loader
menu
© 2024 Eddyburg

Società degli Amici di Ronchi e Poveromo 1961-2011, pagine non numerate, riprodotto in proprio in formato 14x21, senza data (ma agosto 2011), senza luogo (ma Ronchi, Massa)

Quel gruppo di persone che, nel settembre del 1961, decise di fondare un’associazione "degli amici" di Ronchi e Poveromo forse non immaginava non solo di dare un'importante testimonianza di impegno civile, ma di scrivere una pagina della lunga storia dei movimenti per la difesa della natura.

Si trattava di persone che da molti anni frequentavano Ronchi e Poveromo --- un rettangolo di poco più di una decina di chilometri quadrati, circa a metà fra Marina di Massa e Forte dei Marmi, nella Toscana nord-occidentale --- e che, di fronte ai segni di un assalto speculativo e becero alle bellezze caratteristiche della zona, si ispirarono alle primissime associazioni, come Italia Nostra, fondata appena sei anni prima, che stavano sorgendo in varie parti d'Italia per arginare i guasti ai beni naturali e ambientali.

Negli anni cinquanta e sessanta del Novecento gli effetti del "miracolo economico" portarono alla distruzione di boschi e macchie e dune, coprirono di cemento le spiagge, alterarono il paesaggio costiero e quello di montagna, attraverso una graduale appropriazione e privatizzazione dei beni e dei valori collettivi che la Costituzione repubblicana, nel suo articolo 9, riconosce come valori da difendere: "La Repubblica ... tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione".

Questo scempio non solo non offriva a masse sempre più grandi la giusta possibilità di prendere conoscenza e di godere dei beni e dei valori naturalistici, storici e ambientali che sono di tutti, ma era mosso da un arrogante potere economico che ripeteva, nelle zone ancora utilizzabili per il riposo e la vacanza, i modelli di urbanizzazione che avevano già deturpato le città.

L'articolo 3 dello statuto della nuova associazione, che assumeva il nome di "Società degli Amici di Ronchi e Poveromo", afferma che "l'associazione ha lo scopo di difendere e proteggere le zone di Ronchi e Poveromo --- e più precisamente il comprensorio fra l'agglomerato di Ronchi e l'albergo Doria --- che sono rimaste quasi le ultime a conservare le più rare caratterististiche del paesaggio costiero della Versilia e che uniscono felicemente la veduta delle Alpi Apuane all'incantevole visione della costa, da Viareggio a Porto Venere".

Nel successivo articolo 4 lo statuto afferma: "Onde ottenere lo scopo suddetto l'associazione intende promuovere azioni atte ad evitare che edifici inopportuni vengano a turbare l'armonia del paesaggio sia sull'arenile sia nelle bellissime pinete e nella macchia di retroterra, e a proteggere la tipica vegetazione sia della landa marina --- unica ormai rimasta a ricordare le spiagge cantate dai nostri poeti --- (le agavi, i caratteristici arbusti), sia delle pinete e della macchia del retroterra: i piccoli gigli, l'erica, i lecci, gli ontani, i pioppi. Inoltre l'associazione si adopererà a promuovere la regolamentazione e la bonifica dei canali (Poveromo, eccetera) ad evitare il danno di invasione di insetti e di esalazioni malsane".

La zona di Ronchi e Poveromo era, agli inizi degli anni venti, una macchia quasi selvaggia, sede di poche abitazioni sparse e in armonia con la vegetazione, e tale più o meno è rimasta fino alla seconda guerra mondiale, quando divenne, dal settembre 1944 all'aprile 1945, l'immediato retroterra del fronte di combattimento --- l'estremità occidentale della "Linea Gotica", ferma al Cinquale. I lunghi mesi di guerra portarono alla distruzione di un largo tratto di pineta con i relativi edifici.

Dopo la Liberazione ebbe inizio una lenta ricostruzione della pineta e della vegetazione e si moltiplicarono le abitazioni, in genere senza un programma, spesso all'insegna della bruttezza e del disordine, talvolta della furberia e dell'abusivismo.

In quanto alla spiaggia la crescente pressione della popolazione estiva ne ha ben presto modificato profondamente i caratteri. Già la strada litoranea, costruita intorno al 1925, aveva portato lo spianamento di una delle grandi dune parallele al mare; la diffusione del turismo estivo portò lentamente il livellamento dell'arenile per permettere l'accesso più comodo delle persone e delle automobili fino alle cabine, fino alla riva del mare, con conseguente alterazione e distruzione della vegetazione spontanea della spiaggia, comprendente talvolta specie molto rare.

Chi critica la maniera "moderna" di avvicinarsi alla spiaggia, al verde, alla natura, al mare, è considerato un arretrato conservatore, anzi nemico del popolo, ma l'analisi ecologica dimostra che la protezione della natura è l'unica strada che permette di evitare danni in futuro ed è quindi anche socialmente utile, anzi è la strada per assicurare a tutti i cittadini, “al popolo”, il godimento di beni collettivi necessari per la salute e il benessere.

Non a caso la Francia, un paese industriale, avanzato e moderno più di noi e non certo accusabile di ubbie ecologiste, ha posto dei severi vincoli su tutte le sue coste vietando la privatizzazione, gli insediamenti stabili come strutture balneari, e, a maggior ragione, la costruzione di case.

La legge italiana n. 431 del 1985, ispirata al cosiddetto "decreto Galasso", che pure imponeva di proteggere dall'occupazione e dall'edificazione da parte di strade e abitazioni, le coste e le rive dei fiumi e del mare, non è mai stata applicata proprio dagli organi di quello stato che pure l'aveva emanata.

L’ “impero del disordine”

E non si tratta di capricci o ubbie. Per esempio negli anni settanta, la distruzione dei pini costieri, dovuta all'attacco da parte di agenti chimici presenti nel mare e trasportati in forma nebulizzata dal vento, fu proprio dovuta al fatto che l'aerosol marino non era più fermato dalle dune e dalla vegetazione spontanea della spiaggia.

Il disastro è stato completato dai vari sciagurati decreti di condono edilizio, a cominciare da quelli del 1985 e del 1993, che hanno legalizzato innumerevoli (nel senso letterario, perché nessuno li ha mai contati, tanto meno gli organi che avrebbero dovuto farlo) abusi edilizi, anche quando violavano vincoli naturalistici.

Non solo: nella zona di Ronchi e Poveromo sono stati violati tutti gli altri vincoli, ancora in vigore, ma "dimenticati", relativi al taglio degli alberi solo dopo una specifica autorizzazione delle autorità forestali, le norme sulle recinzioni dei terreni: quanto più gli edifici erano abusivi o furbescamente in violazione della legge (case che avrebbero dovuto essere monofamiliari divenute orribili palazzoni), tanto più sono state circondate e "protette" da altrettanto orrendi muraglioni, portoni a comando elettronico, viali di cemento, con ulteriore alterazione della vegetazione e della circolazione delle acque sotterranee e delle piogge.

Il falso "progresso", l'aumento della densità delle abitazioni, la cementificazione della pineta e della macchia, l'introduzione di specie vegetali estranee e la distruzione della vegetazione originaria, tutte queste azioni hanno compromesso un delicato equilibrio ambientale, idrogeologico e naturalistico. Le conseguenze non hanno tardato a farsi sentire, sotto forma dell'abbassamento della falda sotterranea di acqua dolce e dell'aumento della salinità dell'acqua sotterranea, della scomparsa delle specie vegetali ecologicamente più fragili.

Interessi di chi?

Purtroppo nei molti decenni della sua esistenza la voce della “Società degli Amici di Ronchi e Poveromo” non solo è rimasta scarsamente ascoltata dalle amministrazioni e dalle popolazioni locali, ma è stata per lo più accusata di difendere gli egoistici interessi di pochi "signori" snob, calati dalle grandi città, che volevano impedire ad altri di sfruttare e "valorizzare" --- secondo una ben distorta visione del "valore" --- la zona.

E invece, come l'associazione ha sempre sostenuto ad alta voce, la difesa delle caratteristiche ambientali e paesaggistiche di Ronchi e Poveromo è non solo difesa di valori assoluti --- quella indicata dall'articolo 9 della Costituzione --- ma è anche nell'interesse della popolazione del luogo, degli agricoltori, dei bagnini, degli operatori turistici e dei turisti che guardano appena un po' più lontano del proprio naso. Un discorso non gradito.

Purtroppo l'esperienza ha mostrato che il graduale degrado, la distruzione della vegetazione spontanea, l'erosione delle spiagge, la mancata manutenzione dei fossi, gli inquinamenti, hanno portato un continuo declino del turismo della riviera apuana, soprattutto se paragonato a quello di altre zone costiere, anche della stessa Toscana.

Si è così verificato quanto si temeva: distruggere le spiagge, il verde, il silenzio, la possibilità di camminare tranquillamente a piedi o in bicicletta, significa compromettere, in breve tempo, una fonte di reddito per la stessa popolazione e per l'economia locale.

Si vede anche dalla rapida diminuzione delle strutture ricettive alberghiere trasformate in condomini: la pensione Betty, la pensione Iinternazionale (divenuta un orribile pacchiano casone), la mitica pensione La Pergola, la Villa Irene, la pensione Doria --- quella ricordata nello statuto dell'associazione --- divenuta casa di suore e ora trasformata in appartamenti.

Va anche detto che la popolazione locale non ha mai amato coloro che, venendo da altre città, nella zona di Ronchi e Poveromo sono vissuti a lungo e tale zona hanno molto amato. Lo dimostra il disinteresse per gli intellettuali e gli artisti che a Ronchi e Poveromo hanno scritto e operato, il fatto che la città di Massa non è stata capace di tutelare e segnalare, almeno con una lapide, la casa di Piero Calamandrei, che a Poveromo ha scritto importanti pagine delle sue opere di giurista e di uomo politico e anche parte della Costituzione repubblicana. Si tratta di quella villa, all'angolo fra Via Siena e il Viale Lungomare di Levante (poi alterata e ingrandita) nella quale Calamandrei ha ospitato tutti gli intellettuali e gli uomini politici che hanno fatto l'Italia moderna; il Comune non è stato neanche capace di dedicare almeno una strada, magari la stessa Via Siena, a Piero Calamandrei.

Lo stesso vale per le strade in cui hanno operato Savinio, Sacchi e tanti altri. Non dico di cambiare i nomi poetici e bellissimi di alcune strade --- via degli ontani, delle macchie, degli olmi, dei fichi, dei fortini --- ma altre strade hanno nomi che potrebbero essere modificati per ricordare poeti, scrittori e artisti che Ronchi e Poveromo hanno abitato e amato.

Il tornado del 1977

Nei molti decenni della sua storia l'associazione è passata attraverso --- ed è stata protagonista di --- vari eventi di importanza non solo locale.

Il tornado del 28 agosto 1977 è stato un evento naturale imprevedibile ed eccezionale, ma i suoi effetti devastanti sono stati ancora più gravi a causa di tutte le alterazioni ecologiche prima ricordate, perché l'intero ecosistema era stato reso più fragile dalla distruzione della vegetazione originaria e delle dune costiere e dall'alterazione delle falde idriche sotterranee. Il disastro sollevò emozione a livello internazionale. La Società degli Amici di Ronchi e Poveromo organizzò, il 29-30 ottobre 1977, insieme ad Italia Nostra, un convegno al quale partecipò, fra gli altri, Antonio Cederna (scomparso nel 1996).

La Comunità Europea, riconoscendo la grande importanza ambientale e naturalistica dell'ecosistema costiero apuano, stanziò ingenti contributi per incentivare la ricostruzione della vegetazione, in gran parte pini, distrutta. Con un commovente atto di solidarietà ogni città grande e piccola dell'Europa volle donare un albero alla zona colpita.

Dove è finito tutto questo ? Purtroppo i contributi comunitari sono stati in gran parte dissipati. Molte piante sono state messe a dimora malamente e sono poi morte, altre sono morte perché erano inadatte all'ambiente; larghi tratti delle pinete distrutte sono stati spianati e trasformati in prati all'inglese, fonti di indescrivibili sprechi di acqua, richiesta per la continua irrigazione. Intorno a molte case, al posto degli alberi, sono state costruite piscine (a pochi metri dal mare !) o stradine e parcheggi asfaltati. Il che fa diminuire la capacità ricettiva, per l'acqua delle piogge, del suolo che originariamente era sabbioso e molto permeabile, con conseguente formazione di pantani e paludi ad ogni pioggia più intensa.

Alla natura si comanda se le si ubbidisce

Ancora oggi un malinteso senso di "pulizia" della macchia o la trasformazione della macchia spontanea in "giardini" ad opera di alcuni proprietari, impedisce la formazione del sottobosco e di quella sequenza di specie vegetali che sole possono assicurare un sistema stabile e la cui difesa è specificamente raccomandata dallo statuto della Società.

In un mondo in cui lo sfoggio della ricchezza e dello spreco sono leggi, che posto possono avere le umili robinie, saggine, e roverelle, i poveri lecci e pini e platani e olmi --- ricordati nel nome di tante strade di Ronchi e Poveromo --- tutte piante che hanno la colpa di non costare niente, di crescere spontanee in gioioso disordine e non "valgono" niente, rispetto alle costose esotiche piante, ai bei giardini con gli alberi allineati, circondati da prati ben ordinati. Solo una profonda ignoranza botanica ed ecologica può non capire che invece la vegetazione sopravvive soltanto se è disordinata (secondo i nostri sciocchi canoni di "ordine"), e che tale disordine invece assicura, secondo ineluttabili leggi della biodiversità, rapporti di collaborazione e cooperazione spontanea e duratura fra tanti diversi esseri viventi vegetali. Proprio per questa la Società degli Amici di Ronchi e Poveromo ha più volte organizzato delle conferenze del prof. Erminio Ferrarini, uno dei profondi conoscitori della flora apuana, per ricavarne indicazioni e suggerimenti.

Adesso non solo della vecchia pineta restano pochi frammenti, intramezzati da larghi tratti privi di vegetazione, ma il turbamento dell'ecosistema ha fatto aumentare la salinità dell’acqua sotterranea, il che contribuisce ulteriormente a far morire piante e alberi. E ad ogni nuova licenza edilizia i proprietari e i costruttori, per prima cosa, distruggono e sradicano qualsiasi vegetazione spontanea, incuranti del fatto che in alcuni fazzoletti di terreno dei Ronchi e di Poveromo esistono ancora rari biotopi.

La spiaggia che scompare

Un altro grave problema che ha impegnato l'associazione riguarda l'assetto della spiaggia di Ronchi e Poveromo. Nel disordine del trasferimento delle competenze sulle concessioni degli arenili dal Ministero della Marina mercantile alle amministrazioni locali sono proliferati stabilimenti balneari spesso orribili, talvolta mascherati sotto l'etichetta di circoli o associazioni, in genere dotati di enormi parcheggi in terra battuta o addirittura in cemento, che occupano abusivamente larghi tratti di spiaggia, a pochi metri dal mare.

Nello stesso tempo la spiaggia di Ronchi e Poveromo lentamente retrocede, erosa dal mare, in conseguenza degli interventi sbagliati di presunta "difesa" della costa a Marina di Carrara e Marina di Massa e della diminuzione, a causa dei prelevamenti di inerti dal greto del fiume e della diga a Bocca di Magra, del trasporto, da parte delle correnti marine verso sud-est, della sabbia del Magra.

Non solo i pennelli e le barriere non consentono la ricostruzione della spiaggia di Marina di Massa, ma l'erosione, dopo avere raggiunto Ronchi, sta rapidamente muovendosi verso Poveromo e il Cinquale. Si fermerà probabilmente fra Forte dei Marmi e Viareggio, grazie all'apporto compensatore della sabbia proveniente dal Serchio, che le correnti marine spingono verso nord-ovest.

Il piano regolatore dell'arenile, approvato dal Comune di Massa nei primi anni novanta, ha peggiorato ancora le cose. Quel po' di spiaggia che ancora sopravvive è ora costellata di orribili edifici, finti bagni, ma in realtà ristoranti e discoteche, che sono riusciti anche qui a togliere la vista del mare a chi percorre il viale litoraneo. Le ultime tracce di ondulazioni, residui delle dune, sono state livellate e fu una gran fatica, per l'associazione, trovare, nel sopralluogo fatto all’inizio degli anni novanta delle decine di stabilimenti balneari, due o tre che ancora avevano alcuni residui della, una volta ricca e rara, vegetazione della rena. A questo proposito si possono ricordare gli incontri che la Società ha organizzato invitando Ferruccio Egori (scomparso nel 1999) a illustrare l’evoluzione della costa che egli aveva immortalato in una collezione di migliaia di diapositive che avrebbero meritato di essere raccolte in un archivio.

La salvezza alla crescente crisi ecologica si può avere soltanto con un salto di cultura, al quale la Società degli Amici di Ronchi e Poveromo, nel mezzo secolo della sua vita, ha dato un contributo organizzando presentazione di libri, incontri e dibattiti pubblici anche in collaborazione con le associazioni ambientaliste locali. Fra tali iniziative va ricordata in particolare la pubblicazione del prezioso volume, “Ronchi-Poveromo. Natura e memoria”, edizioni 1997 e 2007 (alcune copie sono ancora reperibili presso l’associazione), con una raccolta di saggi sulla storia della riviera apuana e una copertina arricchita della riproduzione di un quadro donato da Piero Calamandrei.

Bisognerebbe far crescere la consapevolezza che la zona di Ronchi e Poveromo può sopravvivere soltanto se si riconosce che è parte di un grande ecosistema costiero che va da Bocca di Magra fino a Livorno, e comprende fiumi e torrenti il cui apporto di sabbia al mare governa, lentamente, l'avanzata o la retrocessione della costa. Purtroppo, per strane ragioni storiche, la costa è divisa amministrativamente "sotto" due regioni, Liguria e Toscana, tre province, La Spezia, Massa Carrara e Lucca, e tanti Comuni, ciascuno dei quali, per differenti e talvolta contrastanti interessi, compie --- o omette --- opere che influenzano i caratteri naturalistici delle zone vicine.

Fra acque e mare

I fondatori della Società degli Amici di Ronchi e Poveromo, che nel 1961, nello statuto, parlarono della necessità di mantenere in efficienza il sistema idrico di fossi come il Poveromo, avevano ben presente che la zona di Ronchi e Poveromo faceva parte, ancora all’inizio del Novecento, di un ampio sistema paludoso: la bonifica era stata realizzata, con amore e saggezza, scavando numerosi canali scolmatori delle acque di piena che intersecavano tutta la pianura da Marina di Carrara a Viareggio.

Nel tratto Ronchi-Poveromo si possono ricordare il Magliano, il Poveromo, il Canalmagro Fescione, il Fosso del Sale, il sistema Montignoso-Versilia-Cinquale, ben riconoscibili nelle carte dell'Istituto Geografico Militare della fine del secolo scorso.

La pulizia dei fossi e il loro accesso al mare assicuravano il deflusso delle acque piovane, una forma di autodepurazione assicurata dall'incontro fra l'acqua salina del mare e le acque dolci provenienti dall'interno, che permetteva di evitare l'inquinamento e la salinizzazione delle falde sotterranee.

Un attento osservatore riconosce, nonostante i tentativi di livellamento delle strade asfaltate, le ondulazioni parallele e perpendicolari alla costa che assicuravano il drenaggio delle acque delle paludi e la protezione delle falde di acqua dolce che una volta era facile reperire a pochi metri di profondità e che alimentavano gli alberi della macchia.

Una parte di questo sistema idrico era unito, fino all’inizio del Novecento, dalla grande palude, e vasca di espansione delle acque, del Lago di Porta. Nel corso dei decenni il lago è stato occupato dal Polverificio di Vittoria Apuana (circa 1900-1920), poi dall'aeroporto del Cinquale (dal 1930), poi è diventato deposito di scarichi industriali e di rifiuti urbani, poi è stato occupato abusivamente da edifici, poi è stato occupato da un campo da golf (dal 1990).

Per non disturbare i malintesi miopi interessi dei concessionari delle spiagge è stato chiuso l'accesso al mare dei fossi scolmatori: il Magliano è ridotto a un rigagnolo, sono chiusi il Poveromo, il Fescione, il Fosso del Sale: il Cinquale si è riempito del fango e della marmettola provenienti dal Versilia e viene tenuto aperto quel minimo che fa comodo al passaggio dei motoscafi. Una parte dei fossi sono stati coperti con cemento e sfruttati a fini abitativi; i fossi sono così diventati vere e proprie fogne a cielo aperto, fonti di puzza, di parassiti e di inquinamento delle acque sotterranee ad opera dei prodotti di putrefazione che ristagnano nei fossi stessi e percolano nel sottosuolo.

La mancanza di manutenzione e di periodica pulizia ha fatto sì che i fossi si riempissero di fango, che ne diminuisse la capacità ricettiva delle acque piovane e che queste esondassero sempre più spesso, allagando terreni e strade.

Nel nome di interessi privati, "violenti" contro la natura, si è ridotto lo spazio per il moto delle acque e non a caso dagli anni novanta si sono vetrificate continue alluvioni dovute al fatto che le acque provenienti dai torrenti di montagna non trovano più nella pianura spazi in cui espandersi e allagano e distruggono strade, case, beni materiali e vite umane. Non c'è da meravigliarsi se ad ogni nuova pioggia si sono avute e si avranno alluvioni e allagamenti. Il fatto singolare è che gli errori e le omissioni, sotto gli occhi delle pubbliche amministrazioni, fruttano pochi milioni a chi ne trae vantaggio, costruendo case dove non dovrebbero essere costruite, e costano milioni di euro alla collettività.

Dopo ogni nuova alluvione, infatti, vengono spesi soldi pubblici per risarcire i danni, ma nessun soldo è speso per ripristinare le condizioni che assicurano l'espansione delle acque, cioè per prevenire gli eventi calamitosi. La più ardita proposta consiste nel rialzare gli argini dei fossi, e in questo modo non si fa altro che spostare le zone allagate da un posto all'altro, senza alcun vantaggio per il reale deflusso delle acque.

Nello stesso tempo l'estensione di case, di parcheggi, addirittura piste sportive di asfalto e cemento, alterano la permeabilità dei suoli e la capacità dell'originale terreno sabbioso di assorbire rapidamente le acque piovane. Così si moltiplicano le zone in cui l'acqua ristagna.

Anche questi piccoli episodi, apparentemente locali, ma che riflettono una situazione che si ritrova in tutta Italia, mostrano che l'attenzione per la condizione "naturale" della zona è essenziale per la conservazione di un patrimonio ecologico che appartiene alla collettività e che deve essere difeso nell'interesse della collettività, presente e futura.

Natura e inquinamento industriale

C'è un'altra pagina della storia del territorio di Ronchi e Poveromo in cui l'associazione ha avuto un notevole ruolo. Ad appena pochi chilometri di distanza, nella pianura fra Massa e Carrara, nel 1938 fu insediata una vasta zona industriale con stabilimenti chimici, metallurgici, meccanici, essenzialmente previsti per le esigenze della guerra.

Distrutte in gran parte durante la guerra, dopo la Liberazione le fabbriche sono state ricostruite e trasformate per operazioni produttive sempre più inquinanti: di particolare pericolosità ed effetto negativo sull'ambiente sono state le industrie chimiche, la cokeria, lo stabilimento di pesticidi Rumianca poi Enichem, l'altro stabilimento di pesticidi Montecatini poi Montedison poi Farmoplant, lo stabilimento per la produzione di ferroleghe, quello per manufatti di cemento-amianto, la fabbrica di refrattari. Nello stesso tempo una ripresa, dopo lunga stasi e crisi, dell'attività di segagione del marmo locale e dei graniti di importazione, ha portato un crescente inquinamento del mare, che si aggiungeva a quello delle fogne urbane, per decenni senza alcun depuratore, poi con depuratori sbagliati e insufficienti.

A poco a poco l'inquinamento dell'aria e delle acque ha cominciato a fare sentire i suoi effetti anche nell'apparentemente isolata e lontana zona di Ronchi e Poveromo. L'aria e l'acqua non hanno confini e si spostano secondo le loro leggi naturali e non esistono isole privilegiate.

L'inquinamento ha danneggiato la vegetazione costiera, ma la consapevolezza di convivere con un grande polo industriale e con i relativi pericoli ha raggiunto anche la zona di Ronchi con i due gravi incidenti industriali, quello del 17 agosto 1980 alla Montedison, del 12 marzo 1984 all'Enichem.

Per anni nessuno ha mai misurato lo stato di inquinamento dell'aria e delle acque e la balneabilità del mare: la scoperta delle disastrose condizioni locali si è avuta quando il nostro paese è stato costretto, negli anni ottanta del Novecento, a recepire le normative europee a dotarsi, sia pure lentamente, di una rete di analisi dell'aria e delle acque. Si è così visto che le leggi europee e quelle nazionali (a cominciare dalla storica legge "Merli" contro l'inquinamento delle acque interne) erano violate continuamente e sotto gli occhi di tutti.

A partire dalla metà degli anni ottanta si è formato nella zona un vasto movimento di protesta contro le fabbriche pericolose e inquinanti: davanti all'arroganza delle industrie che si rifiutavano di migliorare le condizioni di sicurezza e di eliminare le produzioni pericolose e inquinanti, gli abitanti di Massa si sono mobilitati chiedendo un referendum per la chiusura della Farmoplant (lo stabilimento Enichem era chiuso dal 1984).

A questo punto la Società degli Amici di Ronchi e Poveromo ha sentito il dovere di affiancare la popolazione in una protesta che era non solo civile, ma anche strettamente legata ai suoi fini istituzionali di difesa della natura e dell'ambiente. Soprattutto i soci che abitavano stabilmente nella zona --- per tutti vorrei ricordare la bravissima socia Doda Dionisi Vici che mise nell'impresa tutto il suo impegno e la sua passione --- parteciparono al comitato promotore del referendum popolare e hanno "marciato" insieme alla popolazione dapprima per ottenere il referendum, poi per sollecitare, nella votazione del 15 ottobre 1987, un "sì" che assicurasse la chiusura dello stabilimento Farmoplant.

Il referendum fu vinto e la fondatezza della protesta fu dimostrata poco dopo da un nuovo incidente, il 18 luglio 1988, sempre alla Farmoplant. Ma la storia della violenza contro l'ecosistema costiero apuano è continuata: dopo la chiusura (nel 1988) della fabbrica di pesticidi la Farmoplant, nonostante le proteste della popolazione, ha fatto funzionare, fino all'estate 1991, un grande inceneritore di rifiuti tossici per distruggere le materie pericolose ancora presenti nello stabilimento, provocando un ulteriore inquinamento.

La protesta della Società degli Amici di Ronchi e Poveromo, insieme alle altre associazioni ambientaliste --- Italia Nostra, WWF, Legambiente --- e alla popolazione contro gli inquinamenti, non è stata una posizione antindustriale, ma una richiesta, doverosa, che le pubbliche amministrazioni facessero rispettare la legge che prescrive, oltre a precise norme urbanistiche e paesaggistiche (violate), anche norme contro gli inquinamenti dell'aria e delle acque (violate anch'esse).

Una richiesta perché il lavoro e l'occupazione siano garantiti da attività compatibili con gli inevitabili vincoli che ogni territorio pone: questa compatibilità è anche premessa perché l'occupazione sia duratura. Si tratta, insomma, di una civile e doverosa domanda di rispetto delle leggi dello Stato, in armonia con quelle altrettanto inviolabili della natura, essenziale per il futuro, anche turistico ed economico della riviera apuana.

Il passato è prologo

E poiché il passato è prologo, ripercorrere la storia della Società degli Amici di Ronchi e Poveromo, a 50 anni dalla sua fondazione, non è solo un'occasione per ricordare il suo contributo culturale e di stimolo civile, ma può anche essere occasione per vedere i principali problemi che l'associazione potrebbe affrontare ... nei prossimi 50 anni.

Un bel ruolo potrebbe avere l'associazione rilanciando la cultura della solidarietà fra l'intera riviera apuana e quella versiliese, proprio partendo dalla posizione centrale di Ronchi e Poveromo, spiegando e cercando di far capire che la zona stessa si salva soltanto se si realizzano dei piani ambientali ed ecologici, in cooperazione e coordinamento fra le diverse unità amministrative in cui è polverizzata la riviera apuo-versiliese.

Un arduo compito perché non ci si può nascondere che esistono antiche e radicate antipatie fra le diverse, pur vicinissime, comunità: a parte l'antica rivalità fra Carrara e Massa, ci sono rivalità fra Massa e Montignoso, irrequieta comunità originariamente appartenente alla Repubblica di Lucca, chiusa (fino alla fine del 1700) fra gli Stati Estensi e l'enclave del Granducato di Toscana; per non parlare poi dell'orgogliosa indipendenza dei cittadini di quella che si considera "Versilia storica" a sud del Cinquale --- comprendente Forte dei Marmi, Pietrasanta, Seravezza e Stazzema, antica enclave del Granducato di Toscana fra Stati Estensi e Repubblica di Lucca --- molti dei quali ritengono di non avere niente a che spartire con gli abitanti della riviera apuana.

La presenza e la vigilanza dell'associazione sono ancora più necessari in questi anni in cui una mania di privatizzazione di tutti i beni pubblici sta portando alla svendita, da parte dello Stato, del delicato demanio marittimo --- e di quanto resta del demanio fluviale --- con la prevedibile conseguenza di un'accelerazione della distruzione di quanto ancora resta.

Qualcosa si può ancora salvare chiedendo la "protezione" di almeno alcuni piccoli pezzi del territorio. Oasi del WWF sono state create al Cinquale (in Comune di Forte dei Marmi) e una di queste oasi è diventato un piccolo "santuario" delle specie vegetali tipiche della spiaggia. Una piccola zona protetta è stata creato nel residuo delle paludi fra l'abitato di Ronchi e il fosso Magliano. Ma è troppo poco rispetto all'avidità di chi vuole installare nuovi spazi "giochi" o ristoranti o discoteche, contrabbandati come "servizi ricreativi", di fatto con interventi devastanti su quanto resta dell'ecosistema.

La Società degli Amici di Ronchi e Poveromo continua ad essere al fianco del lavoro generoso e benemerito del WWF e di quanti hanno a cuore la difesa dei valori ambientali, paesaggistici e naturalistici la cui difesa chiedevano, con lungimiranza, i fondatori della Società mezzo secolo fa.

Titolo originale del paragrafo: Miss Beecher's Home Church of Jesus Christ– Estratti e traduzione e a cura di Fabrizio Bottini

I numerosi libri di Catharine Beecher erano certamente più letti dei manuali di architettura del paesaggio. Se questi ultimi proponevano la contemplazione di Dio attraverso il culto della bellezza naturale, la Beecher proponeva alle sue lettrici di cercare la salvezza nella perfezione della vita familiare. Autrice di un Trattato di Economia Domestica a Uso delle Giovani Signore e delle Scuole (1842), co-autrice de La Casa della Donna Americana (1869), sollecitava le donne a farsi carico dell’abitazione suburbana e della famiglia, che lei definiva “la casa-chiesa di Gesù Cristo”. Chiedeva loro di restare a casa, a padroneggiare una organizzazione efficiente del progetto dell’abitazione e del giardino, oltre che il sostegno spirituale di grandi famiglie. La Beecher fu la prima scrittrice americana a proporre un manuale di esistenza domestica che comprendeva architettura, arte dei giardini, arredamento, cucina, igiene, allevamento dei figli. I suoi libri erano di prospettiva più ampia di quelli di Andrew Jackson Downing [ il primo “guru” dell’abitazione suburbana e fondatore della moderna landscape architecture , a cui l’Autrice in due paragrafi viene analizzata in parallelo n.d.t.] perché affrontava il tema dell’alimentare la vita familiare oltre che la forma dello spazio domestico. Era un architetto dilettante assai più dotato di quanto non fosse Downing, e progettava contesti per una serie di attività domestiche in modo assai preciso e innovativo. Il suo pubblico potenziale era quello di ogni donna americana, giovane o vecchia. La sua visione del contesto domestico era esplicitamente di genere: erano le donne che dovevano creare il mondo della famiglia, lontano dalle tensioni del lavoro in città, e nonostante così le donne si sarebbero trovate escluse dall’arena pubblica della vita economica e politica, sarebbero poi state ricompensate in paradiso per il proprio sacrificio.

Il nido familiare della Beecher è architettonicamente molto definito. Nel 1869 è decisamente suburbano: “adeguato a desideri e abitudini sia di chi abita in campagna o in quegli ambienti suburbani che consentono salubri spazi per le attività all’aperto al servizio della famiglia”. Consentiva che “le ferrovie, che consentono agli uomini di darsi da fare in città per mantenere la famiglia in campagna, sono da questo punto di vista una fortuna”. C’è un cottage in stile gotico, posto sulla riva di un fiume fra le verzure, circondato da immagini di donne, bambini, animali domestici, e fiori, a decorare la pagina del titolo del volume del 1869, scritto in collaborazione con la sorella Harriet Beecher Stowe. Sul frontespizio, una donna al centro di una famiglia composta da tre generazioni diverse, legge di fronte a un caminetto. Il capitolo intitolato “ Una Casa Cristiana” inizia con un’ampia veduta esterna della casa, che mostra tre croci poste sugli abbaini laterali e sulla porta di ingresso.

A differenza di Downing, che praticava l’orticoltura dall’età di sedici anni, la Beecher arriva più gradualmente al proprio interesse per l’architettura. Figlia maggiore di Lyman Beecher, importante predicatore Congregazionalista, nasce nel 1800 a East Hampton, Long Island, prima di otto figli. Si fa carico di una importante quantità di attività domestiche dopo la morte della madre, all’età di sedici anni. Alla scuola di Miss Pierce a Litchfield, Connecticut, i suoi diari quotidiani si guadagnano lodi per la capacità di descrivere la vita personale per un ampio pubblico. Insieme alla sorella Harriet, assiste tutti i fratellini fino alla partenza per il college e all’inizio dell’attività di predicatori. Catharine Beecher poi diventa maestra di disegno a New London, Connecticut. All’età di ventitre anni fonda una propria scuola per giovani fanciulle a Hartford, Connecticut; a trentadue apre il Western Female Seminary in Ohio. Nel suo primo libro, del 1831, sostiene la superiorità morale delle donne, sulla base della loro dedizione e della capacità di sacrificio. Ha quarantun anni quando pubblica il Trattato, che vende tanto bene da assicurarle l’indipendenza finanziaria.

Per tutta la vita nubile, anche se è stata fidanzata da giovane a un professore di Yale morto durante un viaggio in mare, la Beecher consiglia di sposarsi presto, rinunciare alle attività mondane, avere dieci figli, e gestire la casa senza servitù. Definisce il lavoro di cura e manutenzione della casa “la vera professione della donna” parlandone come di un “ministro”. In parte si tratta di una risposta alla sua contraddittoria esperienza con la religione organizzata. La Beecher non ebbe mai una vera conversione religiosa. E riteneva che restando lontana dalle teorie, una donna potesse meritarsi la salvezza attraverso la dedizione pratica alle necessità degli altri, in una “casa-chiesa” creata con le proprie mani. In parte, la Beecher reagiva ai primi segni del movimento per i diritti delle donne. Lanciava un auspicio assai propositivo riguardo all’autorità femminile nella sfera domestica, ma pensava agli aspetti più conservatori dell’esistenza delle donne, dove se ne sottolineava la competenza in casa, ma la totale passività nella sfera pubblica. Il suo era un “femminismo domestico”, contrario a quello “sociale” delle militanti per la temperanza come Frances Willard, o di quello “materiale” di chi sosteneva il salario al lavoro domestico, come Melusina Fay Peirce.

Impegnatissima come scrittrice e conferenziera, la Beecher non praticò mai il femminismo domestico che predicava. Tutte le sue energie si esercitavano nel dare centinaia di orientamenti pratici. Il suo libro era enciclopedico: come prendersi cura di un invalido, come curare un orto, e soprattutto, come costruire una casa salubre che rendesse più lieve il lavoro della donna. In questo campo era avanti di decenni rispetto a qualunque architetto o arredatore professionista. Dopo aver studiato sui migliori manuali di architettura, ingegneria sanitaria e meccanica, oltre che su libri di medicina ed etichetta, esercitava la sue mente creativa per escogitare decine di piccole soluzioni al “concentrarsi delle comodità”. Nell’arco di alcuni decenni perfezionò gli schizzi originali abbastanza convenzionali delle case in stile revival Greco o Gotico della prima edizione del suo Trattato, e le versioni del libro del 1869 sono molto avanzate. Risolveva problemi architettonici su cui stavano lavorando ancora gli architetti nei primi decenni del ventesimo secolo. Nel farlo, la Beecher cambiava i nomi delle stanze, dove il lavoro domestico diventava una storta di liturgia, con variazioni stagionali: il salotto si trasformava in “stanza della casa” la cucina in “stanza del lavoro” la sala da pranzo diventava “stanza della famiglia”.

Nella sua abitazione del 1869, ogni metro quadrato veniva progettato con la cura di una ex insegnante di disegno. Con una superficie di circa 180 metri quadrati, era un po’ più grande del “ Cottage Suburbano” di Downing, parecchio più comoda, e anche più fluida nella successione degli spazi. La Beecher contrapponeva due salotti all’unico di Downing. Avendo installato un sistema di riscaldamento centrale, con stufe di ghisa Franklin collegate a una caldaia per l’aria calda nel seminterrato, poteva evitare stanze piccole e utilizzare liberamente lo spazio. Uno dei salotti poteva essere diviso con una innovativa parete mobile. Entrambe le sale erano dotate di teche, finestre, verande. Il ricambio d’aria era assicurato da ingegnosi tubi di ventilazione, con altri che portavano via l’aria viziata. In ogni senso, la comoda abitazione della Beecher anticipa l’opera dei progettisti del XX secolo.

Soprattutto, la Beecher redefinisce la cucina, introducendo una superficie di lavoro unica con spazi per strumenti e derrate, schermando il calore della stufa per cucinare con porte scorrevoli in vetro. La “signora arrosto” per cui protestavano le donne negli anni attorno al 1840 non aveva spazio, qui. La Beecher introduce anche un lavello con acqua corrente. Inventa un banco da lavoro particolare per la pasticceria, e un altro per il resto della cucina. Organizza la sistemazione di piatti e pentole. Scaffalature ordinate, e attrezzi appesi a ganci. Molta attenzione agli impianti idraulici moderni. La casa ha due bagni interni, uno nel seminterrato e uno a livello delle camere da letto, in un’epoca in cui molte persone usano ancora le “sistemazioni esterne”, come aveva prescritto Downing nel suo cottage del 1842. Nel seminterrato si organizza anche uno spazio efficiente per il lavoro pesante di lavanderia e stiratura, deposito per il ghiaccio, preparazione di conserve di frutta e verdura.

La casa della Beecher è evidentemente un luogo di lavoro. Tra Bibblie e letti sfatti, scaffali e cestini da cucito, il lavoro per una donna mon finisce mai. E nemmeno per l’uomo. Il suo tono è molto diretto: “Fatevi preparare dai vostri uomini, a partire da tavole grezze non piallate, un telaio da ottomana ... imbottitelo col medesimo materiale usato per il divano, e ricopritelo dello stesso chinz”. Dopo aver finito coi centrini, o le tende di mussolina, la casalinga può iniziare a sistemare la vecchia poltrona sfondata. La Casa della Donna Americana viene pubblicizzato come “Il più economico e desiderabile libro dell’anno” o “un libro che dovrebbe arrivare in ogni famiglia del paese”. La casa editrice, J. B. Ford, indica come “ UNO SOLO DEI CONSIGLI DI QUESTO LIBRO PUO’ VALERE MOLTE VOLTE IL PREZZO DI TUTTO IL LIBRO” che si vende a 2,50 dollari del 1869, “ricco degli ultimi e più avanzati risultati della scienza applicati alla vita domestica”.

Dopo che il suo sistema era stato sviluppato per l’abitazione ideale suburbana, la Beecher notò che si sarebbe potuto adattare ad altre condizioni, in campagna o in città. Schizzò un piccolo appartamento per i quartieri popolari centrali, rimpicciolendo alcuni mobili così che anche colei che abitava in una casa d’affitto urbana potesse esercitare la propria funzione di “ministro della casa”. Progettò anche un incrocio fra una casa, una scuola e una chiesa per le insegnanti missionarie. Erano donne sole che si recavano negli stati del Sud dopo la Guerra Civile, a insegnare in cittadine molto isolate. La scuola poteva essere trasformata in chiesa, se arrivava un predicatore viaggiante per celebrare le funzioni, e le insegnati missionarie abitavano in spazi posti sopra gli spazi ad aula. Un’aula che poteva essere divisa con una parete mobile. La Beecher divenne anche una delle prime sostenitrici del consumo familiare come necessario per l’economia capitalistica, raccomandando l’uso di molti prodotti, anche “superflui” al fine di promuovere l’attività, la virtù e la religione” mantenendo l’occupazione nei diversi rami produttivi.

La morte di Mario Manieri Elia riporta alla memoria alcuni momenti cruciali del dibattito tra gli architetti italiani. Non posso lasciarli sotto silenzio senza favorire la tendenza (particolarmente diffusa oggi non solo tra gli architetti) a depurare di ogni elemento creativo e conflittuale il pensiero specialistico. Allora si concepiva il lavoro dell'architetto come indissolubilmente connesso all'urbanistica e alla storia. Il movimento moderno in architettura voleva far saltare l'agnosticismo morale della professione ottocentesca. Ricordo ancora il mio primo incontro con Manieri Elia, da studente iscritto, nel 1960-61, al primo anno alla Facoltà di Architettura. Dopo aver ascoltato una sua conferenza gli domandai (e l'Avanti! ci fece il titolo...) se non fosse vero che l'urbanista non potesse non essere socialista. Ne parlo perché dà il clima di quegli anni, in cui maturava il centrosinistra, e sembrava che il fulcro del progetto riformista dovesse essere una nuova legge per il governo del territorio, asse della programmazione (Sullo e Pieraccini ci hanno provato invano). E per confrontarlo col clima presente, dove (in Italia, non in tutta l'Europa) sembra acquisita la rinuncia a ogni rapporto dei poteri pubblici con i costruttori che non sia di dipendenza passiva

È significativo che nell'ultimo libro pubblicato in vita di Manieri Elia, I vissuti dell'architettura, cinque diadi di protagonisti a confronto - che comincia con la coppia mitica Dedalo-Prometeo - l'età contemporanea sia rappresentata dall'opposizione tra Rem Koolhaaas (il massimo del realismo, anche a prezzo della rinuncia preventiva ad ogni opposizione al potere) e Manfredo Tafuri. Tafuri sta pagando un oblio troppo rapido per non doversi concludere con la sua riscoperta, ma la commozione che mi prende per l'ultimo omaggio che Manieri Elia gli ha reso, riservandogli il posto della coscienza critica e dell'opposizione del nostro tempo (con uno schizzo del volto barbuto di Manfredo che campeggia in copertina), dipende dalla capacità che ha così dimostrato di passare sopra allo scontro che proprio con Tafuri aveva avuto a proposito di William Morris. Manieri Elia, oltre che della "città americana" e di Henry Sullivan, è stato sicuramente il massimo specialista di William Morris (Architettura e socialismo, William Morris e l'ideologia dell'architettura moderna, Opere di William Morris).

La polemica di Tafuri contro Manieri Elia colpiva senza indulgenza, come manifestazione di romanticismo acritico, ascientifico e sentimentale, l'idea stessa di una possibile derivazione della modernità dal socialismo utopico e dall'artigianato di qualità morrisiano. I recenti saggi di Richard Sennet, la moderna questione del "bene comune" pongono la questione forse in una luce diversa, dove sperimentalità e sapienza del fare appaiono estranei, più che all'Ottocento, agli idola fori del marxismo degli anni Settanta troppo legati alla società di massa.

Il secondo motivo per cui è necessario ricordare Mario Manieri Elia è il ruolo di protagonista che ha avuto negli sviluppi del progetto Fori, pilastro centrale dell'idea per Roma di Luigi Petroselli, successivi alla morte del Sindaco. Manieri Elia ha avuto la pazienza e la capacità di ascolto per mediare in quella colossale battaglia nel campo di Agramante scoppiata tra archeologi e architetti a proposito della cancellazione di via dei Fori Imperiali. Già nel 1981 aveva osservato, in un libretto per l'Electa, che la cancellazione fisica di via dei Fori non era la parte essenziale di un'idea che trovava il suo significato più profondo nell'affermazione della centralità per Roma non del traffico ma della cultura, su un'area che si estendeva dal Campidoglio all'Appia Antica allo stesso territorio dei Castelli. Negli ultimi tempi, in parallelo al Master Storia e Progetto che conduceva per l'Università di Roma Tre, Manieri Elia dedicava grande attenzione a raffinate questioni teoriche della mentalità progettuale, in una serie di volumi Topos e Progetto pubblicati da Gangemi, di cui sono usciti quelli intitolati Il vuoto e L'attesa, mentre è imminente la pubblicazione - ormai postuma - de L'ascolto.

Mario Manieri Elia faceva infine parte del gruppo capeggiato da Francesco Cellini (assieme al sottoscritto, Alessandra Macchioni, Vanessa Squadroni, Maria Margarita Segarra Lagunes, Giovanni Manieri Elia, Dieter Mertens, Carlo Gasparrini, Elisabeth Keven, José Tito Rojo, Giovanni Longobardi, Renzo Candidi, Andrea Mandara) vincitore del Concorso internazionale per la riqualificazione di Largo Augusto Imperatore - il cui inizio dei lavori si attende ormai da cinque anni, ed è stato recentemente nuovamente riannunciato.

La Carta di Gubbio fu discussa e approvata da un gruppo di studiosi e di amministratori comunali nella città umbra settembre nel 1960. E' grazie a quel lavoro che si comprese che le qualità da salvaguardare non sono solo i monumenti eccezionali, ma l’intero contesto storico di cui essi sono parte, la società che li ha prodotti e che in essa vive, il territorio di cui sono parte costitutiva. E si comprese che la loro tutela ha la sua premessa in una corretta pianificazione della città e del territorio.

Da allora l’Italia è (era) considerata all’avanguardia nel settore, e la ricchezza del suo patrimonio trovava una corrispondenza nella cultura e nelle pratiche. Grazie, Mario, e buon viaggio alle tue idee

Tutti si ricordano quelle barzellette sul carabiniere che per mungere la mucca la fa alzare e abbassare, restando immobile sullo sgabello; o per avvitare la lampadina manda decine e decine di colleghi a far ruotare la caserma. Ecco: adesso è arrivato l’americano geniale che applica le barzellette dei carabinieri all’urbanistica.

L’idea, se proprio vogliamo chiamarla così, parte dal concetto di movimento da un luogo e una funzione all’altra. Perché non ribaltare tutto e far sì che siano luoghi e funzioni ad avvicinarsi sin quasi a coincidere? Ecco Clockwork City, una città sincronizzata come un orologio svizzero, i cui cerchi concentrici ruotano in direzioni opposte, consentendo agli abitanti di “saltare” da uno all’altro quando passa l’angolino desiderato.

Dagli schemi proposti nel breve filmato visibile su Youtube, si scopre che almeno la howardiana greenbelt agricola, quella non si sposta. Memori dei danni che certi ingegneri svizzeri hanno già fatto in passato alle città, speriamo proprio che questa urbanistica a orologeria sia solo una scusa per farci un cartone animato. Che non venga in mente a nessuno di costruirci sopra delle teorie. Ce n’è già a bizzeffe, di urbanisti che le fanno girare.

Guardatevi comunque direttamente tutto il capolavoro su Youtube, e speriamo proprio che sia solo un gioco di animazione.

1. La revisione delle circoscrizioni provinciali

e la delimitazione degli ambiti di competenza

delle città metropolitane nell'originaria legge 142/1990.

Nel contesto della chiara scelta, operata dalla legge 8 giugno 1990, n.142, di configurare un sistema in cui i livelli istituzionali sub-statuali di "governo del territorio" siano tre e non più di tre, si collocava l'"indirizzo di favore" (quantomeno) espresso dalla medesima legge 142/1990 per una revisione delle circoscrizioni territoriali delle province (inequivocabilmente individuate come gli "enti intermedi", subregionali e sovracomunali) che rendesse, al massimo del possibile, efficace ed efficiente l'esercizio delle funzioni per esse previste, funzioni che, in larghissima parte, sono riconducibili al "governo" degli assetti e delle trasformazioni territoriali.

Si vuole rammentare, in proposito, non soltanto la prevista delimitazione degli ambiti di competenza delle costituende città metropolitane, a proposito dei quali è detto che devono comprendere, oltre ad uno dei "grandi comuni" nominativamente indicati, "gli altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali ed alle caratteristiche territoriali" .

Si vuole anche rammentare che l'articolo 16 della legge 142/1990 si intitola, significativamente, "circondari e revisione delle circoscrizioni provinciali", e che tra l'altro dispone che "per la revisione delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province" si debba tenere conto di alcuni "criteri ed indirizzi", tra i quali, fondamentali, quello per cui "ciascun territorio provinciale deve corrispondere alla zona entro la quale si svolge la maggior parte dei rapporti sociali, economici e culturali della popolazione residente", e quello per cui "ciascun territorio provinciale deve avere dimensione tale, per ampiezza, entità demografica, nonché per le attività produttive esistenti e possibili, da consentire una programmazione dello sviluppo che possa favorire il riequilibrio economico, sociale e culturale del territorio provinciale e regionale" (mentre soltanto "di norma la popolazione delle province risultanti dalle modificazioni territoriali non deve essere inferiore a 200.000 abitanti").

In buona sostanza, la legge 142/1990 "stimolava" (e con riferimento ad alcune aree del Paese "obbligava") a procedere ad una verifica della rispondenza delle attuali circoscrizioni provinciali agli ambiti territoriali che sia congruo considerare di competenza di enti territoriali, le province "ordinarie" o (relativamente alle predette aree del Paese) "metropolitane", la latitudine e le caratteristiche delle cui funzioni, quand'anche dovessero essere puntualmente specificate dalla legislazione regionale, erano già configurate dalla stessa legge 142/1990.

In estrema sintesi: poiché le funzioni sia delle province "ordinarie" che delle province "metropolitane" sono riconducibili alla duplice finalità di tutelare l'"integrità fisica" e l'"identità culturale" del territorio con riferimento ad ambiti subregionali (ma sovracomunali) e di perseguire (mediante la pianificazione, la programmazione e l'approntamento dei "servizi reali") lo "sviluppo sostenibile" in tali ambiti, sarebbe necessario che le predette funzioni si rivolgessero a contesti territoriali l'unitarietà della cui configurazione risulti sia dalle dinamiche naturali, e da quelle antropiche storicamente prodottesi, sia dall'elevata intensità interattiva delle odierne dinamiche economiche e sociali. Per cui, al fine di perimetrare gli ambiti territoriali di competenza sia delle province "ordinarie" che delle città metropolitane, sarebbe indispensabile ricorrere ad incroci tra criteri "geomorfologici" e "storici" e parametri "socio-economici", quali quelli volti a misurare i livelli di integrazione casa-lavoro e casa-servizi.

In tale logica avrebbero dovuto collocarsi le "peculiari" operazioni (la cui effettuazione il capo VI della legge 142/1990 attribuiva in prima istanza alle regioni interessate) di definizione dell'esatta perimetrazione degli ambiti territoriali subregionali, individuati in via di prima approssimazione mediante l'indicazione di dieci esistenti comuni (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli, ed eventualmente Cagliari), che il legislatore nazionale aveva ritenuto avessero caratteristiche tali per cui risultava opportuno, congruo e necessario fossero governati unitariamente da enti territoriali (province che assumessero la denominazione di città metropolitane e peculiari competenze) aventi contemporaneamente le funzioni tipicamente provinciali ad alcune delle funzioni tipicamente comunali.

Tale peculiarità delle competenze delle città metropolitane escludeva che gli ambiti territoriali relativi potessero avere estensione incoerente da un lato con l'ottimale esercizio delle funzioni tipicamente provinciali, dall'altro con il praticabile esercizio di funzioni tipicamente comunali. In concreto, escludeva sotto il primo profilo che si riducessero all'esistente comune capoluogo con l'aggiunta di qualche comune "di cintura", sotto il secondo profilo che avessero estensione omologabile a quella di esistenti regioni.

Mentre, è più che opportuno sottolinearlo, non escludeva affatto che una o più delle regioni interessate potessero ritenere congrua la coincidenza tra "area metropolitana" e circoscrizione amministrativa dell'esistente provincia. In tal caso, la regione avrebbe potuto, sentiti i comuni interessati (ma non necessariamente avendone avuto pareri favorevoli), con deliberazione del consiglio, proporre al Governo di emanare un decreto legislativo di costituzione della città metropolitana . Per il vero, quest'ultimo provvedimento, nella fattispecie ora ipotizzata, avrebbe potuto non essere affatto previsto dalla legge, potendo ritenersi direttamente operativo il chiaro disposto per cui "nell'area metropolitana la provincia si configura come autorità metropolitana con specifica potestà statutaria ed assume la denominazione di città metropolitana" .

Ogniqualvolta, invece, risultasse incongruo riconoscere come ambito territoriale di competenza di una città metropolitana esattamente quello dell'esistente provincia, si sarebbe potuto procedere, per quanto direttamente ne conseguisse, a modificare l'assetto delle circoscrizioni provinciali, sia trasferendo territori da una provincia ad un'altra che istituendo nuove province .

Ma tali operazioni non avrebbero potuto condurre a configurare ambiti territoriali di province "ordinarie" incongrui con l'esercizio delle funzioni che la legge sanciva di loro spettanza, come sarebbe stato nel caso di accoglimento di alcune bizzarre ipotesi avanzate negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge 142/1990, tra le quali meritano segnalazione quelle delle "province ciambella" disposte attorno a province erigende in città metropolitane. Al contrario, anche nella ridefinizione delle circoscrizioni delle province "ordinarie", e peculiarmente nell'istituzione di province in connessione con la perimetrazione degli ambiti di competenza di città metropolitane, si sarebbe dovuto tassativamente osservare i criteri dianzi esposti. Come del resto esplicitamente stabilito dal comma 3 dell'articolo 63 della legge 142/1990, ai sensi del quale i decreti legislativi delegati al Governo, anche per la revisione delle circoscrizioni provinciali e/o per l'istituzione di nuove province in conseguenza delle delimitazioni degli ambiti di competenza delle città metropolitane, dovevano essere emanati "con l'osservanza dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 16" della medesima legge 142/1990.

Laddove, per l'appunto, risultasse incongruo riconoscere come ambito di competenza di una città metropolitana esattamente quello dell'esistente provincia, e si dovesse conseguentemente modificare l'assetto delle circoscrizioni provinciali, si sarebbero posti problemi piuttosto rilevanti, peraltro brillantemente risolti dalla legge 142/1990.

E' bene rammentare che, a norma del primo comma dell'articolo 133 della Costituzione, "il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove province nell'ambito di una regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziative dei comuni, sentita la stessa regione".

Ed altresì che, a norma del già citato comma 3 dell'articolo 63 della legge 142/1990, i decreti legislativi delegati al Governo dal comma 1 del medesimo articolo (decreti legislativi che costituiscono "leggi della Repubblica"), devono essere emanati "con l'osservanza dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 16" della medesima legge.

Ed infine che tra tali "principi e criteri direttivi" v'è anche quello per cui "l'iniziativa dei comuni, di cui all'articolo 133 della Costituzione, deve conseguire l'adesione della maggioranza dei comuni dell'area interessata, che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell'area stessa, con delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati" .

L'impedimento radicale che potrebbe derivare dall'inerzia dei comuni interessati a trasferimenti da una ad un'altra circoscrizione provinciale, od alla istituzione di nuove province, avrebbe potuto essere ovviato grazie al comma 3 dell'articolo 16 della legge 142/1990, per cui "ai sensi del secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione le regioni emanano norme intese a promuovere e coordinare l'iniziativa dei comuni [...]". Tali "norme" regionali pare poco discutibile debbano intendersi come "norme legislative". Quanto all'"area interessata" di cui parla il comma 2 dell'articolo 16 della legge 142/1990 si deve ritenere essere l'area formata (soltanto) dai comuni che dovrebbero rientrare nella circoscrizione della provincia di nuova istituzione, oppure dai comuni che dovrebbero trasferirsi da una ad un'altra circoscrizione provinciale (per cui ove tale trasferimento dovesse riguardare un singolo comune sarebbe sufficiente la sua pronuncia) . Naturalmente, affinché potesse realizzarsi, ed essere verificata, la condizione voluta dalla legge 142/1990, cioè il conseguimento dell'adesione ad una proposta "della maggioranza dei comuni dell'area interessata, che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell'area stessa", tutti i comuni interessati avrebbero dovuto pronunciarsi su di una, precisa, identica proposta, quand'anche formulata dalla regione territorialmente competente nell'esercizio della riconosciutale funzione di promozione e di coordinamento.

Peraltro, l'ipotesi principale e "normale" di mutamento delle circoscrizioni provinciali e di istituzione di nuove province non avrebbe potuto non restare quella della autonoma iniziativa comunale.

Per cui anche il risultato di promuovere l'istituzione di una "nuova provincia" che assumesse la denominazione di città metropolitana avrebbe potuto essere raggiunto, a seguito di iniziativa di uno dei comuni interessati, al verificarsi della ripetutamente indicata condizione.

Successivamente, la proposta che fosse stata avvalorata nei termini previsti (cioè che avesse ottenuto "l'adesione della maggioranza dei comuni dell'area interessata, che rappresentino, comunque, la maggioranza della popolazione complessiva dell'area stessa, con delibera assunta a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati") avrebbe dovuto conseguire il parere del Consiglio regionale, a norma del primo comma dell'articolo 133 della Costituzione. In tale occasione, al Consiglio regionale avrebbe dovuto essere richiesto di contestualmente pronunciarsi a favore del riconoscimento della "nuova provincia" quale città metropolitana.

2. Inadempienze e nuovi provvedimenti legislativi

[omissis]

3. Il riordino delle circoscrizioni comunali

[omissis]

4. Le funzioni delle province e delle città metropolitane.

Il comma 1 dell'articolo 19 della legge 142/1990 dispone che "la legge regionale, nel ripartire tra i comuni e la città metropolitana le funzioni amministrative, attribuisce alla città metropolitana, oltre alle funzioni di competenza provinciale, le funzioni normalmente affidate ai comuni quando hanno precipuo carattere sovracomunale e debbono, per ragioni di economicità ed efficienza, essere svolte in forma coordinata nell'area metropolitana, nell'ambito delle seguenti materie:

a) pianificazione territoriale dell'area metropolitana;

b) viabilità, traffico e trasporti;

c) tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell'ambiente;

d) difesa del suolo, tutela idrogeologica, tutela e valorizzazione delle risorse idriche, smaltimento dei rifiuti;

e) raccolta e distribuzione delle acque e delle fonti energetiche;

f) servizi per lo sviluppo economico e grande distribuzione commerciale;

g) servizi di area vasta nei settori della sanità, della scuola e della formazione professionale e degli altri servizi urbani di livello metropolitano".

Sottolineato come competa alla "legge regionale" ripartire le funzioni amministrative fra i comuni e la città metropolitana, occorre innanzitutto chiarire come non sia affatto una "bizzarria", od una "lacuna", della legge 142/1990, la mancata indicazione di un termine per tale adempimento regionale, giacché, con buona pace degli estensori della Circolare 7 giugno 1990, n. 17102/127/1, del Ministro dell'interno, non è affatto vero che l'adempimento regionale di cui qui si ragiona sia "preliminare ed indispensabile per la emanazione dei decreti legislativi delegati", e men che meno che "la esecutività della ripartizione delle funzioni [...] divenga operante con il recepimento di quanto disposto dalla legge regionale nel suindicato atto normativo statale".

Quanto stabilito dal comma 1 dell'articolo 19 della legge 142/1990 non è, infatti, che una peculiare fattispecie di quell'attività legislativa alla quale le regioni sono chiamate dai primi due commi dell'articolo 3 della stessa legge, a norma dei quali "le regioni organizzano le funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province", conformandosi ai "principi" della legge nell'identificare "gli interessi comunali e provinciali in rapporto alle caratteristiche della popolazione e del territorio".

Del resto, il comma 3 dell'articolo 19 della legge 142/1990, per cui "ai comuni dell'area metropolitana restano le funzioni non attribuite espressamente alla città metropolitana", non è che un ribadimento ed una specificazione del comma 1 dell'articolo 9 della stessa legge, per cui "spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale [...] salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze".

Si tenga inoltre presente che i "settori", indicati dal primo comma dell'articolo 14 della legge 142/1990, nei quali "spettano alla provincia le funzioni amministrative che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale", sono agevolmente riconducibili a "materie" di competenza regionale ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, e che i predetti "settori" quasi coincidono con le "materie" elencate al comma 1 dell'articolo 19 della stessa legge 142/1990.

Per converso, sarebbe ben "bizzarro" se, infrangendo un criterio generale assunto dalla legge 142/1990 (che in ciò si differenzia profondamente dalla previgente legislazione) le funzioni amministrative delle città metropolitane fossero minuziosamente indicate (ed irrigidite) in provvedimenti legislativi statali.

Come sarebbe ben "bizzarro" se le regioni definissero quali funzioni normalmente comunali debbano competere, sostanzialmente nell'ambito dei "settori" in cui normalmente vengono identificate le funzioni provinciali, a quelle province che assumono la peculiare denominazione di città metropolitane, in aggiunta alle funzioni che debbono competere ad esse come alle province "ordinarie", prima di avere compiutamente (salve, come è ovvio, successive modificazioni) definito le funzioni di queste ultime.

Si ritiene, pertanto, assolutamente legittimo, ed assai ragionevole, e molto opportuno, che la definizione delle precipue funzioni delle città metropolitane, da parte delle leggi regionali, proceda nel contesto di quella complessiva riconsiderazione della loro legislazione afferente le diverse "materie" che palesemente le regioni debbono condurre per adeguarla ai "principi" della legge 142/1990.

Senza che alla compiuta definizione di tali funzioni debbono essere subordinati, né logicamente né temporalmente, la delimitazione degli ambiti di competenza delle città metropolitane, la susseguente "costituzione [...] delle autorità metropolitane", il riordino delle circoscrizioni territoriali dei comuni interessati.

Ad ogni buon conto, a norma dell'articolo in esame, la città metropolitana ha due ordini di funzioni:

- quelle proprie di ogni altra provincia;

- quelle che la legge regionale riterrà di attribuirle sottraendole ai comuni ricadenti nel suo ambito di competenza, esclusivamente all'interno delle "materie" elencate (e l'elencazione pare dover essere tassativa).

Come s'è già rilevato, le predette "materie" quasi coincidono con quelle, elencate dal comma 1 del precedente articolo 14, nelle quali spettano alle province "le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale", con alcune differenze alle quali non pare si debba attribuire consistente rilevanza.

Quanto ai criteri per discernere, nell'ambito delle elencate materie, le funzioni amministrative da attribuire alle città metropolitane da quelle da lasciare residuare ai comuni rientranti nel loro ambito territoriale, non sembra che quello del "precipuo carattere sovracomunale" delle stesse sia di soverchio aiuto, stante che è difficile apprezzarne la differenza dall'"interesse provinciale" e dall'inerire "vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale", indicato come criterio ordinario per individuare le funzioni amministrative di competenza delle province.

Forse è più utile il criterio per cui le funzioni amministrative da attribuire alle città metropolitane "debbono, per ragioni di economicità e di efficienza, essere svolte in forma coordinata nell'area metropolitana". Ciò considerando che, al di fuori delle aree alle quali siano preposte città metropolitane, parrebbe che lo svolgimento in forma coordinata di funzioni amministrative di competenza comunale debba avvenire solamente attraverso le forme di cui al Capo VIII della legge 142/1990.

Resta da capire se ed in che misura i predetti criteri siano funzionali a disegnare le precipue funzioni della città metropolitana (non coincidenti con quelle ordinariamente provinciali in quanto assorbenti funzioni ordinariamente comunali) in materia di "pianificazione territoriale".

A tal fine, sembra innanzitutto opportuno ritornare alle caratteristiche che si ritiene posseggano, in termini distintivi, alcuni ambiti territoriali subregionali, tali da legittimarne l'individuazione quali ambiti di competenza di province che assumono una peculiare denominazione, e peculiari funzioni.

In estrema sintesi, si può asserire che i predetti ambiti sono connotati, oltre che da una particolare ricchezza e complessità di funzioni, e da una cospicua presenza di funzioni "rare", da una straordinariamente elevata distribuzione nell'intero ambito (o nella sua più gran parte) di funzioni fortemente integrate e complementari, cosicché, tra l'altro, in essi la mobilità giornaliera raggiunge livelli di peculiare incidenza e densità (non comprimibili sotto determinate soglie, quand'anche se ne persegua e realizzi l'eliminazione delle componenti "patologiche").

Per converso, ai soggetti istituzionali competenti a "governare" tali ambiti territoriali spetta, assieme, di mantenere, e tendenzialmente di arricchire, la complessità funzionale, e particolarmente la dotazione di funzioni "rare" (anche come componente strategica della competizione internazionale), e di conservare le "qualità", o di conferire "qualità" (fisiche, formali, funzionali) alla totalità degli ambiti, per ragioni sia di equità redistributiva tra tutti i loro cittadini/contribuenti, sia di supporto alle "funzioni eccellenti".

Ne deriva che correlativamente alla peculiare quantità dei fenomeni suscettibili di avere rilevanza per la totalità di ognuno degli ambiti di cui si tratta, deve essere particolarmente incisiva la competenza decisionale (e di intervento) degli enti territoriali ad essi preposti. Cosicché alle città metropolitane debbono essere riconosciute competenze di determinazione degli "usi del suolo" ben più estese e pregnanti di quelle da attribuirsi alle province ordinarie, quand'anche non necessariamente da esercitarsi con la stessa pervasività in ogni parte (e relativamente ad ogni aspetto) dell'ambito di competenza.

In secondo luogo sembra opportuno muovere dal punto di vista dell'ottimizzazione delle attività e delle tecniche pianificatorie, per riflettere sulle caratteristiche che dovrebbe assumere la specifica pianificazione territoriale di competenza delle città metropolitane.

La definizione di tali caratteristiche dovrebbe effettuarsi in un contesto di superamento sia della dicotomia tra piani esclusivamente "strutturali" e piani in ogni loro parte "immediatamente operativi", sia del metodo della pianificazione "a cascata", nel quale ogni atto pianificatorio interviene a disciplinare ogni "oggetto territoriale", in termini di successive specificazioni prescrittive sempre più dettagliate in ragione del ridursi dell'estensione degli ambiti interessati.

E si dovrebbe altresì fare tesoro degli stimoli derivabili dagli esiti positivi, così come dai limiti e dai fallimenti, delle esperienze condotte in altri Paesi. In particolare si dovrebbe considerare che, per esempio nell'esperienza inglese, assai prima dell'eliminazione tatcheriana del livello metropolitano, l'attribuzione a tale livello solamente della componente "strutturale" della pianificazione, ed il riconoscimento alle municipalità delle competenze relative alle concrete trasformazioni urbanistiche, aveva prodotto una drammatica perdita di visione complessiva della città costruita e di controllo ed indirizzo delle sue trasformazioni.

Si potrebbe pertanto, in via di prima approssimazione, stabilire che la pianificazione di competenza delle città metropolitane tenga unitariamente luogo sia della pianificazione ordinariamente provinciale che di quella ordinariamente comunale (ed abbia, di norma, contenuti prescrittivi immediatamente vincolanti ed operativi, e quindi adeguatamente specificata formulazione) per quanto attiene alla più gran parte delle componenti territoriali da assoggettare a disciplina conservativa delle caratteristiche esistenti, nonché per quanto attiene le infrastrutture, le attrezzature, gli impianti di interesse pubblico e di rilevanza "metropolitana" (cioè sovracomunale) sotto il profilo dell'ambito territoriale di riferimento e/o dell'incidenza degli effetti sull'assetto fisico e/o relazionale.

Quanto agli ulteriori contenuti della pianificazione ordinariamente comunale, essi dovrebbero essere attribuiti alla pianificazione "metropolitana" relativamente all'insieme dei territori dei comuni, rientranti nell'ambito di competenza della città metropolitana, in cui siano riconoscibili caratteri di continuità insediativa urbana, restando invece appannaggio della pianificazione comunale relativamente ai territori dei comuni non aventi tali caratteri. Spettando di norma ai comuni la formazione degli strumenti di pianificazione integrativa, salvo che si tratti di garantire l'attuazione di specifiche previsioni della pianificazione "metropolitana" ovvero di disciplinare ambiti unitari interessanti il territorio di più di un comune.

E' appena il caso di fare presente che, ove venisse approvato nel testo varato dal Senato il disegno di legge, più volte ricordato, presentemente all'esame della Camera dei Deputati, tutte le riflessioni sino ad ora condotte in merito alle funzioni delle città metropolitane non avrebbero ragion d'essere, giacché non sarebbe riproposto l'articolo 19 della legge 142/1990, e ci si limiterebbe da un lato ad asserire che "la città metropolitana [...] acquisisce le funzioni della provincia", da un altro ad affermare che le funzioni della città metropolitana sono indicate nel relativo statuto, adottato dall'"assemblea" dei rappresentanti degli "enti locali territoriali interessati".

PREMESSA

II Piano Regolatore Generale di un comune è uno strumento diretto ad orientare il rapporto fra gli uomini ed il territorio. II suo oggetto specifico è l'organizzazione dello spazio da parte della popolazione che ne usufruisce e degli oggetti che la popolazione stessa dispone in questo spazio: gli insediamenti (la città o il paese, le frazioni, le case sparse); i servizi (dagli uffici alle istituzioni scolastiche e sanitarie, dalle attrezzature sportive a quelle ricreative); le infrastrutture (strade, luce, acqua, fognature). II Piano si presenta anzitutto come un insieme di ricerche dirette ad interpretare e conoscere la realtà di una comunità per capire le direzioni del suo sviluppo e le attese dei suoi cittadini, e dare a queste tendenze i mezzi per realizzarsi. Naturalmente per valutare queste cose non basta studiare la conformazione del paese, i modi di vivere della popolazione, il numero di alloggi o il tipo di scuole di cui essa ha bisogno. Occorre anche conoscere la storia della comunità, le attività produttive che si svolgono localmente (agricoltura, industria, commercio, servizi), i fenomeni che più direttamente interessano la collettività (per tutti, l'emigrazione). E' necessario inoltre prendere in considerazione non soltanto il centro o i centri abitati, ma anche la campagna e l'insieme delle relazioni che uniscono un paese - Tricarico, ad esempio - ad altri paesi - Grassano, allo stesso modo di Matera o Potenza.

La scienza che intende studiare tutti questi fenomeni si chiama urbanistica: scienza della città. II Piano Regolatore è il prodotto della tecnica urbanistica, esso investe - perciò - solo determinati aspetti della vita di una comunità, anche se tende a prenderli in considerazione tutti. La sua funzione è di regolare i modi in cui il rapporto fra società ed economia si manifesta al livello dell'insediamento umano, assunto in tutte le sue forme. In definitiva, pianificare significa prevedere ed organizzare. Si tratta di un'attività che gli uomini hanno sempre svolto: per se stessi, oppure per piccoli gruppi sociali o per classi. Nei tempi moderni è la società nel suo complesso che si è assunta questo compito: per potersi sviluppare, essa ha bisogno di conoscersi e, quindi, di pianificare. Questo principio è valido per uno stato così come per un comune. II Comune dì Tricarico, con il Piano Regolatore, intende regolare il suo sviluppo futuro. Per volontà dell'Amministrazione comunale il Piano Regolatore diverrà poi - attraverso una serie di approvazioni amministrative - vera e propria legge: la legge che regola il rapporto della comunità con il territorio. Di qui l'importanza del Piano Regolatore. Di qui anche questo Quaderno del Piano, che è un modo di far conoscere al maggior numero possibile di persone il lavoro che si sta svolgendo ed i problemi che stanno alla base dell'impostazione definitiva del Piano.

II Quaderno del Piano è composto di due parti: una di fotografie con testo; l'altra di normale carta da quaderno ad uso dello studente o, comunque, di chi utilizza l'opuscolo. La parte fotografica è unitaria, anche se interrotta dai fogli di carta quadrettata, e va quindi vista e letta come un tutto unico.

La parte del testo associa immagini e parole per spiegare dei fatti, dei problemi. In testa ad ogni pagina c'è un titolo che indica l'argomento trattato, con delle didascalie per la lettura delle singole immagini. La parte quadrettata può servire allo studente per compiere delle ricerche da solo e - meglio ancora - in gruppo; a scuola e in famiglia. II Quaderno è, in ogni caso, un oggetto da consumare: su di esso si può scrivere, come disegnare; il suo impiego non è legato necessariamente alle attività scolastiche.

II Quaderno non è indirizzato soltanto agli studenti. L'Amministrazione comunale di Tricarico ha pensato, facendolo compilare e stampare, di fornire a tutte le categorie di cittadini uno strumento di crescita civile. In questo senso, il Quaderno intende essere un atto di vera democrazia: conoscere il proprio paese e i programmi che lo riguardano significa mettersi in grado di operare delle scelte e di partecipare attivamente ai problemi della comunità, facendo della buona politica.

II Quaderno è legato, nella sua sorte, alla funzione che possono svolgere, nel divulgarlo e spiegarlo, gli operatori culturali: in primo luogo gli insegnanti. Molti termini, perfino molte immagini, hanno bisogno della mediazione della cultura. Sono queste, del resto, le responsabilità che gli intellettuali hanno nei confronti della comunità, e soprattutto dei giovani. Così com'è, il Quaderno non è che un seme gettato in un terreno buono. Sta a chi può, far sì che questo seme diventi una pianta.

li Quaderno del Piano continuerà la sua vita non solo attraverso l'uso che ne faranno le persone che lo leggeranno o ci scriveranno sopra. Quando il Piano Regolatore Generale di Tricarico sarà elaborato, verrà data la possibilità di incollare nelle pagine a quadretti le riproduzioni delle tavole definitive del Piano e di trascrivere le conclusioni essenziali alle quali è pervenuto il Gruppo di elaborazione.

Qui un'ampia illustrazione della vicenda del PRG di Tricarico

Alghero (SS), 15 aprile 2011 - Ad Alghero, un pianto ricorrente è che il Comune tarda con l'approvazione del Piano Urbanistico Comunale (PUC). E quindi: "dateci il PUC!", "serve approvare il PUC!", "vogliamo il PUC!”. Come se il PUC fosse come l'acqua: quando hai sete, la bevi, punto e basta.

Non è così. Un PUC fa scelte, urbanistiche e politiche. Non esiste IL PUC, esistono molti PUC possibili, e non è affatto indifferente quale PUC, con quali contenuti, con quali scelte, approvare. Questo pare che molti lo ignorino (mentre alcuni lo sanno benissimo!).

Anziché dire "vogliamo il PUC", serve dire "vorremmo questo o quel PUC". Anziché dire "approvate al più presto il PUC", serve dire "fateci capire che cosa prevede, quali contenuti ha, l'attuale proposta di PUC".

Ma se chiedete a molte persone ad Alghero, scoprite che ne sanno poco, pensano o sembrano pensare (o fanno finta di sembrare che pensano) che si tratti di un atto puramente tecnico, da sbrigare tra tecnici ed urbanisti, e poi approvare alla svelta in Consiglio Comunale (magari in "seconda convocazione"), come se fosse, che so, la sincronizzazione dei semafori agli incroci; come se fosse, appunto, l'acqua da bere.

Per questo, ho messo su un piccolo blog che intende informare sui contenuti e avviare una discussione nel merito delle scelte contenute nella proposta del PUC di Alghero. Fiducioso che un PUC migliore (vorrei dire, cioè, più giusto), sia possibile.

Tra le cose che vorrei raccontare è che cosa succede al PUC se ci vogliono vent’anni per farlo. Vorrei mostrare che succede che a un impianto analitico rigoroso e adeguato si sovrappongano scelte incoerenti e immotivate; che il piano sia senz’anima o con troppe anime, che non sappia scegliere, e che poi il “diavolo” compaia nei

dettagli.

Ecco il mio blog: http://pucalghero.blogspot.com/. I commenti sono graditi, e utili.

Ricorre in questi giorni il decimo anniversario della morte di Antonio Cederna e sono trascorsi cinquant’anni dalla prima edizione del suo capolavoro “I vandali in casa” pubblicato nel 1956, che tornerà in libreria i primi di settembre a cura e con la prefazione di Francesco Erbani (ed. Laterza). Assieme ad Elena Croce e Umberto Zanotti Bianco, Cederna è stato, nel 1955, tra i fondatori dell’associazione Italia Nostra, la sola, ancora oggi, ad avere come obiettivo primario la salvaguardia del patrimonio storico artistico e paesaggistico della nazione. Di Antonio Cederna ricordiamo le innumerevoli battaglie condotte in tutta Italia, contro la selvaggia aggressione dei centri storici, delle coste, per impedire i continui attentati al paesaggio e al patrimonio culturale (esemplare, tra le tante, è quella per la difesa dell’Appia Antica dalla speculazione edilizia).

Ma il nome di Cederna è indissolubilmente legato anche al territorio della nostra regione. La profonda e fraterna amicizia che legò mio padre, Antonio Iannello, ad Antonio Cederna si strinse sul campo durante le comuni battaglie per la difesa del patrimonio culturale, nonostante la diversità di impostazione ideologica: idealista crociano mio padre, radicalmente distante dall’idealismo Cederna. E’ per questo motivo che Cederna diceva spesso a mio padre che lui era “l’unico italiano che predicava male ma razzolava bene”. Come napoletani e come campani, non possiamo non ricordare la battaglia contro la selvaggia aggressione della costiera amalfitana e sorrentina, conclusasi vittoriosamente con l’approvazione della legge regionale n. 35 del 1987, cui oggi sciaguratamente si vorrebbe derogare per rendere possibili opere altrimenti illegittime. Lo stesso Cederna, nella prefazione di “Brandelli d’Italia” cita questa legge della regione Campania come uno dei rari “notevoli risultati” conseguiti in Italia negli ultimi anni. Per restare in tema, la battaglia contro il “Mostro di Fuenti”, nel corso della quale Cederna dava eco sulla stampa nazionale al caso che mio padre aveva sollevato con fermezza e con ostinazione, riuscendo a far annullare l’autorizzazione paesistica. La difesa della via campana antica, sito archeologico che avrebbe potuto essere devastato da uno svincolo della tangenziale. La vittoriosa battaglia condotta per modificare il piano regolatore di Napoli approvato dal Comune nel 1970, che prevedeva lo sventramento di interi quartieri del centro storico e quella, sempre vittoriosa, per bloccare il progetto definito “Il regno del possibile” che riproponeva simili sventramenti.

Di Cederna si potrebbero fornire innumerevoli definizioni: archeologo, ambientalista, giornalista, scrittore, ma soprattutto mi pare che oggi egli debba essere ricordato per il suo impegno in materia urbanistica. E’ questo impegno, forse più di ogni altra cosa, che ha probabilmente rappresentato il cemento dell’amicizia che lo legò a mio padre. Indispensabile, per comprendere cosa era l’urbanistica secondo Cederna, è un memorabile passo tratto dai Vandali in casa: "La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese".

Ricordare l’impegno di Cederna in materia urbanistica mi pare oggi di fondamentale importanza, per contrastare la concezione degenerata dell’urbanistica predominante in questi anni ed esemplarmente rappresentata dallo sciagurato progetto di legge Lupi approvato dalla Camera dei deputati durante la passata legislatura, nel disinteresse dell’opposizione di allora, e solo per un caso fortunato non approdato alla votazione finale. Tale progetto di legge rappresentava il frutto più avvelenato degli anni della deregulation urbanistica, dell’urbanistica contrattata, del rifiuto della pianificazione: esso, infatti, avrebbe cancellato il principio stesso del governo del territorio da parte delle autorità pubbliche, affidando l’intera materia alla contrattazione privata. In altri termini, l’urbanistica rischiava di perdere la sua essenza di funzione pubblica volta alla cura degli interessi dell’intera collettività per divenire un affare privato della proprietà immobiliare. Speriamo che la ripubblicazione del volume “I vandali in casa” contribuisca a ravvivare il ricordo della lezione di un grande italiano e che il nuovo parlamento dia un profondo segnale di discontinuità approvando, come auspicato dallo stesso Cederna, una legge sul regime dei suoli e degli immobili che consenta finalmente di sottrarre l’uso del territorio alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria

Perché gli emendamenti alla legge

La nota dell’arch. Giglio, inviata a me per conoscenza, merita alcuni puntuali chiarimenti. Cominciamo dalla domanda iniziale “Perché un ‘nuovo’ piano casa in Puglia?”. Orbene, non si tratta di un nuovo piano casa ma di alcune precisazioni e modifiche (in totale 5 articoli), richieste a gran voce e da tempo, da forze politiche, amministrazioni e uffici comunali, professionisti, operatori economici e loro rappresentanze. La principale ragione risiede evidentemente nella delusione delle enormi aspettative suscitate dal grande spot lanciato due anni or sono da Berlusconi e dal flop che ne è seguito non solo in Puglia ma in gran parte dell’Italia, contrariamente a quanto affermato dagli operatori del settore edilizio e dalla gran parte della stampa locale. Merita ricordare che si trattò di un intervento di vero e proprio sciacallaggio politico, in un momento pre-elettorale e di drammatica crisi economica. Comprendo l’allarme di Giglio, perché l’idea alla base dell’accordo Stato-Regioni dell’aprile 2009 aveva destato apprensione in tutte le persone di buon senso e che hanno a cuore le sorti del paesaggio italiano. Nessuna corsa all’ampliamento e alla demolizione, tuttavia, si è registrato in Puglia e questo, ci deve dare atto, proprio perché abbiamo fatto prevalere la coerenza della visione che è alla base del programma di governo, orientata alla tutela del territorio, del paesaggio e dell’ambiente (e anche, nel caso di specie, dei diritti dei terzi) al canto delle sirene di chi pretende di affrontare la crisi del settore delle costruzioni con interventi derogatori che altro non fanno che aggrovigliare ulteriormente la giungla normativa.

Nessuna sconfessione dell’originaria impostazione

Passiamo quindi al titolo della nota: “Le molte criticità di un provvedimento che smentisce la precedente impostazione”. Le recenti proposte di modifica, se lette con attenzione, non smentiscono affatto l’impostazione originaria, finalizzata a cogliere l’opportunità dell’accordo per offrire sostegno al settore edilizio mediante interventi tesi a migliorare le condizioni di sicurezza e accessibilità del patrimonio esistente e la qualità architettonica, ambientale e paesaggistica delle città e del territorio. Non fu facile indurre il Consiglio Regionale ad approvare all’unanimità una simile impostazione, evitando così la strumentalizzazione politica che sarebbe sicuramente seguita all’inevitabile delusione della promessa di milioni di metri cubi e migliaia di posti di lavoro alla base della campagna pubblicitaria berlusconiana che accompagnò il lancio del cd piano casa. Tale impostazione è stata peraltro riconosciuta da una specifica indagine di Legambiente, che ha individuato la Puglia fra le pochissime regioni, assieme alla Toscana e alla provincia autonoma di Bolzano, che hanno applicato il Piano casa rispettando ambiente e sviluppo sostenibile.

Ora, mi preme dimostrare che le modifiche confermano e per alcuni versi rafforzano questa impostazione rigorosa e coerente con le politiche regionali della passata legislatura e di quella in corso.

Gli interventi previsti, infatti, continuano a riguardare esclusivamente la destinazione residenziale, escludendo qualsiasi destinazione produttiva o turistica e specificando cosa debba intendersi per residenza ai sensi del DIM 1444/1968, in considerazione delle incertezze emerse nella fase di applicazione delle norme e manifestate dai Comuni e dai tecnici in più occasioni. Peraltro, non solo non “salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso”, come riportato nel commento di Giglio, ma il comma che specificava che “con la realizzazione degli interventi previsti non è ammesso il cambio di destinazione d’uso” è sostituito da una più chiara dicitura, secondo la quale gli interventi realizzati a norma della legge in questione non possono essere destinati ad usi diversi da quelli consentiti dallo strumento urbanistico generale vigente.

Inoltre, l’elevazione del limite dei 1000 mc a 1500 mc per gli immobili soggetti ad ampliamento non si accompagna al mutamento del limite di ampliamento consentito, che rimane pari a 200 mc, e dunque decresce in termini percentuali rispetto al 20% massimo della norma originaria, al variare della volumetria del fabbricato. 300 mc possono raggiungersi solo qualora l’intero fabbricato non solo sia adeguato alle norme antisismiche e reso efficiente dal punto di vista energetico, ma raggiunga il punteggio 2 di sostenibilità edilizia (a fronte del livello zero che corrisponde all’adeguamento alle vigenti normative) opportunamente certificato in base al sistema di valutazione approvato dalla Regione in attuazione della LR 13/2008 “Norme per l’abitare sostenibile”. A tale proposito, non si comprende perché Giglio consideri un paradosso che un intervento assentito con DIA debba raggiungere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale ai sensi della LR 13/2008. A questo proposito, è forse utile un’informazione: nell’applicazione della legge pugliese, che consente che gli interventi siano subordinati sia a permessi di costruire che a DIA, i primi prevalgono sulle seconde. A Bari, ad esempio, città caratterizzata da una notevolissima diffusione di case uni-bifamiliari nelle frazioni costiere, su un totale di 1430 DIA presentate solo 8 hanno riguardato il cd piano casa mentre sono 10 le domande di permesso di costruire su un totale di 383.

Non è neppure corretto sostenere che gli edifici non debbano essere già accatastati, appunto perché dovranno esserlo, e ovviamente in data antecedente alla presentazione dell’istanza, mentre gli edifici dovranno essere stati ultimati alla data di entrata in vigore della legge, ossia nel settembre 2009 (data di pubblicazione della legge rettificata). Ancora, nel disegno di legge non è rintracciabile alcun mutamento di indirizzo in merito alla sanatoria edilizia straordinaria e, per quanto riguarda la valutazione antisismica, ferme restando le norme precedenti che richiedono la verifica strutturale dell’intero fabbricato, ci si limita a specificare che la valutazione della struttura può limitarsi all’intervento solo allorquando l’ampliamento si presenti, ancorché contiguo, dal punto di vista statico e strutturale indipendente dall’edificio esistente.

Fortunatamente Giglio rileva che non è stato modificato l’art. 6 che prevede l’esclusione di numerose parti di territorio: non solo centri storici o assimilabili, beni culturali e paesaggistici, aree protette e ambiti ad alta pericolosità idrogeologica, ma anche le aree per le quali gli strumenti urbanistici vigenti non consentano la ristrutturazione edilizia o la subordinino a un piano esecutivo. Merita anche evidenziare che restano ferme altre garanzie quali il rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici e, in mancanza, delle altezze massime e distanze minime previste dal DIM 1444/1968, nonché il rispetto delle norme sui parcheggi e sulla dotazione di standard pubblici. E assicuro che su questi punti la pressione per introdurre modifiche alla legge è stata davvero molto forte sia prima che dopo l’entrata in vigore.

Infine, mi risulta difficile comprendere l’ultima parte della nota, che lascia intendere qualche preoccupazione per gli effetti dell’articolo 9, riguardante la delocalizzazione di immobili legittimamente esistenti ubicati in aree vincolate e contrastanti, per dimensione e tipologia, con il contesto paesaggistico, urbanistico e architettonico circostante. La norma è stata ispirata dalla necessità di migliorare la qualità di ambienti compromessi da decenni di cementificazione selvaggia, abusiva e legale. Essa prevede premi volumetrici per interventi finalizzati alla delocalizzazione di opere incongrue da aree di pregio o a rischio, previa approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo e demolizione con ripristino delle aree di sedime, in aree omogenee degli strumenti generali. Il punto critico, piuttosto, sembra essere quello della scarsa convenienza economica alla delocalizzazione di opere legittimamente esistenti.

Perché una nota a eddyburg

piuttosto che la partecipazione nelle sedi istituzionali?

Ora sono io a porre una domanda all’arch. Giglio. Perché ha ritenuto di trasmettere una nota a eddyburg (inviata a me per conoscenza) e non ha partecipato in qualità di esponente di Italia Nostra, associazione della quale credo sia ancora rappresentante, alla riunione dedicata dalla commissione consigliare alle modifiche normative in questione, alla quale erano state invitate anche tutte le principali associazioni ambientaliste attive in Puglia?

Per la verità a quella riunione erano assenti non solo Italia Nostra ma tutte le associazioni ambientaliste e tutti gli ordini degli architetti. Erano invece presenti, oltre che i rappresentanti di Anci e Upi, i portatori di interessi diretti quali gli ordini degli ingegneri e i collegi dei geometri di varie province, l’ance, cna e confartigianato, confedilizia e associazione piccoli proprietari. E’ ovvio che, con un simile sbilanciamento di rappresentanze, le richieste di emendamento sono state esclusivamente orientate, secondo un leitmotiv che risuona dall’epoca della stesura del primo disegno di legge, all’estensione temporale, dimensionale e funzionale dei margini del cd piano casa e all’allentamento dei vincoli previsti.

Nel silenzio assordante di tutti gli altri, l’idea, già diffusa, che rischia di consolidarsi, è che la legge in vigore in Puglia rispecchi solo le convinzioni di un’assessora e di una giunta che, in nome della difesa dell’ambiente, del paesaggio e delle città storiche, la vogliono tenacemente mantenere restrittiva, in barba alla crisi economica, alle esigenze delle famiglie pugliesi e a differenza di quanto previsto dalla gran parte delle Regioni Italiane. Beninteso, quest’idea non mi dispiace affatto, anzi, e quelle convinzioni corrispondono esattamente alle mie. Il timore è che dal canto delle sirene di Berlusconi, amplificato dai partecipanti alla concertazione istituzionale, tutti portatori di interessi diretti, restino incantati i consiglieri regionali, mentre il controcanto dei portatori di interessi diffusi di natura ambientale tacciono o non fanno sentire la propria voce nelle sedi nelle quali si formano le decisioni.

Tra i tanti "no" detti da Antonio Iannello, difensore strenuo del paesaggio campano c’è quello a collaudare i 25 mila vani di Monterusciello. È il 1983, da sette anni l’architetto è presidente regionale di Italia Nostra. Il nuovo insediamento varato con un provvedimento straordinario dell’allora ministro della Protezione civile Vincenzo Scotti, per Iannello è "un errore urbanistico", per scongiurare il quale si offre volontario, a collaborare gratuitamente con il ministro. Niente consulenze strapagate, solo dovere civile. In quest’epoca in cui tutto è merce e ogni cosa ha un prezzo, l’esempio di quell’urbanista ambientalista ha il sapore dell’irripetibile.

Antonio Iannello è morto povero, a 68 anni, il 2 maggio del 1998. Tredici anni dopo il Comune di Napoli, su proposta di Italia Nostra, gli intitola un belvedere a Posillipo, in via Manzoni. La cerimonia si svolgerà domani alle 12, presente il sindaco Iervolino, all’angolo con via Orazio, a cento metri dalla funicolare all’altezza del civico 122. L’assessore comunale Alfredo Ponticelli e il presidente della Municipalità di Chiaia, Fabio Chiosi, scopriranno la targa alla presenza della famiglia Iannello, della famiglia Croce e di Gerardo Marotta.

Lui avrebbe forse declinato, aduso alla modestia com’era e amante dell’essenziale, ma altrettanto sicuramente l’idea di un belvedere a suo nome gli sarebbe piaciuta, non tanto per osservare da lì la Napoli per la quale aveva combattuto, ma per continuare a sognare quella che avrebbe voluto lasciare intatta.

Architetto, urbanista, per cinque anni, dal 1985 al 1990, è stato segretario generale di Italia Nostra, dopo aver fatto parte, dal ‘67 al ‘73, del Consiglio direttivo della sezione dei Campi Flegrei, e aver ricoperto dal ‘73 all’85 la carica di presidente della sezione napoletana e dal ‘76 di quella dell’intera Campania. Non è mai abbastanza ricordare come Iannello si oppose alla fine degli anni ottanta agli ipotizzati sventramenti del "Regno del possibile". Se i Campi Flegrei ricevettero il riconoscimento dell’interesse paesaggistico dal ministero, è merito del testo scritto da Iannello a tal fine. Le sue idee sul centro storico e la salvaguardia del patrimonio rurale vennero recepite nel piano regolatore di Vezio De Lucia, e suoi, in collaborazione con Giuseppe Galasso, sono anche i piani paesaggistici che sono i veri guardiani del territorio, «ma che l’attuale governo regionale - scrive il segretario del Comitato regionale Campania di Italia Nostra, Luigi De Falco - sensibile all’istanza proveniente da migliaia di abusivi del cemento, sta provvedendo a scardinare per favorire nuovi condoni». «La città - prosegue De Falco - diventa sempre più inconsapevole che la salvezza delle sue ricchezze è dovuta a una intera vita spesa da Antonio Iannello a sostegno dell’intangibilità del centro storico e delle sue bellezze naturali». La testimonianza di Guido Donatone è quella di chi è succeduto a Iannello nel sempre più difficile compito di tutela e salvaguardia del nostro patrimonio ambientale e culturale: «Abbiamo trascorso insieme anni indimenticabili. Passavamo nottate a scrivere denunce e documenti in cui Antonio esprimeva con argomentazioni stringenti, circostanziate, lo sdegno e l’ira che pervadevano il nostro stato d’animo di fronte all’inerzia delle amministrazioni, ma soprattutto - conclude Donatone - alla protervia di quegli ambienti politici, accademici e professionali che hanno continuato a perseguire il disegno scellerato della cementificazione della città».

Martedi 12 aprile alle ore 12,00 su proposta di Italia Nostra, sezione di Napoli e CR Campania, il Sindaco di Napoli inaugura il “belvedere Antonio Iannello” a Posillipo, in via Manzoni. Italia Nostra aveva chiesto al Sindaco di Napoli di intitolare una strada al compianto architetto Iannello, ineguagliabile tutore del patrimonio storico e naturalistico della città di Napoli, da lui difesa in anni di battaglie, troppo spesso solitarie, frequentemente perdute. La sua azione ha tuttavia ottenuto importantissimi successi.

Solo riferiti alla città di Napoli, ricordiamo la battaglia sostenuta e vinta da Iannello contro il “Regno del possibile” a salvaguardia del centro storico della città, contro le proposte di sventramento, nella città storica, dei Quartieri spagnoli sostenute dai costruttori edili e dalle forze politiche del tempo, secondo un disegno politico trasversale che rimase travolto dal sostegno che Iannello ottenne dalla società civile e dalla cultura internazionale, unanimamente indignata.

Strenua la sua difesa della costa di Bagnoli, contro l’ampliamento e per la dislocazione dell’Italsider: espressione sublime dell’amore di Iannello per l’area flegrea il testo da lui scritto a motivazione del riconoscimento dell’interesse paesaggistico approvato dal Ministero per i beni culturali per l’area. Sintesi della sua visione del valore costituzione dei beni comuni il suo testo pubblicato postumo, “L’inganno federalista”, nel quale Iannello scrive la sua solida solida testimonianza politica a sostegno dei valori intangibili della Costituzione italiana.

Le idee di Iannello per il centro storico di Napoli e la salvaguardia del patrimonio rurale della città sono integralmente assorbite nel piano regolatore che Vezio De Lucia ha con tenacia disegnato e di cui Napoli può oggi farsi vanto.

Di Iannello sono pure i piani paesaggistici tuttora vigenti sul territorio che ancora rigorosamente garantiscano la tutela dell’integrità fisica e culturale del paesaggio, ma che l’attuale governo regionale, sensibile all’istanza proveniente da migliaia di abusivi del cemento, sta provvedendo a scardinare per favorire nuovi condoni.

E’ dovere di Italia Nostra, della società civile e della seria politica ostacolare qualsiasi nuovo disegno del territorio teso a legittimare le illegalità diffuse attraverso l’azione della camorra concretizzata nel cemento e l’apertura a nuovo consumo del suolo a scapito delle risorse rurali e dei centri storici.

La città diventa sempre più inconsapevole che la salvezza delle sue ricchezze è dovuta a una intera vita spesa da Antonio Iannello a sostegno dell’intangibilità del centro storico e delle sue bellezze naturali.

Ad Antonio Iannello è dovuto, oggi, il riconoscimento di una vita di impegno, e ancor più alla sua memoria è dovuto, sempre, l’impegno nostro e delle generazioni future a perseguire il suo disegno per una Nazione che guardi al valore dei beni comuni come principio irrinunciabile della democrazia.

Da Edoardo Salzano, “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”, Corte del fòntego, Venezia 2010, p. 47-50

Al ministero di Porta Pia

Se la sua proposta organica di riforma urbanistica era stata scandalosamente bocciata, Sullo era riuscito a far approvare la legge 167 del 1962, che consentiva di espropriare le aree necessarie per realizzare l’edilizia economica e popolare. Una legge che si rivelò decisiva per impostare una coerente politica della casa nel corso degli anni Settanta. L’ufficio del ministero dei LLPP incaricato di seguire l’attuazione della legge 167 fu il germe della nuova struttura che, dopo i drammatici eventi del 1966, il ministro dei LLPP, il socialista Giacomo Mancini, aveva deciso di costituire: la Direzione generale per l’urbanistica, affidandone la direzione a Michele Martuscelli. Nel suo ambito era stato costituito da poco un Centro studi, affidato inizialmente a Fabrizio Giovenale: un generoso apostolo dell’urbanistica sociale. Disponeva di due soli giovani funzionari: un amministrativo, Carmelo Grasso, e un architetto, Vezio De Lucia. L’anno successivo l’ufficio era stato affidato a un attivissimo ingegnere, Marcello Vittorini, che avevo conosciuto a San Pietro in Vincoli dove era assistente del professore di Architettura tecnica.

Marcello aveva avuto le risorse per rafforzare il Centro studi. Assunse a contratto un buon numero di giovani tecnici. Tra loro ricordo Gianluigi Nigro, Giusa Marcialis, Massimo Perna, Daria Ripa di Meana, Rinaldo Sebasti, Giulio Tamburini. Assunsi l’impegno molto seriamente. […]

Il lavoro era stressante ma entusiasmante. L’urbanistica e la programmazione economica erano al centro dell’attenzione politica. Dopo la sconfitta del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, il crollo di Agrigento e l’appassionato dibattito parlamentare che ne era seguito avevano prodotto un vero colpo di frusta sull’opinione pubblica. Politica e cultura erano combattive e lottavano su diversi fronti per un efficace e moderno governo del territorio, non più infeudato ai poteri forti della rendita fondiaria urbana. Tra la cultura urbanistica, validamente rappresentata in quegli anni dall’Istituto nazionale di urbanistica, e la politica del Parlamento e dei partiti, il ruolo della pattuglia urbanistica del Ministero dei LLPP era spesso quello di cerniera.

Nel concreto dell’ufficio, si andava dal collaborare all’istruttoria per l’approvazione dei Prg comunali da parte del Consiglio superiore dei LLPP alla predisposizione di proposte di legge nelle diverse materie di competenza del ministero, dalla definizione di programmi e progetti speciali per determinate situazioni o problemi (dai provvedimenti per Venezia e Firenze dopo l’alluvione del 1966 a quelli per i terremoti) alla formazione di circolari interpretative delle leggi, alla collaborazione con altri ministeri e uffici pubblici o alla contestazione delle loro proposte quando venivano giudicate lesive degli interessi pubblici territoriali.

Nei momenti più rilevanti la pattuglia di testa della galassia urbanistica del ministero (Martuscelli, Vittorini, Di Gioia che era subentrato a Valle nella presidenza della sezione del Consiglio superiore) aveva contatti diretti con parlamentari sia dei partiti governativi (soprattutto con quelli della sinistra socialista) che con alcuni del Pci. Una vera collaborazione si stabilì quando si presentarono e discussero le leggi più rilevanti di quegli anni: la legge ponte urbanistica del 1967 e il successivo decreto sugli standard, le leggi per la casa dell’inizio degli anni Settanta.

Diversi erano gli stili di Martuscelli, Di Gioia, Vittorini. Il primo esercitava con abilità e fermezza la chiave burocratica, Di Gioia adoperava la felpata morbidezza dei diplomatici. Marcello era un carro armato, un corsaro. Lavorava così. Si impadroniva di una pratica, magari curiosando sulla scrivania del ministro, o esaminando l’ordine del giorno delle commissioni e comitati di cui il ministero era parte, oppure perché qualche funzionario lo informava dell’argomento. A seconda del tempo a disposizione (generalmente era brevissimo, un paio di giorni o poche ore) costituiva un piccolo gruppo di lavoro, dettava la scaletta di una relazione o un promemoria o un appunto, distribuiva il lavoro, lo verificava e completava e lo inseriva nella copertina ufficiale. Poi lo consegnava al ministro, o lo illustrava lui stesso là dove si discuteva (e magari si decideva).

Ricordo in paio di occasioni. Al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) si doveva dare il parere sulla installazione di un deposito petrolifero. “È uno scandalo – ci diceva - .L’Italia sta diventando un gigantesco deposito di prodotti pericolosi ed inquinanti, nelle zone costiere più belle”. In pochissimi giorni, mobilitando i più diligenti e presenti del suo ufficio (Vezio c’era sempre) produceva una documentata relazione: l’unica, oltre a quella dei proponenti, che veniva presentata alla riunione dove si sarebbe deciso.

Un’altra volta il ministro in carica, il democristiano Natali, abruzzese come lui e amico personale, gli chiese di preparare un appunto per il discorso che avrebbe tenuto al convegno nazionale della Dc. Marcello chiamò me e Vezio, ci propose la scaletta del discorso, ci sedemmo alla sua scrivania dalla sera alla mattina dopo, e ciascuno ne compose un pezzo. Facemmo recitare al ministro un discorso nel quale, oltre a una serie di cose molto audaci e ragionevoli in materia di opere pubbliche e loro impatto territoriale, sosteneva la necessità di una riforma urbanistica che comprendesse (riprendendola dalla proposta di Fiorentino Sullo, bocciata pochi anni prima e ripresentata da parlamentari comunisti) l’esproprio generalizzato dei terreni di nuova edificazione o ristrutturazione urbanistica. “L’Unità”, che allora era l’organo ufficiale del Pci, illustrò con stupito compiacimento la proposta dell’autorevole ministro democristiano.

I lettori di «eddyburg» sanno che per iniziativa di Italia nostra Lombardia è stato pubblicato da Electa nelle settimane scorse un libro che raccoglie articoli di Antonio Cederna su Milano e sulla regione. L’iniziativa è stata duramente e puntualmente denunciata dai figli dello scomparso giornalista, com’è noto uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, legato a Italia nostra fin dalla fondazione a metà degli anni Cinquanta.

Giulio, Camilla e Giuseppe Cederna contestano, in una lettera alla presidente di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino e all’amministratore delegato di Electa Martin Angioni, che il pensiero del padre risulta «sventrato, demolito, raschiato» a causa soprattutto di alcuni degli scritti posti a mo’ di prefazione agli articoli. Quasi contemporaneamente, decine di intellettuali – da Alberto Asor Rosa a Corrado Stajano – chiedono il ritiro del libro denunciando che le idee di Cederna appaiono distorte o criticate senza contraddittorio. Anche la presidente di Italia nostra si dissocia, da «un’iniziativa personale del presidente della sezione Lombardia». Electa chiude subito la partita, si scusa con gli eredi e interrompe la distribuzione del libro.

Ed eccoci alla riunione del consiglio nazionale di Italia nostra del 15 gennaio che avrebbe dovuto fare i conti con la componente lombarda dell’associazione responsabile del clamoroso incidente. Ma la discussione prende subito un andamento sorprendente. La presidente introduce mettendo sullo stesso piano l’errore commesso da chi ha condotto un’operazione volta a rivedere e ad «aggiornare» il pensiero di Antonio Cederna e chi – Maria Pia Guermandi, io e altri consiglieri nazionali – ha preso posizione pubblica contro quel libro, compiendo un atto che, secondo la presidente, avrebbe danneggiato l’associazione. A favore della presidente si schiera la maggioranza dei componenti il consiglio che respinge la mozione presentata da me e da altri, con la quale era chiesta almeno la sospensione del presidente del consiglio regionale della Lombardia e l’intervento dei probiviri. Si approva invece un documento che condanna l’opera di Italia nostra Lombardia ma non assume alcun provvedimento nei confronti dei responsabili, che vanno avanti per la loro strada.

Qui mi riferisco al fatto che, non da poco tempo, il consiglio regionale della Lombardia e la sezione di Milano sostengono posizioni, soprattutto in materia di urbanistica e di tutela del paesaggio e dei centri storici, in contrasto con i principi e la diversità di Italia nostra rispetto ad altre associazioni, come hanno giustamente denunciato anche Marina Foschi ed Elio Garzillo. Il libro illegittimamente attribuito a Cederna è solo l’ultima manifestazione di un – per dire – «rito ambrosiano» di Italia nostra che finora non è stato possibile discutere nell’ambito del consiglio nazionale. E ahimè la linea lombarda fa proseliti. Si consolida un percorso che sta snaturando l’associazione, un percorso fatto di cedimenti progressivi, di opportunismi, di ripensamenti, di esasperata attenzione all’eco della stampa. Il tutto in un vuoto assoluto di elaborazione culturale, surrogato da inverosimili progetti di indagine come quello all’ordine del giorno del consiglio che propone una graduatoria fra i centri storici. Sono iscritto all’associazione dagli anni Cinquanta, da allora, ininterrottamente, ne seguo l’attività in sede locale e nazionale. Un’associazione sempre inquieta e litigiosa all’interno ma compatta nella difesa della sua aristocratica austerità. Che adesso è inquinata dai compromessi e dall’effimero, i gadget, la grafica.

Ma a far traboccare il vaso è stata l’intervista rilasciata dalla presidente al «Corriere della sera» del 16 gennaio per dar conto delle decisioni del consiglio direttivo nazionale sulla vicenda del libro attribuito ad Antonio Cederna. La presidente riferisce che tutto è andato per il meglio, che è stata una disavventura e il caso può dirsi chiuso, con «tutti i consiglieri allineati alle mie posizioni».

A questo punto, per quanto mi riguarda, ho ritenuto inutile e improduttiva la mia permanenza in consiglio nazionale, causa solo di disagio, e mi sono irrevocabilmente dimesso dall’incarico. Con la speranza che l’atto serva ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione (anche su «eddyburg»). Ho confermato invece la disponibilità nei riguardi delle sezioni, che rappresentano, non senza eccezioni, il nucleo ancora vitale di Italia nostra.

(19 gennaio 2011)

Sembrava che, con la saggia decisione di Electa di ritirare il contestatissimo libro di scritti lombardi di Antonio Cederna inframmezzato di testi critici verso di lui, le acque si fossero placate. La richiesta dei figli Cederna e di un folto gruppo di estimatori e amici di togliere dalle librerie quell’improvvida pubblicazione era stata accolta dall’editore. Rimaneva la brutta figura del suo promotore, il presidente lombardo di Italia Nostra, Santambrogio (ex assessore leghista della Giunta Formentini) e anche di quei dirigenti i quali avevano fieramente condannato l’ “illiberale” appello per il ritiro. Subito dopo, vi sono state le dimissioni da consigliere nazionale di Italia Nostra di uno dei più noti e rigorosi urbanisti, Vezio De Lucia, il quale accusa i promotori del libro di “revisionismo”, cioè di arrendevolezza verso la politica di deregulation urbanistica massicciamente in atto in Lombardia (uno dei due scritti incriminati non ribadisce forse il pieno sostegno all’orrendo parcheggio sotterraneo davanti a Sant’Ambrogio?). Apriti cielo.

Sul Corriere della Sera di lunedì 21 Paolo Conti ha disegnato un quadro imparziale dei contrasti («Quel libro che dilania Italia Nostra») dando voce, giustamente, ad alcuni “garantisti”. In prima fila Carlo Ripa di Meana che tuona, o tromboneggia: «Qui si rischia un processo per mancata ortodossia! Mi pare che qualcuno abbia perso la testa, e penso alla presidenza». Altri parlano di «dogmi e anatemi degni della Cuba comunista», di rogo dei libri, un’apocalisse. Il vice-presidente Nicola Caracciolo proclama: «Nessuno psicologo si sogna oggi di ritenere Freud intoccabile» e quindi nemmeno Cederna lo è. E Ripa di Meana cala l’asso: la presidente Alessandra Mottola Molfino vuole un’Italia Nostra «strumentalizzata dalla sinistra» (ma lui, non è stato anche in Rifondazione Comunista?). «Siamo alle comiche finali», chiosa amaro Giulio Cederna in una caustica, tagliente lettera apparsa mercoledì su Eddyburg. Immagina il padre aggirarsi per casa con gli occhiali inforcati, in mano il libro «che porta indegnamente la sua firma», «folgorato sulla Via Gluck dalle tesi dei suoi detrattori», sbottare: «Cribbio, una vita spesa a scrivere sempre lo stesso articolo e non avevo capito niente!».

Giustamente Giulio ribadisce di aver semplicemente chiesto, coi fratelli Giuseppe e Camilla, di «rispettare le persone, a maggior ragione se defunte, la loro memoria, il loro pensiero». È anche l’obiezione di noi per tanti anni sodali di Antonio: lor signori ritengono “superato” il pensiero di Cederna e vogliono scriverci un saggio? Chi glielo impedisce? Si accomodino. Ma perché impastare una sua antologia con alcuni pareri contrari? Ha ragione Giulio Cederna: «In altre parole, si gioca col morto». Senza contraddittorio. Che volgarità.

Ormai siamo alle comiche finali. La commedia del libro postumo imposto ad Antonio Cederna da Italia Nostra Lombardia, rivive sul Corriere della Sera e raggiunge i vertici dell’ultimo Woody Allen. Se in Incontrerai l’uomo dei miei sogni, uno scrittore in crisi si appropria del manoscritto di un amico dato per morto, salvo scoprire che è uscito dal coma quando il libro è già un caso editoriale, nel film che va in onda da alcune settimane, il defunto, purtroppo irrimediabilmente tale, viene omaggiato di una nuova e immeritata opera, giustamente ritirata dagli scaffali dalla casa editrice, ma difesa strenuamente da alcuni sensitivi che scrivono lettere agli editori, animano violente polemiche sui giornali e comunicano con lui nell’oltretomba.

Davanti alla protesta di tanti esperti - urbanisti, architetti, archeologi, giornalisti – il veggente Carlo Ripa Di Meana sostiene sul Corriere della Sera che “Cederna era un vero intellettuale, anche ironico, e mai avrebbe preteso di veder consacrate in eterno le sue idee”. Lo giura anche Nicola Caracciolo, cartomante, che corrisponde con lui tramite i tarocchi. “Aver curato un libro che contiene due interventi critici ma rispettosi non può essere considerato un delitto di lesa maestà. E Cederna, ne sono certo, non lo vorrebbe assolutamente”. Immagino il fantasma di mio padre che si aggira per il salotto buono di Italia Nostra, con gli occhiali inforcati sul naso, il libro in mano, folgorato sulla via Gluck dalle tesi dei suoi detrattori in bella mostra nel libro che porta indegnamente la sua firma: “Cribbio, una vita spesa a scrivere sempre lo stesso articolo e non avevo capito niente!”, esclama socraticamente, da vero intellettuale.

Medium fatti e finiti, essi dispongono di una bacchetta magica capace di mutare il significato delle parole: si sentono molto liberal (soprattutto con le idee degli altri), danno del cubano a chi censura l’iniziativa, e la difendono con argomentazioni liberal-democratiche degne di un ufficio di polizia: I sottoscritti soci di Italia Nostra (di Roma) a proposito del libro edito da Mondadori-Electa "Antonio Cederna scritti, per la Lombardia" - pubblicazione che ha suscitato recentemente molte polemiche - ritengono, indipendentemente dal giudizio che se ne può dare, che un atto di "censura" sia profondamente estraneo alle tradizioni liberal-democratiche di Italia Nostra. Il libro è frutto di un'iniziativa della Giunta Regionale Lombarda di Italia Nostra che va comunque rispettata”.Qualsiasi iniziativa di Italia Nostra merita rispetto, a prescindere. Ancor prima di rispettare le persone, a maggior ragione se defunte, la loro memoria, il loro pensiero (che avrebbe meritato ben altra rivisitazione critica), bisogna portare rispetto per la divisa. I contenuti non contano. Così si può essere a favore di un parcheggio a Milano e fare le barricate contro a Roma; si può denunciare un presunto “tentativo di strumentalizzazione dell’associazione da parte della sinistra” a Roma e avallare una evidente strumentalizzazione politica di Antonio Cederna a Milano. Nel momento in cui Milano e la Lombardia, spazzata via qualsiasi forma residuale di pianificazione del territorio, registrano l’assalto finale della speculazione e del cemento, si preferisce realizzare un falso storico e riflettere liberal-democraticamente, ovvero senza contraddittorio, sui limiti di Antonio Cederna. In altre parole, si gioca con il morto. Sono pur sempre dei medium.

E’ proprio vero. Con il passare del tempo le associazioni rischiano di diventare dei pericolosi gusci vuoti. Si burocratizzano, perdono fiato e progetto, si svuotano. Una volta Italia Nostra era Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini, Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Manfredo Tafuri, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia, Antonio Cederna, Antonio Iannello; oggi è ostaggio di Ripa di Meana e Santambrogio. Politici politicanti, ma pur sempre rabdomanti.

Vezio De Lucia, 72 anni, napoletano, è un urbanista militante in servizio permanente effettivo. Già direttore generale dell’Urbanistica presso il ministero dei Lavori pubblici e membro del Consiglio superiore, è stato assessore all’Urbanistica di Antonio Bassolino ai tempi dell’effimera rinascita di Napoli. Poi litigò con ‘o sindaco e non venne confermato. Vanta anche un altro licenziamento lusinghiero: quando lavorava a Porta Pia fu silurato dal ministro Dc Giovanni Prandini, poi travolto da Tangentopoli. Consigliere nazionale di Italia Nostra, ha firmato molti piani e vinto il premio Cederna 2006 per l’urbanistica.

De Lucia, l’urbanistica è davvero in crisi?

«In una crisi irreversibile, direi. Il dato drammatico è che nel frattempo si consuma il territorio, con conseguenze gravissime. Vede, l’urbanistica è molto diversa dalla finanza: il condono fiscale può avere esiti molto pesanti per l’economia e la morale collettiva, ma trascorsi dieci anni è possibile dimenticarlo, praticando una politica opposta, in grado di veicolare principi diversi. Il condono edilizio, invece, lascia un segno irreversibile: le sue ricadute sul territorio non possono più essere rimosse, se non a costi spropositati e impraticabili. Questo rende drammatico il panorama in cui siamo calati. La dilapidazione delle risorse territoriali prosegue. E all’orizzonte non vedo speranze di cambiamento.»

Quali le ragioni della crisi?

«Sono di natura politica. Siamo tutti d’accordo, ormai, nell’affermare che l’urbanistica è componente fondamentale della politica tout court. È a quella scala, dunque, che bisogna fare riferimento per comprendere le cause della crisi, determinate soprattutto dal declino della prevalenza dell’interesse pubblico. Una tendenza cominciata trent’anni fa, negli anni Ottanta, quando è cambiato lo scenario politico, con la prevalenza dell’impostazione thatcheriana e reaganiana. Privato è bello: è la filosofia del ciascuno padrone a casa propria. La città, si pensa, funziona meglio se soddisfa la gran parte degli interessi privati. Ma è vero il contrario. Roma è un esempio clamoroso di questo disastro. Si pensi alla sua mobilità impossibile, alle periferie disumane perché completamente scardinate dal corpo urbano. Tutti gli insegnamenti di decenni di urbanistica sono stati dimenticati per inseguire solo gli interessi della proprietà fondiaria.»

Mi pare una tendenza piuttosto affermata. In fondo, se Roma piange, Milano non certo non ride. Che ne pensa?

«In effetti la mala pianta nasce a Milano, interprete Maurizio Lupi (l’attuale vicepresidente della Camera, ndr). C’è un documento alla base dell’urbanistica contrattata ed è “Ricostruire la grande Milano”, firmato da Luigi Mazza del 2000 ma commissionato da Lupi, allora assessore comunale allo Sviluppo del territorio: qui viene teorizzata la fine della disciplina, che non controlla più nulla ed è formata dalla somma delle decisioni edilizie private. A questo documento fa poi seguito, qualche anno dopo, il testo di riforma nazionale urbanistica, meglio conosciuto come ddl Lupi, che ripercorre quell’impostazione. E che per fortuna non si trasformerà mai in legge. Ma la linea ormai è tracciata. Ricordo che all’epoca anche l’Inu appoggiò la riforma.»

In realtà solo in parte. Anzi, l’allora presidente Paolo Avarello si sentì lasciato solo, in quella posizione.

«Poco importa. Il punto è un altro: la crisi della città – e dell’urbanistica –è sempre stata poco analizzata dalla politica. Anche dalla sinistra, parte cui storicamente faccio riferimento. Lo ha ricordato alcuni anni fa Leonardo Benevolo in uno scritto: nessuno dei principali esponenti della politica nazionale del dopoguerra – da De Gasperi a Togliatti, da Moro a Berlinguer, fino a Fini e D’Alema – ha mai affrontato il problema. Chi invece ha cavalcato il tema con successo è Silvio Berlusconi: su un piano opposto, certo, proponendo le soluzioni cui facevo riferimento prima – i condoni edilizi, il piano casa eccetera – e agendo sui peggiori istinti degli italiani. Ma a determinare il distacco della politica dall’urbanistica ha giocato anche un altro fattore.»

Quale?

«La sorte toccata a due personaggi importanti della politica italiana che hanno cercato di misurarsi con i problemi della condizione urbana. Il primo fu Fiorentino Sullo, spazzato via dal suo stesso partito, la Dc, per avere proposto una riforma urbanistica molto evoluta ed efficace in materia di controllo della rendita immobiliare, che avrebbe potuto portare l’Italia al livello delle grandi socialdemocrazie europee. L’altro, a una scala inferiore, fu Achille Occhetto. Che esordì clamorosamente in materia imponendo alla giunta rossa di Firenze di bloccare quel clamoroso esempio di urbanistica contrattata che era l’operazione Fiat-Fondiaria.

«Era il giugno del 1989, cinque mesi prima della svolta della Bolognina. La telefonata dell’allora segretario del Pci fece saltare il grande insediamento a Novoli e a Castello, dove erano previsti un centro congressuale e un centro espositivo».

Credo che nessuno abbia gli elementi in mano per affermare che questa vicenda portò alla fine politica di Occhetto. Ma se si indagasse a fondo, forse si potrebbe scoprire che, sotto sotto, un legame c’è. Inutile dire che a Firenze, uscito di scena Occhetto, il progetto è andato avanti, come ha evidenziato il recente scandalo sulle lottizzazioni di Castello. Probabilmente questi esempi inducono molti politici italiani a ritenere che l’urbanistica sia materia alquanto pericolosa, da cui è meglio girare alla larga».

Scendiamo nello specifico della disciplina. Lei crede che nella crisi abbia pesato la mancata riforma generale?

«Certo. Io ho dedicato la vita ai tentativi di riforma. Ma il tema ormai mi sembra fuori scala, essendo stato sancito il superamento delle regole urbanistiche. La situazione odierna è molto più grave dell’immediato dopoguerra: allora nessuno pensava che le norme potessero essere bypassate. Torniamo un attimo al piano casa, che è un’iniziativa delle Regioni. La legge quadro nazionale, infatti, è stata più volte annunciata ma mai varata, anche perché incostituzionale. Comunque, il governo ha enunciato principi ai quali volontariamente tutte le Regioni, comprese quelle di centrosinistra, si sono adeguate. E questo è gravissimo. Significativo il caso della Toscana, la prima ad approvare una normativa in materia. L’ha fatto in modo corretto, per carità: le agevolazioni sono erogate a condizione che gli interventi proposti siano rispettosi della legislazione urbanistica. Ma avrebbe avuto i titoli per opporsi alla manovra. Invece si è allineata alla direzione generale derogatoria».

Avrebbe anche potuto non varare alcuna legge, com’è avvenuto in Trentino Alto Adige.

«Infatti. Questo è un segno di complicità oggettiva, come si diceva una volta: destra e sinistra si incontrano sempre su questo terreno».

«Lei afferma che le regole urbanistiche non contano. Ma l’Italia è coperta da piani di ogni genere. Come si spiega questo aspetto?

Viviamo in una situazione di apparente schizofrenia: la pianificazione si continua a fare, così come proseguono le operazioni di segno opposto sul nostro territorio. Ma va anche detto che non tutta l’Italia è travolta dal modello milanese e romano. Esistono realtà in cui l’urbanistica corretta continua a essere dominante».

Cosa pensa della proposta di riforma urbanistica promossa dall’Inu nel 1995, con il nuovo piano regolatore diviso in una parte strutturale e una attuativa, poi ripreso da molte leggi urbanistiche regionali?

«Il bilancio dell’esperienza non è positivo. Faccio riferimento soprattutto alla situazione toscana, che conosco meglio. In primo luogo, la speditezza che avrebbe dovuto garantire un modello costituito da piano strutturale a lungo termine, da attuare progressivamente attraverso strumenti operativi più agili, spesso coincidenti con il mandato del sindaco, non è mai stata raggiunta. In Toscana l’attuazione del nuovo piano richiede tempi molto più lunghi rispetto ai vecchi prg. E poi non è vero che a un piano strutturale corrispondano uno o più strumenti operativi. Di solito viene varato un documento strutturale, poi uno operativo, poi la necessità di varianti induce a realizzare un altro piano strutturale e un altro operativo, e così via. Qualcosa non funziona, evidentemente. Secondo me il problema di fondo è la disarticolazione dell’urbanistica. Alla fine, l’unico piano che conta davvero è quello comunale. Non si è mai riusciti a instaurare una vera pianificazione di area vasta che, anche dove vigente, è priva di efficacia, non affrontando questioni cruciali come il dimensionamento e la configurazione delle espansioni. Tutto è ricondotto alla scala urbana. La Toscana, per rimanere al mio esempio, è ormai formata da un’unica enorme conurbazione che unisce fisicamente, senza soluzione di continuità, tutti i capoluoghi di provincia: circa cento Comuni per due milioni di abitanti. Le pare possibile che tutto questo possa essere governato da cento piani strutturali e almeno altrettanti piani operativi? Se le scelte strutturali spettassero alle Province e la loro attuazione ai Comuni, già compiremmo un passo avanti, evitando duplicazioni. E un gran consumo di suolo».

Come se ne esce?

«Non possiamo aspettare chissà quale evoluzione culturale, economica, politica. C’è bisogno di affermare alcune idee molto semplici, ma altrettanto forti. La prima, che si dovrebbe realizzare a furor di popolo, è lo stop al consumo di suolo. Salviamo il salvabile. Tracciamo una linea rossa intorno all’edificato così come si è delineato negli ultimi anni e diciamo: queste sono le colonne d’Ercole, al di là non si può andare. Altrove in Europa è già così: è sempre molto chiara la linea rossa. Finisce la città, comincia la campagna. E si resta sbalorditi dalla nettezza del mutamento. Questo stacco, in Italia, non esiste più: ecco perché riaffermare la distinzione fra città e campagna mi pare sia questione importante e anche efficace, utile a migliorare la nostra qualità della vita. Altro punto fondamentale è la difesa dalla bellezza del nostro paesaggio, che deve diventare un valore condiviso. Anche la sicurezza fisica è da tenere in considerazione: la lotta al dissesto idrogeologico e al rischio sismico va combattuta. È un tema che riguarda anche la spesa pubblica, naturalmente: è stato dimostrato che una politica oculata di prevenzione costa meno del mero risarcimento dei danni. Inoltre è ad alta intensità di lavoro e a bassa densità di capitale: si pensi solo al cuci-e-scuci delle vecchie case in pietra per consentire, ad esempio, gli interventi di sicurezza antisismica».

In realtà, oggi il termine sicurezza viene utilizzato diversamente. E i quartieri cintati, serrati entro mura e sorvegliati dalla vigilanza privata, cominciano a comparire anche nel nostro territorio. Vede anche lei questo rischio nel futuro delle città italiane?

«La sicurezza privatistica ghettizzata nelle gated community mi aveva colpito già molti anni fa, durante un viaggio di studio negli Stati uniti. Mi ero convinto fosse un modello inconcepibile per la cultura europea. Purtroppo, invece, ha attecchito anche qui. Persino a Napoli. Alludo al Centro direzionale, la madre di tutte le speculazioni edilizie che, essendo sorvegliato dalla vigilanza privata, è diventato un luogo frequentato anche dai ceti popolari dei quartieri vicini. Evidentemente risponde a un’esigenza di sicurezza, oggi molto sentita. Napoli, certo, è una città un po’ estrema sotto questo aspetto, forse non fa testo. Ma a me pare che il problema sia più percepito che reale. Oggi le nostre città sono molto più sicure rispetto a trent’anni fa».

Secondo lei si dà troppo credito all’urbanistica che, in fondo, non è mai riuscita a guidare le trasformazioni del nostro territorio?

«Non sono d’accordo. L’urbanistica che si sta praticando a Napoli, per esempio, è esattamente quella prevista dal prg e che riscuote un consenso vasto, a cominciare dai costruttori. Alcune scelte di fondo, per esempio il blocco dell’edificazione nelle zone non urbanizzate, sono state rispettate. E posso citare tanti altri esempi positivi in tutta Italia.»

Forse allora c’è un problema di attuazione dell’urbanistica. Lei parlava del prg di Napoli, varato quando era assessore comunale all’Urbanistica. Ma il recupero dell’area di Bagnoli, prevista da quel disegno, non è mai partito.

«Vero, ma almeno non si è realizzato nulla di diverso o di sbagliato. Semplicemente, non si è fatto nulla: solo la bonifica si trascina da lustri. Probabilmente è fondato e legittimo sospettare che gli appetiti su quell’area siano altri. Ma per ora possiamo registrare solo un clamoroso ritardo.»

Secondo l’assessore all’Urbanistica di Roma Marco Corsini, l’amministrazione pubblica in Italia ha sempre inseguito gli interessi privati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Che ne pensa? E quanto pesa la possibilità di destinare alla spesa corrente comunale gli oneri di urbanizzazione, vero grimaldello per la messa a reddito del territorio?

«Pesa moltissimo, su quest’ultimo punto siamo tutti d’accordo: è stata una sciagura. In urbanistica però non hanno sempre prevalso gli interessi privati. Sicuramente da vent’anni sono prevalenti, ma in passato sono state scritte pagine splendide di contrasto alla rendita fondiaria. Si pensi all’Appia antica, 2.500 ettari lottizzati di proprietà del Vaticano e del generone romano sottratti alla speculazione edilizia da una decisione politica. Ecco, sarebbe importante ripercorrere la storia recente delle nostre città, anche negli atenei. Nessuno oggi ricorda quella vicenda, che maturò in anni difficili, durante il sacco edilizio del paese. Eppure fu una battaglia vinta. Così come vinsero a Firenze Edoardo Detti e a Bologna Giuseppe Campos Venuti, gli assessori all’Urbanistica che bloccarono l’edificazione sulle colline. Lotte costate lacrime e sangue, ma ne valeva la pena. Sa perché quelle aree furono salvate e il Vomero, Posilippo o Monte Mario no? Perché furono oggetto di politiche diverse. Che ancora oggi, in fondo, sono possibili.»

Il disegno è di Paolo Bacilieri

(il testo è oggi ripubblicato anche in Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85)

La guerra agli alberi che fiancheggiano le strade italiane non si farà più, o almeno sarà condotta con criteri meno micidiali di quelli impiegati finora. Una circolare firmata dal ministro dei Lavori Pubblici e inviata all’ANAS, alle province ai comuni, alle prefetture e ai vari ministeri interessati mette un freno agli indiscriminati abbattimenti e prescrive le norme per garantire la “salvaguardia del patrimonio arboreo in rapporto alla sicurezza della circolazione”: non solo, ma per la prima volta in un documento ufficiale si parla della necessità di realizzare, anche nelle strade di nuova costruzione, un vero e proprio “paesaggio stradale”.

La condanna degli alberi era stata annunciata alla conferenza di Stresa del 1959, e la strage segnò la massima punta tra il 1962 e l’inizio del 1965: più di centomila alberi tagliati di cui oltre 23.000 solo negli ultimi mesi del ’64. La strage avrebbe dovuto estendersi ai settecentomila alberi esistenti lungo i trentaseimila chilometri di strade statali a partire dall’agosto del ’64, quando l’ANAS decise di eliminare quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e ameno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto risparmiando un albero ogni trenta metri. Fu quello il momento in cui l’ANAS mostrò tutta la sua arretratezza tecnica: da un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida.

Fin dal 1959, infatti, il presidente dell’Automobile Club aveva dichiarato che, in base a un’indagine su settemila chilometri di strade statali, “solo in pochissimi casi si era potuto identificare nell’albero la causa vera e propria dell’incidente”. Nel 1961 “Medicina sociale” riportava una statistica in base alla quale gli urti contro ostacolo fisso (tra cui gli alberi) risultavano pari all’1,8 per cento del totale degli incidenti. Alla conferenza di Stresa del 1964 veniva reso noto che, su settemila incidenti del 1960, gli urti contro ostacolo fisso erano apri ad appena lo 0,8 del totale. L’anno dopo “Italia Nostra” calcolava che nel 1963 gli urti contro ostacolo fisso non avevano superato il 4 per cento degli incidenti: infine, da una statistica della polizia stradale risultava che nel 1964 gli urti contro alberi erano pari al 2,13 per cento del totale degli incidenti.

L’albero appariva dunque come l’ultimo elemento da prendere in considerazione nella casistica degli incidenti le cui cause vere, come è ovvio, risiedono nell’incoscienza dei guidatori e nell’imperfezione tecnica delle nostre strade. Ci si domandava infatti che senso avesse prendersela con gli alberi, quando si tollerava la presenza, ai lati delle strade, di paracarri, pali, muri di cinta, fossati, cunette e l’assenza di fasce di rispetto, di aree di parcheggio e riposo, di corsie pedonali, e via dicendo; quando nessuna norma urbanistica vieta ancora il sorgere di costruzioni a tre metri dal ciglio, così che le strade statali si trasformano in strade urbane, moltiplicando all’infinito le possibilità di incidenti. E ancora: quale diritto aveva l’ANAS di prendersela con gli alberi lungo le vecchie strade, quando sulle stesse autostrade di nuova costruzione si era incapaci di adottare efficaci misure di sicurezza, come dimostrano le scarpate dei rilevati, la collocazione dei pilastri dei viadotti, la minima misura dello spartitraffico, il più stretto d’Europa, causa di continue, mortali fuoriuscite a sinistra?

D’altra parte si sottolineava la funzione positiva delle alberature: esse sono un invito alla moderazione della velocità, stimolano l’attenzione contro la sonnolenza, favoriscono la “guida ottica” (mostrano cioè a distanza e in anticipo l’andamento e il tracciato della strada), formano un ambiente vario e riposante, evitano i “colpi di luce”, causa di disturbi di vario genere.

Indifferente alle statistiche e al parere degli esperti, l’ANAS tirava diritto. Organizzò anche, nel corso delle periodiche rilevazioni del traffico nazionale, uno strano referendum fra gli automobilisti, distribuendo una scheda con tre domande: gli alberi sono un elemento di pericolo? costituiscono un elemento paesaggistico essenziale? desiderate che siano eliminati? E fece gran caso del fatto che il 56 per cento aveva risposto affermativamente alla prima, il 51 per cento negativamente alla seconda, e il 54 per cento affermativamente alla terza. Si trattava però di un referendum senza senso: il problema era stato posto in maniera rozza, presentato senza alternative e in modo da sollecitare la risposta desiderata; né poteva essere altrimenti, dal momento che era stato indetto da chi era interessato a una determinata soluzione, anziché da un ente neutrale e specializzato in sondaggi di pubblica opinione. Restava dunque ancora da dimostrare quale fosse l’atteggiamento degli automobilisti nei confronti degli alberi: l’unico referendum attendibile era stato promosso dalla rivista “L’Automobile” nel 1962, e si era risolto, tra la sorpresa generale, con la maggioranza di risposte favorevoli alla conservazione degli alberi; e così un successivo sondaggio fra i soci del Touring Club. Come dire che la gente comune, in certi casi, è assai meglio di tanti persuasori occulti e palesi.

Finalmente, preoccupato delle dimensioni che il fenomeno andava assumendo e delle proteste sempre più energiche degli enti di cultura, alla fine del 1964 il ministro Mancini nominava una commissione, della quale facevano parte anche urbanisti e paesaggisti, col compito di studiare il problema con argomenti che non fossero soltanto le seghe a motore dell’ANAS. Si dovette arrivare al marzo del 1965 perché venisse preso l’ovvio provvedimento della sospensione di tutti i tagli in attesa che la commissione concludesse i suoi lavori: le vecchie abitudini contratte dall’ANAS negli anni facili costituivano un serio ostacolo, e la fissazione di tagliare gli alberi ebbe la sua parte nei motivi che portarono, nel novembre di quell’anno, all’allontanamento del direttore generale Giuseppe Rinaldi.

I lavori di quella commissione hanno portato alla circolare cui abbiamo accennato in principio. In essa si parla, come di cosa essenziale, del rispetto per “le alberature, i boschi, la flora esistenti”, e si mette in rilievo la necessità di “assumere un più sensibile atteggiamento” di fronte ai problemi del paesaggio. Il taglio degli alberi viene considerato come un’eccezione, da limitare “ai soli casi strettamente necessari” (per lavori di sistemazione e adeguamento di “tratti” stradali, per ragioni di visibilità presso gli incroci, curve, passaggi a livello ecc.), mentre si riconosce, “per altrettanto validi motivi”, cioè per il loro “interesse culturale”, l’esigenza di salvaguardare i complessi arborei esistenti. Il taglio, in quei “casi strettamente necessari”, viene sottoposto a una serie di controlli per cui l’ente proprietario è tenuto a chiedere il parere della Soprintendenza, dell’Ispettorato forestale, dell’Ente provinciale del turismo, dell’osservatorio fitopatologico, ecc. Si raccomanda il trapianto degli alberi rimossi, si accenna a servitù ed espropri di terreni in fregio alle strade, si raccomanda alle amministrazioni di prevedere nei bilanci stanziamenti per “sostituzione, reintegro o impianto di piantagioni”. Per le strade di nuova costruzione, si esigono progetti dettagliati e si danno le norme per le distanze minime, a seconda del tipo di strada e delle piantagioni da sistemare.

È, in sostanza, la prima volta che l’autonomia dell’ANAS viene sottoposta a una serie di controlli; e che la creazione del paesaggio stradale viene considerata un elemento integrante della progettazione, come da gran tempo avviene in tutti i paesi civili. C’è tuttavia da rammaricarsi di tre lacune: primo, manca una disposizione che, in caso di necessario allargamento della strada, obblighi, in linea di principio, alla conservazione dei filari e alla creazione di una carreggiata interamente nuova; secondo, la scelta dei casi “strettamente necessari” è ancora lasciata all’ANAS e quindi soggetta agli umori dei suoi funzionari, anziché a un organismo permanente, culturalmente e tecnicamente preparato; terzo, non si fa cenno alla funzione che le vecchie strade devono svolgere nel quadro della viabilità nazionale: è chiaro che nell’età delle superstrade e delle autostrade, le vecchie vie alberate non sono più fatte per le grandi velocità e le lunghissime percorrenze, ma devono servire ai traffici locali, o trasformarsi gradatamente in strade turistiche; di qui, ancora una volta, l’inutilità, anzi il danno, dell’abbattimento degli alberi. Comunque sia, siamo lontani dai tempi in cui l’ANAS annunziava “la sistematica abolizione delle alberature poste ai margini delle strade” e pensava di importare dalla Malesia alberi “elastici”.

Nota: su eddyburg a proposito della sentenza 2011 sul Codice della Strada che imporrebbe di eliminare gran parte delle alberature stradali italiane si vedano anche l'articolo di Fabrizio Bottini e quello di Alberto Cudstodero dal Corriere della Sera

I promotori dell'appello per il ritiro del libro con scritti su Milano e la Lombardia di Antonio Cederna, gravemente lesivo del suo pensiero, prendono atto con soddisfazione dell'accoglimento da parte della casa editrice Electa della richiesta, avanzata in primo luogo dai figli di Cederna, sostenuta e confortata da un gruppo altamente qualificato di amici e di estimatori. Che ringraziano sinceramente. E' il primo importantissimo passo di una battaglia a sostegno delle idee di Antonio Cederna che, come dimostra il degrado del territorio lombardo, restano più che mai attuali.

A seguito delle numerose richieste pervenute (fra le altre, Rosellina Archinto, Cini Boeri, Giuseppe Giulietti, Federico Orlando), l’appello continuerà ad essere aggiornato ed è consultabile su eddyburg.it.

Il Comitato Promotore: Maria Pia Guermandi, Marina Foschi, Andrea Emiliani, Pier Luigi Cervellati, Vittorio Emiliani, Roma - Bologna, 14 gennaio 2011

Corriere della Sera

Appello contro un libro su Antonio Cederna. Electa lo ritira

di Stefano Bucci

L’ annuncio arriva a tarda sera: Electa ha deciso di interrompere da oggi la distribuzione del volume dedicato a Antonio Cederna (Scritti per la Lombardia, pp. 238, e 15) curato dal Consiglio regionale lombardo (da poco presieduto da Luigi Santambrogio). Una decisione che precede il faccia a faccia tra i vertici di Italia Nostra, a cominciare dalla presidente Alessandra Mottola Molfino, in programma per domani a Roma nell’ambito del Consiglio nazionale. Da oggi dunque il libro, contestato dagli eredi e da un gruppo di intellettuali riuniti in un appello, non verrà più distribuito mentre per il ritiro dalle librerie «ci vorrà ancora qualche giorno» . Il caso Cederna comincia con la pubblicazione a fine anno di un libro, che raccoglie gli scritti di Antonio Cederna dedicati alla Lombardia, fin da subito bocciato dai figli (Giulio, Camilla e Giuseppe) del giornalista, ambientalista, politico nonché per quarant’anni una delle anime di Italia Nostra. Che hanno parlato, in una lettera alla presidente di Italia Nostra e all’amministratore delegato di Electa Martin Angioni, di un «pensiero» che in quelle pagine «viene sventrato, demolito, raschiato» .

«Nessuno può permettersi di appropriarsi impunemente della sua opera e farla a pezzi» concludevano, mentre veniva lanciato un appello «per la difesa di Antonio Cederna e di quello per cui ha lottato tutta la vita» firmato da un gruppo di intellettuali (al momento sono 62): da Alberto Asor Rosa a Leonardo Benevolo, da Pier Luigi Cervellati a Adriano La Regina, da Nicola Spinosa a Corrado Stajano. Anche loro «convinti che la critica, anche radicale, del pensiero è esercizio legittimo e incoercibile » ma «la distorsione e falsificazione per ignoranza, incapacità o faziosità, non lo è affatto» . A farli irritare, in particolare, due frammenti della prefazione al volume: uno firmato dall’urbanista Luigi Mazza, di fatto una recensione critica del 1992 al libro di Cederna Brandelli d’Italia «riproposta senza un aggiornamento, una nota» , dove Mazza scriveva: «L’importanza e il valore dei suoi contributi non sono da cercare nella congruità delle sue affermazioni tecniche ma nella radicalità delle sue prospettive» . E quello dell’architetto Alberto Ferruzzi, da quarant’anni tra le anime di Italia Nostra, dove in forma di lettera aperta si legge: «Caro Antonio, come vedi alcune tematiche permangono: la paura dei grattacieli e i parchi archeologici, la mancanza di riguardo per la facies di Milano e purtroppo la mancanza di approfondita informazione storica in chi conduce le battaglie per la tutela dei beni monumentali usando strumentalmente la loro tutela; l’esempio del parcheggio di Sant’Ambrogio docet».

Quasi un (cattivo) esempio delle ultime battaglie di Italia Nostra. Le reazioni non si erano fatte aspettare. Mottola Molfino si è «dissociata» , definendo il libro «un’iniziativa personale del presidente della sezione Lombardia» , «un’operazione editoriale che non potrà che non incontrare la nostra ferma critica» . Il presidente della Lombardia Santambrogio si è giustificato: «Non volevamo solo commemorare Cederna, ma stimolare un confronto dialettico sulla contemporaneità» . Stessa linea per Alberto Ferruzzi che, amareggiato, nega ogni volontà denigratoria: «Per carità. Cederna è stato uno dei padri fondatori di Italia Nostra. Volevamo dimostrare come le idee possono essere diversamente valutate» . Poi Electa: «La nostra casa editrice — dice Angioni — ha un contratto con Italia Nostra Lombardia che contiene le liberatorie per i diritti di pubblicazione degli scritti di Antonio Cederna comparsi nel volume Scritti per la Lombardia e i responsabili della sezione lombarda di Italia Nostra ci avevano garantito che gli eredi erano al corrente dell’operazione e che l’avevano approvata. Ora scopriamo che non è così. Ce ne scusiamo con gli eredi e ci riserviamo di tutelare i nostri interessi rispetto a Italia Nostra Lombardia» . Poi la decisione di «chiudere la partita» interrompendo subito la distribuzione.

L’appello con l’elenco aggiornato delle adesioni su eddyburg

Il 16 ottobre 2010, in occasione dell’incontro di studio a Venezia “Luigi Scano (1946-2007). Politica, ambiente, territorio”, importanti riflessioni hanno riportato alla memoria la competenza e la sensibilità di un urbanista sul campo, che ha dato molto a Lamezia circa tredici anni fa, rivestendo un ruolo significativo nella stesura delle norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale approvato nel 1998.

Scano, uno dei massimi esperti della disciplina urbanista che, come era accaduto nel 1986 in questa città all’architetto Bruno Zevi, è stato maltrattato dalla componente sociale lametina più agguerrita e collusa con l’affarismo edilizio. Non fu mai un tecnico asservito alla politica, e quindi pronto a sottoscrivere qualunque scelta politica e ogni tipo di operazione. “Il suo – ha scritto Vezio De Lucia – fu un atteggiamento non consueto nel mondo professionale, che spesso lo indusse a interrompere la collaborazione con amministrazioni di cui non condivideva gli obiettivi”. Scano non si è risparmiato, invece, quando ha dovuto collaborare con il sindaco di Eboli impegnato contro la speculazione malavitosa e per aver demolito dal 1998 al 2000 ben 450 costruzioni abusive. Un intellettuale con queste coordinate a Lamezia non poteva che subire contestazioni: e così è stato, anche negli anni dell’antimafia parolaia. Le “sue” norme tecniche di attuazione del Piano regolatore sono state bistrattate come lo è stato lui, più laureato sul campo dei tanti laureati sulla carta.

La sua impostazione intellettuale e tecnica si richiamava a principi fondamentali dello “stato di diritto” e al carattere assolutamente eccezionale dell’istituto della “deroga”. Di fatto, l’attuazione del Piano regolatore di Lamezia ha seguito un percorso completamente diverso, andando contromano rispetto alla stessa direzione del principio sostenuto anche dalla Corte dei conti in materia di opere pubbliche: “è di tutta evidenza che la localizzazione di opere pubbliche, al di fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e alcune volte anche contro le scelte fondamentali poste a base della pianificazione, produce la crisi della strumentazione urbanistica e mette in dubbio la stessa ratio insita nella pianificazione relativa agli usi e alle trasformazioni del territorio”.

Il principio che alimentava l’azione di Scano era chiaro: “i soggetti pubblici competenti al governo del territorio (concretamente: i detentori del potere decisionale) non possono assumere determinazioni caso per caso, ma sono tenuti a collocare ogni determinazione in strumenti regolativi complessivi (per l’appunto, gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica), da formarsi secondo procedure regolari, trasparenti (cioè conoscibili, controllabili e giudicabili dai cittadini, nonché dalla magistratura) e partecipate (potenzialmente dalla generalità dei cittadini). E la giurisprudenza ha chiarito che gli atti della pianificazione territoriale e urbanistica sono sindacabili dalla magistratura, oltre che per vizi procedimentali, anche nel merito, ma ciò esclusivamente – preminente restando per il resto la discrezionalità (da non confondersi con l’arbitrio) tecnica, politica e amministrativa dei pianificatori –, sotto il profilo della manifesta illogicità e contraddittorietà, ovvero per irragionevole disparità di trattamento”.

Perciò di Luigi Scano rimane un ricordo indelebile. Anche per quel profondo senso di giustizia che animava il suo operato e che lo vedeva – con le dita ingiallite dalle gauloise, ma con la coscienza chiara – pronto a credere che laddove il governo del territorio fallisce tocca alla magistratura fare chiarezza su quei sistemi di potere che offendono la legge e gli ultimi, che sono fuori dai circuiti clientelari: soprattutto per l’importanza sociale ed educativa che ha il rispetto delle regole.

L’urbanistica fu la grande passione di Gigi. Di urbanistica si è occupato sempre, fin da giovanissimo. Credo che abbia cominciato dopo l’alluvione del 1966 quando, per conto del Pri, cominciò a seguire i lavori parlamentari della legge speciale, che sarà approvata nel 1973, e poi, soprattutto, partecipando alla complessa vicenda dei piani particolareggiati del centro storico di Venezia, di cui ha già dato conto Eddy Salzano. Si occupò di urbanistica da tutti i punti di vista. Un impegno inscindibile dall’altra grande passione della sua vita, quella per la politica.

Solo per comodità, espongo il mio intervento secondo i seguenti punti:

- esperienze di pianificazione

- Gigi “legislatore”

- Gigi studioso.

Esperienze di pianificazione

Mi riferisco a quelle condotte personalmente, nella qualità di urbanista.

E qui, secondo me, è necessaria una parentesi per affrontare la questione della qualificazione professionale di Gigi. Sono convinto che gli spetti a pieno titolo la qualifica di urbanista. Della materia urbanistica sapeva tutto. Non solo relativamente al diritto, alle leggi, alle norme, aspetti legati ai suoi studi giuridici, ma era anche padrone delle componenti tecniche e specialistiche spesso più e meglio dei laureati in discipline (architettura, ingegneria) direttamente attinenti all’organizzazione del territorio. Non so se esiste l’istituto della laurea honoris causa alla memoria, propongo comunque ai presenti – e in particolare ai docenti dell’Iuav – di attivarsi in proposito. A Gigi è dovuto. Sapete quanto soffriva per non essere laureato.

Ritorno alle esperienze di pianificazione che lo videro attore protagonista. Cominciando da Venezia e dalla laguna, realtà che nessuno conosceva come lui – dalla storia all’idraulica, dalla letteratura all’arte, all’economia – e alla quale ha dato il meglio di sé. Del rapporto di Gigi con l’urbanistica veneziana ha trattato Salzano e altre volte ne ha raccontato Edgarda Feletti.

Per quanto mi riguarda, mi limito a ricordare che Gigi collaborò, dal 1977 al 1980, alla formazione del piano comprensoriale di Venezia e della sua laguna, piano che avrebbe dovuto disegnare il futuro di quell’area, armonizzandone, come previsto dalla legge, la salvaguardia ambientale e paesaggistica con la vitalità socio-economica. Per la formazione del piano comprensoriale fu istituito un apposito ente (espresso dalla regione Veneto, dal comune di Venezia e da 15 comuni dell’entroterra), presidente Antonio Casellati. Gigi fu l’anima e il cuore di quell’esperienza. Merita di essere conosciuto in particolare il lavoro da lui condotto per far conoscere e riproporre le idee, le virtù e i valori che avevano guidato nei secoli l’esperienza della Repubblica: la centralità del sistema lagunare; l’unitarietà dello spazio litorali-laguna-entroterra; il carattere “demaniale” delle risorse territoriali. Devo anche ricordare che, grazie proprio alla competenza di Gigi e alla sua inesauribile capacità di lavoro, il piano comprensoriale fu redatto in meno di due anni, in una situazione di permanente instabilità politica. Ma finì in un cassetto, perché sgradito al potere, specialmente a Gianni De Michelis, allora il più autorevole esponente politico veneziano.

Una data importante nella vita di Gigi è il 1987 quando, lasciato il mondo della cooperazione, affrontò con irriducibile entusiasmo una faticosa e difficile attività di libero professionista. Da allora lo troviamo componente di gruppi di lavoro incaricati di preparare piani urbanistici. A lui spettava di curare la stesura delle norme tecniche di attuazione ma, per le ragioni dette prima, per le sue sterminate conoscenze e per la passione che lo animava, finiva con l’assumere un ruolo decisivo nell’intero processo di pianificazione. Resta comunque insuperato il suo magistero nella stesura delle norme, Gigi è stato forse l’unica persona al mondo che ha vissuto (in verità, poco e male) scrivendo gli apparati giuridici dei piani urbanistici.

Dal 1994 ha collaborato con il comune di Napoli. Quando fui amministratore della città, chiesi subito aiuto a Gigi, che si dedicò con fervore a un lavoro oscuro, faticoso, ma determinante per l’urbanistica partenopea. Dimostrò, insieme alle capacità già note, un’attitudine sorprendente e commovente a farsi carico di tutto. Stava a Napoli spessissimo, stabilì rapporti di eccellente collaborazione con i pochi, bravissimi, funzionari e operatori con i quali cercavamo di andare avanti. Devo almeno citare il suo impegno per il nuovo piano regolatore al quale si dedicò senza risparmio, curando specialmente la disciplina del centro storico, alla quale contribuì poi anche Edgarda Feletti, che portò a Napoli l’esperienza maturata nella formazione del piano della città storica di Venezia.

Impossibile qui dar conto della sua vastissima attività professionale, dal piano paesistico dell’Emilia Romagna – di cui fu l’ispiratore e l’artefice fondamentale – ai piani regolatori di Pisa, Positano, Eboli, Carpi, Duino Aurisina, Imola, Sesto Fiorentino, Lastra a Signa, ai piani provinciali di Salerno, La Spezia, Lucca, Pisa, Foggia, al piano di assetto del parco regionale di Veio. Ed è un elenco certamente incompleto. In alcuni casi si fece personalmente carico addirittura di elaborazioni tecniche specialistiche, come nel caso della disciplina del centro storico di Lastra a Signa con il metodo dell’analisi e della classificazione tipologica degli immobili.

Ma non fu mai un tecnico asservito alla politica, e quindi pronto a sottoscrivere qualunque scelta politica e ogni tipo di operazione. Il suo fu un atteggiamento non consueto nel mondo professionale, che spesso lo indusse a interrompere la collaborazione con amministrazioni di cui non condivideva gli obiettivi. Mentre, al contrario, moltiplicava la passione per il lavoro quando la committenza pubblica condivideva le sue stesse concezioni politiche e culturali. Al riguardo non va dimenticato lo straordinario rapporto politico e umano che Scano stabilì con Carlo Moscardini, sindaco di Lastra a Signa e con Gerardo Rosania, sindaco di Eboli, noto per aver lottato senza tregua contro la speculazione malavitosa e per aver demolito, dal 1998 al 2000, ben 450 costruzioni abusive nella pineta demaniale, lungo la costa, superando difficoltà immani. Ancora recentemente, in un convegno pubblico, a Napoli, in occasione dell’orrendo disegno di legge della regione Campania sul piano casa, Rosania ha ricordato l’importanza che ha avuto Gigi nelle sua esperienza di amministratore.

Gigi “legislatore”

Comincio dall’Inu. Come sapete, Gigi si occupò a lungo dell’Istituto nazionale di urbanistica nel cui consiglio direttivo nazionale fu eletto nel 1980 e confermato per oltre un decennio, svolgendovi un ruolo centrale, come coordinatore della commissione giuridica e quindi autore delle successive proposte di legge dell’Inu sull’urbanistica o, più precisamente, sul regime degli immobili. All’inizio degli anni Novanta, quando l’istituto cominciò a spostarsi su posizioni sempre più lontane da quelle che avevamo contribuito a definire negli anni precedenti e che infine fu indotto a collocarsi accanto alla destra di Berlusconi, Gigi decise di abbandonare l’Inu e di fondare una nuova associazione, “di tendenza”, non appesantita da problemi di gestione e di funzionamento. Nacque così, nel marzo del 1992, l’associazione Polis Insieme a Gigi, fondatori furono Roberto Badas, Silvano Bassetti, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Walter Tocci, Mariarosa Vittadini.

Gigi fu subito eletto segretario, con poteri sostanzialmente monocratici. In effetti, per un lungo periodo, condusse l’associazione quasi da solo, scrivendo centinaia di documenti, appelli alle autorità, denunce, comunicati stampa. Ma soprattutto Gigi dispiegò in Polis, in assoluta e indiscussa libertà, la sua tormentata attitudine a produrre testi di legge. Non smise mai, fino alla fine, di proporre norme di riforma urbanistica, a scala nazionale e regionale, testi talvolta ripresi da parlamentari ambientalisti e di sinistra.

Credo che sia giusto ricordare il testo della Proposta di legge in materia di governo del territorio presentata a Venezia nell’ottobre del 1992 in occasione del convegno sui cinquant’anni della legge urbanistica. Una proposta organica, terribilmente completa (96 articoli), che va dalle competenze dello Stato in materia di tutele (dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio: è di Gigi questa formula che avrà una meritata fortuna), al riordinamento dei ministeri, dalle competenze delle regioni e degli enti locali al contenuto del diritto di proprietà, dalle espropriazioni alla riforma del regime tributario degli immobili. Insomma, un pezzo della riforma dello Stato. Le oltre 100 pagine della relazione sono un repertorio non solo di conoscenza storica, ma di sapienza riformatrice, alla quale si può continuare ad attingere.

Anche per conto di Italia Nostra Gigi elaborò proposte di riforma legislativa, negli anni della presidenza di Desideria Pasolini dall’Onda. Importante soprattutto l’articolato di legge da lui curato relativo alla Tutela dello spazio agricolo e naturale predisposto all’inizio del 2005 a conclusione di un ciclo di iniziative dell’associazione sul paesaggio agrario. Obiettivo del disegno di legge era lo stop al consumo del suolo, e allora l’argomento era del tutto inedito.

La proposta, molto in sintesi, è basata sulla necessità di riconoscere qualità di bene culturale al territorio non urbanizzato, sia esso in prevalente condizione naturale sia destinato alla produzione agricola o forestale, inserendolo nella lista delle categorie di beni tutelati della legge Galasso.

L’amore per il diritto e la sua indiscussa capacità a elaborare testi legislativi (contribuì tra l’altro, sotto varie forme, alla predisposizione di leggi urbanistiche regionali per l’Umbria, la Toscana, il Lazio, il Veneto) portarono Gigi a collaborare con Antonio Cederna, parlamentare della sinistra indipendente dal 1987 al 1992. “Licurgo, il legislatore” così Cederna definì Gigi, che lavorò con lui a due leggi fondamentali: sulla difesa del suolo e su Roma capitale. Lo stesso Gigi ne ha dato conto nel suo contributo al volume Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, del 2007. È l’ultimo suo scritto importante ed è una preziosa testimonianza dell’operativo sodalizio che si era stabilito fra loro. Gigi dà conto anche della proposta di legge Cederna del 1991 per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna, che però non riuscì neppure a iniziare l’iter parlamentare, e si dispiace di non aver condiviso il favore di Cederna per la legge del 1991 in materia di aree protette. Soprattutto Gigi contestava, e a ragione, la prescrizione che i piani di assetto delle aree protette siano sostitutivi (sostitutivi, non prevalenti) di ogni altra forma di pianificazione: con la conseguenza inammissibile che le decisioni di istituzioni elettive – consigli provinciali e comunali, per esempio – possono essere azzerate da quelle di organi elettivi di secondo grado.

Gigi studioso

Lascia due libri, rispetto ai tanti che poteva scrivere: accanto a Venezia: terra e acqua, un altro libro scritto insieme a Filippo Ciccone, I piani paesistici. Le innovazioni dei sistemi di pianificazione dopo la legge 431, del 1986 (prima edizione) e 1988 (seconda edizione rivista e ampliata). Gigi curò gli aspetti legislativi, di storia della legislazione e di giurisprudenza costituzionale. Resta incompiuto un lavoro ampio e documentato, reperibile su eddyburg, titolato I beni ambientali e il paesaggio nell’evoluzione della legislazione italiana che ricostruisce le vicende della tutela del paesaggio dalla legge sulle bellezze naturali del 1912 fino al testo unico dei beni culturali del 1999, con un’accurata rassegna della legislazione regionale.

Si pone qui la questione delle carte di Gigi. I suoi scritti in materia di urbanistica sono abbastanza noti anche perché elaborati nell’ambito di gruppi di lavoro e di attività collettive. Molto meno note, o addirittura sconosciute, le carte di Gigi politologo. In altra occasione ho citato la relazione tenuta nel 2000 a un convegno a Eboli per conto di Polis su “Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale”, la cui prima parte – tutta di riflessioni politiche che spaziano dalla globalizzazione alla crisi della politica progressista – mi disse che era la sintesi di un testo molto più ampio al quale stava lavorando.

Concludo con un ricordo personale. Gigi, orgoglioso di essere repubblicano storico, con una punta di civetteria si definiva girondino. Poco più di venti anni fa, in occasione del duecentesimo anniversario della Rivoluzione francese, il quotidiano la Repubblica pubblicò dei pregevoli inserti che celebravano l’evento. Storie e cronache erano accompagnate da un’intervista di Lucio Caracciolo allo storico Lucio Villari. A un certo punto, Caracciolo chiede quali erano le radici del pensiero di Robespierre, le coordinate della sua missione politica, e Villari risponde che il principio che fa da perno al pensiero del grande rivoluzionario francese, è il seguente: “Il buon governo consiste nella soggezione dell’interesse privato a quello pubblico”. E Villari aggiunge: “È questo, solo questo, il fondamento della democrazia moderna”.

Verificai allora che Gigi la pensava come Robespierre. È sempre stato un giacobino …

Faccio parte, come molti ambientalisti nati tra gli anni 1960 e 1970, di quella generazione che ha costituito l’ambientalismo “moderno”, “verde” o “politico” che dir si voglia, che va oltre al pur meritorio protezionismo naturalistico e architettonico, per sposare le grandi cause ambientaliste nazionali e internazionali, e che trova un immediato riscontro nei movimenti che nascono più o meno spontaneamente al di fuori dei tradizionali partiti politici. Era un movimento variopinto caratterizzato da una intransigenza di fondo, “senza se e senza ma”, confortata dai crescenti segnali d’allarme che provenivano dal mondo scientifico confermando le più fosche previsioni sullo stato di salute del pianeta. Negli anni ’80 eravamo un movimento principalmente “contro”: contro l’energia nucleare (grazie anche alla tragedia di Chernobyl), contro la deforestazione, contro la caccia e l’abuso dei pesticidi in agricoltura, contro il crescente traffico automobilistico, contro l’industrialismo e il consumismo. Molti iniziarono la militanza ambientalista in grandi associazioni internazionali, come il WWF o Greenpeace, o in associazioni nazionali, come la Legambiente, allora politicamente collocata a sinistra, dove mi iscrissi nel 1986. Ben presto l’influenza di esponenti ambientalisti di varia collocazione politica provenienti da un comune ceppo democratico-progressista (Barry Commoner su tutti) e soprattutto marxista e postmarxista (James O’ Connor, André Gorz, Laura Conti, Enzo Tiezzi, Paolo Degli Espinosa, Virginio Bettini, Gianni Mattioli e Massimo Scalia), spinsero molti giovani militanti a pensare oltre alle grandi questioni nazionali e internazionali, e a guardarsi attorno e cogliere le esigenze dell’ambiente calpestato che li circondava e in cui vivevano. Divenne naturale il confronto con le associazioni e i movimenti locali «autoctoni», che spesso nascevano dalle ceneri dell’esperienza politica territoriale della nuova sinistra degli anni ’70.

A Venezia fu inevitabile il confronto politico, non sempre pacifico, tra le associazioni nazionali e i gruppi locali con coloro che sentivamo più vicini: Gianfranco Bettin e Michele Boato, tra i fondatori nazionali delle Liste Verdi, e precursori all’interno di Lotta Continua del nuovo movimento ambientalista degli anni ’80; con Democrazia Proletaria, piccolo ma combattivo partito comunista rivoluzionario; e in misura minore con il Partito Radicale (allora ambientalista) e con singoli esponenti del PCI, in massima parte ingraiani come Cesco Chinello e Paolo Cacciari.

Contemporaneamente all’inevitabile, e a volte fastidioso e conflittuale, confronto politico i giovani ambientalisti si videro “costretti” ad ampliare il proprio raggio d’interesse, azione e conoscenza sulle condizioni ambientali del proprio territorio e, soprattutto, su chi se ne occupava da anni anche dal punto di vista tecnico-scientifico. Oltre ai corsi dell’ “Università Verde”, una grande influenza ebbero “Urbanistica Democratica” e soprattutto Stefano Boato che, spendendosi in mille incontri e riunioni, ci svelò i misteri pratici dell’urbanistica, dei piani regolatori, del traffico, dell’edilizia a una giovane generazione spinta verso l’ambientalismo dall’emergenza nucleare. La scoperta dell’importanza dell’urbanistica spinse alla conoscenza degli scritti e degli studi di altri grandi urbanisti veneziani (o veneziani d’adozione): Edoardo Salzano, Andreina Zitelli, Maria Rosa Vittadini, necessari per comprendere che l’azione del militante ambientalista non doveva fermarsi all’ovvio, cioè a promuovere la raccolta differenziata, la tutela del verde pubblico, l’educazione ambientale, ma che doveva affrontare tutte le problematiche inerenti al territorio e all’insediamento urbano e alla sua gestione, e a inseguire, prevenire, contrastare i progetti speculativi e dannosi per il paesaggio, l’ecosistema e la vita dei cittadini.

Questo «viaggio a ritroso» nel tempo portò molti giovani ambientalisti a conoscere e collaborare con Medicina Democratica e con l’Agenzia di Informazione Coorlach che da anni conducevano una serrata politica di controinformazione contro le produzioni tossiche e per la salute dei lavoratori all’interno e all’esterno del Petrolchimico di Porto Marghera, eredi delle lotte operaie per la salute degli anni ’70, collaborando ben presto con Franco Rigosi, Luciano Mazzolin e, soprattutto, di Gabriele Bortolozzo, primo obiettore alle produzioni chimiche, protagonista del processo al Petrolchimico che inizierà nel 1998, tre anni dopo la sua tragica scomparsa.

Feci la conoscenza diretta con Luigi Scano per la prima volta in occasione delle varie iniziative intraprese durante la lotta contro l’Esposizione Universale (EXPO 2000) che il socialista Gianni De Michelis assieme al Consorzio Venezia Nuova e vari imprenditori italiani voleva promuovere a Venezia. Scano faceva parte di quella cerchia di tecnici che, grazie a un lavoro indefesso dietro le quinte, riuscirono a contribuire a bloccare il folle progetto, a volte pagando di persona, come avvenne alla sovrintendente Margherita Asso, promossa per esser rimossa da Venezia.

L’influenza di questi tecnici, unitamente ai sopracitati urbanisti fu determinante per dare all’ambientalismo veneziano una dimensione saldamente ancorata alle esigenze del territorio veneziano e della sua popolazione. Scano in particolare ci insegnò l’unicità di Venezia, e la necessità di concepire la sua vivibilità attraverso la sua cultura e le esigenze della popolazione e del territorio di una città che doveva restare viva per non trasformarsi in una Disneyland svuotata dai suoi abitanti, e di tutelare la sua laguna, ambiente unico al mondo, una dimensione definita con disprezzo «localista», se non «leghista» dall’allora presidente di Legambiente Ermete Realacci. Le occasionali, ma attente e precise, chiacchierate con Scano ci fecero comprendere l’importanza insostituibile della pluridecennale esperienza di Italia Nostra per la salvaguardia di Venezia, nonché dell’importanza dell’operato del PRI veneziano e di Antonio Casellati in particolare.

I primi contatti fugaci con Luigi Scano nella veste non di tecnico ma di “militante” li ebbi in occasione di varie iniziative promosse dal Comitato NOExpò nel biennio 1989-1990. Ricordo che dietro l’Expò si celava la costruzione della sublagunare e del progetto di paratoie mobili Mose, progetto quest’ultimo avversato da decenni da ambientalisti, scienziati, intellettuali, politici, amministratori pubblici e tecnici, nonostante la vulgata corrente faccia coincidere l’opposizione al progetto con la nascita dell’Assemblea Permanente NoMose nel 2005!

Scano fece il suo ingresso “ufficiale” nel mondo dell’associazionismo grazie a “Polis”, gruppo fondato proprio mentre infuriava la polemica in città sulla metropolitana proposta dalla Giunta Bergamo nel 1992. Egli ebbe un rapporto diretto, militante all’interno del gruppo “PER.A” (Per altri trasporti lagunari) contrapposto polemicamente al progetto ME.LA: (Metropolitana Lagunare). Scano si impegnò in prima persona per bloccare la metropolitana, e fu tra le poche persone effettivamente determinanti per far accantonare il progetto. In questa occasione molti di noi ebbero l’occasione di conoscerlo meglio tramite alcuni suoi scritti che ci consegnò, dandoci una visione più ampia e complessa di Venezia e della sua laguna. Durante le varie assemblee e incontri avemmo inoltre l’occasione di scoprirne la dimensione umana e cordiale.

Nel dicembre 1994 nei maggiori quotidiani nazionali e in quelli locali comparvero le dichiarazioni dell’allora presidente di Legambiente, Ermete Realacci, a favore del sistema di paratoie mobili MoSE. Il circolo veneziano, presieduto dallo scrivente, contestò a mezzo stampa Realacci. Alle proteste segue la sospensione sine die (leggi: espulsione) del circolo locale. Scano, assieme a Italia Nostra, fu tra i pochi ambientalisti che contestarono la radiazione de facto di Legambiente Venezia.

I sempre più frequenti contatti di Scano con il mondo ambientalista a partire dal 1994 divennero militanza effettiva grazie alla nascita dell’Assemblea Permanente NoMose nel 2005. Dapprima ci seguì timidamente, in maniera defilata durante le prime contestazioni, presidi e assemblee pubbliche, poi si sentì sempre più coinvolto, seguendoci nel nostro peregrinare attraverso le varie sedi da cui eravamo man mano cacciati, fino a diventare una presenza assidua nel 2006 quando fummo ospitati nella sede del circolo del Partito della Rifondazione Comunista di Cannaregio in Fondamenta Ormesini, vicino al Ghetto, a pochi passi dalla sua abitazione in Rio Terà San Leonardo. Scano ci accompagnò nel percorso di trasformazione da associazione informale che rappresentava le associazioni ambientaliste nazionali e locali, e composta anche da singoli individui, docenti universitari, studenti, giovani dei centri sociali, sindacalisti, militanti di Rifondazione Comunista e in misura minore dei Verdi, ad associazione dotata di statuto, regolamento e organi direttivi. Egli fu uno tra i primi a lanciare l’idea della costituzione della “Associazione AmbienteVenezia” che, raccogliendo l’esperienza dell’Assemblea Permanente NoMose, oramai gruppo informale composto nel 2006 in massima parte da cittadini auto-organizzati per affrontare l’emergenza del MoSE, vissuto come scempio della laguna e insulto alle Leggi Speciali per Venezia, di cui proprio Scano era uno dei padri, si proponesse come gruppo organizzato per prendere atto di tutte le osservazioni e le contestazioni al MoSE dal punto di vista giuridico e scientifico, rielaborandole e rendendole pubbliche, accompagnando in maniera tecnica l’attività politica pratica, icoraggiando.

Il 20 novembre 2006 decine di membri dell’Assemblea Permanente NoMose occupano pacificamente il primo piano della sede del Consorzio Venezia Nuova in Campo Santo Stefano a Venezia, protestando platealmente con slogan e striscioni contro il Comitatone che si apprestava a votare il via libera definitivo al MoSE nella riunione a Roma del 22 novembre. Tra gli occupanti più decisi figura Luigi Scano. Nel tardo pomeriggio il cortile interno e l’edificio vengono invasi da agenti di Polizia e carabinieri in tenuta antisommossa. I parlamentari Paolo Cacciari (Rifondazione), Luana Zanella (Verdi) e Felice Casson (Ds) mediano con le autorità per evitare la carica e l’arresto degli occupanti. Nell’assemblea concitata che segue tra i NoMose, Scano si schiera tra chi vuol restare a costo di esser picchiato e arrestato. Alla fine tutti gli occupanti che oppongono resistenza passiva, vengono portati fuori di peso per le scale dagli agenti. Scano è tra gli ultimi a essere trascinato da quattro agenti fuori dall’edificio, e conclude la serata con noi in un bar davanti a un bicchiere di Prosecco, felice come un ragazzo, raccontandoci aneddoti e curiosità storiche e urbanistiche.

Nel corso delle varie assemblee agli Ormesini, bevendo un bicchiere di vino in compagnia prima o dopo le riunioni, raccontava a me e a gli altri, a spizzichi e bocconi, di non aver più fiducia nei Democratici di Sinistra e di averli abbandonati da tempo. Considerava la “Cosa”, la cosiddetta casa della sinistra del PDS degli anni ’90, come un’occasione mancata per costituire un partito di sinistra pluralista che tenesse conto dell’interesse pubblico e non delle esigenze del capitale, e per riportare in auge il vecchio concetto di riformismo degli anni ’60, in cui prevaleva l’interesse pubblico e dello Stato sulle pretese del capitalismo privato. Aborriva il nuovo concetto di riformismo, parola oramai da lui considerata una foglia di fico per coprire e giustificare gli appetiti speculativi e gli istinti predatori del capitalismo finanziario e edilizio, lasciato libero di depredare il territorio, soprattutto nella sua amata laguna. Era molto irritato dall’operazione in chiave di revisionismo storico che si stava attuando attorno alla figura di Gianni Pellicani, dirigente migliorista del PCI veneziano, con cui il PRI di Casellati e Zorzetto ebbero un eccellente rapporto. Pellicani fu molto vicino a Scano il quale, giovanissimo, svolgeva opera di mediazione tra lui e Ugo La Malfa riguardo la redazione della Prima Legge Speciale per Venezia. Egli si lamentava che Pellicani oramai veniva descritto come un fautore ante litteram delle grandi opere, mentre in realtà fu proprio il grande dirigente migliorista a dare il suo contributo ad affossare l’Expò del 1990 e la Sublagunare del 1992!

Scano, parlando in libertà, individuava gli eredi del riformismo, quello a suo dire “vero” di Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa, non tanto nei partiti di sinistra (anche se si stava avvicinando sempre più a Rifondazione Comunista) ma piuttosto nei movimenti di cittadini organizzati che stavano sorgendo in Italia e che reclamavano il rispetto dell’ambiente, della legalità, del territorio, dei bisogni della collettività, dei beni architettonici, del paesaggio. Ci lasciò piacevolmente interdetti quando, in una delle ultime assemblea a cui partecipò, disse ad alta voce “Cari compagni…”!

Uno degli ultimi scritti di Scano è lo statuto di AmbienteVenezia. Dopo mesi di discussioni, egli se ne incaricò della stesura. E ne uscì un manifesto programmatico, più che un atto ufficiale. Una sintesi del suo pensiero, applicata a una realtà militante che ha visto crescere ed evolversi e a cui ha partecipato attivamente, elaborazione a un tempo personale e collettiva, frutto di numerose assemblee e delle riflessioni proprie e altrui, contenente le basi da cui ripartire per agire in maniera più efficace non solo contro il Mose, ma per la salvaguardia di Venezia e del suo territorio, in maniera molteplice innovativa.

AmbienteVenezia fu fondata il 27 dicembre 2007 a casa di Scano, per l’occasione facente funzione di segretario verbalizzatore, un appartamento zeppo di libri, faldoni, quaderni di appunti, riviste, mappe, carte geografiche, progetti, cartelle, agende. Le sedici firme dei soci fondatori furono apposte alle 18.30, dopo aver riscaldato l’ambiente con una decina di bottiglie di Prosecco offerte dallo stesso Gigi, accompagnate da crackers con maionese. Poi tutti in pizzeria, dove si scatenò intrattenendo alcune socie sulle problematiche dell’austromarxismo e dell’occasione mancata di una terza via alternativa al bolscevismo e alla socialdemocrazia!

Avevo preparato una lunga analisi dello Statuto, ma ho preferito tralasciarla e far parlare direttamente Scano attraverso lo statuto da lui redatto.

Articolo 1 (Costituzione)

Al fine di mettere ancora più pienamente a frutto il patrimonio di elaborazioni, contestative e propositive, di partecipazione spontanea di base, di capacità di mobilitazione e di comunicazione, del movimento informale denominato ASSEMBLEA PERMANENTE NO MOSE, fornendogli uno strumento giuridicamente adeguato allo scopo di stabilire rapporti formali con qualsiasi soggetto, pubblico o privato, e di potere agire in giudizio, comunque in continuità con gli obiettivi specifici sinora perseguiti dal suddetto movimento, nonché al particolare scopo di consentire la costruzione, anche formale, di una rete di soggetti che perseguono obiettivi coerenti con quelli perseguiti dal medesimo suddetto movimento […]

Articolo 2 (Finalità e scopi)

1. L’ Associazione AMBIENTEVENEZIA - per la tutela della laguna e dell’entroterra di Venezia persegue le finalità di:

a) promuovere e sostenere le attività di governo del territorio coerenti con gli obiettivi di tutela dell’integrità fisica della laguna di Venezia, del suo avanmare, dei suoi cordoni litoranei, e dell’intero bacino idrografico in essa scolante, nonché dell’identità culturale della stessa laguna, del suo entroterra, e dei relativi insediamenti umani;

b) contrastare ogni scelta, atto, progetto, opera, azione, giudicata contraddittoria, o semplicemente incoerente, con gli obiettivi suindicati.

2. A tali fini, Associazione AMBIENTEVENEZIA - per la tutela della laguna e dell’entroterra di Venezia:

a) promuove, coordina, realizza, autonomamente o in collaborazione con altri soggetti, studi, ricerche, analisi, incontri, seminari, convegni;

b) elabora proposte e definisce documenti valutativi di provvedimenti legislativi, di atti amministrativi, di progetti, di opere, di attività;

c) promuove e realizza, autonomamente o in collaborazione con altri soggetti, pubbliche manifestazioni, dimostrazioni e altre azioni non violente volte a sensibilizzare la pubblica opinione;

d) collabora con altri soggetti che perseguano scopi, anche parziali, coerenti con le sue finalità, nel suo precipuo ambito territoriale di azione;

e) assicura fattiva solidarietà, con o senza intese di reciprocità, ad altri soggetti che perseguano scopi riconducibili a finalità omologhe alle sue, nell’ambito nazionale, europeo, mondiale;

f) svolge attività di comunicazione, con qualsivoglia mezzo tecnico, in relazione alle attività sopra indicate;

g) agisce anche in giudizio a tutela dell'interesse diffuso e collettivo al raggiungimento delle finalità di cui al comma 1, nonché alla regolarità dei provvedimenti comunque attinenti all'area veneziana,

In questi paragrafi è racchiusa tutta l’esperienza urbanistica e politica nonché l’elaborazione dottrinale del riformista di origine repubblicana Luigi Scano: nel “suo” statuto i militanti dell’Assemblea NoMose, provenienti da varie associazioni ambientaliste ma con una forte impronta di sinistra e di estrema sinistra, si sono ritrovati appieno, a conferma dell’attualità della sua concezione radicale della democrazia, della legalità, della trasparenza legislativa e gestionale, del rispetto dell’ambiente e del territorio, dove la natura, l’uomo e la cultura sono un tutt’uno imprenscindibile da difendere dalla ferocia del capitalismo selvaggio e speculativo. L’Associazione AmbienteVenezia farà il possibile per onorare la memoria di Gigi continuando la sua lotta.

Queste note sono il frutto di alcune conversazioni tra me e Antonio Casellati; ad esse si può collegare una lunga intervista, rilasciata da Casellati alla Fondazione Gianni Pellicani, che testimonia con maggior dettaglio alcuni dei passaggi politico-amministrativi del periodo 1967-1990, l’arco di tempo nel quale si sviluppa l’azione del PRI Veneziano che, si può dire senza presunzione, ha svolto in quegli anni un ruolo certamente superiore alla sua consistenza elettorale ed è stato interlocutore, spesso scomodo, ma ineludibile, di tutte le altre forze politiche. Eventuali imprecisioni e/o omissioni si debbono addebitare esclusivamente alla nostra memoria … non verdissima, come la nostra età. (Cino Casson)

Negli ultimi mesi del 1966 matura, all’interno della minoranza della Gioventù Liberale, la decisione di uscire dal PLI, per manifesta incompatibilità con la linea politica imposta dalla segreteria di Giovanni Malagodi; assieme ad alcuni esponenti del PLI (dirigenti e amministratori locali), i giovani liberali si dimettono dal PLI e danno vita a un movimento, “Democrazia 67”, che, fin dal nome, si pone come transitorio. La sinistra liberale vede nel PRI di Ugo La Malfa il partito che meglio corrisponde a una visione liberale moderna, soprattutto per le linee di politica economica.

Nel maggio del ’67 viene sancita, al teatro Eliseo a Roma, alla presenza di Ugo La Malfa, la confluenza di “D 67” nel PRI. A Venezia il leader politico dei Giovani Liberali è il giornalista Pino Querenghi e il gruppo può contare su un consigliere comunale, l’avvocato Antonio Casellati, da anni oppositore della dirigenza locale del PLI; il più giovane è Luigi Scano, studente di Giurisprudenza a Padova.

I repubblicani di Venezia non vedono di buon occhio l’ingresso dei “nuovi”, sia perché si sentono “scavalcati” dal rapporto diretto con La Malfa, sia perché temono che un gruppo organizzato ed esperto possa “agitare le acque” in un partito che, soprattutto nel centro storico, vivacchia stancamente, più “club” che partito, privo di un vero “leader”[1].

Anche a Mestre non manca chi guarda con sospetto all’operazione; il giovane leader locale, Gaetano Zorzetto, dopo una iniziale diffidenza, è il primo a comprendere, fors’anche per la vicinanza generazionale, che una intesa tra vecchi e nuovi repubblicani può irrobustire il partito e renderlo anche elettoralmente competitivo.

Siamo nell’immediato “day after” della disastrosa “acqua alta” del 4 novembre 1966 e il tema della difesa di Venezia è quello che più appassiona l’opinione pubblica.

Si è costituito, ad opera di cittadini di vario orientamento politico, un “Fronte per la difesa di Venezia” e gran parte dei dirigenti del movimento guardano da subito al “nuovo” PRI come un interlocutore politico privilegiato, tanto che molti di essi entreranno nel partito e vi svolgeranno ruoli di rilievo[2]; in particolare è visto con interesse il ruolo del consigliere comunale Casellati, autorevole esponente veneziano di “Italia Nostra” (della cui sezione veneziana sarà, anche , presidente). E i repubblicani veneziani comprendono che la battaglia per la salvaguardia della città è in piena sintonia con le loro convinzioni ed offre loro uno spazio politico del tutto originale.

Nel 1968 la prima iniziativa pubblica è il lancio di una petizione, “Venezia domanda:precise scelte per la città”, che raccoglie migliaia di firme per chiedere un intervento legislativo straordinario; un anno dopo il PRI risponde, in un convegno al quale partecipano La Malfa e Bruno Visentini, con la presentazione di una pubblicazione “Il PRI risponde: una legge per Venezia”, che contiene un disegno di legge, che prevede, tra l’altro, la costituzione di una “autority”, l’Ente Laguna Veneta. Infatti i repubblicani, in linea con gran parte del mondo della cultura e delle associazioni ambientaliste (non esistono, ancora, i “verdi”), sono convinti che “Venezia si salva salvando la sua laguna”.

Ed è in questa occasione che emerge il ruolo di Luigi Scano, poco più che ventenne, che si impegna con Casellati a dare sostanza culturale e normativa alle idee in materia di salvaguardia. Il disegno di legge, depositato alla Camera, primo firmatario Ugo La Malfa[3], non riuscirà ad approdare all’aula e decadrà con la legislatura. È forte la polemica con la DC, a Venezia egemonizzata culturalmente da Vladimiro Dorigo, sostenitore di uno sviluppo economico senza vincoli ambientali, che vede nell’espansione della Terza Zona industriale che sottrae spazio alla laguna, l’unico futuro di Venezia. Il PCI guarda con interesse, ma non senza sospetto, al protagonismo repubblicano; è ancora forte, in esso, la cultura operaista di Cesco Chinello e un certo pregiudizio “antiborghese”, anche se la “destra” del PCI (quelli che poi saranno definiti i “miglioristi”, che hanno il loro leader in Gianni Pellicani”) comincia a porsi alcune domande, che, più tardi, incroceranno le risposte che, già allora, dà il PRI. Il rapporto con il PSI è complesso; i vecchi dirigenti sono in parte attratti nell’ambito culturale del PCI, ma guardano, in chiave di governo, alla prime “aperture a sinistra” della DC[4]; inizialmente il PRI si ritrova in maggior sintonia con la componente “lombardiana” dove sta emergendo la leadership di Gianni De Michelis (il quale, per altro, dopo aver conquistato l’egemonia nel PSI veneziano, sconfesserà molte delle sue idee degli anni ’70, arrivando a coniare per il PRI l’appellativo di “partito delle contesse”, con trasparente riferimento a Teresa Foscari e Annamaria Cicogna, esponenti di Italia Nostra). Decisamente ostili, almeno fino alla fine degli anni ’70, sono i sindacati, che vedono nelle politiche protezionistiche il rischio di interrompere le attività di Porto Marghera.

Nel 1970 si tengono le elezioni amministrative; il PRI presenta, dopo decenni, una sua lista, che ottiene due seggi; rientra in Consiglio comunale Antonio Casellati, al quale si affianca Gaetano Zorzetto. E dalla consuetudine del lavoro amministrativo si consolida il rapporto tra Zorzetto e i “nuovi” repubblicani.

Nel 1971, dopo una crisi della giunta, guidata da Giorgio Longo della sinistra democristiana, il PRI entra nella nuova giunta Longo, ottenendo importanti accordi programmatici, apprezzati anche dal PCI, e l’istituzione, per la prima volta in Italia, di un Assessorato all’Ecologia, assunto da Casellati. I testi che vengono sottoscritti, dopo giorni e notti di laboriose trattative, sono elaborati, nella forma e nella sostanza, da Scano. Superando ostacoli espliciti e boicottaggi sotterranei, Casellati riesce a costruire, dal nulla, un assessorato dotato di competenze ed entusiasmo, utilizzando la competenza di alcuni (pochi) funzionari messi a disposizione (tra i quali l’ottimo Armando Danella). Dopo meno di 3 anni, però, il PRI si trova costretto a denunciare un accordo che la DC mostra di non voler onorare.

Casellati si dimette da assessore e da consigliere e gli subentra Luigi Scano; Casellati considera questa operazione anche come un “investimento” su un giovane nel quale egli vede un possibile “leader” politico. Nel frattempo il PRI si impegna, a livello nazionale, nella stesura di una Legge Speciale per Venezia, che finalmente, anche la DC accetta di discutere, abbandonando il sostegno alla proposta del socialista Lauricella.

Luigi Scano ne è assoluto protagonista; si trasferisce a Roma, dove può contare sull’aiuto del deputato Adolfo Battaglia, del senatore Pietro Bucalossi e sulla decisa azione di Ugo La Malfa, che arriva a minacciare la crisi del governo, pur di far approvare la legge. La Legge viene approvata nel 1973 e, due anni dopo, il Ministro dei Lavori Pubblici Bucalossi emana gli “Indirizzi” del governo per l’attuazione della Legge Speciale.

Il 23 dicembre 1974 il Consiglio comunale approva un Ordine del Giorno che verrà denominato come “minicompromesso storico”; è votato, infatti, anche dal PCI; ma sulla successiva votazione dei Piani particolareggiati (31.12.74), presentati da Gianni De Michelis, assessore all’Urbanistica, il PRI non darà il suo assenso, considerando insufficienti le misure di tutela dei beni ambientali e monumentali. Luigi Scano è autore della argomentata critica e viene considerato, ormai, “l’ideologo” del PRI veneziano (Gigi respingerebbe con disgusto tale qualifica, preferendovi certamente quella di “produttore di idee”).

Nel 1975 il PRI riporta in Consiglio comunale i due consiglieri Zorzetto e Scano. Si forma una Giunta di sinistra, sindaco Mario Rigo, del PSI, vicesindaco Gianni Pellicani, del PCI; il PRI non partecipa, sia per perduranti divergenze sullo strumento urbanistico dei Piani Particolareggiati, sia per le forti resistenze del partito a livello nazionale a consentire una alleanza decisamente opposta a quella del governo nazionale (il PRI, dopo la scomparsa di Ugo La Malfa, è retto da Oddo Biasini, persona integerrima, ma meno sensibile alle tematiche care ai repubblicani veneziani).

Tuttavia la stretta collaborazione tra Luigi Scano e il nuovo assessore all’Urbanistica, Edoardo Salzano, porterà a una sempre maggior vicinanza delle posizioni di PRI e PCI (mentre si accentueranno le divergenze con il PSI egemonizzato da De Michelis). Il voto favorevole annunciato dal PRI sulle controdeduzioni alle Osservazioni ai Piani particolareggiati, frutto di tale collaborazione, è causa di un forte scontro politico tra i repubblicani veneziani e la dirigenza nazionale; Luigi Scano e Cino Casson, segretario comunale del PRI, vengono convocati a Roma, dove subiscono una sorta di “processo” da parte della Direzione nazionale, sommariamente e artatamente informata dal segretario regionale, Licisco Magagnato, da sempre ostile; Scano “tiene il punto” e rifiuta di modificare la decisione assunta dal gruppo consiliare.

Nel 1977 Antonio Casellati diventa presidente del Comprebnsorio della laguna, che dovrebbe stendere un Piano per l’attuazione urbanistica delle prescrizioni della Legge Speciale; anche in questa incombenza il lavoro di Luigi Scano, formalmente consulente, si integrerà perfettamente con quello dell’urbanista Vezio De Lucia, responsabile scientifico del Piano. Il Piano vedrà, infine la luce, ma si arenerà in sede regionale e il Comprensorio, dopo l’uscita dalla presidenza di Casellati, si avvierà ad una pratica estinzione.

Nel 1980 il PRI ha una battuta d’arresto elettorale (che gli oppositori interni tenteranno di addebitare a un eccessivo “sbilanciamento” a sinistra) e porta in consiglio comunale il solo Gaetano Zorzetto; Mario Rigo è confermato Sindaco, nonostante l’ostilità di De Michelis; Zorzetto entrerà in giunta qualche mese dopo, blandamente sconfessato (ma ufficiosamente incoraggiato) dal nuovo segretario del PRI, Giovanni Spadolini, forse memore delle battaglie condotte dalle colonne del Corriere della Sera per la salvaguardia di Venezia per la penna di Indro Montanelli. A Zorzetto verrà assegnato quell’assessorato all’Ecologia che, creato da Casellati, aveva, poi, vivacchiato senza particolari iniziative.

Nel 1982 il PRI entra anche nella giunta di sinistra della Provincia di Venezia[5]. Ma la stagione delle giunte di sinistra sta volgendo al termine; il PSI accentua sempre più la sua insofferenza per un rapporto con il PCI nel quale non riesce ad affermare le sue velleità di leadership; in più, a Venezia, si evidenzia la contrapposizione tra Rigo e De Michelis, che, nel frattempo, ha consolidato un rapporto privilegiato con il presidente della Regione, il democristiano Carlo Bernini.

Le elezioni amministrative del 1985 segnano un forte incremento dei voti al PRI, con l’elezione di 3 consiglieri: Bruno Visentini, Gaetano Zorzetto e Alfredo Bianchini. Visentini è immediatamente contrario a ogni collaborazione di Giunta e, in una seduta della direzione provinciale del PRI, espone la sua previsione: “Laroni (designato Sindaco da De Michelis) durerà pochi mesi; poi noi entreremo in Giunta e avremo il Sindaco; io mi dimetterò e Casellati, che mi subentrerà, sarà Sindaco.” Bianchini, il giorno dopo, presenterà, con una lettera a Visentini e Casellati, le sue dimissioni da consigliere e Casellati entrerà subito in Consiglio. De Michelis impone come Sindaco di una giunta DC-PSI-PSDI Nereo Laroni e il PRI si schiera decisamente all’opposizione; è vivo lo scontro politico sulla proposta di Gianni De Michelis per portare a Venezia l’Esposizione Universale di fine secolo, che presenta, per PRI, PCI, Verdi e gran parte del mondo della cultura, un grave attentato agli equilibri ambientali e lascia intravedere possibili (e ancor più probabili) intrecci affaristico-speculativi.

La polemica si intreccia a quella nascente sul Mo.S.E., il sistema di chiusure mobili alle “bocche di porto”, che dovrebbe attuare le prescrizioni della Legge Speciale; tutto il mondo ambientalista manifesta la netta contrarietà a un intervento che viene visto come distruttivo dell’ecosistema lagunare e penalizzante per l’attività portuale; anche su questo tema si verifica convergenza tra PRI e PCI.

Scano non è più consigliere comunale, ma il suo impegno resta immutato; gran parte delle posizioni che il PRI viene assumendo escono dalla sua penna (si convertirà al “computer” solo molti anni dopo). Nel 1985 pubblica “Venezia: Terra e acqua”, riedita nel 2006 da Corte del fontego ediitore: una storia delle trasformazioni dell’ecosistema lagunare e della città dalla Serenissima agli anni ’80, che resta un’opera fondamentale e insuperata.

Una “congiura di palazzo”, orchestrata dall’ex sindaco Mario Rigo, porta alla crisi della Giunta Laroni sul finire del 1987; dopo un fallito tentativo di eleggere sindaco il DC Costante Degan, l’accordo tra Rigo, Pellicani e Visentini porta all’elezione a sindaco di Antonio Casellati, sostenuto da PCI, PSI, PRI e Verdi.

Luigi Scano, che nel frattempo ha intrapreso l’attività professionale di consulente in materia di normative urbanistiche, può riprendere un ruolo decisivo nella progettazione urbanistica della città, collaborando con il nuovo assessore all’Urbanistica, il Verde Stefano Boato e con l’arch. Edgarda Feletto; insieme elaborano una strumentazione che tende ad eliminare ogni possibile discrezionalità nell’esercizio della politica urbanistica. Nel frattempo, Cino Casson assume, in Provincia, l’incarico di assessore all’Urbanistica e, privo com’è di competenze disciplinari, chiede supporto a Scano, che, senza alcun incarico ufficiale (e senza compenso), glielo fornisce generosamente.

Casellati affronta un momento di grande difficoltà in occasione del famoso concerto veneziano dei “Pink Floyd”; l’evento era stato voluto da Laroni, che aveva anche assunto impegni con gli organizzatori, mettendo praticamente il Comune di fronte a un fatto compiuto. (Va detto che, in realtà, a Venezia non era accaduto nulla di grave, se non i modesti inconvenienti derivanti dalla presenza di una massa enorme, ingigantiti da una campagna mediatica non limpidissima). A dissuadere Casellati dal proposito di dimettersi a seguito delle polemiche ci fu il deciso intervento di Bruno Visentini e la piena solidarietà dei repubblicani veneziani. Il mandato di Casellati si conclude con una vittoria del PRI e delle più sensibili istanze culturali; l’Expo non viene assegnata a Venezia, anche per la decisa azione di “lobbyng”, in Italia e all’estero (Spadolini e Visentini si impegnano in sede governativa e Casellati si reca di persona a Parigi per sostenere il No all’Expo). All’indomani della decisione contraria il quotidiano La Nuova Venezia pubblica una vignetta nella quale un Visentini con “corno” dogale sperona, in gondola, l’esterrefatto De Michelis.

Negli anni il PRI veneziano si trova spesso in contrasto con i livelli regionale e nazionale. Si è detto della freddezza dei “vecchi” repubblicani per l’ingresso di D 67; tuttavia, a Venezia, a parte qualche iniziale contrasto con la componente mestrina, il clima in breve si rasserena; Casellati, Zorzetto, Scano e gli altri giovani dirigenti costruiscono sintonia politica e amicizia personale. In sede regionale, invece, la segreteria di Magagnato guarda con sospetto alla polemica con la DC, egemone nel Veneto, e la sintonia sempre maggiore con il PCI. Con Ugo La Malfa il rapporto è, sostanzialmente, positivo; il vecchio leader apprezza la battaglia per Venezia e se ne fa deciso sostenitore in sede di governo; per lungo tempo anche Adolfo Battaglia si impegna a favore dei veneziani, ma, qualche anno dopo, i rapporti si faranno più conflittuali, soprattutto per l’influenza di Magagnato (Battaglia è eletto nel Collegio di Verona). Ne seguirà anche un “commissariamento”, a seguito del voto dei consiglieri repubblicani ai Piani Particolareggiati, che non avrà, tuttavia, alcun esito: il PRI veneziano conferma, in congresso, tutti i dirigenti “commissariati”.

Con la segreteria Spadolini cade, di fatto, la preclusione alla partecipazione a giunte di sinistra e i rapporti si stabilizzano su un clima di reciproco rispetto. La segreteria di Giorgio La Malfa entra in conflitto con i veneziani in occasione della nomina di un rappresentante repubblicano nel CdA della Biennale su designazione dell’assessore provinciale: Casson, seguendo quanto deliberato dalla direzione provinciale, fa eleggere un candidato sgradito a Giorgio La Malfa, che, per ritorsione, scioglie gli organi veneziani. Anche questo “commissariamento” tuttavia, viene vissuto a Venezia con una certa indifferenza ed ha esito analogo al precedente.

Una nota a parte richiede il rapporto tra i repubblicani veneziani e Bruno Visentini. Il senatore trevigiano – che ama definirsi un “veneziano di campagna” – tende ad avere un rapporto “alla pari” con il solo Casellati; non ha in grande considerazione Zorzetto, rispetta Scano, ma non gli attribuisce grandi doti politiche; per tutti gli altri manifesta totale indifferenza. Visentini non apprezza che il PRI di Venezia abbandoni l’idea iniziale di una “authority”; inoltre sostiene la separazione tra Mestre e Venezia C.S., avversata dai dirigenti veneziani, che sarà causa di un raffreddamento nei rapporti con Casellati. Tuttavia anche Visentini condivide la polemica con De Michelis e la sintonia con Pellicani ed è il vero “regista” dell’operazione che porta Casellati a diventare sindaco.

Con gli anni ’90 il PRI a Venezia entra in una fase di smobilitazione; Casellati si ricandida “per onor di firma” come Sindaco uscente, ma si dimette poco dopo; Zorzetto rimane in consiglio comunale, ma non partecipa alla giunta di Ugo Bergamo; Scano esce dal partito e si avvicina al PDS (nel 95 sarà eletto consigliere provinciale, ma si dimetterà due anni dopo, anche per solidarietà politica con Cristiano Gasparetto che si dimette da Assessore all’Urbanistica per gli ostacoli che incontra) ; in Provincia Casson resta come consigliere di opposizione, per rientrare nella Giunta solo quando si ricostituirà, nel ’93, una maggioranza di sinistra.

Nel 1994 il PRI, con Giorgio La Malfa, rifiuta di entrare nell’alleanza dei “Progressisti” e si presenta alle elezioni insieme alla DC; molti repubblicani, anche assai autorevoli come Visentini, Gualtieri, Bogi, abbandonano il partito; anche a Venezia gran parte del gruppo dirigente lascia. Gaetano Zorzetto viene chiamato a far parte della prima Giunta Cacciari, con il ruolo di Prosindaco di Mestre, ma un anno dopo scompare a soli 55 anni. E, con lui, scompare ogni visibile presenza del PRI a Venezia.

Luigi Scano prosegue la sua attività professionale, contribuendo alla redazione di strumenti urbanistici e testi legislativi; ma non abbandona l’impegno politico all’interno di molti istituti e associazioni, assumendo la segreteria generale di “Polis” e partecipando a numerosi movimenti ambientalisti, a Venezia e nel resto d’Italia, fino alla sua prematura scomparsa, nel 2007.

[1] Le personalità di maggior spicco sono il prof. Giuseppe De Logu e Calogero Muscarà, docente di geografia economica a Ca’ Foscari, decisamente ostile ai nuovi entrati

[2] Ad esempio Gian Maria e Mara Rosa Salva; lo stesso Franco Rocchetta, che poi sarà “inventore” della Liga Veneta, aderisce, per un paio d’anni, al PRI

[3] DdL n. 1078/1969

[4] A Venezia il centrosinistra governa già dal 1961

[5] Cino Casson, unico consigliere provinciale per il PRI, assume l’assessorato all’Istruzione

Le finestre di casa Cederna, a Ponte in Valtellina, si aprivano sulla luminosa vallata, in pieno Parco Nazionale dello Stelvio. In particolare quella dello studio di Antonio. Ogni anno il più attrezzato dei polemisti italiani in materia dedicava almeno un articolo a quel Parco a lui ben noto, il più vasto, istituito nel 1935 dopo Gran Paradiso e Abruzzo “firmati” da Benedetto Croce ministro della PI nel 1922 assieme alla legge sulle “bellezze naturali”. I problemi posti da Cederna (mancato nel ’96, a Ponte) riguardavano una miglior tutela del parco e maggiori fondi rispetto alla solita micragna. Ma già si affacciava l’ombra dello smembramento in 3-4 parti voluto dalle Province Autonome di Trento e Bolzano. Anche per questo molto si adoperò con Gian Luigi Ceruti e altri per la legge-quadro n. 394 del ‘91 sulle aree protette, durante la sola legislatura in cui fu alla Camera (non fu rieletto).

Adesso, viene ridotto a spezzatino con una norma infilata nell’ormai solito mostruoso “milleproroghe” abborracciato a Palazzo Chigi, fra un bonus fiscale, la proroga per le case-fantasma e altre porcherie. Nel modo più becero. Da anni Trento e Bolzano chiedono di poter gestire lo Stelvio (per venire incontro ai costruttori, alle nuove sciovie e, come sempre, ai cacciatori). Ma cosa ha accelerato il grimaldello con cui il governo scassa il Parco Nazionale dello Stelvio? La gratitudine che il premier deve ai deputati della SVP per essersi astenuti sulla sfiducia dandogli un po’ di fiato. Il prezzo pagato, nemmeno dieci giorni dopo, è lo spezzatino dello Stelvio.

Ovviamente, senza tenere in alcun conto l’ordine del giorno fatto approvare dal Pd al Consiglio regionale della Lombardia contro una simile aberrazione. Che va contro ogni tendenza mondiale, come sottolinea, per esempio, Fulco Pratesi, fondatore del Wwf, il quale rimarca che Sudafrica, Zimbabwe e Mozambico si sono accordati per il Parco della Pace “garantendo spazi immensi ai grandi mammiferi finora divisi da recinzioni e barriere”, e analogamente hanno fatto Cina e Russia nell’Assur e nell’Ussuri per salvare le tigri siberiane. Da noi, si va in direzione opposta, disfacendo Parchi Nazionali vecchi ormai di 75 anni e non riuscendo a creare nel Delta del Po un Parco almeno interregionale e nel Gennargentu quello Nazionale. Sempre per l’opposizione dei cacciatori, dei costruttori e di altri interessi localistici.

Ha voglia l’assessore lombardo Alessandro Colucci a precisare che lo Stelvio rimane Parco Nazionale, soltanto “cambia la governance”. Cioè un’inezia detta in inglese ad uso degli sprovveduti, con una “governance” appunto (garantisce il ministro Fitto) “ancora più vicina alle comunità locali”. Cioè assai più localistica che nazionale. Del tutto opposta all’art. 9 della Costituzione. Decisione gravissima perché darà la stura ad altri spezzatini. Da anni la Regione Valdostana preme affinché il Parco Nazionale del Gran Paradiso venga smembrato o che, comunque, la Vallée vi abbia un ruolo preminente rispetto allo Stato. Una sciagurata miopia tutta italiana che riconduce alla ricetta di Bossi di fare dell’intero Belpaese uno spezzatino senza più collante nazionale, con una idea secessionista e non federalista di tipo, per esempio, tedesco.

Del resto, in queste stesse ore, per tornare ad Antonio Cederna, grande paladino dei Parchi e della natura e restare in Lombardia, va detto che Italia Nostra lombarda ha pensato bene di dare alle stampe da Electa – e fin qui niente di male – una raccolta di articoli cederniani coi quali però si confrontano, con scritti lontani e vicini, anche personaggi che avevano o hanno, nel modo più netto, idee opposte. Come l’arch. Gigi Mazza teorico-pratico dell’urbanistica contrattata a Milano di cui viene pubblicata una recensione-stroncatura su Cederna. Protestano, giustamente indignati, i figli di Antonio, ai quali nessuno ha chiesto il permesso. Tantomeno il presidente lombardo, Luigi Santambrogio, ai suoi bei dì assessore con Formentini. La presidente nazionale, Alessandra Mottola Molfino, manifesta imbarazzo e “disappunto”. Un po’ poco visto che Cederna fu una colonna, per decenni, dell’associazione. La sua finestra sulla Valtellina e sulla Lombardia è proprio chiusa.

© 2024 Eddyburg