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Silvano Bassetti
L’urbanistica partecipata: Ossimoro o tautologia? (2001)
5 Aprile 2004
Urbanisti Urbanistica Città
Silvano Bassetti è un urbanista impegnato in una difficile terra di confine: quella tra convivenza e sopraffazione tra etnie e culture diverse. Assessore a Bolzano-Bozen, ha anche sperimentato l’attrito tra consapevolezza culturale e pratiche amministrative. Le pagine che inserisco qui hanno costituito, con il titolo L’urbanistica partecipata: Ossimoro o tautologia?, la Relazione introduttiva al seminario “Modelli di urbanistica partecipata”, che si tenuto a Bolzano il 12 ottobre 2001. Costituiscono un appassionato e lucido contributo al tema del rapporto, nodale, tra urbanistica e politica.

C’è nel titolo di questa mia relazione un’ansia palese. Lo confesso.

E’ da quando, poco più di un anno fa, ho assunto la responsabilità dell’assessorato all’urbanistica che mi porto dietro quest’ansia e la sento crescere. Perché ho fatto di questo motto – urbanistica partecipata – l’essenza programmatica del mio impegno. E perché ho trovato enormi difficoltà nel praticare questo motto, fino al dubbio che esso sia un vuoto nominalismo in perfetto gergo assessorile.

Sono tentato di pensare che possa trattarsi di un ossimoro che svela un malcelato senso di colpa. Ovvero che possa trattarsi di una tautologia che svela un altrettanto malcelato eccesso di zelo.

Infatti:

- se per urbanistica intendiamo (come spesso è, purtroppo e necessariamente) la gestione quotidiana di singole operazioni tecnico-giuridiche che inseguono i guasti del territorio, che rincorrono fabbisogni pregressi, che seguono decisioni “altrui”, sempre in bilico tra “atto dovuto”, “sanatoria” ed “emergenza”;

-e se per partecipazione intendiamo (come quasi sempre è, malgrado le migliori volontà) le cosiddette assemblee popolari, talvolta stancamente deserte, altre volte tanto affollate quanto tumultuose, ma intrinsecamente “protestatarie”;

- se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero un ossimoro, cioè la combinazione di due concetti opposti e inconciliabili.

Invece:

- se per urbanistica intendiamo (come è giusto in questo contesto) la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti;

- e se per partecipazione intendiamo (come è ovvio in questo contesto) il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata;

se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia, cioè la ripetizione di due concetti analoghi.

Scelgo decisamente la seconda interpretazione cercando di depurarla dell’ansia e, nella piena consapevolezza della sua difficoltà, di riconfermarla programmaticamente. In questa chiave, proverò a declinare separatamente i termini della questione.

L’urbanistica

L’urbanistica è, in senso lato, la disciplina che si propone di governare le modalità insediative dell’uomo e dunque di governare i fenomeni di formazione e trasformazione della città, del territorio e dell’ambiente. In quanto tale l’urbanistica ha compiti che si collocano sull’incrocio problematico tra passato e futuro.

L’urbanistica dovrebbe, anzi deve, interpretare le tensioni trasformative della città e assecondarle con azioni di ri-modellamento dei sistemi insediativi e relazionali della comunità territoriale. Ma nella sua dimensione operativa (tecnica, giuridica, gestionale, ecc.), in quanto azione essenzialmente politico-amministrativa, l’urbanistica resta impaniata nelle dinamiche inerziali tipiche della gestione del presente: razionalizzazione di processi spontanei già in atto; correzione delle patologie manifeste; risoluzione dei fabbisogni arretrati; risposta alle emergenze;…

Domina, largamente e di fatto, il paradigma dell’a posteriori.

E’ come se fossimo condannati a rincorrere le situazioni già in atto e dovessimo consumarci unicamente nello sforzo di correggere storture già prodotte dalla spontaneità dei fenomeni sociali, dei processi economici e delle dinamiche territoriali.

E’ una condanna da cui l’urbanistica deve liberarsi.

Consapevole dei limiti intrinseci della sua dimensione operativa, l’urbanistica deve saper dispiegare la sua dimensione scientifica e culturale aumentando la sua capacità di interpretazione e di prefigurazione. Ciò significa uscire dalle strettoie del rapporto meccanicistico tra passato e futuro per ricollocarsi culturalmente sullo snodo problematico tra storia e progetto.

In questo quadro l’urbanistica deve, anche in sede amministrativa, aumentare la sua cifra progettuale aumentando la sua vocazione ad ispezionare gli scenari del territorio lavorando sui futuri probabili e sui futuri auspicabili.

L’urbanistica e la politica

Emerge chiaramente in questa prospettiva la contiguità dell’urbanistica con la politica. Una contiguità profonda ed ineliminabile, di cui sono portatori emblematici perfino i termini linguistici e i loro etimi. Urbs e polis definiscono la città, pur con accezioni diverse, rispettivamente per la cultura romana e per la cultura greca. Prevale nell’ urbs romana la fisicità e la funzionalità dell’organismo urbano; prevale nella polis greca il senso di comunità sovrana insediata nella città. Urbanistica e politica dunque, entrambe incardinate sulla città, in essa radicate e da essa generate, in una singolare fusione di destini sociali e fisici, civili e funzionali.

Programmare il futuro della città con l’urbanistica significa programmare il futuro della comunità che in essa vive. Organizzare e regolare le relazioni individuali e collettive dei cittadini con la politica, rispondendo ai bisogni e rispettando i diritti, significa organizzare e regolare la città come luogo di quelle relazioni.

La democrazia

In questo intreccio tra destini della comunità e destini della città irrompe il principio (e la pratica) della democrazia.

Si badi bene: la democrazia non è di per sé essenziale all’urbanistica. La storia ci mostra infiniti esempi di “urbanistica non democratica”. Mi riferisco all’urbanistica prodotta dai regimi dittatoriali. C’è addirittura una diabolica perfezione nell’urbanistica dei dittatori.

L’imperialismo romano ha disegnato il dominio sul Mediterraneo trasformandoin città i propri accampamenti militari. Le monarchie assolute hanno disegnato le grandi capitali europee attorno alle loro regge. Gli splendidi boulevard pariginisono il risultato dell’urbanistica controrivoluzionaria del prefetto di polizia Hausmann. L’imperialismo coloniale ha sigillato la modernità cospargendo gli altri mondi di capitali simil-europee. Il nazismo, il fascismo, lo stalinismo hanno ridisegnato intere città e ne hanno fondate altre ex-novo, con una maestria che spesso affascina gli studiosi per la grandiosità delle impostazioni, per la coerenza delle soluzioni, per la monumentalità delle opere.

C’è in questa urbanistica la semplificazione tragica di un potere assoluto che prescinde dai bisogni e dai diritti e celebra nella costruzione delle città il delirio della propria onnipotenza, il narcisimo della propria immagine e il delitto dell’oppressione.

E’ la democrazia che complica l’urbanistica!

La rende meravigliosamente imperfetta, perché nega i gesti megalomani dei dittatori e sottopone il progetto della città al consenso dei suoi cittadini e al difficile esercizio della conciliazione tra i diversi interessi, in quell’intrico di bisogni e di diritti che sono la naturale espressione di una società complessa in cui i cittadini sono sovrani e non sudditi.

La partecipazione

E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.

L’esperienza concreta

Nella mia esperienza concreta di amministratore ho vissuto una serie di occasioni di partecipazione su cui vorrei brevemente riflettere.

Non le citerò concretamente, ma cercherò di estrapolarne alcune caratteristiche emergenti. Mi scuserete se in questa analisi tratterò soprattutto le mie “sensazioni negative”. Userò giudizi drastici e perfino paradossali, estremizzando le posizioni per chiarezza, ma senza nessuna acrimonia.

Ho sperimentato la prevalenza del dissenso.

Il cittadino partecipa attivamente e con vivacità solo quando non gradisce la proposta o l’intervento. Chi è d’accordo non si pronuncia, partecipa silenziosamente o addirittura non partecipa. Ciò costituisce una condizione di grave squilibrio tra dissenso esplicito e tacito consenso.

Ho sperimentato la sommatoria dei dissensi.

I cittadini dissenzienti esprimono una notevole varietà di obiezioni, spesso tra loro contrastanti e perfino antagoniste. Ma paradossalmente le obiezioni opposte, anziché elidersi, si sommano.

Ho sperimentato l’interesse personale come matrice della partecipazione

Non mi è mai capitato di assistere ad una partecipazione “gratuita e disinteressata”. Si riconosce solo l’interesse diretto. Si lotta per difendere il proprio cortile. Si universalizza il proprio bisogno singolare, il proprio diritto personale.

Ho sperimentato l’ostilità pregiudiziale verso le proposte.

L’amministrazione è vissuta come estranea, perfino nemica, comunque inefficiente. Mi coglie il sospetto che ci sia un istinto conservatore alimentato dalla paura del cambiamento.

Ho sperimentato l’incapacità negoziale.

Si oscilla tra l’indifferenza e la contrarietà assoluta. Stento a trovare quella saggezza negoziale che entra nel merito della soluzione proposta per implementarla con le proprie esigenze.

Potrei continuare a lungo ma mi accorgo che sono tutte critiche rivolte ai cittadini. E allora per farmi perdonare cambio bersaglio e chiudo con una critica radicale rivolta all’amministrazione, cioè a me stesso.

Ho sperimentato l’ipocrisia di spacciare per occasione di partecipazione la pura comunicazione di decisioni già assunte.

Credo che si possa qui trovare la chiave di volta, molto concreta e pratica, per tentare un approccio davvero costruttivo a nuovi percorsi di urbanistica partecipata: c’è bisogno di costruire la partecipazione attraverso un reale coinvolgimento dei vari soggetti lungo tutto il processo conoscitivo e decisionale delle scelte urbanistiche.

Ciò significa concretamente che:

1. deve essere offerta preliminarmente la conoscenza problematica della questione – partecipazione in fase istruttoria;

2. devono essere rese esplicite e riconoscibili le ragioni di metodo e di merito che delineano progressivamente la scelta dell’intervento – partecipazione in fase pre-progettuale;

3. devono essere definiti, laddove possibile, scenari alternativi descritti nei loro diversi effetti possibili, magari con la formulazione di appositi bilanci di costi e benefici, per orientare il processo decisionale – partecipazione in fase progettuale;

4. devono essere attivati processi di pronunciamento sulla decisione assunta – partecipazione in fase decisionale;

5. devono essere attivati processi di controllo sulle attuazioni conseguenti – partecipazione in fase attuativa.

Ho sperimentato questa procedura con lo studio di fattibilità per il recupero e la riqualificazione delle aree ferroviarie. Dalle reazioni delle assemblee ho capito quanta strada ci sia da percorrere: ho fatto molta fatica a farmi credere quando dicevo trattarsi solo di uno “studio di fattibilità a scenari aperti”. Tutti lo scambiavano per un progetto fatto e finito. Tutti erano convinti che fosse una decisione presa e molti la contestavano, in quanto tale.

Questa è stata per me una lezione importante: la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un opzional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.

Per quanto mi riguarda l’urbanistica partecipata è una fatica su cui mi sento di rinnovare oggi il mio impegno.

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