demagogia della devoluzione verso il livello più basso (e più debole, e più esposto al prevalere degli interessi forti) diventa l’unica regola. Salvo correggerla surrettiziamente mediante l’intervento discrezionale e autoritario del Governatore regionale.

Indurrà a riflettere la sentenza della Corte costituzionale? Altrimenti bisognerà attendere che, fra qualche lustro, i danni provocati dalle miopi imprudenze e dalle demagogie a buon mercato abbiano provocato una tal messe di proteste, denunce e disastri tali da imporre un brusco cambiamento di rotta. Ma i cocci saranno delle generazioni future.

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“È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 42, comma terzo, Cost., il combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, comma 1, l. 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifica ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, in quanto - posto che il problema di un indennizzo a seguito di vincoli urbanistici (come alternativa non eludibile tra previsione di indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del vincolo) si può porre sul piano costituzionale quando si tratta di vincoli che: a) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni, b) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge, c) superino sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità secondo una concezione della proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.);art. 42, comma secondo, Cost.); che la reiterazione in via amministrativa dei vincoli urbanistici decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale; che essi assumono, invece, carattere certamente patologico, in assenza di previsione alternativa di indennizzo e fermo che l'obbligo di indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia), quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga "sine die" o all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, e cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza; e che restano al di fuori dell'ambito della indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni (ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici), i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile - una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico, avente le anzidette caratteristiche, se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione (o al serio inizio dell'attività preordinata all'espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo.“

“I beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro locazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalle legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l'amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso, in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno le qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull'uso del bene medesimo.”

“L'atto amministrativo che acclara la situazione dei beni naturalmente paesistici non è accostabile ad un atto espropriativo e non pone perciò in essere la garanzia di indennizzo apprestata dell'art. 42 terzo comma della Costituzione.”

“Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare sulle aree vincolate che siano considerate fabbricabili (art. 15 secondo comma). Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull'area, perchè questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; nè aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone.”

“Che non vi sia garanzia di un indennizzo per la limitazione nascente dal vincolo posto sui beni che hanno il carattere di bellezza naturale, deriva dall'essere il regime paesistico del tutto estraneo alla materia dell'espropriazione per pubblico interesse.”

“La garanzia della proprietà privata è menomata qualora i singoli diritti che all'istituto si riconnettono vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l'appartenenza del diritto. Il principio della necessità dell'indennizzo non opera invece nel caso di disposizioni le quali si riferiscano ad intere categorie di beni, sottoponendo in tal modo tutti i beni della categoria senza distinzione ad un particolare regime di appartenenza.”

“Il concetto di proprietà privata non può venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine ad essere sottoposto, nel suo contenuto, ad un regime determinabile con legge ordinaria. Il legislatore può perfino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, oltre che imporre limitazioni, in via generale, o autorizzare imposizioni in via particolare, le quali peraltro non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico, assumendo così carattere espropriativo. I commi secondo e terzo dell'art. 42 Cost. vanno insieme considerati e coordinati per ricavarne, alla stregua di quello che, in base all'ordinamento giuridico attuale, rappresenta il vigente concreto regime di appartenenza dei beni, l'identificazione dei casi nei quali, nell'ipotesi della imposizione di limiti, si verifichi una incidenza negativa a titolo individuale sulla proprietà riconosciuta secondo il regime stesso, ed occorre conseguentemente far luogo all'indennizzo.”

“I vincoli di cui ai nn. 2, 3 e 4 dell'art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono immediatamente operativi e validi a tempo indeterminato. Viene pertanto a determinarsi un distacco fra l'operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento di risultati finali del piano stesso, che sono dilazionati a data incerta, imprevista ed imprevedibile nel suo verificarsi. Peraltro, nel sistema della legge, non è di regola previsto indennizzo per nessuno dei detti vincoli, né, in particolare, nel caso di trasferimenti coattivi, per il vincolo di immodificabilità cui il proprietario è tenuto a sottostare per il tempo illimitato durante il quale rimarrà in attesa del trasferimento.”

“I beni immobili che ricadano nella sfera di applicazione della legge urbanistica continuano ad essere considerati di pertinenza del proprietario, con gli attributi inerenti alla loro possibilità di utilizzazione, per cui i proprietari che vengano a subire un trasferimento coattivo conseguono il valore venale attuale dei beni. Tuttavia la proprietà in questione è sottoposta ad alcuni limiti, in relazione alla funzione sociale che le è propria. Tra questi limiti sono da ritenere legittimi quelli connessi e connaturati a detta proprietà, in quanto hanno per scopo una disciplina dell'edilizia urbana nei suoi molteplici aspetti, ivi compresi, in particolare, i vincoli di immodificabilità (per la limitata durata, purché ragionevole, dei piani particolareggiati) di quelle aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate trasformazioni a diverse utilizzazioni in considerazione della particolare natura e funzione dei piani stessi.”

“Sottrarre, senza indennizzo, beni immobili, alla loro riconosciuta destinazione, dal momento in cui su di essi interviene il vincolo urbanistico, significa operare una incisione a titolo individuale sul godimento del singolo bene che penetra al di là dei limiti configurati dalla legislazione stessa, che prevede invece l'indennizzo secondo il valore venale per gli immobili dei quali viene imposto il trasferimento per finalità urbanistiche. Questa incisione deve essere pertanto indennizzata a favore del proprietario, il cui interesse è subordinato a quello generale della collettività per quanto riguarda la sottoposizione ai vincoli, ma non per quanto riguarda le più gravi conseguenze economiche che ne derivano sul patrimonio di alcuni soltanto dei componenti la collettività destinataria della legge.”

“Quando le limitazioni immediatamente operative nei confronti di diritti reali di cui ai nn. 2, 3 e 4 dell'art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, abbiano contenuto espropriativo, le predette norme, nonché l'art. 40 della stessa legge nella parte in cui non ne prevedono l'indennizzabilità, sono costituzionalmente illegittime. Ferme restando che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse dall'art. 42 comma secondo Cost. (ad es., gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari), spetterà agli organi di giurisdizione ordinaria desumere, dalla casistica delle imposizioni, la rispettiva inserzione nei "vincoli di zona" contemplati nel n. 2 del citato art. 7 della legge n. 1150 del 1942, ovvero in una delle altre categorie indicate. Neppure spetta alla Corte, una volta riconosciuto il detto difetto di previsione legislativa, esaminare le modalità con cui, nei casi dovuti, debba procedersi all'indennizzo.”

“L'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere tuttavia fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro. A tali fini deve aversi riguardo al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso secondo legge, come nel caso di aree destinate all'edificazione in quanto poste in zone già interessate dallo sviluppo edilizio. Per siffatti beni la determinazione dell'indennità secondo il criterio del valore agricolo medio dei terreni, secondo i tipi di coltura praticati nella regione agraria interessata, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto che porta alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell'area da espropriare, con palese violazione del diritto a quello adeguato ristoro che la norma costituzionale assicura all'espropriato. Sono perciò illegittimi costituzionalmente gli artt. 16 e 20 della legge 22 ottobre 1971 n. 865, 14 e 19 della legge 28 gennaio 1977 n. 10 e dell'articolo unico della legge 27 giugno 1974 n. 247. - cfr. S. nn. 138/77, 115/69.”

“Non è esatto, in base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato la edificabilità dei suoli al rilascio di una concessione, che l'ius aedificandi non inerisca più al diritto di proprietà, potendo la edificabilità delle aree essere stabilita solo con provvedimento dell'autorità; relativamente ai suoli destinati dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, infatti, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell'area il quale, concorrendo le condizioni previste dalla legge, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti. Pertanto nella determinazione della indennità di espropriazione, rilevante essendo la destinazione edilizia del suolo, occorre assicurare la congruità del ristoro spettante all'espropriato, che non può essere né apparente né irrisorio rispetto al valore del bene.”

Inseriamo di seguito il primo paragrafo ("Il paesaggio come bene patrimoniale") del primo capitolo ("La filosofia del piano") del Documento programmatico del PPR della Puglia. Esso definisce, dal punto di vista metodologico e operativo, il programma di formazione del PPR della Puglia. E' stato elaborato dal coordinatore scientifico del piano, Alberto Magnaghi. In calce il link per scaricare il documento integrale, estratto dal Bollettino Ufficiale Regionale, n. 168 del 27.11.2007

I paesaggi delle Puglie, prodotti nel tempo lungo della storia dalle “genti vive” (Sereni) che li hanno abitati e che li abitano, costituiscono il principale bene patrimoniale (ambientale, territoriale, urbano, socio culturale) e la principale testimonianza identitaria per realizzare un futuro socioeconomico durevole e sostenibile della regione.

Questo futuro non risiede in una esasperata accelerazione degli scambi, della standardizzazione dei prodotti, della mobilità di merci e persone sul mercato mondiale, ma nella capacità di innovare, produrre e scambiare beni che solo in quel luogo del mondo possono venire alla luce in quanto espressione culturale di una identità di lunga durata che il paesaggio, a ben interpretarlo, racconta, Un’identità che si è costruita nell’azione umana di lunga durata, esito evolutivo di dinamiche relazionali nelle quali le dimensioni dello spazio e del tempo sono indissolubilmente legate. In questa visione è necessario superare la distinzione che faceva alternativamente prevalere l’uno sull’altro, con lo spazio il più delle volte percepito quale sfera della fissità (e dell’inerzia), in opposizione al tempo come dominio del movimento (e del progresso) [1].

In questo senso il paesaggio ha valore di patrimonio sociale e di bene comune che deve essere continuamente costruito e ri-costruito mediante azioni di conservazione, valorizzazione, riqualificazione.

Il paesaggio storico è ricco di idee, di invenzioni, di narrazioni. Certo un paesaggio inteso non solo come veduta, “bello sguardo”, ma indagato, decifrato, nella sua bellezza, come specchio dell'anima dei luoghi, come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità” (art 5 della Convenzione europea del paesaggio). In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro. Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla cultura locale di “ripensare sé stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, ai propri miti, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica.

Miti questi ultimi che tendono a rappresentare il territorio come un insieme di “piattaforme” transnazionali, nazionali, interregionali, regionali: piattaforme logistiche, produt.tive, fasci infrastrutturali (corridoi); le città diventano “snodi”, “sistemi commutatori fra flussi”.

La Puglia è disegnata in queste rappresentazioni come un insieme di rettangoli che collegano cerchi e quadrati (corridoi che collegano piattaforme logistiche, porti, interporti, zone industriali e cosi via). Questa rappresentazione funzionale per nodi e flussi, se assunta come unico criterio interpretativo “sovraordinato” delle opportunità territoriali, rischia di obnubilare l’identità dei luoghi, trasformandoli in crocevia (snodi) omologati e omologanti di funzioni economiche dei mercati globali. La rappresentazione identitaria dei paesaggi, restituendo evidenza socioeconomica alle peculiarità del territorio, dovrebbe restituire alle relazioni fra luoghi il loro valore strutturale di sviluppo degli scambi fra società locali (regioni, microregioni) e della loro connessione a rete per la cooperazione oltre che per la competizione [2].

Uno sviluppo locale che si richiami al concetto di autosostenibilità deve innanzitutto, come argomenta Gianfranco Viesti, far riferimento alla “capacità delle istituzioni e delle società locali di valorizzare .le risorse disponibili”4. [3]. Ma quali risorse? Certo in primo luogo “conoscenza”, “saperi”, “cervelli”; ma, aggiungo, quando queste risorse riescono a trarre la loro ragione di scambio (con altre conoscenze e “cervelli”) dal profondo dei giacimenti identitari, che le proiettano sulla scena globale come attori originali di un processo dì cooperazione-competizione e non come oggetti di un percorso di omologazione e, infine, di subordinazione culturale ed economica; contribuendo in questo modo a ridefinire il concetto stesso di “sviluppo”.

Il Piano paesaggistico dunque si candida ad essere strumento per riconoscere, denotare e rappresentare i principali valori identitari del territorio; per definirne le regole d’uso e di trasformazione da parte degli attori socioeconomici; per porre le condizioni normative e progettuali per la costruzione di valore aggiunto territoriale[4]come base fondativa di uno sviluppo endogeno e autosostenibile [5].

[1]J. May e N. Thrift, a cura di, Timespace: Geographies of Temporality, Routledge. Florence, KY, USA, 2001.

[2] Massimo Quaini fa riferimento a questa speranza quando, descrivendo uno scenario oppositivo alle maglie larghe della globalizzazione nel modello di sviluppo della Liguria, scrive: “il secondo registro identitario punta ... alla centralità dei territorio locale e sulla diversità dei paesaggi ... è un registro fatto di molte identità locali non ancora sacrificate sull’altare della velocità dei flussi e delle reti; che fa proprio l’elogio della lentezza e si realizza nella costruzione di uno spazio più conviviale, che conflittuale. … Le identità e i paesaggi locali per sopravvivere hanno bisogno di circuiti economici ben radicati nelle qualità e nelle risorse del territorio e per funzionare devono saper mettere insieme propensioni, domande e consumi tipicamente post-industriali e post-moderni e dunque fare appello a u mercato più vasto. È il caso per esempio della riscoperta delle vocazioni agrarie e produzioni alimentari e artigianali di qualità, collegato a nuove forme di viaggio lento e di turismo culturale, come anche di scoperta della fascia collinare come luogo di residenza alternativo alle invivibili aree metropolitane.

[3] G. Viesti, Le tessere del mosaico. Rimettere insieme la Puglia, Laterza, Bari 2005.

[4] Per “Valore Aggiunto Territoriale” di un sistema locale intendo: una crescita durevole del patrimonio prodotta dalla messa in valore delle risorse ambientali e socio-territoriali, garantendone la riproduzione nel tempo e determinando empowerment della società locale; il conseguente sviluppo della capacità di autoriproduzione della società locale, anche attraverso la riduzione della sua impronta ecologica come aumento di autosufficicnza alimentare, energetica, tecnologica.

[5] Il concetto di autosostenibilità è riferito at superamento del concetto di ecocompatibililà ovvero di un modello di sviluppo che richiede correttivi e puntelli esterni per essere sostenibile; l’autosostenibilità la riferimento a un modello di sviluppo che trova nelle regole riproduttive delle sue risorse locali la capacità autogenerativa delladurevolezza. Vedasi in proposito il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

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Per prima cosa cominciamo dal territorio e dalle sue “tensioni” principali. In Sardegna, la nuova giunta guidata da Soru ha messo al primo punto della propria azione la protezione delle coste da un dissennato sfruttamento edilizio, facendone l’emblema di un modo diverso di guardare alla regione e al suo sviluppo. In Friuli – Venezia Giulia l’impegno principale sembra nella realizzazione di grandi infrastrutture in una logica transfontaliera. In Puglia, esiste una questione specifica che l’amministrazione Vendola ha individuato come nodo prioritario da affrontare e come elemento distintivo della propria attività di governo del territorio?

La situazione pugliese è molto diversa da quella sarda. Diversamente dalla Sardegna, al momento dell’insediamento della nuova Giunta Regionale, in Puglia era vigente un piano paesistico , approvato in via definitiva nel 2001 sebbene presentasse rilevanti problemi di attuazione. Il piano paesistico era uno strumento che avevamo molto criticato quando eravamo all’opposizione, tuttavia va riconosciuto che in alcune situazioni si è rivelato importante per evitare trasformazioni del territorio dissennate, soprattutto nelle aree sensibili dal punto di vista paesaggistico. Per questa ragione abbiamo deciso di non ripartire da zero; sia nel caso del piano paesistico, sia nel caso della legge urbanistica regionale , la nostra scelta è stata quella di utilizzare gli strumenti esistenti, sebbene con un indirizzo politico diverso. Questa scelta è stata motivata da una ragione di economia del tempo: porre subito mano ad una nuova legge probabilmente avrebbe assorbito tutte le energie dell’amministrazione regionale per l’intero primo mandato. Siccome la legge approvata aveva un struttura “leggera”, rinviando ad atti di indirizzo e regolamentari, abbiamo ritenuto che questi ultimi potessero essere riempiti di contenuti e questo abbiamo fatto. Dovendo pertanto individuare una questione specifica che possa assumere un significato simbolico del cambiamento impresso dalla nuova amministrazione, possiamo dire che l’obiettivo prioritario è stato quello di rendere nuovamente la pianificazione centrale nei processi di governo del territorio. Questa è la sfida che noi abbiamo voluto lanciare a tutti, segnando una discontinuità con la precedente prassi derogatoria e sregolata.

La Puglia è una regione particolarmente vivace dal punto di vista economico, in particolare nelle aree centrali e, attualmente, anche nella parte Salentina, solo geograficamente periferica. A partire dalla metà degli anni 90 si erano sviluppate in Puglia numerose iniziative tese ad aggirare, forzare, o semplicemente derogare rispetto a una pianificazione che, col passare del tempo, stava diventando sempre più un simulacro incapace di rispondere ai bisogni alle domande sociali. Tra l’altro, si deve sottolineare che la pianificazione di area vasta era praticamente inesistente - fatta eccezione per il PUTT cui ho accennato in precedenza, peraltro fondato su un quadro conoscitivo datato e frutto di un lunghissimo periodo di gestazione che l’aveva slabbrato da tutte le parti - e la pianificazione comunale era fondata su strumenti altrettanto datati e su un modello di pianificazione così rigido che aveva finito con il giustificare la richiesta di deroghe. La legge regionale 56 del 1980, per esempio, vietava varianti agli strumenti urbanistici dei piani non adeguati alla legge stessa, fatta eccezione per i PIP, PEEP e opere di interesse pubblico. Un meccanismo che aveva portato la regione stessa ad approvare norme derogatorie. E’in questo contesto che noi ci siamo insediati, cercando di rendere competitiva la pianificazione.

La legge 20/2001, tutto sommato, da questo punto di vista ha giovato perché prevede tempi certi di approvazione degli strumenti urbanistici comunali. In precedenza, nella prassi, gli uffici regionali approvavano la strumentazione urbanistica in 6 o 7 anni, facendo così decadere le norme di salvaguardia e creando una situazione assolutamente folle. Paradossalmente, la procedura del silenzio assenso, che potrebbe apparire devastante, in realtà costringe a correre e a dare certezza ai tempi della pianificazione, obbligando a concludere il procedimento di verifica di compatibilità nei sei mesi sanciti dalla legge. Questo fa riflettere circa la necessità di giudicare i singoli istituti procedimentali alla luce delle specificità dei contesti. La prima richiesta che ho avuto da parte degli uffici, quando mi sono insediata, è stata quella di modificare questo punto della legge, ma io mi sono opposta, proprio per impedire il ritorno ai tempi infinitamente lunghi del passato, che tanto avevano determinato la delegittimazione sociale dei piani urbanistici quali primari strumenti di governo del territorio.

Il punto di forza della nostra azione amministrativa è, dunque, rendere la pianificazione del territorio nuovamente importante per costruire uno sviluppo sostenibile, renderla competitiva rispetto alle pratiche derogatorie, anche perché sono convinta che quell’accelerazione che dovrebbe caratterizzare queste pratiche, generalmente non si realizza, fatta eccezione negli interventi portati avanti da poteri forti con capacità di farsi ascoltare a livello regionale e di far modificare addirittura le norme, così come è avvenuto, in maniera incrementale, negli anni scorsi. Molti strumenti messi a punto con pratiche derogatorie hanno però trovato nella magistratura penale una ragione di blocco e, quindi, neppure dal punto di vista dell’efficienza si sono rivelati vantaggiosi per gli stessi operatori che li avevano promossi. Potendo argomentare, con dati alla mano, circa l’infondatezza dell’efficacia di una visione iperliberista, abbiamo puntato tutto sull’irrobustimento e sull’innovazione della sistema di pianificazione regionale ai vari livelli, incentivando i comuni a redigere i nuovi piani urbanistici generali e le province i piani territoriali di coordinamento, anziché attendere l’approvazione del nuovo documento regionale di assetto generale (DRAG) come prospettato dalla legge regionale 24/2004, che aveva modificato la legge regionale 20/2001 condizionando appunto al DRAG la conclusione degli iter degli strumenti di pianificazione previsti dalla legge stessa. Abbiamo voluto fornire uno stimolo agli enti locali, nella convinzione che un deficit di pianificazione in questa regione così vivace avrebbe avuto effetti nefasti, poiché le pressioni e spinte economiche avrebbero portato inesorabilmente le amministrazioni, a tutti i livelli, a trovare strade contorte per soddisfare le richieste.

Un grande rischio corso anche dalla stessa amministrazione regionale. Devo per esempio sottolineare che in Puglia lo strumento dello sportello unico per le attività produttive previsto dal Dpr 477/1998 è inteso come uno sportello “in variante”, cioè un modo per ottenere una modifica ai piani; piani molto vecchi che, non prevedendo aree destinate ad attività produttive, turistiche ecc. consentono di ricorrere all’articolo 5 del DPR 447, che prevede, in via “straordinaria-eccezionale”, l’uso dello sportello unico in variante. Nella nostra regione questa eccezione è invece diventata una prassi. Nel 2006 abbiamo avuto 360 domande di varianti allo sportello unico per le attività produttive e abbiamo registrato negli anni centinaia di accordi di programma in variante alla strumentazione urbanistica.

D. Avete quindi una regione che chiede industrie, turismo e offerta di spazi per attività produttive oppure dietro tale domanda si nasconde un’attività prevalentemente speculativa?

R. La pressione per costruire risente molto della componente speculativa legata alla valorizzazione dei suoli, però sarebbe rozzo interpretazione esclusivamente in questo modo la domanda. Ci sono molte attività produttive che hanno bisogno di ampliarsi e di rilocalizzarsi. La Puglia è una regione vivace, non siamo in presenza di una fase stagnante, almeno per alcune attività. Si consideri che negli anni ’90 c’è stato un vero e proprio boom del distretto del salotto imbottito, del calzaturiero. Il Salento ha avuto uno sviluppo turistico straordinario proprio negli ultimi 10 anni. Nella passata amministrazione si pretendeva di gestire tutto ciò attraverso singoli accordi di programma o varianti puntuali agli strumenti urbanistici. Ad un certo punto il sistema è saltato e gli operatori economici più illuminati, più corretti e più avveduti, hanno cominciato a chiedere regole chiare, certe e più trasparenti. Con qualche eccezione nel foggiano che rimane un contesto molto, molto difficile. Per questo abbiamo disciplinato le possibilità offerta dall’art. 2 del DPR 447/1998, prevedendo la possibilità delle varianti urbanistiche per dare risposte a queste domande localizzative così da spuntare le armi a questo uso assolutamente improprio dello sportello unico in deroga su singoli progetti.

D. Il sistema insediativo pugliese può essere accumunato ad altri parti d’Italia dove negli ultimi dieci anni la crescente divaricazione nella distribuzione del reddito ha prodotto un aumento delle disuguaglianze territoriali, tra centro e periferia, tra aree congestionate e territori in abbandono. Il cosiddetto sprawl e la crisi dei sistemi di trasporto pubblico hanno alimentato questo fenomeno. E’ così anche in Puglia?

R. Assolutamente si, ma con alcune peculiartà. Sarebbe sbagliato parlare in questo contesto di città diffusa secondo il modello veneto, pur in presenza di insediamenti diffusi; peraltro c’è un nesso di causa-effetto anche in relazione a quello di cui abbiamo parlato precedentemente: in numerosi casi, i singoli insediamenti nati nel territorio agricolo in deroga ai piani sia con destinazione produttiva che con destinazione residenziale, sono sorti senza urbanizzazioni.

Esiste una singolarità pugliese, purtroppo alimentata dalla pianificazione, Nella redazione dei PRG le analisi relative ai fabbisogni vengono elaborate secondo tabelle contenute in indirizzi regionali. Di fatto il criterio adottato dalla regione Puglia per esaminare gli strumenti urbanistici poggiava essenzialmente sul rispetto di queste tabelle e quindi su un riscontro esclusivamente di tipo quantitativo del dimensionamento del piano in rapporto a fabbisogni peraltro astrattamente valutati. In assenza di procedure di indirizzo che andassero oltre questa grezza quantificazione accadeva che i comuni presentassero piani sovradimensionati, perché la spinta all’espansione non è mai venuta meno. La Regione, ancorandosi al rispetto dei criteri quantitativi, chiedeva in fase di approvazione la riduzione della capacità insediativa di piano, cosa che, una volta che il piano è stato adottato e osservato, non era facile ottenere. A questo scopo, era la regione stessa a suggerire, inizialmente in modo informale e successivamente addirittura nel deliberato, di ridurre le densità, con tre gravi conseguenze dal punto di vista della sostenibilità:

- alimentazione dello sprawl, con tutte le conseguenze di insostenibilità ambientale che un simile modello insediativo comporta;

- insostenibilità sociale, derivante dal fatto che indici di edificabilità così bassi non consentono di realizzare edilizia sociale e, più in generale, a contenere i costi insediativi;

- insostenibilità economica, perché può non esserci convenienza alla trasformazione se viene imposto un indice di densità insediativa troppo basso, per gli elevati costi di urbanizzazione sopportati dai promotori delle iniziative e perché i costi di manutenzione e gestione delle infrastrutture e dei servizi posti a carico della collettività diventano insopportabili. In questo momento si sta provando a riflettere su una norma che incentivi la densificazione perché anche gli ultimi piani approvati presentano queste difficoltà.

Esiste poi un altro problema che è importante considerare: negli ultimi 30 anni c’è stata molta attenzione verso la tutela della fascia costiera: già la legge 56/1980 non consentiva l’edificazione entro 300 metri dalla costa; la successiva legge 30, contenente le norme transitorie di salvaguardia in attesa del piano paesistico, aveva riconfermato questa previsione per tutte le aree sulle quali non si fossero consolidati diritti di trasformazione, disposizione fatta propria dal piano paesistico.

La pressione per la trasformazione turistica e la realizzazione di insediamenti turistici – impedita lungo la costa – ha trovato sfogo nell’entroterra, privo di strumenti di tutela. Quindi la sfida che oggi abbiamo di fronte è di pianificare quelle parti del territorio ignorate dal vigente piano paesistico o rimaste lettera morta, cosa che è avvenuta per tutte quelle parti del PUTT contenenti direttive e indirizzi. Pensiamo di farlo agendo sulle parti del piano paesistico che rimandano a piani di secondo livello, chiamate “sotto-ambiti”, e facendo riferimento ai contenuti conoscitivi del piano riguardo alla tutela del territorio rurale, nell’espressione dei pareri paesaggistici.

D. E’ opinione corrente che in Italia vi sia un rilevante deficit infrastrutturale (basti pensare alle grandi opere, agli inceneritori, alle centrali....) da colmare in fretta per garantire un benessere futuro ai cittadini, in particolare al Sud. Nuove strade, impianti e centrali, nuovi spazi per la produzione, il commercio e il turismo di massa: tutte queste domande amplificano anziché attenuare i conflitti con il paesaggio e con l’ambiente, e solo una minoranza di amministratori e di politici percepisce i rischi di un’ulteriore compromissione del territorio e l’urgenza di un significativo cambiamento di strategia. Come intende affrontare questo problema la Giunta regionale?

Io sono convinta che non ci sia alcun deficit di infrastrutture. Semmai – in alcuni punti – è vero l’esatto contrario, siamo in presenza di un eccesso di offerta. Si pensi alla statale 100, parallela all’autostrada Bari-Taranto, pericolosa da percorrere in quanto praticamente deserta, oppure alla statale 16bis, ormai completata in direzione nord e in direzione sud a quattro corsie.

Certamente per ciò che riguarda la rete stradale, non si tratta di un problema di carenza in senso assoluto. Per quanto attiene alle infrastrutture ferroviarie i problemi principali sono legati all’ammodernamento. Si pensi alle linee Bari-Taranto, Bari-Matera, alla stessa Bari-Lecce che solo di recente ha il doppio binario elettrificato. Ci sono però interventi più modesti che sono assolutamente necessari per rendere pienamente funzionanti queste infrastrutture. Penso all’ultimo tratto del collegamento Bari-Taranto, alla mancanza di un collegamento veloce tra il punto dove termina l’autostrada, il porto e il grande complesso industriale. Una strada congestionatissima e assolutamente impraticabile allunga a dismisura i tempi di percorrenza: si impiega lo stesso termpo per percorrere l’intero tratto autostradale e i pochi chilometri di strada ordinaria che servono per arrivare al porto e alla città.

D. Anche in provincia di Foggia è particolarmente evidente l’assenza della politica “dell’ultimo miglio”: la dotazione infrastrutturale è elevata nel complesso ma incompleta in alcuni punti cardine, sono assenti le connessioni e carente l’integrazione tariffaria, la gestione e perfino la manutenzione.

La politica dell’ultimo miglio è tradizionalmente mancata. E’ mancata una politica di raccordo e di connessione tra infrastrutture diverse, cioé di intermodalità, così come di connessione tra infrastrutture dello stesso tipo. Per esempio abbiamo avuto tante ferrovie in concessione che non hanno mai dialogato, né tra loro e neppure con quelle statali, creando più disfunzioni che servizi.

Devo anche evidenziare un deficit di servizi alla produzione, da un lato, e alla persona, dall’altro. Lo possiamo facilmente constatare facendo riferimento ad alcuni semplici indicatori utilizzati nelle statistiche europee e nazionali (servizi alla produzione in relazione agli addetti all’industria, densità di servizi ricreativi, culturali o sportivi alla persona). Dobbiamo lavorare molto in questa direzione, un po’ per colmare le carenze del passato, un po’ perché l’attenzione si è concentrata sulla realizzazione dei contenitori più che sulla della gestione del servizio. Abbiamo quindi molte opere incompiute e altrettante completate, ma non gestite, e quindi in stato di degrado. E’ questo uno dei principali problemi che abbiamo di fronte per il prossimo futuro.

Tra gli aspetti da correggere c’è anche la politica degli insediamenti industriali. Ogni città ha realizzato un proprio piano per gli insediamenti produttivi, ma in molti casi risultano carenti o assenti le infrastrutture tecnologiche, le urbanizzazioni e – ovviamente – tutti i tipi di servizi, dall’elaborazione dei dati alle mense. Le aree industriali sono costituite da meri agglomerati di capannoni che spesso non hanno conservato nemmeno la destinazione produttiva, ma ospitano attività commerciali, perchè anche in Puglia abbiamo consumi che superano di molto la produzione, uno sbilanciamento storico tipico del mezzogiorno alimentato dai redditi per assistenzialismo. Dobbiamo intervenire in questo campo creando servizi intercomunali con dimensioni tali da servire bacini ampi e gestibili economicamente.

D. Esistono soggetti intermedi tra il pubblico e il privato, su cui puntare per ampliare l’offerta di servizi?

R. Il settore intermedio è debole perché non c’è un rapporto unidirezionale tra domanda e offerta. Dal mio punto di vista, la debolezza è dovuta anche al fatto che non c’è stata una politica di valorizzazione del settore intermedio.

Vi sono state amministrazioni locali che invece hanno sostenuto il settore intermedio, soprattutto nel Salento, dove ci sono amministrazioni comunali hanno dovuto rivolgersi all’esterno per le piccole dimensioni e per la fragilità di bilancio; bisogna dire che nel Salento, in questi piccoli centri, c’è maggiore coesione sociale, ci sono pochi interlocutori e pertanto non si generano quei conflitti che nascono nei grandi centri e che si scatenano quando si mettono in competizione rappresentanti di diversi interessi. A me sembra che le esperienze in atto facciano ben sperare, sia nel settore cooperativo, sia in quello dell’associazionismo sociale e soprattutto culturale. Tuttavia occorre estendere l’esempio del Salento alle altre parti della regione e la regione potrebbe sostenere queste iniziative attraverso la programmazione comunitaria, che finora si è rivolta unicamente agli enti locali con tutti i rischi che questo comporta anche di appesantimento gestionale.

D. Gli enti locali hanno colto l’importanza della gestione associata oppure prevalgono le spinte locali anche a scapito dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi erogati?

R. Su questo stiamo molto lavorando insieme agli aderenti all’ANCI che si sono dimostrati più sensibili all’esigenza fare sistema. Esistono spinte locali molto forti che possono essere contrastate solamente attraverso un uso sapiente degli incentivi che favoriscano forme di aggregazione stabile. Non mancano esperienze di aggregazione, anzi sono piuttosto numerose, ma sono ancora largamente opportunistiche. Laddove manca l’incentivo, prevale la spinta municipalistica, anche dove non c’è sostenibilità degli interventi, per mancanza di maturità politica e per incapacità di andare oltre la costruzione di un consenso di corto respiro.

D. Anche alla luce di questo fenomeno, non sarebbe preferibile puntare sulle province – innanzitutto – e poi, semmai, su associazioni ‘istituzionali’ come le comunità montane?

R. Dal mio punto di vista, innamorarsi di modelli astratti senza metterli alla prova è sempre sbagliato. Quando ci siamo insediati abbiamo certamente puntato sulle province dando loro quel ruolo e quell’importanza che non avevano avuto prima, anche per motivi di schieramento politico. La regione era di centro-destra e le province di centro-sinistra, pertanto il protagonismo di queste ultime non era visto di buon occhio; al contempo, alcuni capoluoghi provinciali erano di centro-destra, e quindi tenuti in grande considerazione dalla regione, ma per reazione tutto ciò aveva dato origine ad una aggregazione spontanea dei piccoli centri, allo scopo di contrastare la forza dei capoluoghi.

La nuova giunta ha rafforzato il ruolo delle province come enti intermedi, rimuovendo tutti gli ostacoli che si frapponevano, anche perché ritenevamo che le aggregazioni volontarie, legate alle opportunità che man mano si presentavano, stavano determinando una geografia così variabile e confusa da provocare disfunzioni di tipo programmatico e gestionale, come abbiamo poi dimostrato nelle Proiezioni territoriali per il documento strategico regionale che abbiamo di recente approvato.

Avevamo puntato sulle province, ma, per la verità, a due anni di distanza non tutte hanno raccolto la sfida: alcune amministrazioni provinciali hanno lavorato, sono andate avanti, hanno dimostrato di avere un livello di maturità e consapevolezza notevole, altre sono appena partite. E’ chiaro che nei territori nei quali le amministrazioni si rivelano incapaci di avviare dei processi di programmazione e pianificazione di area vasta e si dimostrano incapaci di essere concretamente il punto di snodo e coordinamento del livello comunale, una riflessione va aperta. Penso alle politiche abitative e alla costituzione dell’osservatorio sulla condizione abitativa, nel quale abbiamo coinvolto pienamente le province, svolgendo le riunioni nelle loro sedi e coinvolgendole nella tenuta dei contatti con i comuni. In alcuni casi non abbiamo nemmeno ottenuto risposta, in altri si sono limitati a mettere a disposizione una sala e ai saluti formali di rito.

Le province, qualora fossero dotate di piani territoriali di coordinamento, potrebbero partecipare già oggi attivamente al controllo di compatibilità dei piani urbanistici comunali, che la regione svolge con il piano paesistico, gli altri piani regionali e le norme regionali nella conferenza di co-pianificazione che è prevista dalla legge 20/2001: largamente non partecipano alle conferenze di servizi, e quando vi partecipano, per la verità, esse non hanno molto da dire.

D. In un quadro siffatto, chiamata a programmare un’ingente spesa pubblica sostenuta da consistenti incentivi comunitari, la Regione ha puntato le sue carte sulla pianificazione strategica. Come è intesa quest’ultima dall’amministrazione Vendola e a quali condizione si pensa che possa costituire un’opportunità da cogliere, e non l’ennesimo grimaldello per favorire le spinte locali, grandi e piccole, a dispetto di ogni coerenza complessiva?

R. Può costituire o una opportunità o un de profundis della pianificazione territoriale a seconda di come le provincie saranno in grado di muoversi. Io, per mia formazione disciplinare, fuggo da ogni riflessione incentrata sugli strumenti, incapace di guardare agli esiti concreti che tali strumenti producono. Noi lo diciamo sempre anche come urbanisti che lo strumento dipende da chi lo usa e da come viene usato, ma poi cadiamo spesso nella trappola di ragionare sui modelli astratti.

Un esempio efficace è costituito dal programma Urban, che è stato il fiore all’occhiello di tante amministrazioni e della unione europea, programma di lotta alla esclusione sociale, programma che nasce come sperimentazione della integrazione tra dimensione fisica e dimensione sociale della riqualificazione urbana. Di fatto, in molte realtà, da programma di lotta all’esclusione sociale è diventato programma di valorizzazione immobiliare e quindi di promozione dell’esclusione sociale.

Questo è un esempio che a me sta particolarmente a cuore, perché riguarda la città di Bari, interessata da Urban I, e forse anche di Taranto ove è in corso di attuazione Urban II, perché così sta funzionando in tanti altri comuni che ho visto. Faccio questo esempio non a caso ma perché è stato giudicato il programma più maturo che noi abbiamo fatto e che ci obbliga a confrontarci con obbiettivi ed esiti piuttosto che sugli strumenti.

Non vi è dubbio che un piano territoriale di coordinamento provinciale, ma anche un piano urbanistico comunale, oggi non può non avere un contenuto strategico, inteso come la capacità di costruire la visione futura del territorio, delle sue potenzialità di sviluppo basate sull’analisi rigorosa dei punti di forza e di debolezza, dei rischi e delle opportunità; inoltre, se si considera l’approccio strategico come un approccio che obbliga a coinvolgere attori pubblici e privati nella condivisione di una visione, con una forte spinta di partecipazione anche dal basso e un orientamento all’azione, dal mio punto di vista, oggi, anche un piano territoriale di coordinamento provinciale deve avere un approccio strategico, non potendo contare esclusivamente sulla parte regolativa che sappiamo essere di “secondo livello”, ovverosia mirata a dettare indirizzi e direttive ai comuni.

In questo senso il PTC può essere una risorsa per la pianificazione strategica, perché coltiva la dimensione dell’area vasta. In certi contesti ciò costituisce un punto di vantaggio, poiché significa che si è già discusso, ci sono stati momenti di partecipazione e condivisione, sono stati individuati progetti che riguardano l’area vasta. A ben vedere, il problema principale è proprio questo: i piani strategici dovrebbero concentrare l’attenzione su progetti rilevanti per l’area vasta, invece che proporre sommatorie di singoli progetti municipali, cui viene fornita una mera cornice, puntando in realtà alla sola suddivisione delle risorse da assegnare. In realtà dove questo non c’è, è difficile da costruire rapidamente perché sappiamo che i piani strategici dovranno orientare la programmazione 2007/2013 e sarà difficile bruciare i tempi. Sia nel caso della provincia di Lecce che in quella di Foggia c’è voluto molto tempo per mettere in piedi un sistema robusto di conoscenze e visioni condivise ancorato alla pianificazione di area vasta. Abbiamo situazioni di grande potenzialità. L’importante è che non domini un vizio consolidato: quello di guardare ciascuno al proprio assessorato, al proprio settore e di portare avanti il proprio piano, ignorando il lavoro degli altri. Come se il piano paesaggistico potesse prescindere dalle decisioni sulle coste dell’assessore al demanio, o se le previsioni del piano dei trasporti potessero non tener conto di quello che propone l’assessorato all’assetto del territorio, e viceversa.

Stiamo cercando di dare una diversa impostazione al nostro lavoro e direi anche di dare un buon esempio alle province e ai comuni. Però non è facile, nonostante la nostra profonda convinzione. Non è facile soprattutto perché gli uffici oppongono resistenza, anche più degli stessi assessori; nel caso della giunta Vendola, come suole affermare Piero Cavalcoli, attuale dirigente del settore assetto del territorio che viene dall’esperienza dell’Emilia-Romagna, si osserva un rapporto inverso rispetto alla sua precedente esperienza: mentre in Emilia ad una burocrazia forte dal punto di vista culturale si contrapponeva una politica che tendeva ad indebolirsi, qui siamo in presenza di una burocrazia molto debole, che tende a frenare la politica, anche laddove quest’ultima è proiettata in avanti.

Il settore assetto del territorio è stato creato proprio per innovare le pratiche di governo del territorio in Puglia. Esso ha la responsabilità, fra l’altro, della redazione del nuovo documento regionale di assetto generale (DRAG) e del nuovo Piano paesaggistico. Vi sono settori regionali dove non vi è stato mai aggiornamento professionale e la ‘contaminazione’ con altre esperienze è importantissima; per quanto riguarda il rinnovo generazionale, sono in atto concorsi miranti, fra l’altro, a colmare le carenze dell’organico dovute ad un esodo incentivato promosso dalla precedente amministrazione. Ma permangono funzionari che hanno lavorato per 30 anni come dirigenti nello stesso settore, che si considerano custodi della memoria storica, e quindi del potere, rendendosi indispensabili a chiunque passi da politico per questi uffici. In questi casi, le incrostazioni sono talmente forti e sedimentate che non è possibile rimuovere o cambiare queste abitudini. Si adeguano, perché sono abituati ad ”assecondare” i politici o perché capiscono che altrimenti rischiano il posto, ma occorre spingerli, spronarli, fornire loro proposte, indicazioni, e persino schemi di delibere, che dovendo firmare si riservano di esaminare spesso dilatando i tempi attuativi.

L’opportunità di fare entrare gente nuova con i concorsi è premessa indispensabile per l’innovazione. Purtroppo però, da quando è stata istituita la regione, questo è il primo concorso. Ci sono quindi drammatiche aspettative interne, “giovani” che hanno 50 anni, entrati ad un livello e rimasti sempre a quello, che mal vedono immissioni dall’esterno. Il problema è che anch’essi sono stati formati dentro questo “sistema”. Questa situazione rappresenta, probabilmente, il principale problema di questo governo regionale. Anche se riusciamo ad approvare piani buoni, rivolgendoci se occorre all’esterno, anche se approviamo leggi buone e innovative, se la macchina amministrativa rimane immutata, rischiamo di sortire esiti non corrispondenti ai propositi di quello che approviamo. Su questo sono pessimista: è vero che abbiamo indetto concorsi che porteranno 70 nuovi dirigenti - 35 interni e altrettanti esterni – ma, da un lato, rimane il ”peso” preponderante della vecchia struttura, dall’altro, se è indubbio che i nuovi arrivati porteranno rinnovamento, resta il rischio che possa trattarsi di rigenerazione solo anagrafica e che essi siano presto assorbiti dalle routine consolidate.

«Rendere le trasformazioni del territorio coerenti con il paesaggio ma in grado di creare valore aggiunto»: è questa la sfida lanciata dalla Regione Puglia. Ne ha parlato l’assessore all’Assetto del Territorio e all’Urbanistica della Regione Puglia, Angela Barbanente, che ha presentato in un incontro con i giornalisti la «nuova generazione di Piani urbanistici della Regione Puglia», una ‘manovra’ che in pochi anni potrebbe trasformare il territorio, un nuovo modello di sviluppo dove l’attività umana non sarà in contrapposizione con il paesaggio.

E’ con questo spirito che in giunta sono state approvate alcune delibere, tra cui le più importanti sono: la delibera di adozione degli indirizzi per la pianificazione comunale che rappresentano una parte importante del Documento regionale di assetto generale (Drag); un protocollo d’intesa con il Comune di Corigliano d’Otranto, il primo Comune che ha chiesto di essere accompagnato formalmente dalla Regione nel percorso di applicazione degli indirizzi ancor prima che questi siano vigenti; e l’avvio della redazione del nuovo piano paesaggistico della Regione Puglia, adeguato alla convenzione europea del paesaggio e al nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. «E’ quindi - ha detto Barbanente - una vera e propria generazione di piani, di nuovi piani comunali che noi indirizziamo e di pianificazione regionale». Il nuovo piano paesaggistico - ha annunciato Barbanente - sarà diverso dai piano paesistico oggi in vigore: «Intanto il piano in vigore - ha detto Barbanente - è un piano che è stato costruito senza una cartografia adeguata. Oggi noi costruiamo il nuovo piano sulla cartografia nuova che abbiamo redatto per l’intera regione Puglia e quindi partiamo sulla base di conoscenza robusta: conoscere per pianificare, questo è un motto vecchio della storia dell’urbanistica».

Per la redazione del nuovo piano paesaggistico sono stati costituiti un comitato scientifico guidato dal prof. Alberto Magnaghi, ordinario di pianificazione territoriale della facoltà di architettura dell’Università di Firenze, esponente del movimento dei Nuovi Municipi che fonda la prospettiva dello sviluppo locale sul concetto della cittadinanza attiva; un nucleo tecnico operativo fatto da esperti dell’assessorato e del ministero. E’ anche in programma l’organizzazione di un ‘Forum del paesaggio’, per coinvolgere nella redazione del piano associazioni, cittadini, Comuni, organizzazioni sindacali.

Proposta di Accordo tra Regione e Province per la collaborazione in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica, Bari, 13 luglio 2005



Le ragioni del rilancio del ruolo delle autonomie locali nel sistema di governo del territorio regionale

La straordinaria domanda di innovazione e partecipazione democratica che ha segnato la nascita di questo governo regionale non può non investire anche il governo del territorio. Una domanda di forte discontinuità rispetto al passato nei rapporti fra Regione ed enti locali proviene dal sistema delle autonomie, che da tempo mostra forte insofferenza di fronte a tendenze regionali neocentralistiche. Essa è sostenuta dal mutato quadro istituzionale e normativo che, sia a livello europeo sia a livello nazionale, ha individuato nei principi della sussidiarietà, del decentramento dei poteri e della collaborazione interistituzionale i cardini dell’esercizio dell’amministrazione pubblica.

In nome di una sussidiarietà non solo di principio, ma intesa quale essenziale condizione di efficacia dell’azione amministrativa, città e territori pugliesi chiedono che siano loro attribuiti più ampi spazi e capacità di auto-governo, per stabilire assetti integrati di politica, società e cultura a livello locale. I processi alla base di tale richiesta sono complessi e largamente alimentati da iniziative di sviluppo locale i cui esiti non possono darsi per scontati. La questione importante, tuttavia, è che non è possibile ignorarli, facendosi sovrastare da eredità o resistenze del passato.

La domanda di decentramento si accompagna a un crescente protagonismo degli enti locali nella costruzione di strategie di sviluppo locale, che sollecita la pianificazione territoriale a diventare per queste un supporto piuttosto che un ostacolo. Ma essa è da mettere in relazione anche al crescente attivismo di cittadini e movimenti sociali, i quali fanno sentire sempre più forte la propria voce, talvolta esprimendo una domanda di qualità insediativa che le forme consolidate di governo del territorio sembrano non essere in grado di garantire.

La creazione di un rapporto di collaborazione fra Regione e autonomie locali è vitale, peraltro, per ristabilire un clima di fiducia fra detti enti, e fra questi e gli operatori economici, i gruppi sociali e i cittadini nel governo del territorio, dopo una lunga fase nella quale le lentezze esasperanti dei controlli regionali hanno fornito argomenti a supporto di una deregolazione selvaggia, la quale ha generato vaste aree di opacità e di iniquità e alimentato sospetti nei confronti dell’amministrazione regionale.

Il ruolo delle Province

Le Province possono divenire snodo fondamentale nei nuovi rapporti da stabilirsi fra Regione e livelli locali di governo territoriale, con riferimento non solo al sistema delle autonomie, ma a tutti i soggetti pubblici e privati operanti nel territorio. Questo ruolo non deriva soltanto dalle funzioni attribuite all’ente Provincia dalla legislazione nazionale e regionale, ma anche dall’esigenza di coordinare iniziative e modi d’uso del territorio che hanno quale scala di riferimento territori sempre più vasti. Si pensi alle tendenze di modificazione dell’offerta di attività ricreative, commerciali, direzionali, all’estensione delle aree di relativa domanda e alle forme di mobilità generate. Esso deriva, inoltre, dall’esigenza di non appiattire e banalizzare in quadri regionali aggregati, i caratteri di una Regione che presenta notevolissime differenze interne dal punto di vista ambientale, socio-economico e paesaggistico.

La mancanza, per oltre un ventennio dall’approvazione della legge urbanistica regionale 56/1980, di qualsiasi efficace quadro di riferimento pianificatorio sovracomunale è espressione evidente della difficoltà dell’Ente Regione di costruire scenari condivisi di organizzazione del territorio ad ampia scala. In mancanza di questi, l’attività di governo del territorio è stata dominata da un’interpretazione tutta procedurale e burocratica dei compiti a tale Ente attribuiti.

Le Province possono concorrere a modificare questa interpretazione delineando, mediante i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale, scenari futuri di sviluppo e tutela del territorio nell’area vasta. La pianificazione provinciale, poi, rappresenta occasione preziosa ai fini della costruzione di un sistema di conoscenze condiviso delle caratteristiche socio-economiche, ambientali, insediative e infrastrutturali, fornendo, da un lato, visioni più ricche, articolate e aggiornate di quelle oggi disponibili del territorio regionale, dall’altro, quadri di riferimento di area vasta per le diverse strategie d’azione di scala comunale.

Tale sistema di conoscenze dovrebbe essere integrato nel Sistema Informativo regionale in corso di realizzazione, e poi arricchito e migliorato con continuità affinché esso dia efficace supporto sia alla definizione delle linee di assetto del territorio regionale, sia all’elaborazione dei nuovi PUG comunali sia, infine, alle decisioni da assumersi nelle varie sedi della co-pianificazione e/o concertazione interistituzionale.

I vantaggi per l’intero sistema regionale derivanti dal decentramento alle Province di funzioni di governo del territorio consisterebbero anche nella possibilità di sollevare progressivamente la Regione da compiti gestionali che essa svolge con difficoltà, e consentirle di dedicarsi con maggiore intensità ed efficacia ai compiti che le sono propri, ossia all’esercizio della funzione legislativa e di raccordo fra potere centrale e locale.

Condizione essenziale affinché il livello provinciale non riproduca vizi e distorsioni di quello regionale, proprio come è accaduto per la Regione rispetto allo Stato, è la capacità di costruire visioni condivise intorno alla strategia complessiva, basata su un'attività di intenso ascolto della domanda sociale e sistematico coinvolgimento delle amministrazioni locali. Si tratta di impostare a tal fine una rete fitta e continua d’interazioni, perché quadri di conoscenze e opzioni pianificatorie da un lato traggano origine da saperi e istanze locali, e dall’altro si diffondano e radichino nei contesti locali, presso i comuni e la loro base sociale.

Il buon risultato dell’azione provinciale rispetto a quello regionale non può derivare soltanto da fattori di scala, magari appellandosi al principio di sussidiarietà, che presuppone che l’autonomia più grande si astenga dal trattare ogni problema che può essere affrontato da un’autonomia più piccola. Qualsiasi ordine stabilito una volta per tutte e privo della rete d’interazioni sopra accennata, tenderebbe a burocratizzarsi, come è accaduto per lo Stato prima e poi per la Regione. Solo un ordine flessibile e aperto alle sollecitazioni esterne può, con il suo continuo rinnovarsi, contrastare, con speranze di successo, la tendenza alla burocratizzazione e rispondere alle domande della società civile.

La realizzazione degli obiettivi programmatici: decentramento e semplificazione nelle procedure urbanistico/territoriali



Per le ragioni sopra accennate, obiettivo centrale della nuova Amministrazione regionale in materia urbanistico/territoriale consiste nella “rottura del modello gerarchico e centralistico che ha dominato, sin dall’inizio, il governo regionale del territorio in Puglia”.

Ci si propone dunque di “operare in discontinuità con questa tendenza all’accentramento delle competenze e delle decisioni”. Il ruolo che le Province potranno svolgere nell’ambito di questa politica è fondamentale.

L’idea è di assumere, con un orientamento di Giunta un corpo di indirizzi politico/amministrativi che guidino, nella prima parte del mandato, verso obiettivi di decentramento e semplificazione nelle procedure urbanistico/territoriali. Qualcosa di più, dunque, di quanto contenuto nel programma di mandato relativo alla materia: una vera e propria Dichiarazione di intenti, da strutturare e rendere operativa attraverso una serie di Accordi (ex art.30 del T.U. 267/2000), di cui di seguito si propone una bozza introdotta da una serie di osservazioni di merito (v. all. 1).

1. Perché è necessaria questa “discontinuità”?

Non si tratta di semplice galateo istituzionale.

La percezione dominante dell’urbanistica nella società pugliese, associata non certo alla prospettiva di nuovi futuri desiderabili ma a un coacervo spesso contraddittorio di procedure ed atti amministrativi di esasperante lentezza, è sostanzialmente da imputare proprio a questa persistente posizione tecnico-politica centralistica ed alla visione tutta procedurale e burocratica del governo del territorio che la caratterizza.

All’origine di questa visione risiede la mancanza di qualsiasi efficace quadro di assetto generale ad ampia scala, espressione evidente della difficoltà di costruire scenari coerenti e condivisi di tutela e sviluppo del territorio regionale che consentano di delineare strategie di qualificazione delle risorse sociali ed ambientali. L’assenza di una visione generale, coerente e condivisa, impedisce a sua volta, in un circolo vizioso, di superare la dominante interpretazione regolativi e vincolistica delle funzioni di governo del territorio.

Così, in assenza di efficaci indirizzi di assetto territoriale a scala regionale e provinciale, tutto il sistema di governo del territorio permane incentrato su una scala comunale di pianificazione fatta di piani sovradimensionati e sempre più spesso snaturati da centinaia di accordi in variante, i quali assecondano le iniziative imprenditoriali ritenendo valida ogni sorta di contropartita, in assenza di quadri di riferimento ambientali, economici e sociali, rispetto ai quali valutarne vantaggi e svantaggi collettivi e in assenza di regole di equità e di trasparenza sulle quali basare le negoziazioni pubblico-privato.

Analogamente, le Province che hanno avviato esperienze di pianificazione territoriale non hanno avuto alcun sostegno dalla Regione che, anzi, anche nei più recenti provvedimenti legislativi, ha confermato il proprio accentuato centralismo. Mancano poi esperienze di pianificazione specialistica nel campo delle aree protette e dei bacini idrografici, mentre i piani nel campo dell’assetto idrogeologico, dello smaltimento dei rifiuti o delle attività estrattive, sono stati costruiti senza disporre di quadri conoscitivi robusti e di riferimenti ad opzioni complessive di sviluppo del territorio.

Il risultato consiste nella frammentarietà e nella incoerenza dell’azione regionale, in un esercizio del potere che, per i caratteri di marcata discrezionalità e dipendenza da contingenze specifiche, non offre sufficienti certezze agli attori istituzionali ed agli operatori sociali ed economici.

Dunque il centralismo, al di là della scarsa correttezza istituzionale, comporta:

Ø l’assenza di una visione generale condivisa, e dunque la presenza di una certa competitività “interna”, che può generare conflitti (tra territori e tra competenze settoriali);

Ø il ritardo nella costituzione dei necessari apparati conoscitivi e di indirizzo, che non possono essere costruiti “al centro”, ma che richiedono uno stretto legame con la realtà e con il quotidiano (in una parola, richiedono una costante presenza “in periferia”);

Ø la tendenza della disciplina tecnica, in assenza di questi apparati di conoscenza e di indirizzo, a rifugiarsi in una visione burocratica e vincolistica, priva della necessaria serenità che esclusivamente deriva dalla conoscenza diretta e documentata della realtà;

Ø la progressiva opacità e confusione dell’azione amministrativa, sempre più costretta alla deroga e al rifiuto delle responsabilità, con i conosciuti effetti: tempi esasperanti, ambiguità procedurali, discrezionalità e mancanza di limpidità nelle decisioni.

Nella situazione descritta, l’obiettivo della discontinuità sembra fondato su due prospettive: il decentramento e la semplificazione, la seconda come effetto positivo del primo.

2. Quali ostacoli si interpongono al raggiungimento dell’obiettivo del decentramento?

Sull’argomento va innanzitutto rimossa ogni ambiguità normativa e legislativa. Sarà dunque necessario:

  1. contrastare la concezione “gerarchica” nella pianificazione per livelli: vale a dire la concezione per cui il Piano regionale decide tutto, definendo le scelte territoriali in modo puntuale, mentre al Piano provinciale è affidato esclusivamente il compito di articolare le scelte regionali, potendole tutt’al più specificare, e contemporaneamente al Piano comunale è affidato solo il compito di tradurle in destinazione d’uso delle aree e in specifiche funzioni di dettaglio.

E’ questa una concezione che evidentemente tende a negare agli Enti locali ogni autonomia e responsabilità: in fondo si sostiene che l’interesse generale é sempre meglio rappresentato nella misura in cui si sale nella scala gerarchica delle istituzioni di governo.

Nulla di più lontano dal principio della sussidiarietà e dal metodo della co-pianificazione, che ne è in fondo la traduzione operativa (art. 2 della L.R.20/2001).

Questa concezione è peraltro ancora presente nello stesso quadro legislativo regionale: ad esempio, nel 2° comma dell’art.1 della L.R.24/2004, che stabilisce che il DRAG sia “riferimento vincolante per la pianificazione provinciale e comunale”, o nell’art. 2, che definisce i contenuti del DRAG, attribuendogli la facoltà di decisione su ogni aspetto della pianificazione. Questi dispositivi sono entrambi tipicamente connotati da una concezione “gerarchica”, da cui discende, implicitamente, che non si tratta di stabilire “controlli di compatibilità” tra i Piani, come sarebbe corretto e come prevede il successivo art. 5 della medesima L.R.24/04, bensì di operare tradizionali verifiche di conformità al Piano di ordine superiore.

Ma, come è naturale, la co-pianificazione è impossibile se non si dialoga tra uguali.

b. contrastare la concezione “piramidale” nella pianificazione per livelli, che è conseguenza della visione precedente: vale a dire la concezione per cui, al vertice della piramide, le scelte del Piano regionale sono decise da pochi, con procedure rapide e semplificate e, man mano che le scelte sono compiute ai livelli inferiori, si allargano le basi della consultazione e si complicano le procedure, fino a giungere, dal Piano provinciale a quello comunale, all’estrema complicazione nelle decisioni, ai tempi interminabili e alla paralisi.

Le procedure di adozione e di approvazione dei diversi Piani, stabilite dal III°, dal IV° e dal V° Titolo della L.R.24/01 sono un esempio evidente di questa concezione: il Piano regionale è approvato solo dalla Giunta, sentita la Commissione consiliare (art. 9 della L.R.24/04), mentre il Piano provinciale è adottato ed approvato in Consiglio, dopo la verifica di compatibilità regionale (tempi complessivi probabili della procedura di formazione del Piano: dai 12 ai 24 mesi), e quello comunale, anch’esso adottato ed approvato in Consiglio, richiede addirittura una doppia verifica, quella regionale e quella provinciale (tempi complessivi probabili della procedura di formazione del Piano: dai 24 ai 36 mesi).

c. Contrastare la concezione “a cascata” nella pianificazione per livelli, che è conseguenza delle prime due: vale a dire la concezione per cui prima deve essere approvato il Piano regionale, poi quelli provinciali e infine quelli comunali. Questa concezione, sebbene non esplicita nel quadro normativo, ha comunque costituito sino ad ora la prassi dell’azione regionale ed ha inevitabilmente determinato una forte inerzia nell’azione provinciale e comunale (va peraltro detto che, per quanto riguarda la pianificazione comunale, il 7° comma dell’art.11 della L.R. 20/01 stabilisce che, qualora DRAG e PTCP non siano ancora stati approvati, il controllo di compatibilità può venire effettuato “rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale ove esistente”).

E’ in conclusione evidente che una prima manifestazione concreta di “discontinuità” dovrà consistere nella rimozione degli elementi di ambiguità e di contrasto con una corretta politica di semplificazione e di decentramento delle competenze che ancora sono contenuti nel corpo legislativo e normativo. Una rimozione che dovrà avvenire con circolari interpretative, quando possibile; con parziali ma significative correzioni, quando indispensabile.

I tempi e i modi del decentramento sono dettati dalla stessa capacità/volontà degli Enti destinatari delle funzioni, dalla loro convinzione a procedere, dalla disponibilità di uomini e di risorse, dalla comune capacità di definire Accordi interistituzionali che moltiplichino queste disponibilità, amplino le opportunità di sinergia, allarghino il fronte del consenso alla prospettiva del decentramento.

Questo è il senso della proposta di Accordo per il Decentramento e la Semplificazione che viene succintamente descritto al seguente punto 6 e proposto, in bozza, in allegato.

3. Come procedere? Tre grandi obiettivi

Non è facile in tempi brevi indirizzare il sistema di pianificazione regionale verso nuovi obiettivi e principi: occorre rimuovere routine burocratiche radicate e costruire una nuova cultura del governo del territorio.

Innanzi tutto, occorre sostituire alla logica del controllo quella della pianificazione, alla prassi degli accordi “caso per caso” quella della concertazione istituzionale per il perseguimento di obiettivi strategici, alla cultura dell’espansione e del consumo del suolo quella della salvaguardia e della riqualificazione del territorio.

In questa direzione sembrano centrali tre grandi obiettivi programmatici:

a. al documento regionale di assetto generale (DRAG) è affidato il compito di definire gli ambiti di tutela e conservazione dei valori ambientali e culturali, gli indirizzi per la formazione, il dimensionamento e i contenuti dei piani provinciali e comunali, gli schemi delle infrastrutture di interesse regionale. Ma l’attuale versione del DRAG, costruita senza la necessaria partecipazione e condivisione pubblica, ripropone un modello consolidato di governo del territorio la cui inefficacia è ben chiara ai più. Occorre quindi reimpostareil DRAG, perché questo diventi quadro condiviso delle grandi opzioni strategiche regionali, e quindi riferimento innanzitutto per l’azione della Regione nei diversi settori, perché valorizzi l’esperienza delle Province nel campo della pianificazione di area vasta, e perché sia in grado di fornire risposte alle difficoltà comunali di governo del territorio a scala locale;

  1. conseguentemente, così come da tempo è accaduto in pressoché tutte le regioni italiane, bisogna rafforzare il ruolo delle Province nella pianificazione territoriale, consentendo ad esse di svolgere efficacemente i compiti assegnati dalla legislazione nazionale e regionale, e valorizzando il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) anche attraverso l'assimilazione e lo sviluppo dei contenuti della pianificazione paesaggistica;
  1. occorre infine sostenere i Comuni nella faticosa attività di rinnovamento della pianificazione comunale, interpretando il principio della co-pianificazione come rapporto collaborativi che dovrebbe legare Regione ed Enti Locali durante l’intero percorso di costruzione/approvazione del Piano, e non solo, come sancito dalla L.R.20/2001,la fase terminale del processo in caso di deliberazione dell’incompatibilità del PUG con il DRAG o il PTCP.

Collocato in questo quadro programmatico, il compito di definizione dei possibili campi e modi di collaborazione tra la Regione e le Province impone di trascendere l’interpretazione ristretta e limitativa delle specifiche competenze istituzionali degli Enti, e di declinare le disposizioni dell’art. 2 della L.R.20/2001 nel modo più ampio possibile, moltiplicando ed articolando i processi partecipativi e di concertazione interistituzionale pur previsti dalla stessa L.R.20/2001 per il DRAG, per i PTCP e per i PUG.

Questa prospettiva va naturalmente strumentata ed organizzata, perché non si risolva in confusione e in demagogico richiamo formale alla partecipazione ed alla co-pianificazione. La proposta di Accordo che segue, è dunque una prima proposta di strumentazione, che andrà perfezionata ed articolata attraverso specifiche Convenzioni, da formulare assieme alle singole amministrazioni provinciali, al fine di tener conto delle diverse condizioni di operatività e di avanzamento dei lavori di redazione dei PTCP.

4. Problemi e opportunità del quadro normativo

Il quadro normativo pugliese presenta molteplici lacune e taluni orientamenti non condivisibili; in particolare con la Legge Regionale 13 dicembre 2004, n. 24, si è riproposto un modello gerarchico tra DRAG e PTCP e nei rapporti tra Regione e Province che va superato in favore della distinzione delle rispettive funzioni e dell’autonomia dell’esercizio delle potestà amministrative attribuite a ciascun Ente, pur nel coordinamento tra i diversi livelli istituzionali e nel perseguimento condiviso dei principi di tutela e di sviluppo sostenibile.

È pertanto intenzione di questo Assessorato presentare un’apposita proposta di legge per la modifica della Legge Regionale 13 dicembre 2004, n. 24 e della Legge Regionale 27 luglio 2001, n. 20, orientata a superare una concezione non più condivisibile e per liberare ed incentivare tutte le potenzialità insite nella pianificazione provinciale.

Nelle more della modifica legislativa alla normativa regionale, è tuttavia opportuno chiarire con adeguata nettezza che la mancata approvazione del DRAG non impedisce in alcun modo alle Province di avviare e portare avanti il processo di pianificazione, mediante adozione del PTCP (e successiva approvazione dello stesso dopo il controllo di compatibilità previsto dall’art. 7 della L.R.20/2001).

Difatti, per quanto l’art. 1 della L.R.24/2004 preveda che il DRAG costituisca “riferimento vincolante” per la pianificazione provinciale, e per quanto l’art. 6 della L.R.20/2001 preveda che il PTCP sia adottato dalla Provincia in “conformità ed attuazione del DRAG”, non può in alcun modo ritenersi che, in assenza del DRAG, le Province non possano esercitare la propria potestà pianificatoria e non possano pertanto adottare il PTCP.

Occorre difatti rammentare (ma ciò dovrebbe essere del tutto superfluo) che la competenza alla redazione del PTCP viene attribuita alla Provincia da norma statale (da ultimo art. 20 D.Lgs. n.267/2000) e che tale assetto di competenze trova oggi preciso ed univoco sostegno costituzionale (essendo stati recepiti nell’art. 118 della Carta i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, che impongono l’attribuzione di specifiche funzioni amministrative alle Province allorché sia necessario per assicurarne l’esercizio in forma unitaria).

Una norma di Legge Regionale che consentisse alla Regione di inibire attraverso un proprio atto amministrativo (la mancata adozione del DRAG) l’esercizio dei poteri di pianificazione della Provincia, precludendo sine die l’adozione del PTCP, risulterebbe dunque manifestamente incostituzionale, sia per contrasto con la norma statale (art. 20 del D.Lgs. n. 267/2000), sia per contrasto con l’art. 118 della Costituzione.

Ebbene, poiché nel nostro ordinamento vige il principio che impone di interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione, i citati articoli della normativa regionale (l’art. 1 della L.R.24/2004, l’art. 6 della L.R.20/2001) vanno interpretati nel senso che il DRAG acquisterà efficacia “vincolante” per la pianificazione provinciale solo allorquando verrà ad esistenza, ma che prima della sua approvazione le Province possono comunque procedere alla adozione del PTCP, conformandosi ai generali precetti normativi della legge statale e regionale, oltre che al PUTT.

Tale interpretazione, compatibile peraltro con il dato letterale delle norme che non escludono espressamente l’esercizio della potestà pianificatoria provinciale prima dell’approvazione del DRAG, consente di non far ricadere sulle Province i ritardi della Regione, e consente altresì di ricostruire i rapporti tra Regione e Province in conformità ai dettati costituzionali.

In mancanza della esplicitazione dei criteri e dei principi da parte del DRAG, la Regione si rende peraltro pienamente disponibile ad attivare immediatamente le opportune sedi istituzionali per la condivisione delle conoscenze e dei principi che dovranno informare le rispettive attività; ciò potrà avvenire sia mediante apposite conferenze di co-pianificazione preordinate alla adozione dei PTCP (conferenze che, sebbene non espressamente previste nella L.R.20/2001, non sono certamente precluse essendo anzi conformi ai generali principi statuiti dalla L.241/1990 sul procedimento amministrativo), sia mediante costituzione di un tavolo interistituzionale di regia del processo, proprio quale quello proposto dalla bozza di Accordo che segue.

5. Quale, in questo disegno, il ruolo della pianificazione provinciale? Di quale strumentazione operativa è necessario dotarsi?

Dei tre obiettivi precedentemente descritti, se il primo costituisce il generale quadro di riferimento per la nuova politica urbanistica regionale e l’ultimo costituisce il più impegnativo e complesso, per il numero dei soggetti coinvolti, per le azioni da promuovere e monitorare, per la significatività che la disciplina locale dell’uso del suolo rappresenta nell’opera di governo del territorio, il secondo, vale a dire il rafforzamento e lo sviluppo della pianificazione provinciale, è senza dubbio quello centrale, il naturale presupposto degli altri due, quello che li rende credibili e concretamente perseguibili.

Sarebbe del tutto improponibile, infatti, un’approfondita rivisitazione del DRAG senza un robusto contributo delle Province, così come risulterebbe al di sopra delle forze della sola Regione l’azione di servizio ai Comuni, impegnati nell’elaborazione dei loro PUG, azione che è invece indispensabile per il contributo innovativo che anche in campo urbanistico questa amministrazione vuole fornire alla politica regionale pugliese.

E’ dunque necessario fornire una prima valutazione comune del cammino che le Province devono compiere, per definire possibili strumenti di collaborazione, reciproci stimoli all’azione, sinergie finanziarie ed operative.

Allo scopo si allega una serie di riflessioni sulle esigenze organizzative e di strumentazione che l’esperienza consiglia sulla costruzione del processo di piano (v. all. 2).

6. Per un Accordo per il Decentramento e la SemplificazioneSembrano a questo punto chiarele finalità di un Accordo tra Regione e Province sul tema del decentramento delle funzioni urbanistiche e sulla conseguente semplificazione delle procedure.

Le finalità dell’Accordo possono così essere sintetizzate:

a. costituire un organismo interistituzionale di coordinamento delle politiche territoriali ed ambientali degli Enti sottoscrittori, con lo specifico obiettivo di accompagnare l’azione regionale di decentramento delle competenze e di semplificazione delle procedure, nell’ambito di una più generale volontà di coordinare le politiche territoriali ed ambientali degli Enti di governo di area vasta

b. dotare detto organismo di adeguate strutture tecniche interistituzionali di istruttoria e proposta

c. predisporre adeguati programmi di collaborazione tra gli Enti sottoscrittori nonché i criteri di individuazione e di attribuzione delle risorse necessarie

Gli impegni dell’Accordo, da sviluppare in un vero e proprio articolato convenzionale da adattare alle esigenze e alle condizioni operative e finanziarie di ciascun Ente sottoscrittore, ai sensi dell’art.30 del T.U. 267/2000, strumenteranno quanto previsto nella Dichiarazione di Intenti, vale a dire:

1. l’impegno delle Province a predisporre, entro un ragionevole periodo di tempo (e comunque entro il presente mandato), il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, costituendo anche le indispensabili strutture operative dedicate alla funzione della pianificazione territoriale: Ufficio di Piano, Comitato di Coordinamento, Ufficio Cartografico e SIT;

2. l’impegno della Regione a contribuire, in termini organizzativi all’opera di redazione del Piano e, nel caso di Province già sostanzialmente dotate dello strumento, al consolidamento degli apparati, allo sviluppo degli archivi di documentazione e di approntamento dei modelli di valutazione;

3. l’impegno delle Province a contribuire alla rielaborazione del DRAG, per quanto riguarda la parte relativa alla pianificazione provinciale e comunale, fornendo la disponibilità di propri tecnici alla composizione di un quadro di analisi e di indirizzo il più possibile documentato;

4. l’impegno della Regione a trasferire i poteri in materia urbanistica alle Province una volta approvato il PTCP e, in attesa dell’approvazione, a coinvolgere gli Uffici di Piano provinciali nelle istruttorie di approvazione degli strumenti urbanistici locali

5. l’impegno della Regione e delle Province a costituire appositi organismi interistituzionali di carattere tecnico ed organizzativo ai quali affidare l’istruttoria tecnica dei temi specifici progetti di approfondimento delle tematiche connesse alla semplificazione in materia urbanistica e al decentramento amministrativo, nonché dei temi connessi alle principali trasformazioni infrastrutturali e insediative regionali.

I descritti impegni verranno discussi e meglio puntualizzati nelle riunioni con le singole Province che l’Assessorato regionale si impegna ad organizzare nel periodo settembre/dicembre, con l’obiettivo di rendere l’intera proposta operativa all’avvio del 2006.

ASSETTO DEL TERRITORIO

Governo del territorio e urbanistica

Problemi e ritardi

Il sistema dell’urbanistica regionale è caratterizzato da una forte resistenza al cambiamento, legata soprattutto a una posizione tecnico-politica centralistica e a una visione tutta procedurale e burocratica del governo del territorio. Ne consegue che la percezione dominante dell’urbanistica nella società pugliese sia associata non certo alla prospettiva di nuovi futuri desiderabili, ma a un coacervo spesso contraddittorio di procedure e atti amministrativi di esasperante lentezza, che ai più sembra artificiosamente frapporsi a istanze e programmi di sviluppo. La mancanza di qualsiasi efficace quadro di assetto generale ad ampia scala appare espressione evidente della difficoltà di costruire scenari coerenti e condivisi di tutela e sviluppo del territorio regionale, che consentano di delineare strategie di qualificazione delle risorse sociali ed ambientali e di superare la dominante interpretazione regolativa e vincolistica delle funzioni di governo del territorio.

In assenza di efficaci indirizzi di assetto territoriale a scala regionale e provinciale, tutto il sistema di governo del territorio permane incentrato su una scala comunale di pianificazione fatta di piani surdimensionati e sempre più spesso snaturati da centinaia di accordi in variante, i quali assecondano le iniziative imprenditoriali ritenendo valida ogni sorta di contropartita, in assenza di quadri di riferimento ambientali, economici e sociali, rispetto ai quali valutarne vantaggi e svantaggi collettivi e di regole di equità e trasparenza sulle quali basare le negoziazioni pubblicoprivato.

Le province che hanno avviato esperienze di pianificazione territoriale non hanno avuto alcun sostegno dalla regione, che, anzi, anche nei più recenti provvedimenti legislativi ha confermato il proprio accentuato centralismo. Mancano anche esperienze di pianificazione specialistica nel campo delle aree protette e dei bacini idrografici, mentre i piani nel campo dell’assetto idrogeologico, dello smaltimento dei rifiuti o delle attività estrattive, sono stati costruiti senza disporre di quadri conoscitivi robusti e di alcun riferimento a opzioni complessive di sviluppo del territorio. Il risultato consiste nella frammentarietà e incoerenza dell’azione regionale, in un esercizio del potere che, per i suoi caratteri di marcata discrezionalità e dipendenza da contingenze specifiche, non offre sufficienti certezze ad attori istituzionali e operatori sociali ed economici.

Questi problemi caratterizzano anche la pianificazione paesistica in atto. Il Putt/paesaggio, infatti, lungi dal proporsi quale strumento di governo del territorio orientato a valorizzare le cospicue risorse ambientali e culturali della regione, intendendole quali potenziali fonti di sviluppo e rigenerazione degli ambienti insediativi regionali, anche in ragione di un’inadeguata base informativa, ha finito per rinviare alla fase attuativa, ossia alla pianificazione comunale e ai singoli progetti di trasformazione, la gran parte delle scelte in merito alle trasformazioni desiderabili e possibili. Il parere paesaggistico e l’attestazione di compatibilità paesaggistica, strumenti previsti dal Putt/p per la trasformazione dei territori di maggiore pregio, rischiano di diventare niente più che ulteriori passaggi burocratici nella catena esasperante dei controlli esercitati dalla regione nei confronti degli enti locali.

Linee guida dell’azione regionale

In relazione ai problemi sin qui accennati l’azione del governo regionale deve orientarsi rapidamente verso:

-il superamento dell’attuale fase di incertezza e confusione normativa, legata anche alla contemporanea vigenza di due leggi regionali in materia di governo del territorio, la 56/1980 e la 20/2001;

-la rottura del modello gerarchico e centralistico che ha dominato, sin dall’inizio, il governo regionale del territorio in Puglia;

-il rinnovamento delle forme di tutela del paesaggio secondo le indicazioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio;

- la messa in atto di più agili, efficaci e trasparenti procedure di approvazione o verifica di conformità dei piani, e ogni altra forma di autorizzazione in merito alle trasformazioni d’uso del suolo, da un lato, operando uno sforzo straordinario di recupero dei ritardi accumulati, anche definendo ‘corsie accelerate’ per specifici temi di rilevanza strategica, dall’altro, agendo sul duplice fronte della semplificazione procedurale e del decentramento di funzioni;

- il superamento della prassi estemporanea, e spesso sregolata, di trasformazioni in variante ai piani, testimoniata dalle centinaia di accordi di programma giacenti presso l’Assessorato all’Assetto del Territorio in attesa di esame;

-la costruzione di rapporti sinergici fra il sistema di governo del territorio e le iniziative di tutela ambientale e programmazione dello sviluppo;

- il sostegno all’innovazione delle pratiche di pianificazione locale, perché questa, riconosciuto l’esaurimento della spinta all'espansione urbana, si orienti decisamente verso obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente e della vita dei cittadini, di bonifica di aree inquinate, di riqualificazione di aree degradate e recupero dei tessuti urbani consolidati.

Condizioni e modi di realizzazione

Per realizzare tale disegno programmatico occorre dare attuazione coerente sia agli obiettivi perseguiti dalla nuova legge urbanistica regionale n. 20/2001 “Norme generali di governo e uso del territorio”, consistenti nello sviluppo sostenibile, nella tutela dei valori ambientali, storici e culturali e nella riqualificazione territoriale sia ai principi sanciti dalla stessa legge: “sussidiarietà, mediante la concertazione tra i diversi soggetti coinvolti, in modo da attuare il metodo della copianificazione; efficienza e celerità dell’azione amministrativa attraverso la semplificazione dei procedimenti; trasparenza delle scelte, con la più ampia partecipazione; perequazione”.

Non è facile in tempi brevi indirizzare il sistema di pianificazione regionale verso tali obiettivi e principi: occorre rimuovere routine burocratiche radicate e costruire una nuova cultura del governo del territorio. Innanzi tutto, sostituire alla logica del controllo quella della pianificazione, alla prassi degli accordi “caso per caso” quella della concertazione istituzionale per il perseguimento di obiettivi strategici, alla cultura dell’espansione e del consumo del suolo quella della salvaguardia e della riqualificazione del territorio. L’innovazione di principi e strumenti introdotta dalla legge non può essere sufficiente a tale fine. Peraltro, la legge presenta problemi interpretativi sostanziali e procedurali. Al documento regionale di assetto generale (DRAG) è affidato il compito di definire gli ambiti di tutela e conservazione dei valori ambientali e culturali, gli indirizzi per la formazione, il dimensionamento e i contenuti dei piani provinciali e comunali, gli schemi delle infrastrutture di interesse regionale. Ma l’attuale versione del DRAG, costruita senza la necessaria partecipazione e condivisione pubblica, ripropone un modello consolidato di governo del territorio la cui inefficacia è ben chiara ai più. Occorre quindi reimpostare il DRAG, perché questo diventi quadro condiviso delle grandi opzioni strategiche regionali, e quindi riferimento innanzitutto per l’azione della regione nei diversi settori, perché valorizzi l’esperienza delle province nel campo della pianificazione di area vasta, e perché sia in grado di fornire risposte alle difficoltà comunali di governo del territorio a scala locale.

Più in particolare, così come da tempo è accaduto in pressoché tutte le regioni italiane, bisogna rafforzare il ruolo delle province nella pianificazione territoriale, consentendo ad esse di svolgere efficacemente i compiti assegnati dalla legislazione nazionale e regionale, e valorizzando il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) anche attraverso l'assimilazione e lo sviluppo dei contenuti della pianificazione paesaggistica. Analogamente, occorre sostenere i comuni nella faticosa attività di rinnovamento della pianificazione comunale, interpretando il principio della co-pianificazione come rapporto collaborativo che dovrebbe legare regione ed enti locali durante l’intero percorso di costruzione/approvazione del piano, e non solo, come sancito dalla legge regionale 20/2001, la fase terminale del processo in caso di deliberazione dell’incompatibilità del PUG con il DRAG o il PTCP. Questo è un punto critico di importanza primaria. Infatti, appare difficile immaginare di poter fondare la nuova pianificazione su una partecipazione convinta, responsabile ed efficace dei diversi soggetti alla costruzione delle scelte, piuttosto che, come avveniva in passato, su una distinzione gerarchica delle competenze, se il metodo della copianificazione per il livello comunale si adotta solo in caso di difformità rispetto ai piani ‘sovraordinati’.

Una maggiore flessibilità del piano comunale e autonomia decisionale degli enti locali, sollecitata da tempo e con forza da questi ultimi, dovrebbero essere accompagnate dall’introduzione di criteri di qualità e di rischio per la valutazione preventiva di compatibilità ambientale delle trasformazioni, in linea con quanto previsto dalla direttiva comunitaria 2001/42/CE del 27 giugno 2001 sulla Valutazione Ambientale Strategica. In assenza di quadri valutativi, le intese istituzionali che la legge 20/2001 introduce nelle procedure di pianificazione ordinaria (accordo di programma e conferenza dei servizi) rischiano di svilupparsi sulla base di criteri contingenti e di condurre, nei casi migliori sinora alquanto rari, a qualche miglioramento di efficienza del processo decisionale.

Infine, appare essenziale e indifferibile la costruzione di un sistema informativo territoriale, da concepire come quadro integrato di conoscenze a sostegno del “nuovo” sistema di pianificazione regionale. La moltiplicazione di portatori d’interessi e il crescente protagonismo di una società civile che rivendica un ruolo attivo nei processi decisionali, assieme all’articolazione dei livelli decisionali e alla frammentazione di iniziative e istanze di trasformazione del territorio, richiedono, infatti, una ricomposizione dei quadri di conoscenza che, pur non annullando le differenze di visioni e approcci fra diversi settori e livelli di intervento, consenta di disporre di sfondi comuni sui quali imperniare la nuova pianificazione regionale.

LE POLITICHE ABITATIVE

Un campo trascurato e dominato dalle logiche dell’emergenza

Il campo delle politiche abitative è stato trascurato dai recenti governi regionali, nell’ambito di un progressivo disinteresse dello stato nei confronti di vecchie e nuove forme di disagio sociale. Questo è accaduto nonostante l’ampiezza della domanda abitativa inevasa, il crescente fabbisogno di alloggi in locazione a canoni compatibili con situazioni economiche delle famiglie sempre più difficili, l’acuirsi di un disagio abitativo che colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione, l’ampliarsi delle aree di esclusione sociale e povertà.

In questo campo occorre passare dal dominio dell’emergenza che ha caratterizzato nel passato l’azione regionale a politiche ordinarie basate su capacità di analisi e programmazione, anche al fine di un migliore uso delle poche risorse disponibili e della riduzione di ampie sacche di iniquità.

La logica dell’emergenza e della straordinarietà non da buoni frutti. Si consideri, in particolare, la drammatica situazione degli IACP provinciali, tutti affidati alla guida di commissari straordinari, caratterizzati da situazioni economiche opache e talvolta perfino in dissesto, assillati da problemi di abusivismo, morosità, interventi d’urgenza. A tali problemi sono state date soluzioni non solo inadeguate ma anche confuse e inique, generando ulteriori problemi e iniquità. Basti pensare alla sanatoria prevista dall’art. 60 della l.r. n. 1/2005 o ai modi casuali e mirati solo a incassare danaro mediante cui si è proceduto all’alienazione del patrimonio pubblico. Occorre radicalmente invertire questo modello di gestione.

È necessario, inoltre, muovere dalla tradizionale concezione settoriale dell’edilizia residenziale pubblica, quale area d’intervento preposta alla realizzazione di nuovi alloggi destinati a soddisfare il fabbisogno abitativo di fasce sociali incapaci di accedere al libero mercato, verso la costruzione di politiche abitative atte ad affrontare una gamma di bisogni e problemi persistenti ed emergenti: da quelli che richiedono tempestive misure di sostegno alle famiglie, a quelli che necessitano di politiche urbane integrate, capaci di agire simultaneamente sulle dimensioni fisiche, sociali ed economiche del disagio abitativo.

Verso condizioni ‘normali’ di conoscenza e azione

Per superare i problemi su accennati, appare indispensabile l’istituzione un Osservatorio sulle politiche abitative che consenta di comprendere con tempestività e accuratezza le evoluzioni di una domanda dinamica e in continua trasformazione e le ragioni di un’offerta statica e incapace di intercettare l’articolazione dei bisogni emergenti. Questo deve essere inteso come sede di confronto fra conoscenze esperte e saperi degli abitanti, coordinandosi con gli osservatori già operanti in altre regioni e con l’Osservatorio istituito presso il Ministero dei Lavori Pubblici.

Per risolvere i problemi su accennati, è necessario varare rapidamente norme di riordino delle funzioni amministrative nel campo delle politiche abitative e di trasformazione degli enti regionali operanti nel settore dell’edilizia residenziale pubblica. Nell’ambito di tali norme un ruolo molto rilevante dovrà essere assegnato agli enti locali, in linea con la politica di decentramento delle funzioni perseguita anche in altri campi dal governo regionale, mentre gli enti dovranno essere trasformati in aziende con bilanci in attivo, senza costi per la Regione, capaci di una gestione sana, trasparente e accorta del ricco patrimonio immobiliare del quale dispongono, costituito da circa 57.000 unità fra alloggi e locali. A tal fine occorre affidarsi a strutture dirigenziali di elevata professionalità e integrità. Nel frattempo, bisogna revisionare e aggiornare la normativa per l’assegnazione degli alloggi ERP e la determinazione dei relativi canoni di locazione. Quanto al finanziamento delle politiche abitative, i problemi riguardano il carattere discontinuo e residuale dei flussi finanziari destinati al settore. Dalla legge n. 865/1971 in poi, i finanziamenti sono stati assicurati principalmente dallo Stato, mediante i fondi Gescal. Tale regime, però, è cessato nel 1998. Da allora alle regioni non sono stati più assegnati fondi. In passato la Regione Puglia ha finanziato l’ERP con fondi propri di bilancio, ma incanalandoli esclusivamente verso l’edilizia agevolata e quindi mai verso gli I.A.C.P. Da anni al settore non sono più destinati finanziamenti statali. Nell’attesa che lo Stato assegni alle Regioni almeno la spesa storica, come da queste è stato richiesto in varie sedi, sembra possibile fare da sé. Sono state identificate, e a breve verranno quantificate con precisione, economie di programmi precedenti, non più necessarie ai programmi in corso, e residui che hanno raggiunto entità tale da consentire la predisposizione di un nuovo piano casa. Parallelamente, si dovrà operare per rendere la spesa più efficace, incanalandola verso le aree di reale disagio. A tal fine si ritiene necessario operare in diverse direzioni, di seguito brevemente illustrate.

Sostegno alle famiglie mediante:

a) Intervento del bilancio regionale verso l' integrazione del fondo sociale per il contributo all’affitto e l' incentivazione dell'offerta di abitazioni in affitto per rispondere alla nuova domanda di giovani, anziani, di nuova mobilità per lavoro ecc. In proposito si evidenzia che di fronte a una domanda crescente anche in termini finanziari, i trasferimenti statali (legge n. 431/98) si sono progressivamente assottigliati. In Puglia, i contributi alle famiglie per abbattere il canone di locazione per l’anno 2004 ammontano a 20 milioni di Euro di fondi statali, cui si aggiungono fondi regionali per 15 milioni di euro.

b) Istituzione di un apposito fondo sociale regionale per i casi di morosità incolpevole, accompagnato da misure che agevolino la comunicazione fra inquilini e istituti, coinvolgendo a tal fine sindacati, associazioni, comitati di quartiere e simili organizzazioni.

c) Concessione di contributi in conto capitale erogati direttamente alle famiglie per l’ acquisto della prima casa.

D) Concessione di contributi in conto capitale a imprese e cooperative, prioritariamente per il recupero di alloggi da vendere o assegnare a famiglie prive della prima casa e aventi specifici requisiti. Tali contributi dovranno essere integrati con il risparmio familiare e con mutui bancari, i i cui tassi di interesse sono ormai sufficientemente bassi da risultare convenienti. Per tale motivo non si ritiene opportuno che la Regione, come è avvenuto in passato, conceda contributi sugli interessi, peraltro dispendiosi dal punto di vista procedurale e richiedenti impegni finanziari per almeno quindici anni.

Recupero di immobili I.A.C.P.

Occorre ripristinare condizioni di vivibilità in un patrimonio edilizio caratterizzato da estesissime aree di obsolescenza e degrado e porre le basi per l’avvio una politica di manutenzione programmata da parte degli enti. Quest’ultima consiste in attività di manutenzione ordinaria finalizzata a conservare il valore e i livelli di funzionalità dell'immobile, migliorando il rapporto tra risorse impegnate e soddisfacimento degli abitanti. L’azione regionale deve sostenere il passaggio dall’attuale situazione di interventi manutentivi dettati da motivi di urgenza (riparazione di guasti) a programmi di manutenzione basati sull'analisi dei cicli di obsolescenza delle diverse componenti. Parallelamente, dovrà sostenere programmi sperimentali che esprimano un deciso orientamento verso la sostenibilità urbana attraverso progetti capaci di coniugare ricerca su tecnologie pulite e compatibili con l’ambiente, creazione di nuove professionalità, crescita dell’occupazione, ed sviluppo di pratiche di recupero e riqualificazione urbana.

Azioni integrate e partecipate di riqualificazione dei quartieri.

La Regione, quale ente di programmazione e promozione, non può limitarsi a ripartire e assegnare i fondi, ma deve orientare la propria e l’altrui azione verso interventi che incidano allo stesso tempo sul degrado edilizio, sul disagio sociale e sulle tendenze di trasformazione urbana, evitando l’espulsione delle fasce sociali deboli dalle città centrali e la diffusione insediativa, lo spreco di suolo, lo svuotamento delle parti storiche della città, la formazione di ghetti urbani desolanti, l’inquinamento da mobilità veicolare. Essa, inoltre, può indurre altri soggetti pubblici e privati a concorrere con fondi propri alla soluzione dei problemi abitativi e a sperimentare tecnologie eco-compatibili. A tal fine può promuovere interventi da realizzarsi mediante i cosiddetti “programmi complessi”, ossia interventi integrati miranti ad agire simultaneamente sul degrado fisico e sul disagio sociale, da attuarsi nelle zone degradate delle città, siano esse aree in P.d.Z. 167 o parti della città storica, mediante il coinvolgimento diretto degli abitanti e contenuti e procedure coerenti con le peculiarità dei problemi di grandi città e piccoli centri della regione. In tal modo i programmi integrati non sarebbero più interventi "di nicchia", legati a finanziamenti straordinari esterni, ma diverrebbero parte di politiche urbane volte alla soluzione degli intricati problemi fisici, sociali ed economici dei quartieri in crisi. Anche in quest’ambito, pertanto, l’obiettivo dello sviluppo dell'edilizia in locazione deve essere considerato cruciale.

L’ampia risposta dei comuni pugliesi al recente bando dei Contratti di Quartiere II, istituiti con legge statale 21/2001, art. 4, quali “programmi innovativi in ambito urbano”, segnala il grande interesse verso simili strumenti di politica urbana. Tuttavia, l’enfasi eccessiva posta dal bando regionale sull’ammontare di risorse finanziarie attivate dai privati mediante interventi edilizie, a scapito di altri elementi compresi negli indirizzi statali, quali la partecipazione degli abitanti alla definizione degli obiettivi del programma o il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati per incrementare l’occupazione, favorire l’integrazione sociale e fornire servizi, rischiano di tramutare i Contratti in “occasioni” offerte dal pubblico per realizzare iniziative immobiliari in variante ai piani.

Risorse umane e struttura organizzativa

La realizzazione degli obiettivi programmatici sin qui succintamente esposti rende necessari e urgenti interventi di potenziamento della struttura e revisione dell’attuale modello organizzativo, da affidarsi sia alla riqualificazione delle professionalità esistenti sia all’inserimento di nuove figure professionali. Un simile impegno deve essere finalizzato soprattutto a re-orientare l’azione della struttura verso i compiti di pianificazione e indirizzo strategico propri del governo regionale. Vi è da aggiungere che esso richiede un radicale mutamento del metodo di lavoro nella direzione dell’intersettorialità e dell’interscalarità, ossia della ricerca di coerenza e sinergie fra risorse e politiche di settore e fra le azioni dei diversi livelli istituzionali (regione, province e comuni, nell’ambito delle programmazioni europee e nazionali). Un particolare sforzo di riqualificazione e innovazione professionale è necessario anche a questo scopo.

http://www.regione.puglia.it/quiregione/web/files/territorio/documento_programmatico.pdf).

Un appello sul Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è apparso sulla stampa giovedì 10 gennaio. Apparentemente un appello come tanti, fra i tanti che si rincorrono, costretti ad inseguire l'emergenza sempre più pressante del degrado del territorio. Magari un po' retorico nel linguaggio, dai toni di deferente appello al Presidente del Consiglio e al Ministro dei Beni Culturali, nel quale quell'unico richiamo ad un intervento di Prodi, suonerebbe persino ironico nell'arcaicità della datazione (marzo 2006), se il sospetto non fosse repentinamente smentito dalla seriosa magniloquenza verbale del contesto oratorio. E poi, via, lo stile è esercizio soggettivo ed appartiene piuttosto a quelle virtù non obbligatorie, come il coraggio di manzoniana memoria. Stupisce un po' anche l'insolita compagnia dei firmatari che vede radunate associazioni assai diverse per storia, tradizione, obiettivi, ambito e metodo di azione (ad esempio, chi avrebbe mai sospettato di spirito sì appassionatamente filopaesaggistico una società come Civita, tanto per non far nomi), ma si sa, alla bisogna, tutto fa brodo.

Una prima lettura conferma, però, come i contenuti rientrino a pieno titolo in quel filone della difesa del nostro patrimonio paesaggistico, assolutamente meritevole della massima attenzione e assiduamente frequentato da eddyburg, come ben sanno i nostri venticinque lettori. Che poi uno degli strumenti atti a questa difesa possa a piena ragione essere considerato il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, anche questo è argomento sul quale eddyburg si è esercitato in numerosi interventi.

E però c'è in questo testo qualcosa che stride: irreparabilmente. Lo stesso genere letterario cui i firmatari lo ascrivono – l'appello - contrasta con l'evidente allusività, lievemente omertosa, dei contenuti. Vi si rimanda ad un altro testo, quello con i nuovi e definitivi emendamenti che dovrebbero interessare, in particolare, la terza parte del Codice dedicata al Paesaggio, documento preannunciato e atteso da ormai molti mesi, ma non ancora reso di pubblico dominio e ancora circoscritto ad una circolazione riservata a conventicole di iniziati. E' questa la principale, anche se non la sola, lacuna politica da evidenziare in questo appello: invece di giocare quali attori di una farsa poco chiara, in cui si contrappongono e si intersecano obliquamente posizioni, schieramenti, interessi di vario tipo - dalle considerazioni di opportunismo istituzional-politico, ai narcisismi personali di estensori passati e presenti, ministeriali e non - occorreva piuttosto richiedere un atto di trasparenza.

Pare che il testo con gli emendamenti sinora predisposto sia stato bloccato perchè si scontrerebbe con l'ostilità durissima da parte del fronte compatto delle regioni da un lato e dall'altro perchè subirebbe la fronda revanchistica interna dei fautori del primigenio impianto del Codice del 2004.

Sbagliato, ancora una volta, come già lo fu il tentativo di ugual segno della prima redazione, è stato sicuramente il metodo che ha escluso la controparte regionale da qualsiasi condivisione in fase di elaborazione: sbagliato prima di tutto perchè costituzionalmente scorretto, perchè ideologicamente inefficace, perchè politicamente velleitario. Il momento del confronto con le Regioni, componente imprescindibile di quella Repubblica cui la Costituzione affida la tutela del nostro paesaggio e a cui, piaccia o meno, ha, nel tempo, assegnato deleghe non tangenziali nell'ambito del governo del territorio, è ineludibile e aver assecondato chi ha propugnato la strada di una sorta di prova di forza centripeta (pulsione che le associazioni firmatarie paiono sottoscrivere in quel loro reiterato richiamo al mantenimento della purezza del testo sinora elaborato), è invece indizio di evidente debolezza. Debolezza politica, prima di tutto, questa, in quanto spia di un'incapacità di fondo del Ministero di agire sul piano del sostegno palese e della contrapposizione aperta (laddove occorresse) di posizioni che, a quel che è dato sapere, appaiono culturalmente ampiamente condivisibili: la paralisi quasi generalizzata delle funzioni di programmazione su vasta area da parte delle regioni ha accellerato in modo sempre meno arginabile nefasti effetti di degrado territoriale, sui quali eddyburg, fra gli altri, svolge la sua azione di denuncia quotidianamente.

Complementare a questa, e non meno grave, è quindi, d'altro lato, la debolezza di tipo culturale mostrata da chi, all'interno del Ministero, fin dalla prima ora, ha sposato una linea di apparente colloquio con l'interlocutore regionale che però si è attestata quasi sempre su posizioni di compromissione ideologica e cedimento istituzionalmente illegittimo: la prima versione del Codice, nell'ambito paesaggistico conteneva alcune sfasature culturali, quando non veri e propri arretramenti e brillava, in alcuni passaggi, per ambiguità, quando non omertà laddove avrebbe dovuto stabilire regole e paletti certi: nei tempi, nelle modalità, negli attori chiamati a intervenire.

Così che, a ben vedere, queste contrapposte pulsioni di centralismo rivendicato quasi vendicativamente, da un lato, e acquiescenze rinunciatarie dall'altro, divengono, nel loro micidiale saldarsi, la dimostrazione di una debolezza strutturale ed ideologica davvero pericolosa.

Strutturale perchè in entrambi i casi si sottace su quello che rappresenta uno dei punti di snodo della discussione, ovvero sia l'adeguamento in termini di mezzi, risorse, approccio metodologico, alle nuove istanze che il codice, in qualunque versione, verrebbe a richiedere al Ministero: apparentemente arbitro della partita, ma, nell'attuale struttura, completamente inadeguato a sostenere un ruolo di tale portata. Nessuna legge, per quanto giuridicamente “perfetta”, ha qualche speranza di efficacia laddove la struttura chiamata a renderla operativa sia di fatto in una situazione di paralisi e di impotenza.

Ma si tratta anche di debolezza ideologica, perchè è soprattutto nel confronto aperto che la contrapposizione che indubitabilmente esiste con il fronte regionale e locale in genere, può essere superata e non semplicemente rimossa, non certo nella rincorsa di un compromesso coûte que coûte che tutelerebbe solo le sicurezze di carriera di taluni grands commis e lascerebbe tutte le questioni irrisolte. E' sul piano della sfida culturale e politica nel senso più alto, che ci si può contrapporre a istanze di corto respiro quali a volte appaiono quelle sul tappeto: non solo di parte regionale, per verità, perchè la partita è davvero complessa, e va affrontata attraverso una disamina attenta e puntuale alla ricerca di una mediazione di più alto livello che può legittimare solo un Ministero che interpreti senza incertezze e ambiguità il ruolo di garante di un interesse superiore e di più ampio orizzonte di quello elettorale.

Quello che eddyburg chiede al Ministro Rutelli, adesso, è di rendere pubblico, con un atto di trasparenza e coraggio politico, un testo ormai ampiamente elaborato, aprendolo finalmente alla discussione e al confronto più ampi possibile.

Il nostro paesaggio è un bene comune fragilissimo che si può salvare solo attraverso un'azione collettiva condivisa dalla grande maggioranza della comunità che lo ha in custodia. E' solo attraverso una lenta, faticosa, tenace, ma aperta operazione di coinvolgimento culturale che si potrà perseguire un'opera di tutela duratura ed efficace nel tempo.

Articolo 1 - Oggetto della legge

1. La Regione Emilia Romagna, in attuazione dei principi della Costituzione e dello Statuto regionale e in conformità alle leggi della Repubblica ed ai principi della L.R. 21 aprile 1999, n. 3, disciplina con la presente legge la tutela e l’uso del territorio al fine di

a) realizzare un efficace ed efficiente sistema di programmazione e pianificazione territoriale al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile della popolazione regionale ed idoneo ad assicurare il miglioramento della qualità della vita

b) promuovere un uso appropriato delle risorse ambientali, naturali, territoriali e culturali

c) riorganizzare le competenze esercitate ai diversi livelli istituzionali e promuovere modalità di raccordo funzionale tra gli strumenti di pianificazione, in attuazione del principio di sussidiarietà;

d) favorire la cooperazione tra Regione, Province e Comuni e valorizzare la concertazione con le forze economiche e sociali nella definizione delle scelte di programmazione e pianificazione

e) semplificare i procedimenti amministrativi, garantendone la trasparenza e il contraddittorio.

TITOLO I - PRINCIPI GENERALI DELLA PIANIFICAZIONE

CAPO I - DISPOSIZIONI GENERALI

Articolo 2 - Funzioni ed obiettivi della pianificazione

1. La pianificazione territoriale e urbanistica costituisce funzione fondamentale di governo della Regione, delle Province e dei Comuni.

2. La pianificazione territoriale e urbanistica si informa ai seguenti obiettivi generali

a) promuovere un ordinato sviluppo del territorio, dei tessuti urbani e del sistema produttivo

b) assicurare che i processi di trasformazione siano compatibili con la sicurezza e la tutela dell’integrità fisica e con l’identità culturale del territorio

c) migliorare la qualità della vita e la salubrità degli insediamenti urbani

d) ridurre la pressione degli insediamenti sui sistemi naturali e ambientali anche attraverso opportuni interventi di riduzione e mitigazione degli impatti

e) promuovere il miglioramento della qualità ambientale, architettonica e sociale del territorio urbano, attraverso interventi di riqualificazione del tessuto esistente

f) prevedere il consumo di nuovo territorio solo quando non sussistano alternative derivanti dalla sostituzione dei tessuti insediativi esistenti ovvero dalla loro riorganizzazione e riqualificazione.

3. Ai fini della presente legge per strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica si intende l'insieme degli atti di pianificazione, disciplinati dalla legisla­zione regionale, che siano volti a tutelare il territorio ovvero a regolarne l'uso ed i processi di tra­sformazione.

Art. 3 - Processo di pianificazione

1. La pianificazione territoriale e urbanistica garantisce la coerenza tra le caratteristiche e lo stato del territorio e le destinazioni e gli interventi di trasformazione previsti, verificando nel tempo l'adeguatezza e l'efficacia delle scelte operate.

2. A tal fine la pianificazione si sviluppa attraverso le seguenti azioni, avendo riguardo alla natura ed ai contenuti dei diversi strumenti

a) l’individuazione degli obiettivi generali di sviluppo economico e sociale, di tutela e riequilibrio del territorio che si intendono perseguire

b) la formazione di un quadro conoscitivo

c) la determinazione delle azioni idonee alla realizzazione degli obiettivi individuati

d) la regolamentazione degli interventi e la programmazione della loro attuazione

e) il monitoraggio e il bilancio degli effetti sul territorio conseguenti all'attuazione dei piani.

3. Gli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica esplicitano le motivazioni poste a fondamento delle scelte strategiche operate.

Art. 4 - Quadro conoscitivo

1. Il quadro conoscitivo è elemento costitutivo degli stru­menti di pianificazione territoriale e urbanistica. Esso provvede alla organica rappresentazione e valutazione dello stato del territorio e dei processi evolutivi che lo caratterizzano e costituisce riferimento necessario per la definizione degli obiettivi e dei contenuti del piano e per la valutazione di sostenibilità di cui all'art. 5.

2. Il quadro conoscitivo dei piani generali, in coerenza con i compiti di ciascun livello di pianificazione, ha riguardo

a) alle dinamiche dei processi di sviluppo economico e sociale

b) agli aspetti fisici e morfologici

c) ai valori paesaggistici, culturali e naturalistici

d) ai sistemi ambientale, insediativo e infrastrutturale

e) all’utilizzazione dei suoli ed allo stato della pianificazione

f) alle prescrizioni e ai vincoli territoriali derivanti dalla normativa, dagli strumenti di pianificazione vigenti, da quelli in salvaguardia e dai provvedimenti amministrativi.

3. I piani settoriali provvedono ad integrare e approfondire il quadro conoscitivo del piano generale del medesimo livello di governo con gli approfondimenti relativi al loro specifico campo di interesse.

4. Al fine di elaborare il quadro conoscitivo, le amministrazioni operano ai sensi dell'art. 17, provvedendo alle integrazioni, agli appro­fondi­menti ed agli aggiornamenti ritenuti indispensabili.

Art. 5 - Valutazione di sostenibilità e monitoraggio dei piani

1. La Regione, le Province e i Comuni provvedono, nell’ambito del procedimento di elaborazione ed approvazione dei propri piani, alla valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e territoriale degli effetti derivanti dalla loro attuazione, anche con riguardo alla normativa nazionale e comunitaria.

2. A tal fine, nel documento preliminare sono evidenziati i potenziali impatti negativi delle scelte operate e le misure idonee per impedirli, ridurli o compensarli. Gli esiti della valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale costituiscono parte integrante del piano approvato e sono illustrati da un apposito documento.

3. In coerenza con le valutazioni di cui al comma 2 la pianificazione territoriale e urbanistica persegue l’obiettivo della contestuale realizzazione delle previsioni in essa contenute e degli interventi necessari ad assicurarne la sostenibilità ambientale e territoriale.

4. La Regione, le Province e i Comuni provvedono inoltre al monitoraggio dell’attuazione dei propri piani e degli effetti sui sistemi ambientali e territoriali, anche al fine della revisione o aggiornamento degli stessi.

Art. 6 - Effetti della pianificazione

1. La pianificazione territoriale e urbanistica, oltre a disciplinare l'uso e le trasformazioni del suolo, accerta i limiti e i vincoli agli stessi che derivano

a) da uno specifico interesse pubblico insito nelle caratteristiche del territorio, stabilito da leggi statali o regionali relative alla tutela dei beni ambientali, paesaggistici e culturali, alla protezione della natura ed alla difesa del suolo

b) dalle caratteristiche morfologiche o geologiche dei terreni che rendono incompatibile il processo di trasformazione

c) dalla presenza di fattori di rischio ambientale, per la vulnerabilità delle risorse naturali.

2. Al fine di assicurare la sostenibilità ambientale e territoriale, la pianificazione territoriale e urbanistica può subordinare l’attuazione degli interventi di trasformazione

a) alla contestuale realizzazione di interventi di mitigazione degli impatti negativi o di infrastrutture per l'urbanizzazione degli insediamenti, di attrezzature e spazi collettivi, di dotazioni ecologiche e ambientali, di infrastrutture per la mobilità; ovvero

b) al fatto che si realizzino le condizioni specificamente individuate dal piano, che garantiscono la sostenibilità del nuovo intervento.

3. I vincoli e le condizioni di cui ai commi 1 e 2 sono inerenti alle qualità intrinseche del bene e operano senza alcun limite temporale. Essi sono stabiliti dal Piano Strutturale Comunale (PSC) ovvero dagli strumenti di pianificazione territoriale generale e settoriale sovraordinati e sono recepiti dal Piano Operativo Comunale (POC).

4. Il POC può inoltre apporre vincoli urbanistici, finalizzati all'acquisizione coattiva di immobili.

Art. 7 - Perequazione urbanistica

1. La perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali.

2. A tal fine, il PSC può riconoscere la medesima possibilità edificatoria ai diversi ambiti che presentino caratteristiche omogenee.

3. Il POC e i Piani Urbanistici Attuativi (PUA), nel disciplinare gli interventi di trasformazione da attuare in forma unitaria, assicurano la ripartizione dei diritti edificatori e dei relativi oneri tra tutti i proprietari degli immobili interessati, indipendentemente dalle destinazioni specifiche assegnate alle singole aree.

4. Il Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE) stabilisce i criteri e i metodi per la determinazione del diritto edificatorio spettante a ciascun pro­prietario, in ragione del diverso stato di fatto e di diritto in cui si trovano gli immobili al momento della formazione del PSC.

Art. 8 - Partecipazione dei cittadini alla pianificazione

1. Nei procedimenti di formazione ed approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica sono assicurate

a) la concertazione con le associazioni economiche e sociali, in merito agli obiettivi strategici e di sviluppo da perseguire

b) specifiche forme di pubblicità e di consultazione dei cittadini e delle associazioni costituite per la tutela di interessi diffusi, in ordine ai contenuti degli strumenti stessi.

2. Nei medesimi procedimenti, gli enti locali con lo Statuto o con appositi regolamenti possono prevedere, ai sensi delle Leggi 8 giugno 1990, n. 142 e 7 agosto 1990, n. 241, ulteriori forme di pubblicità e di consultazione dei cittadini oltre a quelle previste dalla presente legge.

3. Nell'ambito della formazione degli strumenti che incidono direttamente su situazioni giuridiche soggettive deve essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati al procedimento, attraverso la più ampia pubblicità degli atti e documenti comunque concernenti la pianificazione e assicurando il tempestivo ed adeguato esame delle deduzioni dei soggetti intervenuti e l'indicazione delle motivazioni in merito all'accoglimento o meno delle stesse. Nell’attuazione delle previsioni di vincoli urbanistici preordinati all’esproprio deve essere garantito il diritto al contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente.

4. Il responsabile del procedimento, di cui all'art. 4 della Legge n. 241 del 1990, cura tutte le attività relative alla pubblicità, all'accesso agli atti e documenti ed alla partecipazione al procedimento di approvazione. Il responsabile è individuato nell'atto di avvio del procedimento di approvazione del piano.

CAPO II - LIVELLI, STRUMENTI ED EFFICACIA DELLA PIANIFICAZIONE

Art. 9 - Livelli della pianificazione

1. La pianificazione territoriale e urbanistica si articola nei tre livelli regionale, provinciale e comunale.

2. Nell'osservanza dei principi di sussidiarietà, di adeguatezza e differenziazione, definiti dal comma 3 dell'art. 4 della Legge 15 marzo 1997, n. 59

a) sono conferite ai Comuni tutte le funzioni di governo del territorio non esplicitamente attribuite agli altri livelli di pianificazione sovraordinati

b) nei casi stabiliti dalla presente legge i Comuni di minore dimensione demografica possono esercitare le funzioni pianificatorie in forma associata

c) sono attribuite alla Regione e alla Provincia soltanto le funzioni di pianificazione riconosciute loro dalla legislazione nazionale e regionale, che attengono alla cura di interessi di livello sovracomunale o che non possono essere efficacemente svolte a livello comunale. In tali casi sono previste forme di partecipazione dei Comuni all'esercizio delle funzioni attribuite agli altri livelli di pianificazione sovraordinati.

3. Compete ai Comuni, in riferimento alle specifiche situazioni locali, specificare, approfondire e attuare i contenuti propri degli strumenti di pianificazione territoriale sovraordinati.

Art. 10 - Strumenti della pianificazione generale e settoriale

1. Le funzioni di pianificazione territoriale e urbanistica sono esercitate attraverso la predisposizione e approvazione di piani generali e settoriali.

2. Ai fini della presente legge

a) per piani generali si intendono gli strumenti con i quali ciascun ente pubblico territoriale detta, per l'intero ambito di propria competenza, la disciplina di tutela e uso del territorio

b) per piani settoriali si intendono gli strumenti con i quali, nei casi espressamente previsti dalla legge, gli enti pubblici territoriali e gli enti pubblici preposti alla tutela di specifici interessi dettano la disciplina di tutela e uso del territorio relativamente ai profili che ineriscono alle proprie funzioni.

3. I piani generali coordinano e portano a sistema l'insieme delle previsioni dei piani sovraordinati vigenti e definiscono prescrizioni, direttive ed indirizzi che dovranno essere osservati dalla pianificazione sottordinata. Con riferimento alla pianificazione settoriale del medesimo livello di pianificazione, il piano generale fissa il quadro di riferimento, in termini conoscitivi e normativi, e stabilisce gli obiettivi prestazionali che dovranno essere perseguiti dagli strumenti settoriali.

4. I piani settoriali sono predisposti ed approvati nel ri­spetto delle previsioni dei piani sovraordinati e degli obiettivi strategici e delle scelte del piano generale del medesimo livello di pianificazione, sviluppando e specificando gli obiettivi prestazionali di settore ivi stabiliti.

Art. 11 - Efficacia delle previsioni dei piani

1. Ai fini della presente legge, le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica si distinguono in indirizzi, direttive e prescrizioni. In particolare

a) per indirizzi si intendono le disposizioni volte a fissare obiettivi per la predisposizione dei piani sottordinati e dei piani settoriali del medesimo livello di pianificazione, riconoscendo ambiti di discrezionalità nella specificazione e integrazione delle proprie previsioni e nell'applicazione dei propri contenuti alle specifiche realtà locali

b) per direttive si intendono le disposizioni che devono essere osservate nella elaborazione dei contenuti dei piani sottordinati e dei piani settoriali del medesimo livello di pianificazione

c) per prescrizioni si intendono le disposizioni dei piani, predisposte nel rispetto dei principi di cui all'art. 9 e nell'osservanza degli ambiti delle materie di pertinenza dei piani stessi, che incidono direttamente sul regime giuridico dei beni disciplinati, regolando gli usi ammissibili e le trasformazioni consentite.

2. Le prescrizioni devono trovare piena e immediata osservanza ed attuazione da parte di tutti i soggetti pubblici e privati, secondo le modalità previste dal piano, e prevalgono sulle disposizioni incompatibili contenute nei vigenti strumenti di pianificazione e negli atti amministrativi attuativi. Gli enti pubblici provvedono tempestivamente all'adeguamento delle previsioni degli strumenti di pianificazione e degli atti ammini­strativi non più attuabili per contrasto con le prescrizioni sopravve­nute.

3. Gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica esplicitano l'efficacia delle proprie disposizioni, attenendosi a quanto previsto dal comma 1.

Art. 12 - Salvaguardia

1. A decorrere dalla data di adozione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, le amministrazioni pubbliche sospendono ogni determinazione in merito

a) all'autorizzazione di interventi di trasformazione del territorio che siano in contrasto con le previsioni dei piani adottati o tali da comprometterne o renderne più gravosa l'attuazione

b) all'approvazione di strumenti sottordinati di pianificazione territoriale e urbanistica che siano in contrasto con le prescrizioni del piano adottato.

2. La sospensione di cui al comma 1 opera fino alla data di entrata in vigore del piano e comunque per non oltre cinque anni dalla data di adozione, salvo diversa previsione di legge.

CAPO III - FORME DI COOPERAZIONE E CONCERTAZIONE NELLA PIANIFICAZIONE

Art. 13 - Metodo della concertazione istituzionale

1. La Regione, le Province e i Comuni, nella formazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, conformano la propria attività al metodo della concertazione con gli altri enti pubblici territoriali e con le altre amministrazioni preposte alla cura degli interessi pubblici coinvolti.

2. Sono strumenti della concertazione istituzionale la conferenza e gli accordi di pianificazione e gli accordi territoriali.

3. Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) può prevedere particolari forme di cooperazione tra Comuni negli ambiti che presentano una elevata continuità insediativa, ovvero nei casi in cui le scelte pianificatorie comunali comportano significativi effetti di rilievo sovracomunale.

Art. 14 - Conferenze e accordi di pianificazione

1. La conferenza di pianificazione ha la finalità di costruire un quadro conoscitivo condiviso del territorio e dei conse­guenti limiti e condizioni per il suo sviluppo sostenibile, nonché di esprimere valutazioni preliminari in merito agli obiettivi e alle scelte di pianificazione prospettate dal documento preliminare.

2. Il documento preliminare presenta in particolare i seguenti contenuti

a) le indicazioni in merito agli obiettivi generali che si intendono perseguire con il piano ed alle scelte strategiche di assetto del territorio, in relazione alle previsioni degli strumenti di pianificazione di livello sovraordinato

b) l’individuazione di massima di limiti e condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio.

3. Alla conferenza partecipano necessariamente gli enti territoriali e le amministrazioni individuate per ciascun piano dagli artt. 25, 27 e 32. Alla conferenza intervengono inoltre tutte le amministrazioni competenti al rilascio dei pareri, delle intese e degli atti di assenso, comunque denominati, ai sensi del comma 3 dell’art. 34. L’amministrazione procedente può altresì convocare altre amministrazioni coinvolte o interessate dall’esercizio delle funzioni di pianificazione.

4. La conferenza realizza la concertazione con le associazioni economiche e sociali, chiamandole a concorrere alla definizione degli obiettivi e delle scelte strategiche individuati dal documento preliminare, acquisendone le valutazioni e le proposte.

5. L'amministrazione procedente assicura la pubblicità degli esiti della concertazione istituzionale e di quella con le associazioni economiche e sociali, di cui ai commi 3 e 4.

6. Ogni amministrazione partecipa alla conferenza con un unico rappresentante, legittimato dagli organi istituzionalmente competenti ad esprimere definitivamente ed in modo vincolante le valutazioni e la volontà dell'ente.

7. Per i PTCP e per i PSC le determinazioni concordate in sede di conferenza di pianificazione possono essere recepite in un accordo di pianificazione, rispettivamente tra Regione e Provincia e tra Provincia e Comune. L’accordo definisce l’insieme condiviso degli elementi che costituiscono parametro per le scelte pianificatorie.

8. Nella predisposizione e approvazione del PTCP o del PSC, la Provincia o il Comune tiene comunque conto dei contributi conoscitivi e delle valutazioni espressi in sede di conferenza di pianificazione e si conforma alle determinazioni eventualmente concordate con l’accordo di pianificazione, di cui al comma 7.

Art. 15 - Accordi territoriali

1. I Comuni e la Provincia possono promuovere accordi territoriali per concordare obiettivi e scelte strategiche comuni ovvero per coordinare l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici, in ragione della sostanziale omogeneità delle caratteristiche e del valore naturale, ambientale e paesaggistico dei territori comunali ovvero della stretta integrazione e interdipendenza degli assetti insediativi, economici e sociali. I Comuni possono altresì stipulare accordi territoriali per lo svolgimento in collaborazione di tutte o parte delle funzioni di pianificazione urbanistica, nonché per l’elaborazione in forma associata degli strumenti urbanistici e la costituzione di un apposito ufficio di piano o di altre strutture per la redazione e gestione degli stessi.

2. Per l’attuazione del PTCP la Provincia può promuovere accordi territoriali diretti a definire, anche con riguardo alle risorse finanziarie disponibili, gli interventi di livello sovracomunale da realizzare in un arco temporale definito e che attengono

a) alla realizzazione delle infrastrutture di interesse generale previste dal piano nonché delle infrastrutture, opere o servizi cui è subordinata l'attuazione dei piani urbanistici comunali, a norma del comma 4 dell'art. 26

b) a interventi di rinaturazione e di riequilibrio ecologico ovvero alla realizzazione di dotazioni ecologiche ed ambientali

c) a progetti di tutela, recupero e valorizzazione delle risorse paesaggistiche e ambientali del territorio.

3. Gli accordi territoriali di cui ai commi 1 e 2 possono prevedere forme di perequazione territoriale, anche attraverso la costituzione di un fondo finan­ziato dagli enti locali con risorse proprie o con quote dei proventi degli oneri di urbanizzazione e delle entrate fiscali conseguenti alla realizzazione degli interventi concordati.

4. Agli accordi territoriali si applica, per quanto non previsto dalla presente legge, la disciplina propria degli accordi tra amministrazioni di cui all'art. 15 della Legge n. 241 del 1990.

Art. 16 - Atti di indirizzo e coordinamento

1. Per assicurare lo sviluppo coordinato ed omogeneo delle attività di pianificazione territoriale e urbanistica, la Regione adotta: atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni pianificatorie delle Province e dei Comuni; atti di coordinamento tecnico; direttive relative all'esercizio delle funzioni delegate.

2. Con gli atti di coordinamento tecnico, in particolare, la Regione

a) detta indirizzi e direttive per l'attuazione della presente legge e per l'integrazione dei suoi contenuti con le disposizioni in materia di pianificazione territoriale e urbanistica previ­ste dalle legislazioni settoriali

b) specifica i contenuti essenziali del documento preliminare, del quadro conoscitivo, della relazione illustrativa, delle norme tecniche e delle tavole di progetto del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, del Piano Strutturale Comunale, del Piano Operativo Comunale e del Piano Urbanistico Attuativo

c) stabilisce l'insieme organico delle nozioni, definizioni, modalità di calcolo e di verifica concernenti gli indici, i parametri e le modalità d'uso e di intervento, allo scopo di definire un lessico comune utilizzato nell'intero territorio regionale, che comunque garantisca l'autonomia nelle scelte di pianificazione.

3. Gli atti di cui al comma 1 sono assunti con delibera del Consiglio regionale, su proposta della Giunta previa intesa con la Conferenza Regione - Autonomie locali di cui all’art. 31 della L.R. n. 3 del 1999. Tali atti sono pubblicati sul Bollettino Ufficiale della Regione.

Art. 17 - Coordinamento e integrazione delle informazioni

1. Tutte le amministrazioni pubbliche che svolgono tra i propri compiti istituzionali funzioni di raccolta, elaborazione e aggiornamento di dati conoscitivi e di informazioni relativi al territorio e all'ambiente concorrono all’integrazione e implementazione del quadro conoscitivo del territorio, in occasione della predisposizione dei piani territoriali e urbanistici.

2. La Regione, previa intesa con gli enti locali assunta nell'ambito della Conferenza Regione - Autonomie locali, di cui all'art. 31 della L.R. n. 3 del 1999, stabilisce le modalità di coordinamento e di collaborazione tra i soggetti pubblici operanti nel settore.

Art. 18 - Accordi con i privati

1. Gli enti locali possono concludere accordi con soggetti privati per assumere nella pianificazione proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse per la comunità locale, al fine di determinare talune previsioni del contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale e urbanistica, nel rispetto della legislazione e pianificazione sovraordinata vigente e senza pregiudizio dei diritti dei terzi.

2. La scelta di pianificazione definita con l’accordo deve essere motivata, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 3.

3. L’accordo costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede ed è soggetto alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione. L’accordo è recepito con la delibera di adozione dello strumento ed è condizionato alla conferma delle sue previsioni nel piano approvato.

4. Per quanto non disciplinato dalla presente legge trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi 2 e seguenti dell'art. 11 della Legge n. 241 del 1990.

CAPO IV - SEMPLIFICAZIONE DEL SISTEMA DELLA PIANIFICAZIONE

Art. 19 - Carta unica del territorio

1. La pianificazione territoriale e urbanistica recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici ed ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi ovvero da previsioni legislative.

2. Quando la pianificazione urbanistica comunale abbia recepito e coordinato integralmente le prescrizioni ed i vincoli di cui al comma 1, essa costituisce la carta unica del territorio ed è l'unico riferimento per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni ed i vincoli sopravvenuti, anche ai fini dell’autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi, ai sensi del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447.

3. La deliberazione di approvazione del piano comunale dà atto del completo recepimento di cui al comma 2 ovvero del recepimento parziale, indicandone le motivazioni. Dell’approvazione della carta unica del territorio è data informazione ai cittadini anche attraverso lo sportello unico per le attività produttive di cui al D.P.R. n. 447 del 1998.

Art. 20 - Pianificazione generale comprensiva della pianificazione settoriale

1. La Regione, la Provincia o il Comune, all'atto della adozione, può confe­rire al proprio piano generale anche il valore e gli effetti di uno o più piani settoriali di propria competenza ovvero di variante agli stessi, qualora esso ne presenti i contenuti essenziali.

2. Al procedimento di approvazione del piano generale di cui al comma 1 si applica la disciplina prevista per essi dal Titolo II, con le seguenti integrazioni

a) negli atti deliberativi, negli avvisi pubblici e in ogni altro mezzo di pubblicità del piano deve essere esplicitamente indicata la sua particolare efficacia

b) nel corso della predisposizione del piano deve essere comunque acquisito ogni parere richiesto per l'approvazione del piano settoriale.

Art. 21 - PTCP con effetti di piani di altre amministrazioni

1. Il PTCP può assumere, su richiesta e d’intesa con i Comuni interessati, il valore e gli effetti del PSC.

2. Il PTCP può inoltre assumere, ai sensi dell’art. 57 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, il valore e gli effetti dei piani settoriali di tutela e uso del territorio di competenza di altre amministrazioni, qualora le sue previsioni siano predisposte d'intesa con le amministrazioni interessate.

3. In tali casi, il Presidente della Provincia provvede in via preliminare a stipulare un accordo con il Comune o con le amministrazioni interessate, in merito ai tempi e alle forme di partecipazione all’attività tecnica di predisposizione del piano e alla ripartizione delle relative spese.

4. Le amministrazioni interessate esprimono il proprio assenso all’intesa, ai fini della definizione delle previsioni del PTCP, nell'ambito delle procedure di concertazione stabilite dal comma 9 dell'art. 27.

Art. 22 - Modificazione della pianificazione sovraordinata

1. Per assicurare la flessibilità del sistema della pianificazione territoriale e urbanistica, le deliberazioni di adozione dei piani possono contenere esplicite proposte di modificazione ai piani sovraordinati, nei seguenti casi

a) il PTCP e il PSC possono proporre modifiche ad uno o più piani, generali o settoriali, di livello sovraordinato

b) i PUA possono prevedere modifiche o integrazioni al POC

c) i piani settoriali possono proporre, limitatamente alle materie e ai profili di propria competenza, modifiche al piano generale del medesimo livello di pianificazione ovvero ai piani settoriali o generali di livello sovraordinato.

2. Le proposte comunali di modifica delle previsioni dei piani sovraordinati di tutela del territorio e dell'ambiente nei settori del paesaggio, della prote­zione della natura, delle acque e della difesa del suolo, possono attenere unicamente alla cartografia dei piani.

3. Per l'approvazione dei piani settoriali che contengono proposte di modifica al piano generale dello stesso livello di pianificazione trova applicazione il procedimento previsto per il piano generale.

4. Fuori dai casi di cui al comma 3, per l'approvazione dei piani che propongono modificazioni si applica la disciplina prevista per essi dal Titolo II o dalla legislazione di settore, con le seguenti modifiche o integrazioni

a) negli atti deliberativi di adozione e di approvazione, negli avvisi pubblici e in ogni altro mezzo di pubblicità del piano deve essere esplicitamente indicato lo strumento del quale si propongono modificazioni

b) vanno seguite le forme di deposito, pubblicità e intervento previste per il piano di cui si propone la variazione, qualora assicurino una maggiore conoscenza e partecipazione degli interessati al procedimento

c) le proposte di modifica devono essere evidenziate in appositi elaborati tecnici, nei quali devono essere indicati i presupposti conoscitivi e le motivazioni di ciascuna di esse.

5. L'atto di approvazione del piano che contiene le proposte di modificazioni comporta anche la variazione del piano sovraordinato, qualora sulle modifiche sia acquisita l'intesa dell'ente titolare dello strumento. L'intesa può essere raggiunta nell'ambito delle procedure di concertazione previste dalla presente legge.

6. La Regione, le Province e i Comuni hanno l’onere di aggiornare gli elaborati tecnici dei propri strumenti di pianificazione a seguito dell’atto di intesa di cui al comma 5 o dell’atto di approvazione.

TITOLO II - STRUMENTI E CONTENUTI DELLA PIANIFICAZIONECAPO I - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE REGIONALE

Art. 23 - Piano Territoriale Regionale (PTR)

1. Il Piano Territoriale Regionale (PTR) è lo strumento di programmazione con il quale la Regione definisce gli obiettivi per assicurare lo sviluppo e la coesione sociale, accrescere la competitività del sistema territoriale regionale, garantire la riproducibilità, la qualificazione e la valorizzazione delle risorse sociali ed ambientali.

2. Il PTR è predisposto in coerenza con le strategie europee e nazionali di sviluppo del territorio.

3. Il PTR definisce indirizzi e direttive alla pianifica­zione di settore, ai PTCP e agli strumenti della program­mazione negozia­ta, per assicurare la realizzazione degli obiettivi di cui ai commi 1 e 2.

4. Il PTR può contenere prescrizioni, espresse attraverso una rappresentazione grafica atta a individuare puntualmente gli ambiti interessati, che prevalgono sulle diverse previsioni contenute negli strumenti provinciali e comunali di pianificazione territoriale e urbani­stica vigenti e adottati.

Art. 24 - Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR)

1. Il Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR) costituisce parte tematica del PTR, avente specifica considerazione dei valori paesaggistici, ambientali e culturali del territorio regionale, anche ai fini dell'art. 149 del D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490.

2. Il PTPR provvede all'individuazione delle risorse storiche, culturali, paesaggistiche e ambientali del territorio regionale ed alla definizione della disciplina per la loro tutela e valorizzazione.

3. Dall'entrata in vigore della presente legge, i PTCP che hanno dato o diano piena attuazione alle prescrizioni del PTPR, approvato con la deliberazione del Consiglio regionale 28 gennaio 1993, n. 1338, costituiscono, in materia di pianificazione paesaggistica, l’unico riferimento per gli strumenti comunali di pianificazione e per l’attività amministrativa attuativa.

Art. 25 - Procedimento di approvazione

1. Il procedimento disciplinato dal presente articolo trova applicazione per l'elaborazione e l'approvazione del PTR, della sua parte tematica costituita dal PTPR e delle loro varianti. La medesima disciplina si applica ai piani settoriali regionali con valenza territoriale per i quali la legge non detti una specifica disciplina in materia.

2. La Giunta regionale elabora un documento preliminare, che individua gli obiettivi strategici di sviluppo del sistema economico e sociale che si intendono perseguire, e lo trasmette al Consiglio regionale, alle Province e ai Comuni.

3. Per un esame congiunto del documento preliminare, ciascuna Provincia convoca, entro trenta giorni dal ricevimento del documento preliminare, una conferenza di pianificazione, ai sensi dell’art. 14, chiamando a parteciparvi, assieme alla Regione, i Comuni, le Comunità montane e gli altri enti locali del proprio territorio. Entro trenta giorni dalla conclusione della conferenza, la Provincia esprime le proprie osservazioni e proposte rispetto al documento preliminare e riferisce in merito a quelle formu­late dagli enti parteci­panti alla conferenza e dalle associazioni economiche e sociali.

4. Il Consiglio regionale adotta il piano su proposta della Giunta regionale, elaborata in considerazione delle valutazioni e proposte raccolte ai sensi del comma 3 e previo parere della Conferenza Regione - Autonomie locali e della Conferenza regionale per l’economia e il lavoro, di cui alla L.R. n. 3 del 1999. Copia del piano adottato è trasmessa alle Province, ai Comuni e alle Comunità montane.

5. Il piano adottato è depositato presso le sedi del Consiglio regionale e degli enti territoriali di cui al comma 4 per sessanta giorni dalla pubblicazio­ne sul Bollettino Ufficiale della Regione dell'avviso dell'avvenuta adozione. L'avviso contiene l'indicazione degli enti territoriali presso i quali il piano è depositato e dei termini entro i quali chiunque può prenderne visione. L'avviso è pubblicato altresì su almeno un quotidiano a diffusione regionale e la Regione può attuare ogni altra forma di divulgazione ritenuta opportuna.

6. Entro la scadenza del termine di deposito di cui al comma 5 possono formulare osservazioni e proposte i seguenti soggetti

a) gli enti e organismi pubblici

b) le associazioni economiche e sociali e quelle costituite per la tutela di interessi diffusi

c) i singoli cittadini nei confronti dei quali le previsioni del piano adottato sono destinate a produrre effetti diretti.

7. Il Consiglio regionale, entro i successivi novanta giorni, decide sulle osservazioni ed approva il piano.

8. Copia integrale del piano approvato è depositata per la libera consultazione presso la Regione ed è trasmessa alle amministrazioni di cui al comma 4. L’avviso dell’avvenuta approvazione è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. Dell'approvazione è data altresì notizia con avviso su almeno un quotidiano a diffusione regionale.

9. Il piano entra in vigore dalla data di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione dell'avviso di approvazione, ai sensi del comma 8.

CAPO II - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIALE

Art. 26 - Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP)

1. Il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) considera la totalità del territorio provinciale ed è lo strumento di pianificazione che definisce l'assetto del territorio con riferimento agli interessi sovracomunali, articolando sul territorio le linee di azione della programmazio­ne regionale.

2. Il PTCP è sede di raccordo e verifica delle politiche settoriali della Provincia e strumento di indirizzo e coordinamento per la pianificazione urbanistica comunale. A tal fine il piano

a) recepisce gli interventi definiti a livello nazionale e regionale, relativamente al sistema infrastrutturale primario e alle opere rilevanti per estensione e natura

b) individua, anche in attuazione degli obiettivi della pianificazione regionale, ipotesi di sviluppo dell’area provinciale, prospettando le conseguenti linee di assetto e di utilizzazione del territorio

c) definisce i criteri per la localizzazione e il dimensionamento di strutture e servizi di interesse provinciale e sovracomunale

d) definisce le caratteristiche di vulnerabilità, criticità e potenzialità delle singole parti e dei sistemi naturali ed antropici del territorio e le conseguenti tutele paesaggistico ambientali

e) definisce i bilanci delle risorse territoriali e ambientali, i criteri e le soglie del loro uso, stabilendo le condizioni e i limiti di sostenibilità territoriale e ambientale delle previsioni urbanistiche comunali che comportano rilevanti effetti che esulano dai confini amministrativi di ciascun ente.

3. Il PTCP specifica ed articola la disciplina delle dotazioni territoriali di cui al Capo A-V dell’Allegato, indicando a tal fine i diversi ruoli dei centri abitati nel sistema insediativo.

4. Per coordinare un’efficace attuazione delle proprie previsioni, il PTCP definisce con i Comuni modalità e termini per l’adeguamento dei piani comunali. Il PTCP coordina l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici vigenti con la realizzazione delle infrastrutture, opere e servizi di rilievo sovracomunale, da inserire prioritariamente nel programma triennale delle opere pubbliche della Provincia.

Art. 27 - Procedimento di approvazione del PTCP

1. Il procedimento disciplinato dal presente articolo trova applicazione per l'elaborazione e l'approvazione del PTCP e delle sue varianti. La medesima disciplina si applica altresì al Piano Infraregionale delle Attività Estrattive (PIAE) e ai piani settoriali provinciali con valenza territoriale per i quali la legge non detti una specifica disciplina in materia.

2. La Giunta provinciale elabora un documento preliminare del piano. Per l’esame congiunto del documento preliminare il Presidente della Provincia convoca una conferenza di pianificazione ai sensi dell’art. 14, chiamando a parteciparvi la Regione, le Province contermini, nonché i Comuni, le Comunità montane e gli enti di gestione delle aree naturali protette interessati.

3. A conclusione della conferenza di pianificazione, la Regione e la Provincia possono stipulare un accordo di pianifica­zione ai sensi del comma 7 dell'art. 14. L'accordo attiene in particolare ai dati conoscitivi e valutativi dei sistemi territoriali e ambien­tali, ai limiti e condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio provinciale nonché alle indicazioni in merito alle scelte strategiche di assetto dello stesso. La stipula dell’accordo di pianificazione comporta la riduzione della metà dei termini di cui ai commi 7 e 10 e la semplificazione procedurale di cui al comma 11.

4. A seguito delle conclusioni della fase di concertazione di cui ai commi 2 e 3, il Consiglio provinciale adotta il PTCP. Copia del piano adottato è trasmesso alla Giunta regionale, alle Province contermini, ai Comuni, alle Comunità montane e agli enti di gestione delle aree naturali protette.

5. Il piano adottato è depositato presso le sedi del Consiglio provinciale e degli enti territoriali di cui al comma 2 per sessanta giorni dalla pubblicazio­ne sul Bollettino Ufficiale della Regione dell'avviso dell'avvenuta adozione. L'avviso contiene l'indicazione degli enti presso i quali il piano è depositato e dei termini entro i quali chiunque può prenderne visione. L'avviso è pubblicato altresì su almeno un quotidiano a diffusione regionale e la Provincia può attuare ogni altra forma di divulgazione ritenuta opportuna.

6. Entro la scadenza del termine di deposito di cui al comma 5 possono formulare osservazioni e proposte i seguenti soggetti

a) gli enti e organismi pubblici

b) le associazioni economiche e sociali e quelle costituite per la tutela di interessi diffusi

c) i singoli cittadini nei confronti dei quali le previsioni del piano adottato sono destinate a produrre effetti diretti.

7. Entro il termine perentorio di centoventi giorni dal ricevimento del piano, la Giunta regionale può sollevare riserve in merito alla conformità del PTCP al PTR ed agli altri strumenti della pianificazione regionale nonché alle eventuali determinazioni assunte in sede di accordo di pianificazione di cui al comma 3. Trascorso tale termine il PTCP si considera valutato positivamente dalla Giunta regionale. Le riserve non formulate nella presente fase non possono essere sollevate in sede di espressione dell’intesa di cui al comma 10.

8. La Provincia, in sede di approvazione del PTCP, è tenuta ad adeguarsi alle riserve ovvero ad esprimersi sulle stesse con motivazioni puntuali e circostanziate.

9. Il Consiglio provinciale decide sulle osservazioni ed approva il piano, previa acquisizione sulla proposta dell’atto deliberativo dell'intesa

a) della Regione in merito alla conformità del PTCP agli strumenti della pianificazione regionale

b) delle amministrazioni interessate nei casi di copianificazione di cui all'art. 21.

10. La Giunta regionale si esprime in merito all’intesa di cui alla lettera a) del comma 9 entro il termine perentorio di novanta giorni dalla richiesta. L’intesa può essere subordinata all'inserimento nel piano delle eventuali modifiche ritenute indispensabili a soddisfare le riserve di cui al comma 7, ove le stesse non risultino superate, ovvero delle modifiche necessarie a rendere il piano controdedotto conforme agli strumenti regionali di pianificazione territoriale ed alle determinazioni assunte in sede di accordo di pianificazione di cui al comma 3, ove stipulato. Trascorso inutilmente tale termine l’intesa si intende espressa nel senso dell’accertata conformità del PTCP alla pianificazione regionale.

11. Qualora sia intervenuto l’accordo di pianificazione, siano state accolte integralmente le eventuali riserve regionali e non siano state introdotte modifiche sostanziali al piano in accoglimento delle osservazioni presentate, il Consiglio provinciale dichiara la conformità agli strumenti della pianificazione di livello sovraordinato e approva il piano, prescindendo dall’intesa di cui alla lettera a) del comma 9.

12. Copia integrale del piano approvato è depositata per la libera consultazione presso la Provincia ed è trasmesso alle amministrazioni di cui al comma 2. L’avviso dell’avvenuta approvazione del piano è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. Dell'approvazione è data altresì notizia con avviso su almeno un quotidiano a diffusione regionale.

13. Il piano entra in vigore dalla data di pubblicazione dell'avviso dell’approvazione sul Bollettino Uffi­ciale della Regione, ai sensi del comma 12.

CAPO III - PIANIFICAZIONE URBANISTICA COMUNALESezione I - Strumenti della pianificazione urbanistica comunale

Art. 28 - Piano Strutturale Comunale (PSC)

1. Il Piano Strutturale Comunale (PSC) è lo strumento di pianificazione urbanistica generale che deve essere predisposto dal Comune, con riguardo a tutto il proprio territorio, per delineare le scelte strategiche di assetto e sviluppo e per tutelare l'integrità fisica ed ambientale e l'identità culturale dello stesso.

2. Il PSC in particolare

a) valuta la consistenza, la localizzazione e la vulnerabilità delle risorse naturali ed antropiche presenti nel territorio e ne indica le soglie di criticità

b) fissa i limiti e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni pianificabili

c) individua le infrastrutture e le attrezzature di maggiore rilevanza, per dimensione e funzione

d) classifica il territorio comunale in urbanizzato, urbanizzabile e rurale

e) individua gli ambiti del territorio comunale secondo quanto disposto dall’Allegato e definisce le caratteristiche urbanistiche e funzionali degli stessi, stabilendone gli obiettivi sociali, funzionali, ambientali e morfologici e i relativi requisiti prestazionali

f) definisce le trasformazioni che possono essere attuate attraverso intervento diretto, in conformità alla disciplina generale del RUE di cui al comma 2 dell’art. 29.

3. Nell’ambito delle previsioni di cui ai commi 1 e 2, il PSC si conforma alle prescrizioni e ai vincoli e dà attuazione agli indirizzi e alle direttive contenuti nei piani territoriali sovraordinati.

Art. 29 - Regolamento Urbanistico ed Edilizio (RUE)

1. Il Regolamento Urbanistico ed Edilizio (RUE) contiene la disciplina generale delle tipologie e delle modalità attuative degli interventi di trasformazione nonché delle destinazioni d'uso. Il regolamento contiene altresì le norme attinenti alle attività di co­struzione, di trasformazione fisica e funziona­le e di conservazione delle opere edilizie, ivi comprese le norme igieniche di interesse edilizio, nonché la disciplina degli elementi architettonici e urbanistici, degli spazi verdi e degli altri elementi che caratterizzano l'ambiente urbano.

2. Il RUE, in conformità alle previsioni del PSC, disciplina

a) le trasformazioni negli ambiti consolidati e nel territorio rurale;

b) gli interventi diffusi sul patrimonio edilizio esistente sia nel centro storico sia negli ambiti da riqualificare;

c) gli interventi negli ambiti specializzati per attività produttive di cui al comma 6 dell'art. A-13 dell'Allegato.

3. Gli interventi di cui al comma 2 non sono soggetti al POC e sono attuati attraverso intervento diretto.

4. Il RUE contiene inoltre

a) la definizione dei parametri edilizi ed urbani­stici e le metodologie per il loro calcolo

b) la disciplina degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione

c) le modalità di calcolo delle monetizzazioni delle dotazioni territoriali.

5. Il RUE è approvato in osservanza degli atti di coordinamento tecnico di cui all'art. 16 ed è valido a tempo indeterminato.

Art. 30 - Piano Operativo Comunale (POC)

1. Il Piano Operativo Comunale (POC) è lo strumento urbanistico che individua e disciplina gli interventi di tutela e valorizzazione, di organizzazione e trasformazione del territorio da realizzare nell'arco temporale di cinque anni. Il POC è predisposto in conformità alle previsioni del PSC e non può modificarne i contenuti.

2. Il POC contiene, per gli ambiti di riqualificazione e per i nuovi insediamenti

a) la delimitazione, l'assetto urbanistico, le destinazioni d'uso, gli indici edilizi;

b) le modalità di attuazione degli interventi di trasformazione, nonché di quelli di conservazione

c) i contenuti fisico morfologici, sociali ed economici e le modalità di intervento

d) l'indicazione delle trasformazioni da assoggettare a specifiche valutazioni di sostenibilità e fattibilità e ad interventi di mitigazione e compensazione degli effetti

e) la definizione delle dotazioni territoriali da realizzare o riqualificare e delle relative aree, nonché gli interventi di integrazione paesaggistica

f) la localizzazione delle opere e dei servizi pubblici e di interesse pubblico.

3. Nel definire le modalità di attuazione di ciascun nuovo insediamento o intervento di riqualificazione il POC applica criteri di perequazione ai sensi dell'art. 7.

4. Il POC programma la contestuale realizzazione e completamento degli interventi di trasformazione e delle connesse dotazioni territoriali e infrastrutture per la mobilità. A tale scopo il piano può assumere, anche in deroga ai limiti temporali definiti dal comma 1, il valore e gli effetti del PUA, ovvero individuare le previsioni da sottoporre a pianificazione attuativa, stabilendone indici, usi e parametri.

5. Il POC può stabilire che gli interventi di trasformazione previsti siano attuati attraverso società aventi come oggetto la trasformazione di aree urbane, di cui all'art. 6 della L.R. 3 luglio 1998, n. 19.

6. Il POC disciplina inoltre i progetti di tutela, recupero e valorizzazione del territorio rurale di cui all’art. 49 nonché la realizzazione di dotazioni ecologiche o di servizi ambientali negli ambiti agricoli periurbani ai sensi del comma 4 dell’art. A-20 dell’Allegato.

7. Il POC si coordina con il bilancio pluriennale comunale ed ha il valore e gli effetti del programma pluriennale di attuazio­ne, di cui all’art. 13 della Legge 28 gennaio 1977, n. 10. Esso costituisce strumento di indirizzo e coordina­mento per il programma triennale delle opere pubbliche e per gli altri strumen­ti comunali settoriali, previsti da leggi statali e regionali.

8. Il POC può inoltre assumere il valore e gli effetti

a) dei progetti di valorizzazione commerciale di aree urbane, di cui all’art. 8 della L.R. 5 luglio 1999, n. 14

b) dei piani pluriennali per la mobilità ciclistica, di cui alla L. 19 ottobre 1998, n. 366.

9. Le previsioni del POC relative alle infrastrutture per la mobilità possono essere modificate e integrate dal Piano Urbano del Traffico (PUT), approvato ai sensi del comma 4 dell’art. 22.

10. Per selezionare gli ambiti nei quali realizzare nell'arco temporale di cinque anni interventi di nuova urbanizzazione e di sostituzione o riqualificazione tra tutti quelli individuati dal PSC, il Comune può attivare un concorso pubblico, per valutare le proposte di intervento che risultano più idonee a soddisfare gli obiettivi e gli standard di qualità urbana ed ecologico ambientale definiti dal PSC. Al concorso possono prendere parte i proprietari degli immobili situati negli ambiti individuati dal PSC, nonché gli operatori interessati a partecipare alla realizzazione degli interventi. Alla conclusione delle procedure concorsuali il Comune stipula, ai sensi dell'art. 18, un accordo con gli aventi titolo alla realizzazione degli interventi.

11. Al fine di favorire l'attuazione degli interventi di trasformazione, il POC può assegnare quote di edificabilità quale equo ristoro del sacrificio imposto ai proprietari con l'apposizione del vincolo di destinazione per le dotazioni territoriali o per le infrastrutture per la mobilità. Per il medesimo scopo lo strumento urbanistico può prevedere, anche attraverso la stipula di accordi di cui all'art. 18, il recupero delle cubature afferenti alle aree da destinare a servizi, su diverse aree del territorio urbano.

12. Per le opere pubbliche e di interesse pubblico la deliberazione di approvazione del POC comporta la dichiara­zione di pubblica utilità delle opere e l'urgenza ed indifferibilità dei lavori ivi previ­sti. Gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità cessano se le opere non hanno inizio entro cinque anni dall'entrata in vigore del POC.

13. L'individuazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, di cui all'art. 2 del D.P.R. n. 447 del 1998, è attuata dal Comune nell'ambito della predisposizione del POC o delle sue varianti. I progetti relativi alla realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi possono comportare variazioni al POC, secondo le modalità e i limiti previsti dall'art. 5 del citato D.P.R. n. 447 del 1998.

14. Attraverso il POC sono individuate le aree per gli impianti di distribuzione dei carburanti, ai sensi del D.Lgs. 11 febbraio 1998, n. 32.

Art. 31 - Piani Urbanistici Attuativi (PUA)

1. I Piani Urbanistici Attuativi (PUA) sono gli strumenti urbanistici di dettaglio per dare attuazione agli interventi di nuova urbanizzazione e di riquali­ficazione, disposti dal POC qualora esso stesso non ne assuma i contenuti.

2. I PUA possono assumere, in considerazione degli interventi previsti, il valore e gli effetti dei seguenti piani o programmi

a) i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione, di cui agli artt. 13 e 28 della Legge 17 agosto 1942, n. 1150

b) i piani per l'edilizia economica e popolare di cui alla Legge 18 aprile 1962, n. 167

c) i piani delle aree da destinare ad insediamenti pro­duttivi di cui all'art. 27 della Legge 22 ottobre 1971, n. 865

d) i piani di recupero di cui alla Legge 5 agosto 1978, n. 457

e) i programmi integrati di intervento di cui all'art. 16 della Legge 17 febbraio 1992, n. 179

f) i programmi di recupero urbano di cui all'art. 11 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 398, convertito dalla Legge 4 dicembre 1993, n. 493.

3. Il Comune può stabilire il ricorso al PUA per dare attuazione ai progetti di valorizzazione commerciale di aree urbane previsti dal POC ai sensi della lettera a) del comma 8 dell’art. 30.

4. Il programma di riqualificazione urbana, di cui all'art. 4 della L.R. 3 luglio 1998, n. 19, assume il valore e produce gli effetti del PUA.

5. In sede di approvazione del PUA il Comune può attribuire all'atto deliberativo valore di concessione edilizia, per tutti o parte degli interventi previsti, a condizione che sussistano tutti i requisiti dell'opera e siano stati ottenuti i pareri, le autorizzazioni ed i nulla osta cui è subordinato il rilascio della concessione edilizia. Le eventuali varianti alle concessioni edilizie, relative a tali interventi, possono essere rilasciate, a norma delle disposizioni vigenti, senza la necessità di pronunce deliberative.

6. Al fine di disciplinare i rapporti derivanti dall'attuazione degli inter­venti previsti dal PUA, è stipulata una apposita convenzione.

Sezione II - Procedimenti di approvazione

Art. 32 - Procedimento di approvazione del PSC

1. Il procedimento disciplinato dal presente articolo trova applicazione per l'elaborazione e l'approvazione del PSC e delle sue varianti.

2. La Giunta comunale elabora un documento preliminare del piano. Per l’esame congiunto del documento preliminare il Sindaco convoca una conferenza di pianificazione ai sensi dell’art. 14, alla quale partecipano

a) la Provincia

b) i Comuni contermini ovvero quelli individuati dal PTCP ai sensi del comma 3 dell'art. 13

c) la Comunità montana e gli enti di gestione delle aree naturali protette territorialmente interessati.

3. Alla conclusione della conferenza di pianificazione la Provincia ed il Comune possono stipulare un accordo di pianificazione ai sensi del comma 7 dell’art. 14. L'accordo attiene in particolare ai dati conoscitivi e valutativi dei sistemi territoriali e ambientali, ai limiti e condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio comunale, nonché alle indicazioni in merito alle scelte strategiche di assetto dello stesso. La stipula dell’accordo di pianificazione comporta la riduzione della metà dei termini di cui ai commi 7 e 10 e la semplificazione procedurale di cui al comma 9.

4. A seguito della conclusione della fase di concertazione, il Consiglio comunale adotta il piano. Copia del piano è trasmessa alla Giunta provinciale e agli enti di cui al comma 2.

5. Il piano adottato è depositato presso la sede del Comune per sessanta giorni dalla pubblicazione sul Bollet­tino Ufficiale della Regione dell'avviso dell'avvenuta adozione. L'avviso contiene l'indicazione della sede presso la quale il piano è depositato e dei termini entro i quali chiunque può prenderne visio­ne. L'avviso è pubblicato altresì su almeno un quotidiano a diffusione locale e il Comune può attuare ogni altra forma di divulgazione ritenuta opportuna.

6. Entro la scadenza del termine di deposito di cui al comma 5 possono formulare osservazioni e proposte i seguenti soggetti

a) gli enti e organismi pubblici

b) le associazioni economiche e sociali e quelle costituite per la tutela di interessi diffusi

c) i singoli cittadini nei confronti dei quali le previsioni del piano adottato sono destinate a produrre effetti diretti.

7. Entro il termine perentorio di centoventi giorni dal ricevimento del piano, la Giunta provinciale può sollevare riserve in merito alla conformità del PSC al PTCP e agli altri strumenti della pianificazione provinciale e regionale, limitatamente agli ambiti delle materie di pertinenza dei piani stessi, nonché alle eventuali determinazioni assunte in sede di accordo di pianificazione di cui al comma 3. Le riserve non formulate nella presente fase non possono essere sollevate in sede di espressione dell’intesa di cui al comma 10.

8. Il Comune, in sede di approvazione del PSC, è tenuto ad adeguarsi alle riserve ovvero ad esprimersi sulle stesse con motivazioni puntuali e circostanziate.

9. Qualora sia intervenuto l'accordo di pianificazione, siano state accolte integralmente le eventuali riserve provinciali di cui al comma 7 e non siano introdotte modifiche sostanziali al piano in accoglimento delle osservazioni presentate, il Consiglio comunale decide sulle osservazioni e approva il piano, dichiarandone la conformità agli strumenti di pianificazione di livello sovraordinato.

10. Fuori dal caso di cui al comma 9, l'approvazione del PSC è subordinata all'acquisizione dell'intesa della Provincia in merito alla conformità del piano agli strumenti della pianificazione di livello sovraordinato. La Giunta provinciale esprime l’intesa entro il termine perentorio di novanta giorni dalla richiesta. Trascorso inutilmente tale termine l'intesa si intende espressa nel senso dell'accertata conformità del PSC agli strumenti di pianificazione provinciali e regionali. L’intesa può essere subordinata all'inserimento nel piano delle modifiche necessarie per soddisfare le riserve di cui al comma 7, ove le stesse non risultino superate, ovvero per rendere il piano controdedotto conforme agli strumenti della pianificazione di livello sovraordinato, nonché alle determinazioni assunte in sede di accordo di pianificazione di cui al comma 3, ove stipulato.

11. In assenza dell'intesa della Provincia per talune previsioni del PSC, il Consiglio comunale può approvare il piano per tutte le altre parti sulle quali abbia acquisito l'intesa stessa.

12. Copia integrale del piano approvato è trasmessa alla Provincia ed è depositata presso il Comune per la libera consulta­zione. L’avviso dell’avvenuta approvazione del piano è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. Dell'approvazione è data altresì notizia con avviso su almeno un quotidiano a diffusione locale.

13. Il piano entra in vigore dalla data di pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione dell’avviso dell’approvazione, ai sensi del comma 12.

Art. 33 - Procedimento di approvazione del RUE

1. Il Comune adotta il RUE e procede al suo deposito presso la propria sede per sessanta giorni, dandone avviso su almeno un quotidiano a diffusione locale. Entro la scadenza del termine di deposito chiunque può formulare osservazioni. Il Comune decide sulle osservazioni presentate ed approva il RUE. Il medesimo procedimento si applica anche per le modifiche al RUE.

2. Copia integrale del RUE approvato è trasmessa alla Provincia ed è depositata presso il Comune per la libera consultazione. L’avviso dell’avvenuta approvazione è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. Dell'approvazione è data altresì notizia con avviso su almeno un quotidiano a diffusione locale.

3. Il RUE entra in vigore dalla data di pubblicazione sul Bollettino Ufficia­le della Regione dell'avviso di cui al comma 2.

4. Ogni modifica del RUE comporta l'obbligo della sua redazione in forma di testo coordinato.

Art. 34 - Procedimento di approvazione del POC

1. Il procedimento disciplinato dal presente articolo trova applicazione per l'elaborazione e l'approvazione del POC e delle sue modifiche. La medesima disciplina si applica altresì al Piano comunale delle Attività Estrattive (PAE) e ai piani settoriali comunali con valenza territoriale per i quali la legge non detti una specifica disciplina in materia.

2. Nella predisposizione del POC, il Comune attua le forme di consultazione e partecipazione nonché di concertazione con le associazioni economiche e sociali previste dallo Statuto o da appositi regolamenti.

3. I pareri e gli atti di assenso comunque denominati previsti dalla legislazione vigente in ordine ai piani regolatori generali sono rilasciati dalle amministrazioni competenti in sede di formazione del POC, in coerenza con le valutazioni espresse ai sensi del comma 3 dell’art. 14.

4. Il POC è adottato dal Consiglio ed è depositato presso la sede del Comune per sessanta giorni dalla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione dell'avviso dell'avvenuta adozione. L'avviso contiene l'indi­cazione della sede presso la quale il piano è depositato e dei termini entro i quali chiunque può prenderne visione. L'avviso è pubblicato altresì su almeno un quoti­diano a diffusione locale e il Comune può attuare ogni altra forma di divulgazione ritenuta opportuna.

5. Entro la scadenza del termine di deposito di cui al comma 4 chiunque può formulare osservazioni.

6. Contemporaneamente al deposito, il POC viene trasmesso alla Provincia la quale, entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di ricevimento, può formulare riserve relativamente a previsioni di piano che contrastano con i contenuti del PSC o con le prescrizioni di piani sopravvenuti di livello territoriale superiore. Trascorso inutilmente tale termine si considera espressa una valutazione positiva.

7. Nei sessanta giorni successivi alla scadenza del termine di cui al comma 4, il Consiglio comunale decide in merito alle osservazioni presenta­te, adegua il piano alle riserve formulate ovvero si esprime sulle stesse con motivazioni puntuali e circostanziate ed approva il piano.

8. Copia integrale del piano approvato è trasmessa alla Provincia ed è depositata presso il Comune per la libera consulta­zione. L’avviso dell’avvenuta approvazione del piano è pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione. Dell'approvazione è data altresì notizia con avviso su almeno un quoti­diano a diffusione locale.

9. Il piano entra in vigore dalla data di pubblicazione sul Bollettino Uffi­ciale della Regione dell'avviso dell’approvazione, ai sensi del comma 8.

Art. 35 - Procedimento di approvazione dei PUA

1. Per i PUA che non apportino variante al POC il Comune procede, dopo l’adozione, al loro deposito presso la propria sede per sessanta giorni, dandone avviso su almeno un quotidiano a diffusione locale. Per i PUA d’iniziativa privata non si procede ad adozione e gli stessi sono presentati per la pubblicazione nei modi definiti dal Comune.

2. Entro la scadenza del termine di deposito di cui al comma precedente chiunque può formulare osservazioni.

3. Il Comune decide in merito alle osservazioni presentate ed approva il PUA.

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