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Importante la recente sentenza della Corte costituzionale a proposito della tutela del paesaggio. La Regione Veneto aveva disposto, con una modifica alla propria legge urbanistica, che la norma del il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che esentate dal rispetto di determinate prescrizioni del Codice le “zone omogenee A e B”, poteva trovare applicazione anche in altre “zone". La Corte ha bocciato questa norma regionale come incostituzionale.

In sostanza, la Corte ha confermato che, se le regioni possono e devono precisare, articolare ed estendere le tutele previste dalla legge nazionali, esse non possono ridurle.

Giova ricordare che, nella giurisprudenza costituzionale più volte confermata, il sistema di tutela del paesaggio avviato con la legge 431/1985 (legge Galasso) e completato con il decreto legislativo 42/2002 (codice dei beni culturali e del paesaggio) e successive modifiche e integrazioni prevede che la regione «nell'esercizio delle sue competenze urbanistiche, possa estendere l'efficacia dello strumento anche al di là della sua sfera "necessaria", fino ad investire aree territoriali non comprese nella disciplina della legge n. 431», poiché «la protezione preordinata dalla legge nazionale è «pur sempre "minimale" e non escluda né precluda "normative regionali di maggiore o pari efficienza" (vedi le sentenze cost. 151/1985 e 327/1990). In altre parole, la tutela del paesaggio, grazie al rilievo che le ha conferito l’inserimento nei principi della Costituzione, è responsabilità di tutte le istituzioni della Repubblica (Stato, Regione, Provincia, Comune), ma ciascuna secondo i livello territoriale della propria competenza. Talché ogni livello di governo può approfondire, precisare, estendere, ma mai ridurre il grado di tutela definito al livello sovraordinato.

Nelle sentenze ora citate la Corte aveva stabilito che la legge 431/1985 ha introdotto «una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale»; secondo il giudizio della Corte «una tutela così concepita è aderente al precetto dell'art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell'ordinamento, assume il detto valore come primario, cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»; sebbene – precisa la Corte - essa «non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice, ai fini della reciproca compatibilità, degli usi e delle trasformazioni del suolo nella dimensione spaziale considerata e nei tempi ordinatori previsti.»

Va infine rilevato che, mentre la magistratura costituzionale (e non solo quella) prosegue nella sua azione di difesa di quel che resta del Belpaese e vigila sulla corretta applicazione delle leggi che questa azione promuovono, non operano nella stessa direzione i governi, né regionali e nemmeno nazionali. In particolare lo Stato, se ha responsabilità primarie in proposito (come la Corte costantemente rileva) non si preoccupa di mettersi in condizione di gestirle. Pietosa è infatti la condizione nella quale il Mibac lascia languire (e anzi continuamente depotenzia) le strutture che dovrebbero gestire la tutela del paesaggio. Lo smantellamento di quel poco di amministrazione pubblica che la Repubblica italiana è stata in grado di darsi sembra proseguire indisturbato: è del resto impresa che caratterizza tutte le forme di neoliberismo, sia quelle indecenti che quelle decenti.

“È costituzionalmente illegittimo l'art. 32, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, nella parte in cui non prevede che, ove dall'applicazione dell'art. 33, commi 3 e 4, o dell'art. 34 della stessa legge derivi una modificazione degli effetti degli atti e dei provvedimenti di cui agli artt. 157, 140 e 141 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, tale modificazione è subordinata all'accordo per l'elaborazione d'intesa tra la Regione, il Ministero per i Beni e le attività culturali ed il Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio del piano paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernente l'intero territorio regionale, e all'elaborazione congiunta del piano. Premesso, infatti, che la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), qualora la Regione intenda, nel momento della pianificazione paesaggistica, modificare il regime dei beni, è necessario che lo Stato possa interloquire attraverso le forme della concertazione, senza le quali si viola il principio secondo cui solo se il piano paesaggistico è stato elaborato d'intesa, il vincolo paesaggistico che grava sui beni può essere tramutato in una disciplina d'uso del bene stesso”.

“È costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 3, della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, nella parte in cui stabilisce che sia il piano strutturale del Comune a indicare le aree in cui la realizzazione degli interventi non è soggetta all'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 87 della legge regionale, anziché il piano regionale paesaggistico con specifica considerazione dei valori paesaggistici. Infatti, l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale, non consente che le decisioni operative concernenti il paesaggio siano trasferite alla dimensione pianificatoria comunale poiché ciò si porrebbe in contraddizione con il sistema di organizzazione delle competenze delineato dalla legge statale a tutela del paesaggio, che costituisce un livello uniforme di tutela, non derogabile dalla Regione, nell'ambito di una materia a legislazione esclusiva statale, ma anche della legislazione di principio nelle materie concorrenti del governo del territorio e della valorizzazione dei beni culturali”.

Postilla

Nell’inserire gli ultimi aggiornamenti della legge regionale della Toscana per il governo del territorio ci rendiamo conto che non si è provveduto a modificare le norme sulla pianificazione paesaggistica dichiarate incostituzionali dalla Corte. Nella sostanza la legge 1/2005 è in profondo contrasto con il Codice del paesaggio: l’individuazione puntuale e specifica, e la definzione delle regole che devono dettare le condizioni alle trasformazioni dei beni paesaggistici (sia quelli tutelati ope legis, sia quelli aggiuntivi definiti in sede regionale), non avviene nel piano regionale (il PIT), ma è demandato alla pianificazione comunale. Ma si vedano le puntuali osservazioni di Luigi Scano nella cartella dei suoi scritti.

Si direbbe che in Toscana abbia vinto la “devoluscion” di Umberto Bossi. La Toscana sembra oggi divenuta l’unica regione leghista d’Italia.

Forse pensano di risolvere con una sanatoria, costituita da una intesa tra Regione e Stato del tutto particolare. Basta uno scambio di pacche sulle spalle tra Martini e Rutelli per scavalcare leggi nazionali e sentenze costituzionali? (e.s.)

Ricorrono nel 2012, e precisamente domani,i cinquant’anni della legge 18 aprile 1962, n. 167, recante «Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare». Ricorrono altresì quest’anno i settant’anni della legge urbanistica, la l. 18 agosto 1942, n. 1150, ma con un significativa differenza. La legge urbanistica, per quanto approvata nel 1942, era il frutto di un’elaborazione risalente a dieci anni prima, come ben risulta dagli studi sulla sua formazione (v. V. De Lucia, La legge urbanistica del 1942); la l. 167 era invece frutto proprio del suo tempo.

Dopo il governo Tambroni del 1960, che aveva avuto l’appoggio determinante del MSI, si era formato il terzo governo Fanfani, un monocolore democristiano di «restaurazione democratica», conosciuto anche come il governo delle «convergenze parallele». La Democrazia cristiana aveva tenuto nel settembre 1961 un convegno di studi a San Pellegrino e poi, alla fine di gennaio 1962, il suo ottavo congresso nazionale a Napoli: erano maturate così le condizioni per un nuovo governo. Fanfani succedeva a sé stesso e nel febbraio 1962 formava il suo quarto governo, un tripartito Dc-Psdi-Pri, con un programma concordato anche con il Psi. Per iniziativa di quel governo venivano approvate nello stesso anno 1962 due importanti riforme. La l. 31 dicembre 1962, n. 1859 istituiva la scuola media unica, realizzando così non solo una riforma scolastica ma una vera riforma sociale: si superava il modello classista della riforma Gentile fondato sulla distinzione tra scuola classica umanistica e scuola di avviamento professionale, senza insegnamento del latino e senza possibilità di accesso agli studi superiori. La l. 6 dicembre 1962, n. 1643 nazionalizzava le imprese esercenti le industrie elettriche, ponendo così le basi per la diffusione della rete elettrica nelle zone rurali, trascurate dalle imprese private, al fine di favorire il loro sviluppo.

Prima ancora di quelle riforme, e giusto nell’anniversario delle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima legislatura repubblicana, il Parlamento approvava il disegno di legge sull’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare avviato dal precedente governo nel quale ministro dei lavori pubblici era stato Benigno Zaccagnini, sostituito nel quarto governo Fanfani da Fiorentino Sullo.

L’intervento pubblico per l’edilizia popolare aveva una lunga tradizione, risalente all’inizio del secolo. La l. 31 maggio 1903, n. 254, nota anche come legge Luzzatti, era stata seguita da vari altri provvedimenti legislativi, sistemati nel corso del tempo in testi unici, nel 1908, nel 1919 e, da ultimo, nel 1938 (r.d. 28 aprile 1938, n. 1165). Dopo la guerra, inoltre, proprio Fanfani, ministro del lavoro nel quinto governo De Gasperi, aveva promosso un importante progetto per incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per i lavoratori: la l. 28 febbraio 1949, n. 43 aveva istituito la gestione Ina-casa, rinnovando le forme organizzative e finanziarie dell’intervento pubblico per l’edilizia popolare. La gestione Ina-casa aveva prodotto, nei suoi due piani settennali,risultati imponenti: le case Fanfani, come vennero presto denominate, furono realizzate in gran numero e su tutto il territorio nazionale, anche in centri minori (su quella esperienza v. da ultimo il volume a cura di Paola Di Biagi, La grande ricostruzione. Il piano Ina-casa e l’Italia degli anni ’50 , Donzelli, Roma, 2001).

La l. 167 del 1962 costituiva però un significativo sviluppo poiché affrontava il tema, in precedenza trascurato, della disciplina urbanistica delle aree per l’edilizia economica e popolare, integrando e sviluppando la legge urbanistica del 1942.

I Comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti e quelli capoluogo di Provincia erano tenuti a formare un piano delle zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico e popolare (peep); gli altri Comuni ne avevano facoltà, ma potevano anche esservi obbligati dal Ministro per i lavori pubblici, ove ne riconoscesse la necessità. La legge stabiliva un termine stringente per la formazione del piano, 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge o dalla comunicazione della decisione ministeriale, e prevedeva anche, in caso di inadempienza, l’intervento sostitutivo mediante un commissario nominato dal prefetto.

Le aree da comprendere nel piano dovevano essere scelte di norma nelle zone destinate a edilizia residenziale nei piani regolatori generali vigenti, con preferenza in quelle di espansione dell’aggregato urbano. In caso di mancanza del prg era prevista la formazione, insieme al peep, di un programma di fabbricazione. La legge richiedeva dunque sempre una pianificazione urbanistica generale dell’intero territorio comunale entro cui inquadrare la specifica pianificazione urbanistica dell’edilizia economica e popolare, configurata come esecutiva di quella generale. Il sistema della pianificazione a cascata della legge urbanistica del 1942 veniva confermato nella sua impostazione ma anche attenuato nelle modalità operative poiché si consentivano peep in variante dei prg. Con un unico procedimento si poteva variare il prg e approvare un peep che risultasse conforme al prg così come variato. In questo caso il procedimento di formazione del peep era quello del prg: il piano era soggetto ad approvazione del Ministero dei lavori pubblici, mentre i peep conformi al prg (e senza osservazioni da parte delle amministrazioni centrali dello Stato) erano approvati dal provveditore regionale alle opere pubbliche.

La configurazione dei peep quali piani esecutivi di una pianificazione generale si manifestava anche sotto altri aspetti. Ai peep veniva attribuito lo stesso valore dei piani particolareggiati di esecuzione del prg previsti dalla legge urbanistica, compresa l’equivalenza a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in essi previste che consentiva l’espropriazione delle aree. La legge, anzi, accelerava le procedure stabilendo che l’approvazione dei peep equivaleva anche a dichiarazione di indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti e edifici in esso previsti, in modo da consentire anche l’occupazione d’urgenza in via anticipata rispetto all’espropriazione.

L’espropriazione diventava il modo normale di realizzazione della pianificazione urbanistica, sia pure limitatamente alla parte di pianificazione riguardante l’edilizia economica e popolare. Veniva così ripresa una previsione della legge urbanistica del 1942, quella relativa all’espropriabilità delle aree urbane (art. 18), che è stata largamente trascurata dai Comuni, soprattutto per mancanza delle necessarie risorse finanziarie, ma che, se effettivamente utilizzata, avrebbe consentito uno sviluppo urbanistico qualitativamente ben diverso e migliore di quello concretamente realizzatosi.

I Comuni potevano riservare a sé stessi l’acquisizione fino a un massimo del cinquanta per cento delle aree comprese nel piano, salvo cessione del diritto di superficie o rivendita a enti o privati che si impegnassero a realizzare la costruzione di case economiche e popolari. Le rimanenti aree potevano essere richieste per la costruzione di case popolari da parte di altri soggetti: lo Stato e gli enti pubblici territoriali, l’Incis, l’Ina-casa, le società cooperative, l’Inpgi, altri enti senza fine di lucro operanti nel settore. La legge, dunque, assegnava un ruolo centrale ai Comuni nella definizione degli aspetti urbanistici dell’edilizia economica e popolare, ma lasciava un assetto pluralistico per la realizzazione degli immobili: il ruolo dei Comuni non era esclusivo, ma almeno la metà delle aree doveva essere resa disponibile per la realizzazione degli immobili da parte di soggetti diversi.

Per l’espropriazione delle aree la legge adottava soluzioni riformiste, ma non estremiste. L’indennità di espropriazione era infatti determinata secondo la legge generale sulle espropriazioni (l. 25 giugno 1865, n. 2359) e quindi era commisurata al valore venale; tuttavia la legge si proponeva di contenere la rendita fondiaria e a tal fine stabiliva che il valore venale fosse determinato senza tener conto degli incrementi di valore dipendenti, direttamente o indirettamente, dalla formazione e attuazione del piano. Il principio non era nuovo, poiché era stato già stabilito dall’art. 38 della legge urbanistica, ma la sua conferma, quanto mai opportuna, era espressione di una precisa volontà politica che continuò ad animare i propositi riformatori del governo. La legge inoltre, sempre per contenere la rendita fondiaria, stabiliva che il valore venale dovesse essere riferito a due anni precedenti alla deliberazione del piano, invece che al momento dell’espropriazione (per questo aspetto, tuttavia, la legge venne dichiarata illegittima da Corte cost., 22/1965, per il lungo intervallo di tempo possibile tra l’approvazione del peep e l’espropriazione nonché per le disparità di trattamento tra proprietari espropriati in momenti diversi).

La legge inoltre conciliava il potere pubblico di pianificazione e di espropriazione col principio liberale del minimo sacrificio dei diritti privati compatibile con il perseguimento dell’interesse pubblico. I proprietari delle aree ricomprese nei peep potevano evitare l’espropriazione impegnandosi direttamente, con la richiesta della licenza edilizia, a costruire sulle aree stesse fabbricati aventi caratteristiche di abitazione di tipo economico o popolare, sempre che le opere venissero iniziate entro centoventi giorni dal rilascio della licenza e venissero ultimate entro il biennio dall’inizio della costruzione.

La l. 167 ebbe successo, segnando un importante progresso sia per le realizzazioni di edilizia economica e popolare sia per la disciplina urbanistica. Modificata e integrata, soprattutto dalla l. 865 del 1971, essa è ancora formalmente in vigore, anche se di fatto la sua utilizzazione è ormai da tempo marginale. Il problema sociale dell’abitazione ha assunto in mezzo secolo contorni diversi, se è vero che oltre l’ottanta per cento delle famiglie oggi vive in casa di proprietà. Ma rimane sempre una fascia, pur piccola, di popolazione bisognosa, tanto bisognosa da non poter aspirare alla casa di proprietà per impossibilità di ricorso al credito e in difficoltà anche nel sostenere i canoni di locazione del mercato, pienamente liberalizzato dalla fine del 1998. L’edilizia economica e popolare, che con la piena attuazione dell’ordinamento regionale aveva assunto la nuova e corretta denominazione di edilizia residenziale pubblica, si è molto ridotta ed è stata sostituita nel linguaggio corrente delle amministrazioni locali dall’housing sociale, una miserevole espressione entrata, a fini fiscali, persino nella legislazione statale (si veda la rubrica dell’art. 57 del cd decreto Cresci Italia, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. in l. 24 marzo 2012, n. 27).Una stagione dello Stato socialee del riformismo sembra conclusa, ma non con l’esaurimento del bisogno, bensì con la progressiva riduzione dell’intervento solidaristico a sostegno dei più deboli.

Sul piano strettamente urbanistico la l. 167 ha largamente ispirato la legislazione (statale e regionale) più recente sui piani esecutivi in variante del piano regolatore generale. Ma quel sistema, che poteva avere una giustificazione nel 1962 e limitatamente all’edilizia economica e popolare, è diventata un vero tarlo che ha inficiato un corretto sistema di pianificazione urbanistica. Inoltre la legislazione successiva non ha ripreso il contrasto alla rendita fondiaria, una tassa a favore dei proprietari delle aree che grava molto pesantemente sul settore immobiliare che finora è rimasta immune dalle iniziative intraprese per il contenimento delle rendite e per la promozione dello sviluppo economico.

Vedi anche Il ventennio del cambiamento e della speranza

Dichiarazione finale approvata all’unanimità a conclusione del Convegno Nazionale per la Salvaguardia e il Risanamento dei Centri Storici (Gubbio 17-18-19 settembre 1960).

Il successo dei Convegno di Gubbio promosso da un gruppo di Comuni, affiancato da parlamentari e studiosi[1], consente la formulazione di una dichiarazione di principi sulla salvaguardia ed il risanamento dei Centri Storici.

Le relazioni degli otto Comuni promotori, la presentazione nella mostra di alcuni studi, in parte preparatori ed in parte esecutivi, di operazioni di risanamento conservativo e l’adesione al Convegno di 50 Comuni dimostrano il crescente interesse che il tema sta suscitando presso le Amministrazioni locali e larghi strati di opinione pubblica.

L’estensione a scala nazionale del problema trattato è stata unanimemente riconosciuta, insieme alla necessità di un’urgente ricognizione e classificazione preliminare dei Centri Storici con la individuazione delle zone da salvaguardare e risanare. Si afferma la fondamentale e imprescindibile necessità di considerare tali operazioni come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione.

Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entitଠin tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti.

Si riconosce la necessità di fissare per legge i caratteri e la procedura di formazione dei piani di risanamento conservativo, come speciali piani particolareggiati di iniziativa comunale, soggetti ad efficace controllo a scala regionale e nazionale, con snella procedura di approvazione e di attuazione.

Detti piani fisseranno modalità span> e gradualità di tutti gli interventi su suolo pubblico e privato, sulle fronti e nell’interno degli edifici, e si attueranno esclusivamente mediante comparti, ciascuno dei quali rappresenti un’entità di insediamento e di intervento.

Rifiutati i criteri del ripristino e delle aggiunte stilistiche, del rifacimento mimetico, della demolizione di edifici a carattere ambientale anche modesto, di ogni “diradamento” ed “isolamento” di edifici monumentali attuati con demolizioni nel tessuto edilizio, ed evitati in linea di principio i nuovi inserimenti nell’ambiente antico, si afferma che gli interventi di risanamento conservativo, basati su una preliminare profonda valutazione di carattere storico-critico, devono essenzialmente consistere in:

a. consolidamento delle strutture essenziali degli edifici;

b. eliminazione delle recenti sovrastrutture a carattere utilitario dannose al l’ambiente ed all’igiene;

c. ricomposizione delle unità immobiliari per ottenere abitazioni funzionali ed igieniche, dotate di adeguati impianti e servizi igienici, o altre desti nazioni per attività economiche o pubbliche o per attrezzature di mode sta entità compatibili con l’ambiente, conservando al tempo stesso vani ed elementi interni ai quali l’indagine storico-critica abbia attribuito un valore;

d. restituzione, ove possibile, degli spazi liberi a giardino ed orto;

e. istituzione dei vincoli di intangibilità e di non edificazione.

Si ravvisa la necessità che la valutazione storico-critica debba, per omogeneità di giudizi, essere affidata ad una commissione regionale ad alto livello e che la redazione dei piani di risanamento e dei comparti, da affidare a tecnici qualificati, avvenga in stretta connessione con la commissione regionale e con i progettisti dei Piani Regolatori.

Si suggerisce che la pubblicazione dei piani di risanamento conservativo si avvalga di una procedura particolare, in cui siano previste forme di pubblicità estesa, come, ad esempio, la contemporanea esposizione in sede regionale oltre che locale, al fine di consentire osservazioni qualificate e l’esame delle osservazioni con l’intervento di particolari competenze.

Si afferma che nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento.

Per la pratica attuazione di tali principi, si invoca un urgente provvedi mento di legge generale che, assorbendo i due disegni di legge del senatore Zanotti Bianco ed altri e dell’on. Vedovato, risolva in modo organico la complessa materia e stabilisca:

I. le modalità ed il finanziamento per il censimento dei Centri Storici;

2. la programmazione delle operazioni alla scala nazionale;

3. le modalità per la formazione dei piani esecutivi di risanamento conservativo, secondo i principi enunciati, affidando ai Comuni la responsabilità delle operazioni per la loro realizzazione;

4. le procedure per la disponibilità dei locali durante le operazioni di risanamento, ivi comprese le modalità per la formazione dei consorzi obbligatori e per un rapido svolgimento delle pratiche di esproprio o prevedendo anche la sostituzione, da parte del Comune, di Enti o di cooperative, ai proprietari inadempienti o che ne facessero domanda;

5. l’entità e le modalità di finanziamento delle operazioni, preferenzialmente risolto con la concessione di mutui a basso interesse ai Comuni interessati con eventuale garanzia dello Stato e con facoltà del Comune di graduare il tasso di interesse proporzionalmente al grado di utile ricavato dall’operazione, con eventuale contributo a fondo perso nei casi di accertata e notevole diminuzione di valore dell’intero compatto;

6. le modalità per la perequazione dei valori economici delle singole proprietà all’interno di ogni compatto;

7. la possibilità gli Enti dell’edilizia sovvenzionata di partecipare alle operazioni di risanamento.

A conclusione dei propri lavori, il Convegno riafferma la necessità che gli auspicati provvedimenti sulla salvaguardia ed il risanamento dei Centri Storici improntati ai principi enunciati formino un unico corpo di norme legislative facente parte, a sua volta, come capitolo fondamentale, del Codice dell’urbanistica, in corso di elaborazione.

[1] Il convegno è stato promosso da un gruppo di architetti, urbanisti, giuristi, studiosi di restauro, e dai rappresentanti dei comuni di Ascoli Piceno, Bergamo, Erice, Ferrara, Genova, Gubbio, Perugia, Venezia. Le relazioni sono svolte da: G. Samonà, A. Cederna, M. Manieri Elia, G. Badano, D. Rodella, E.R. Trincanato, G. Romano, L. Belgiojoso, E. Caracciolo, P. Bottoni

Ancora sul silenzio assenso dello Stato riguardo, stavolta, all’appropriazione della Regione Toscana dei principi fondamentali in materia di governo del territorio (Spunto di riflessione sulla perdurante prassi regionale di non-approvazione degli strumenti urbanistici dei Comuni)

Con questo scritto, al pari di altri, voglio partecipare il mio pensiero sull’esistenza, riguardo alla materia urbanistica, di due Costituzioni: quella formalmente approvata e quella quotidiana “mercanteggiata” con i comportamenti di rappresentati regionali dei cittadini e di coloro – in sede statale – che sono istituzionalmente chiamati a vigilarne il rispetto.

Per comprendere in appieno quanto di seguito esposto, occorre riportare, come premessa, l’incipit della Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici – Divisione Generale dell’Urbanistica – Div. 23^, n. 3210 del 28 ottobre 1967 – “Istruzioni per l’applicazione della legge 6 agosto 1967, n. 765, recante modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.”.

«La legge 6-8-1967, n.765, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 31-8-1967, n.218, ed entrata in vigore il giorno successivo a tale pubblicazione - cioè l'1 settembre 1967 - è intesa essenzialmente a sollecitare la formazione ed approvazione degli strumenti urbanistici comunali, ad assicurare che tali strumenti siano formati in modo rispondente all'interesse generale ed a garantire il rispetto della normativa urbanistica, che sinora è stata largamente e frequentemente violata.

«Come vedesi, la nuova legge si propone di agire, in maniera determinante, sulle componenti causali del disordine urbanistico, che possono così sintetizzarsi:

- la carenza di regolamentazione urbanistica;

- la frequente non rispondenza degli strumenti ai criteri di una sana e corretta disciplina del territorio, soprattutto per quanto riguarda la densità, gli indici di utilizzazione edilizia e la dotazione di spazi e servizi pubblici;

- e infine la generale inosservanza della normativa esistente.

Per raggiungere le finalità suindicate la legge prevede essenzialmente:

- la fissazione di termini perentori per gli adempimenti di competenza comunale;

- l'esercizio dei poteri sostitutivi degli organi statali nel caso di inadempienza del comune, perdurante anche dopo l'invito a provvedere rivolto dal prefetto al consiglio comunale;

- la disciplina dei poteri dell'amministrazione statale di introdurre modifiche di ufficio nei progetti comunali, con la rigorosa determinazione dei limiti di tali poteri;

- la regolamentazione delle lottizzazioni a scopo edificatorio, che vengono ad assumere il carattere di strumenti di attuazione dei piani regolatori generali;

- la determinazione ope legis di essenziali norme di salvaguardia (limiti di volume, di altezza, di densità fondiaria, ecc.) da osservare fino all'approvazione dei piani regolatori generali o dei programmi di fabbricazione;

- la determinazione di limiti e rapporti - da parte del Ministero dei lavori pubblici di concerto con i Ministeri competenti - per assicurare densità, spazi e servizi pubblici nell'ambito di una razionale sistemazione del territorio comunale, in misura adeguata alle esigenze urbanistiche, igieniche e sociali degli insediamenti umani;

- la limitazione dei poteri comunali di deroga soltanto agli edifici ed impianti pubblici e di pubblico interesse;

- una più efficiente articolazione dei poteri sostitutivi e repressivi dell'autorità statale nei confronti delle costruzioni abusive ed illegittime;

- il potenziamento delle sanzioni penali ed amministrative, nonché la previsione di sanzioni pecuniarie e fiscali a carico dei trasgressori.

«La nuova legge, nota ormai come legge urbanistica-ponte, comporta un notevole impegno di pubblici poteri - soprattutto a livello degli enti locali - al quale occorre far fronte con tutti i mezzi disponibili e con la decisa volontà di superare la situazione di "lassismo" nella formazione degli strumenti urbanistici, che tanti danni di carattere sociale, culturale ed economico ha arrecato finora all'assetto ed allo sviluppo delle nostre città.

«E' importante sottolineare che la legge nelle sue finalità è intesa non ad ostacolare ma ad agevolare lo sviluppo dell'attività edilizia, anche in relazione alle previsioni del programma economico nazionale ed alla necessità di predisporre le condizioni indispensabili per l'attuazione degli obiettivi di sviluppo indicati dal piano, che riguardano tanto la edilizia abitativa quanto quella di carattere sociale e le opere infrastrutturali.

«Pertanto, una corretta applicazione della legge presuppone, soprattutto da parte delle amministrazioni comunali, una interpretazione che, in considerazione degli aspetti sociali ed economici dell'attività costruttiva, ne agevoli lo svolgimento nel rigoroso ambito di una razionale impostazione urbanistica dell'espansione dei centri abitati e, più in generale, dell'assetto del territorio. (…).».

Al fine di superare il disordine urbano, lo Stato adottò il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 rubricato “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, aisensi dell'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765.”.

La prescrizione di reperimento di spazi pubblici in relazione agli abitanti insediati o da insediare nonché alle attività produttive fu subito osteggiata (e tale atteggiamento rimane ancor oggi analizzando le proposte di revisione della Legge Urbanistica) da “illuminati” docenti universitari che dall’alto della loro autorevolezza, spesso riconosciuta solo dal mondo accademico o elitario in cui sono soliti operare, criticano la fissazione degli standard poiché impediscono, a detta loro, modelli di città moderni.

A mio sommesso avviso, ben pochi riescono a vedere nel D.M. n. 1444/68 il non plus ultra della coniugazione di interessi – alle varie scale – di perequazione urbanistica e di tutela del paesaggio, senza che venga “espropriata” la funzione pianificatoria riconosciuta ai Comuni fin dall’istituzione del Regno d’Italia.

Una coniugazione che, se effettivamente rispettata, non lascia alcun margine di spazio a fenomeni di corruttela per la trasformazione di terreni in aree edificabili con operazioni spesso finalizzate al riciclaggio di denari di dubbia provenienza.

Il rispetto di tale coniugazione passa obbligatoriamente:

-da una ricognizione oggettiva dei vari tipi di zone territoriali omogenee;

- dal censimento del patrimonio edilizio esistente (compreso quello abusivo, come insegna la sentenza n. 3/2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria);

- dalla fissazione obbligatoria degli indici di densità territoriale, quale base della disciplina perequativa per la distribuzione degli effetti benefici della trasformazione territoriale;

- dal censimento degli effettivi spazi pubblici (verde e parcheggi pubblici, attrezzature di urbanizzazione secondaria) costituenti standard;

- dalla previsione e conseguente obbligo di realizzazione degli standard;

- dalla formulazione e rispetto dei programmi pluriennali di attuazione (art. 13 della Legge n. 10/1977).

Per apportare un contributo a distanza all’interrogativo posto dal Prof. Paolo Urbani che recentemente ha aperto il forum “Urbanistica e concussione: una possibile soluzione?” (sul proprio sito www.pausania.it), vengo a dire che sono della convinzione che se tali punti venissero effettivamente rispettati gli strumenti urbanistici non sarebbero più il luogo di azioni criminose.

Da studi conoscitivi della Magistratura inquirente è emerso che il territorio della Toscana è divenuto, negli ultimi dieci anni e forse più, particolarmente attrattivo per gli interessi della criminalità organizzata, sempre più desiderosa di valorizzare i proventi di attività illecite in operazioni immobiliari di trasformazione urbanistica in una cornice paesaggistica universalmente riconosciuta di particolare pregio.

Provo a dare una ipotesi di lettura su alcune concause che possono aver determinato un tale interessamento delle organizzazioni criminali, in particolare sul ruolo (spero inconsapevole) che può aver avuto la legislazione toscana in materia di governo del territorio, o meglio l’applicazione di tale normativa.

Correva l’anno 1995 e la Regione Toscana approvava la Legge 16 gennaio 1995, n. 5 con la quale eliminava l’approvazione del Piano Regolatore Generale comunale da parte della Regione nonché abrogava le vigenti leggi regionali in tema di programma pluriennale di attuazione. Il Governo della Repubblica era presieduto dall’On. Lanfranco Dini, subentrato al 1° governo Berlusconi. Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale.

Successivamente, la Regione Toscana ha approvato la Legge 3 gennaio 2005, n. 1 con la quale, in maniera equivoca (tanto che i Comuni continuano a comportarsi come in vigenza della legge n. 5/1995), reintroduce l’obbligo dell’approvazione della sola parte operativa del P.R.G. da parte dei Comuni (combinato disposto degli artt. 7 e 10 della l.r.t. n. 1/2005), senza niente disporre – per legge – in tema di programmi pluriennali di attuazione. Il Governo della Repubblica, all’epoca dell’approvazione, era presieduto dall’On. Silvio Berlusconi.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri non impugnò la legge regionale innanzi alla Corte Costituzionale riguardo all’assenza della previsione legislativa di approvazione della parte strutturale dei P.R.G. da parte della regione nonché riguardo all’assenza di disposizioni in tema di programma pluriennale di attuazione.

Orbene, come gli operatori del settore ben sanno, il potere-dovere di approvazione dei piani regolatori era riservato, inizialmente, allo Stato. Solamente con il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, rubricato “Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici (…)” lo Stato ha trasferito alla Regione Toscana il potere-dovere di approvazione (per quanto qui interessa):

- dei piani territoriali di coordinamento previsti dall'art. 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni;

- dei piani regolatori generali; l'autorizzazione e la approvazione delle relative varianti, ivi comprese quelle soggette a procedimento speciale in quanto connesse agli insediamenti scolastici, universitari ed ospedalieri;

- la fissazione dei termini per la formazione dei piani particolareggiati, l'approvazione dei medesimi e delle relative varianti; l'adozione di misure per la compilazione dei piani stessi in sostituzione di quelli rimasti inattuati in tutto o in parte;

- l'approvazione dei regolamenti edilizi comunali e dei programmi di fabbricazione;

- il nulla-osta all'autorizzazione comunale dei piani di lottizzazione.

In base al combinato disposto dell’articolo 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. e dell’articolo 6 del D.M. n. 1444/68, la Regione ha l’obbligo di assicurare il rispetto degli standard minimi di qualità urbana prescritti dal decreto medesimo. Tale funzione propria è garantita dalla Legge Urbanistica con l’atto approvativo.

Così si è espressa recentemente la giurisprudenza amministrativa: La scelta di dimensionare e di allocare i servizi resta una scelta che rientra nella discrezionalità del pianificatore, in quanto tale discrezionalità deve rispettare gli standard minimi che sono previsti dalla normativa di riferimento, ma che – posto che maggiori servizi significano maggiore qualità della vita per i residenti dell’area in cui essi sono allocati – può portare il pianificatore comunale a decidere di garantire alla comunità locale anche una qualità della vita superiore a quella minima che deve essere garantita dal D.M. 2 aprile 1968 (che parla di dotazione “minima” di servizi, ma non prevede limiti massimi).” (TAR Lombardia, Brescia, n. 622/2011).

E’ evidente che il livello minimale di standard previsto dal D.M. n.1444/68 è ascrivibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato non solo riguardo alla formulazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio, ma anche riguardo alla materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale [art. 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione].

Invero, non si comprenderebbe – diversamente – quale sia il giusto motivo per il quale un Cittadino italiano debba vedere mutare il proprio livello di vita qualora decida di spostarsi da una città all’altra del territorio nazionale.

La determinazione degli standard urbanistici, come detto, passa obbligatoriamente da un’anagrafe edilizia del patrimonio esistente (vedasi sentenza n. 3-2009 del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria) e pertanto la Regione, per doversi esprimere al fine di assicurare il rispetto degli standard minimali, non può che vagliare anche il censimento del patrimonio immobiliare che deve essere necessariamente contenuto negli strumenti urbanistici generali.

Poiché la Regione Toscana – nonostante le dichiarazioni di principio sbandierate urbi et orbi, ad ogni pié sospinto, di eccellenza della propria azione amministrativa in tema di governo del territorio – non ha mai obbligato i Comuni a istituire una banca dati del patrimonio edilizio esistente, ecco che in occasione del recepimento delle direttive ambientali sullo sviluppo sostenibile ha unilateralmente eliminato dalla propria legislazione l’obbligo dell’approvazione regionale sugli strumenti urbanistici ottenendo l’effetto di non poter essere chiamata in causa per le trasformazioni urbanistiche comunali che non avevano (e continuano a non avere) alcuna dimostrazione in ordine al rispetto del principio della c.d. “opzione zero” nella fase di formazione degli strumenti urbanistici generali e precipuamente nella valutazione ambientale.

In sostanza, abbiamo avuto, dal 1995 ad oggi, piani regolatori informati sul consumo del territorio per fare cassa ed in danno della qualità della vita urbana dei Cittadini, in quanto ai Comuni è sconosciuta – a causa dell’assenza dell’anagrafe edilizia – l’effettiva necessità di utilizzo delle risorse essenziali del territorio.

Una siffatta particolare abilità nel trovare sistemi di far cassa attraverso l’incamerazione degli oneri di urbanizzazione trova, in me, giustificazione solamente nella visione dell’edilizia come “sistema” di finanziamento.

Invero, attraverso una distorta lettura della norma contenuta nell’art. 1, comma 43 della Legge n. 311/2004 (Governo Berlusconi) che “consente” ai Comuni di non destinare più – quale entrata a specifica e vincolata voce di bilancio comunale – l’utilizzazione dei proventi concessori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, ritengo che gli Enti Locali siano stati utilizzati come strumento per ingrassare i bilanci.

La distorsione è avvenuta – e continua ad avvenire – considerando facoltà quella che, invece, è una mera eventualità consequenziale al presupposto rispetto del limite legale, contenuto nella disciplina urbanistico-edilizia, dell’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria (compreso il verde e i parcheggi pubblici) al momento del rilascio del permesso di costruire (art. 4 della Legge n. 10/1977, oggi art. 12 del D. Lgs. n. 378/2001).

Solamente dopo aver accantonato i denari afferenti ai fabbisogni per l’urbanizzazione primaria comunque da rispettare, i Comuni possono destinare le somme rimanenti ad altri scopi, pur rispettando – comunque – il programma pluriennale di attuazione degli strumenti urbanistici comunali (art. 13 della Legge n. 10/1977) che deve essere redatto in conformità al programma pluriennale delle opere pubbliche (che deve assicurare anche il raggiungimento degli standard di urbanizzazione secondaria nei minimi di legge).

Siccome occorreva la ciliegina sulla torta, ecco che la Regione Toscana – attraverso la circolare approvata con deliberazione di Giunta 10 febbraio 2003, n. 118 – dichiara che «In Toscana l’istituto dei Programmi Pluriennali di Attuazione (PPA) è abrogato …». Come se uno strumento istituto dallo Stato possa essere abrogato con disposizione regionale in assenza di norma delegante. Così non importa più nemmeno programmare le trasformazioni urbanistiche, i cui proventi servono per realizzare le infrastrutture pubbliche.

Che dire! Siamo in una Repubblica federale e non me ne ero accorto! E pensare che la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 1033/1988) ebbe a statuire che le disposizioni relative ai P.P.A. di cui all’art. 13 della Legge n. 10/1977 e all’art. 6 della Legge n. 94/1982 sono norme di riforma economico-sociale che introducono questo strumento urbanistico che è diretto a modificare profondamente le tecniche del governo pubblico del territorio, in quanto, affiancando all’ordinaria pianificazione spaziale di vincoli o di scelte conformatrici della proprietà una programmazione temporale di attività, ne ha trasformato radicalmente il senso, convertendole da strumenti essenzialmente negativi e impeditivi a strumenti di impulso, che esigono un’interazione con le attività e i progetti dei privati.

Ebbene, la Toscana – violando palesemente la Costituzione ed appropriandosi anche della funzione legislativa per le riforme economico-sociali – ha stabilito che nel suo territorio non devono essere fatti i Programmi Pluriennali di Attuazione! Così facendo si eliminano alla radice:

- i problemi di utilizzazione degli introiti vincolati nel bilancio comunale (oneri di concessione);

- i problemi di dover far sottostare le iniziative private alla pianificazione pubblica, consentendo direttamente ai privati di poter proporre programmi d’intervento che facendo intravedere chissà cosa di vantaggioso per la collettività “convincono” gli amministratori locali ad abdicare dalla loro propria funzione pianificatoria.

Ecco, in sintesi ed a mio giudizio, quali sono gli inconsapevoli apporti della normativa regionale (manifestamente incostituzionale in parte qua) all’assalto del patrimonio paesaggistico toscano da parte di imprenditori senza scrupoli, spesso sponsorizzati da politici di scala nazionale, nonché da parte di organizzazioni malavitose che reinvestono capitali provenienti – così dicono i report delle indagini conoscitive della magistratura inquirente – anche da paesi esteri.

Oltre, ovviamente, al peggioramento della qualità della vita urbana dei cittadini, attraverso il riempimento di “vuoti urbani” già destinati o destinabili alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione primaria e secondaria che dovevano essere eseguite magari da oltre trent’anni e mai realizzate (nonostante siano milioni e milioni di euro le somme introitate a titolo di oneri di urbanizzazione dalla maggior parte dei comuni toscani) per mancanza di fondi, stante la loro distrazione per altri scopi!

Per questo ritengo sia fondamentale - se si vuol davvero perseguire le finalità indicate nella legge urbanistica – ristabilire il vigente ordine riguardo alla funzione di approvazione degli strumenti urbanistici comunali, affinché gli organi regionali tornino ad essere responsabili (anche sotto il profilo penale che erariale) del disordinato e/o disarmonico utilizzo del territorio.

Occorre iniziare ricordando quanto ha statuito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 26/1996:

«Non fondata è, invece, la censura proposta sotto il profilo che l'art. 6, comma 3 (in base al quale qualora il termine per l'assunzione della deliberazione comunale con le determinazioni sulla richiesta regionale di modifiche al programma integrato in variante agli strumenti urbanistici sia inutilmente decorso, le modifiche stesse sono introdotte d'ufficio dalla Giunta regionale), violerebbe gli artt. 5, 117 e 128 della Costituzione.

«Preliminare - nell'esame di questa censura - è il riferimento ai principi fondamentali della legislazione urbanistica in materia, in particolare all'art. 10, secondo comma, della Legge 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 3 della Legge 6 agosto 1967, n. 765, il quale prevede diverse categorie di modifiche d'ufficio (in sede di approvazione) al piano regolatore.

«Esse, tuttavia, sono ammesse a condizione che rispettino un limite ben preciso: si tratti cioè di modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, ovvero che non mutino le caratteristiche essenziali del piano ed i criteri di impostazione dello stesso. A ben vedere si tratta di un limite strutturale che è comune ad ogni tipo di modifiche d'ufficio nell'ambito di atto complesso, soprattutto in sede di pianificazione urbanistica caratterizzata dalla duplice competenza comunale (di iniziativa e adozione) e regionale (di esame, di valutazione e verifica della coerenza degli strumenti urbanistici e l'assetto degli interessi coinvolti). In caso di mancanza delle condizioni per le modifiche di ufficio la regione ha solo il potere di non approvare il piano e di restituirlo al comune ovvero di approvarlo in parte con stralcio e restituzione per le eventuali iniziative del comune.

«Di conseguenza la Legge regionale censurata deve essere interpretata e coordinata con i principi fondamentali della Legge statale vigente in materia di formazione e approvazione di strumenti urbanistici (art. 10, comma secondo, della Legge n. 1150 del 1942, nel testo vigente citato).

«Così precisati il senso e l'ambito di operatività della disposizione denunciata, essa resiste alle censure di illegittimità costituzionale, in particolare a quella - assorbente - relativa all'art. 117 della Costituzione, qualificandosi all'opposto, nel senso sopra specificato, in armonia con i principi posti dalla legislazione statale in materia, nel rispetto altresì dell'autonomia comunale.»

Riassumendo, la Corte Costituzionale ha stabilito che:

L’approvazione regionale dello strumento urbanistico comunale costituisce principio fondamentale della materia urbanistica (oggi governo del territorio).

La competenza nella formazione dello strumento urbanistico comunale è duale (Regione e Comune), con specifici limiti della Regione per quanto concerne poteri di modifica d’ufficio del contenuto del progetto di piano regolatore comunale.

Riguardo all’approvazione degli strumenti urbanistici comunali, lo Stato – mediante l’art. 1, comma 2, lettera d) del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 – ha trasferito alle Regioni la funzione amministrativa di approvazione dei piani regolatori generali comunali (art. 10 della Legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.), ma non l’ha soppressa.

Di conseguenza, persiste l’obbligo dell’approvazione degli strumenti urbanistici comunali da parte della Regione, tenuto conto – peraltro – che, come detto dalla Corte Costituzionale, il P.R.G.C. è atto complesso a competenza duale.

Alcuna influenza sul riparto delle competenze e sul trasferimento delle funzioni amministrative statali può avere la modifica del Titolo V della Costituzione ad opera della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

A tal proposito si ricorda che all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni credevano che la materia dell’urbanistica, in quanto non più nominata nell’art. 117 Cost., fosse divenuta – in via residuale – di loro competenza legislativa esclusiva.

Il Giudice delle Leggi, tuttavia, ebbe modo di statuire (cfr. sentenze n. 303/2003; n. 307/2003; n. 362/2003; n. 196/2004; n. 343/2005) che l’urbanistica rientra nella materia denominata “Governo del Territorio” nella quale lo Stato ha la competenza legislativa esclusiva per ciò che concerne i principi fondamentali.

Può essere utile richiamare anche un passaggio della sentenza n. 343/2005 della Corte Costituzionale, che ha carattere più generale: «La materia edilizia rientra nel governo del territorio, come prima rientrava nell'urbanistica, ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, per la quale le regioni debbono osservare, ora come allora, i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale. ».

Inoltre, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 376/2002, riguardo al rapporto tra le competenze legislative tra Stato e Regioni ebbe già modo di statuire che: «Anche tale questione deve essere valutata alla luce delle norme costituzionali, invocate dalla ricorrente, come risultanti dal testo anteriore alla riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione recata dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001. L'eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e regione, sarebbe infatti suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l'efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione (cfr. sentenza n. 13 del 1974).»

La riconosciuta qualificazione di principio fondamentale all’approvazione – da parte della Regione – degli strumenti urbanistici comunali porta ad affermare, anche in relazione all’obbligo della Regione di osservanza dei suddetti principi (cfr. sentenze già citate n. 343/2005 e n. 376/2002), che in mancanza – come oggi sono assenti – degli specifici atti di approvazione regionale TUTTI i Regolamenti Urbanistici dei comuni della Toscana, di cui viene attualmente data asserita applicazione, non si sono mai formati.

Ciò che è stato approvato dai vari Consigli comunali sono atti giuridicamente inesistenti, in quanto non essendo oggetto del concorso della volontà di entrambi gli Enti (Comune e Regione, che deve assicurare il rispetto degli standard) non sono mai venuti ad esistenza. Atti inesistenti sono improduttivi di effetti giuridici.

A tal proposito si evidenzia come il Consiglio di Stato abbia già affermato che:

1. «Prima dell’approvazione tutoria regionale, nelle forme previste dalla legge urbanistica, il piano regolatore non si può dire ancora perfezionato, perché l’atto di controllo regionale non è condizione di efficacia, ma ha un effetto costitutivo, per cui lo strumento urbanistico è espressione tanto del Comune che l’adotta che dell’ente che lo approva e che, quindi, partecipa alla relativa formazione nell’interesse di un adeguato governo del territorio, onde il piano stesso è un atto complesso.» (Sez. V, 13 dicembre 1999, n. 2106).

2. «Che difetta il presupposto legale sul quale parte appellante poggia la propria rivendicazione di edificabilità dell’area per le ragioni che seguono:

- per un verso, non è neppure controverso tra le parti (come deducibile dalle stesse argomentazioni svolte con i due ultimi profili di contestazione della sentenza impugnata) che la variante urbanistica adottata con la delibera consiliare n. 45 del 7 novembre 2002, che ha attribuito la destinazione di zona S2B all’area in questione, non è mai divenuta definitiva per non essere stata approvata dalla Regione;

- per altro verso, il Collegio non può condividere la tesi che anche la semplice adozione dello strumento urbanistico possa comportare l’applicazione della norma di cui all’invocato comma 1 dell’art. 4 della Legge n. 291 del 1971, avuto presente il principio giurisprudenziale secondo il quale, finché lo strumento urbanistico non abbia favorevolmente superato non soltanto la fase costitutiva, ma anche quella integrativa dell'efficacia, l’area interessata deve ritenersi sprovvista di una disciplina di pianificazione, con l'ovvia conseguenza che, nel frattempo, devono osservarsi le limitazioni all'edificabilità dettate dalla disposizione qui rilevante dell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001.» (Sez. IV, 29 settembre 2011, n. 5414).

Nemmeno può essere invocato qualsivoglia forma di silenzio assenso della Regione, in quanto il Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 408/1995, ebbe a stabilire che:

«In base al sistema – è questo il significato sotteso alla richiamata sentenza n. 393 del 1992 - la previsione del silenzio-assenso può ritenersi ammissibile in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità, mentre la trasposizione di tale modello nei procedimenti ad elevata discrezionalità, primi tra tutti quelli della pianificazione e programmazione territoriale, finisce per incidere sull'essenza stessa della competenza regionale. Il venir meno nella normativa statale della previsione del silenzio-assenso per effetto di detta sentenza e le implicazioni che possono desumersi da essa denotano attualmente l'esistenza nella Legge statale, specifica per la materia, di un principio fondamentale opposto, che ritiene indispensabile una valutazione esplicita da parte degli organi regionali nei procedimenti che necessitano del "diversificato contributo degli organi e uffici competenti coinvolti nella procedura.» (sent. n. 393 del 1992).

Ecco, quindi, che in Toscana – quella Toscana tanto decantata a modello di buona amministrazione – tutti i Comuni, attualmente, danno attuazione ad inesistenti strumenti urbanistici generali, che ledono – di conseguenza – i diritti civili dei cittadini di poter validamente ottenere dalla loro P.A. quel livello minimo essenziale di qualità urbana previsto dalla legge statale che deve essere assicurato dalla Regione in fase di approvazione dello strumento urbanistico generale, ma da quest’ultima non riconosciuto in nome di una “Costituzione materiale” contrastante con quella formale.

Un federalismo di fatto che rende taluni italiani figli di un Dio minore. Con il silente consenso dello Stato che – inducendo ad ipotizzare l’esistenza di un’interessata intesa politica bipartisan – ha “autorizzato” la modifica extra-parlamentare della Costituzione in parti del territorio nazionale particolarmente vocate per la valorizzazione.

Si consideri, parimenti che l’assicurazione degli standard avrebbe l’effetto collaterale di fermare l’incontrollato consumo di territorio per effetto della necessaria formazione della presupposta anagrafe edilizia che, se formata, sarebbe in grado di svelare – come nella favola de I vestiti nuovi dell’Imperatore – che il Re è nudo: ossia che non vi è più bisogno, ormai da tempo, di costruire ex novo, essendo più che sufficiente, per i fabbisogni prossimi e futuri, recuperare a funzionalità e a sicurezza il patrimonio edilizio esistente.

Il sindaco di Cagliari ha recentemente motivato il suo tentativo di raggiungere un accordo con i proprietari delle aree di Tuvixeddu-Tuvumannu con l’esigenza di non far sborsare ingenti somme al comune. I proprietari, come è noto, si ribellano all’applicazione delle norme del Piano paesaggistico regionale che sono più tutelatrici (dicono: “vincolistiche”) di quelle del piano urbanistico comunale, e il sindaco Zedda ha affermato che «per Tuvixeddu non ce la facciamo, da soli, a fronteggiare eventuali risarcimenti chiesti dai costruttori. Solo per l'annullamento di una piccola porzione del loro intervento, vogliono 12 milioni. E poi c'è l'Ici che hanno pagato». Così abbiamo letto sull’articolo di Francesco Erbani, su Repubblica del 10 febbraio. Abbiamo scoperto così che se l’edificabilità di un’area diminuisce, o scompare, per norma sopraggiunta al pagamento dell’ICI, il comune sarebbe tenuto a rimborsarla. Possibile? ci siamo detti. Non sarà che questo è un'altra voce fatta cirolare dagli interessati, e raccolta dai poco furbi (o troppo furbi)? Che poi diventa opinione corrente, come l’esistenza di “diritti edificatori”?

Abbiamo chiesto un parere a un nostro amico, di cui conosciamo la sapienza e il rigore, Alberto Roccella, che avevamo conosciuto proprio a Cagliari. Ecco la sua risposta, che ci tranquillizza. Ci rimane una curiosità: chi avrà spaventato il sindaco?.

Grazie, Alberto. (e.s.)

Inedificabilità sopravvenuta e preteso diritto al rimborso dell’ICI

di Alberto Roccella

1. Un caso di attualità ancora aperto, quello del progetto di edificazione in prossimità della necropoli di Tuvixeddu, propone un problema di carattere generale meritevole di un approfondimento.

Alcuni amministratori locali sono intenzionati a modificare i piani urbanistici comunali vigenti al fine di ridurre o cancellare previsioni di edificabilità che, se effettivamente realizzate, comprometterebbero valori primari meritevoli di tutela. Essi, tuttavia, sono intimiditi dai proprietari interessati, i quali prospettano, tra l’altro, anche azioni legali volte a ottenere il rimborso dell’ICI, l’imposta comunale sugli immobili, pagata negli anni precedenti. Gli amministratori si preoccupano quindi delle conseguenze delle nuove scelte urbanistiche per le finanze dei loro Comuni.

Ma veramente l’inedificabilità sopravvenuta comporta per i proprietari delle aree il diritto al rimborso da parte del Comune dell’ICI pagata negli anni precedenti?

Per il futuro bisognerà seguire l’evoluzione della legislazione. Infatti il cosiddetto decreto Salva Italia ha sostituito l’ICI, già a partire dal 2012, con l’IMU, la nuova imposta municipale propria sugli immobili, la cui disciplina per vari aspetti rinvia a quella dell’ICI (decreto-legge 201/2011, convertito in legge 214/2011, art. 13). L’IMU però è stata istituita in via sperimentale e la sua applicazione a regime è stata fissata al 2015 (comma 1), lasciando così intendere che la sua disciplina potrà essere ritoccata.

Non è invece prevedibile che venga modificata retroattivamente la normativa sull’ICI che si è applicata fino al 2011 e che si considera nel seguito di questo lavoro, poiché il nostro ordinamento reca una regola generale, se pur derogabile da leggi successive, di segno contrario. La regola è posta dalla legge dedicata allo statuto dei diritti del contribuente, la quale stabilisce che le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo; relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono (l. 212/2000, art. 3, comma 1).

2. Nella disciplina originaria dell’ICI una disposizione prevedeva il caso di aree divenute inedificabili e stabiliva il rimborso dell’imposta pagata per il periodo di tempo decorrente dall’ultimo acquisto tra vivi dell’area (con il limite massimo di dieci anni), a condizione che il vincolo fosse perdurato per almeno tre anni (decreto legislativo 504/1992, art. 13, comma 1, ultimo periodo). Ma questa disposizione è stata presto soppressa e l’obbligo di rimborso dell’imposta è stato trasformato in una semplice facoltà: i Comuni possono prevedere, con proprio regolamento, il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità e alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici (decreto legislativo 446/1997, art. 58, comma 1, lettera c), e art. 59, comma 1, lettera f).

Proprio con riferimento a questa normativa, tuttora vigente, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha recentemente deciso in modo netto la questione di principio in un caso facile da descrivere. Un Comune della Lombardia aveva rigettato un’istanza di rimborso dell’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997; l’istanza era stata avanzata dopo che l’area tassata era divenuta inedificabile per una variazione di pianificazione conseguente a una imposizione della Giunta regionale. La sentenza si è limitata a osservare che la domanda di rimborso dell’imposta, ancorché riferita agli anni 1993-1997, era stata presentata dopo il 1° gennaio 1998, quando era già entrata in vigore la nuova normativa che non prevedeva più l’obbligo del rimborso; d’altra parte non risultava che il Comune avesse approvato un proprio regolamento sul rimborso dell’imposta. Tanto è stato sufficiente per rigettare il ricorso dei privati proprietari avverso la sentenza della commissione tributaria regionale che, nel precedente grado del giudizio, aveva negato il diritto al rimborso (Corte di Cassazione, sezione tributaria, 24 marzo 1010, n. 7100).

Dunque non ci sono dubbi in giurisprudenza. La sopravvenuta inedificabilità dell’area, a seguito di nuove previsioni di pianificazione urbanistica, comporta per i privati proprietari il diritto al rimborso dell’ICI pagata solo nel caso in cui il Comune abbia previsto tale rimborso in un proprio regolamento e nei limiti stabiliti dal regolamento medesimo. Questo principio si applica anche all’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997, nei quali vigeva invece l’obbligo del rimborso, se la domanda sia stata avanzata dopo il 1° gennaio 1998, quando l’obbligo di rimborso è stato trasformato in semplice facoltà

3. Le sentenze della Corte di Cassazione, per quanto autorevoli, decidono solo il caso specifico e non vincolano gli altri giudici né la stessa Corte per decisioni future sullo stesso problema. Ci si può dunque chiedere se la soluzione sopra esposta sia razionale, accettabile, coerente con il sistema, o se invece sia seriamente criticabile, al fine di valutare se siano prevedibili in futuro mutamenti di giurisprudenza.

A questo riguardo si devono valutare altre importanti decisioni della stessa Corte di Cassazione e della Corte costituzionale che non riguardano specificamente il rimborso dell’ICI, ma delineano i caratteri generali di questo tributo, nella parte relativa alla tassazione delle aree edificabili. La Corte di Cassazione ha pronunciato a sezioni unite una decisione particolarmente approfondita, la sentenza 30 novembre 2006, n. 25506, di cui la Corte costituzionale ha tenuto conto in modo positivo allorché ha dichiarato manifestamente inammissibili o manifestamente infondate varie questioni di legittimità costituzionale della normativa sull’ICI per i terreni edificabili. La Corte costituzionale ha respinto le censure di violazione dei princìpi di capacità contributiva, di ragionevolezza e di uguaglianza, di garanzia della proprietà privata e, in particolare, ha respinto le critiche alla disposizione secondo cui le aree sono da considerarsi edificabili ai fini dell’ICI anche se manchino i necessari piani attuativi dello strumento urbanistico generale (ordinanze n. 41, 266 e 394 del 2008). Vi è quindi pieno accordo tra la massima istanza dell’autorità giudiziaria ordinaria, le sezioni unite della Corte di Cassazione, e la Corte costituzionale (la quale non decide controversie specifiche ma giudica la legittimità delle leggi), pur nella distinzione dei rispettivi ruoli e dell’oggetto dei relativi giudizi.

E allora, invece di proporre affermazioni perentorie che potrebbero suonare gratuite o di sviluppare argomenti che potrebbero apparire soggettivi, conviene affidarsi ai massimi organi giurisdizionali, delle cui decisioni in materia si riportano di seguito testualmente i brani di motivazione più significativi.

3.1. «Bisogna partire da alcune premesse di sistema: l’imposta comunale sugli immobili è una imposta locale sul patrimonio immobiliare, a carattere proporzionale (ad aliquota unica), reale (in quanto prescinde dalle ulteriori condizioni economiche del contribuente) e periodica (riferita all’anno solare). Infatti, il presupposto impositivo è costituito, per quanto interessa in questa sede, dal "possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2). Dunque, l’ICI incide sia il possesso delle aree fabbricabili che quello dei terreni agricoli. La distinzione, però, è rilevante, ai fini fiscali, perché differenti sono i criteri utilizzati per determinare la base imponibile. Infatti, per le aree fabbricabili, la base imponibile è costituita dal "valore venale in comune commercio", calcolato al 1° gennaio dell’anno di imposizione, "avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5). Per i terreni agricoli, invece, "il valore è costituito da quello che risulta applicando all’ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell’anno di imposizione, un moltiplicatore pari a settantacinque" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 7, oltre gli eventuali coefficienti di rivalutazione, l. n. 662 del 1996, ex art. 3, comma 5). In definitiva, ai fini dell’ICI, la distinzione tra aree edificabili e terreni agricoli, non serve per distinguere un bene imponibile da uno non imponibile, serve soltanto per individuare il criterio in base al quale deve essere determinata la base imponibile ICI (criterio del valore venale, secondo i prezzi medi di mercato, ovvero valore catastale). Questa premessa serve anche a sdrammatizzare il problema, perché, se i criteri di calcolo vengono applicati correttamente, il contribuente subirà un prelievo che non sarà mai superiore a quello giustificato dal reale valore del bene posseduto. Con la possibilità, del tutto naturale, che si verifichino oscillazione di valore connesse all’andamento del mercato e/o allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi. È naturale che le imposte patrimoniali siano commisurate al valore del patrimonio cui si riferiscono. Possono verificarsi variazioni al rialzo, che comportano un maggior prelievo nel periodo di imposta, o variazioni al ribasso (ad esempio, a causa della mancata approvazione del PRG), che attenuano il prelievo, senza che questo comporti, ex se, il diritto al rimborso per gli anni pregressi (salvo che i comuni non ritengano, sul piano dell’equità, di riconoscere il diritto al rimborso (d.lgs. n. 446 del 1997, ex art. 59, comma 1, lett. f)), durante i quali, comunque, l’imposta è stata commisurata al valore venale di mercato. E non rileva, ai fini dell’ICI, che l’incremento di valore non sia stato monetizzato, attraverso un atto di trasferimento oneroso, che, eventualmente, ricorrendone i presupposti di legge, avrebbe potuto dare luogo ad una plusvalenza, soggetta ad imposta sul reddito. D’altra parte, anche un PRG approvato e vigente è soggetto a modifiche che possono portare a una diversa classificazione dei suoli con conseguenti sensibili oscillazioni di valore. Per ragioni di equità, come già accennato, il legislatore ha previsto espressamente che i comuni possano "prevedere il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità ed alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici" (d.lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. f))». (Cass., sez. un., 25506/2006).

3.2. «È del tutto ragionevole che il legislatore: a) attribuisca alla nozione di “area edificabile” significati diversi a seconda del settore normativo in cui detta nozione deve operare e, pertanto, distingua tra normativa fiscale, per la quale rileva la corretta determinazione del valore imponibile del suolo, e normativa urbanistica, per la quale invece rileva l’effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio, indipendentemente dal valore venale del suolo; b) muova dal presupposto fattuale che un’area in relazione alla quale non è ancora ottenibile il permesso di costruire, ma che tuttavia è qualificata come “edificabile” da uno strumento urbanistico generale non approvato o attuato, ha un valore venale tendenzialmente diverso da quello di un terreno agricolo privo di tale qualificazione; c) conseguentemente distingua, ai fini della determinazione dell’imponibile dell’ICI, le aree qualificate edificabili in base a strumenti urbanistici non approvati o non attuati (e, quindi, in concreto non ancora edificabili), per le quali applica il criterio del valore venale, dalle aree agricole prive di detta qualificazione, per le quali applica il diverso criterio della valutazione basata sulle rendite catastali» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008).

3.3. «La potenzialità edificatoria dell’area, anche se prevista da strumenti urbanistici solo in itinere o ancora inattuati, costituisce notoriamente un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore del terreno e, pertanto, rappresenta un indice di capacità contributiva adeguato, ai sensi dell’art. 53 Cost., in quanto espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante; e ciò indipendentemente dalla eventualità che, nei contratti di compravendita, il compratore, in considerazione dei motivi dell’acquisto, si cauteli condizionando il negozio alla concreta edificabilità del suolo, trattandosi di una ipotetica circostanza di mero fatto, come tale irrilevante nel giudizio di legittimità costituzionale; (…) inoltre, il criterio del valore venale non comporta affatto (…) una valutazione fissa ed astratta del bene, ma consente di attribuire al terreno (già qualificato come edificabile dallo strumento urbanistico generale) il suo valore di mercato, adeguando la valutazione alle specifiche condizioni di fatto del bene e, quindi, anche alle più o meno rilevanti probabilità di rendere attuali le potenzialità edificatorie dell’area» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008 e 394/2008).

3.4. «(..) Contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo, il pagamento dell’ICI, attenendo all’adempimento, mediante versamento diretto di una somma di denaro, di un obbligo tributario, non rientra nelle ipotesi di espropriazione di beni previste dall’evocato terzo comma dell’art. 42 Cost.; e ciò neppure nel caso in cui il contribuente non abbia a disposizione denaro liquido e, per adempiere detto obbligo, alieni a terzi uno o più beni di sua proprietà; (..) l’assunto del giudice a quo, per cui, in definitiva, le imposte patrimoniali sono costituzionalmente legittime solo se possono essere pagate con il reddito ritraibile dal cespite oggetto d’imposta, non trova fondamento nemmeno nel primo comma dell’art. 53 Cost., perché la capacità contributiva in ragione della quale il contribuente è chiamato a concorrere alle pubbliche spese esige solo l’oggettivo e ragionevole collegamento del tributo a un effettivo indice di ricchezza espresso, nella specie, dal valore del bene immobile “posseduto” dal soggetto passivo di imposta ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992 (…); (..) il presupposto fattuale della qualificazione di un’area come “edificabile” ad opera di uno strumento urbanistico generale non approvato o non attuato costituisce un indice di capacità contributiva che, giustificando la tassazione ai sensi dell’art. 53 Cost., esclude di per sé l’evocabilità dell’art. 42, terzo comma, Cost.» (Corte cost., 394/2008).

4. Le decisioni della Corte di cassazione e della Corte costituzionale guidano verso le conclusioni.

L’ICI riguardava tutte le aree, non solo quelle fabbricabili ma anche quelle agricole. La base imponibile era sempre il valore del bene (non il suo reddito), ma da determinare con due criteri diversi, il valore venale in comune commercio per le aree fabbricabili, un moltiplicatore legale del reddito catastale per le aree agricole.

La nozione di area fabbricabile ai fini dell’ICI non coincideva con la stessa nozione a fini urbanistici. Ai fini dell’ICI, infatti, le aree erano considerate fabbricabili se utilizzabili a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi dello strumento generale. Ai fini dell’ICI, dunque, le aree potevano essere considerate fabbricabili ma in quattro circostanze diverse, in relazione allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi (secondo l’espressione adoperata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite). Le quattro circostanze sono così sintetizzabili: 1) piano regolatore generale adottato, ma non ancora perfezionato; 2) piano regolatore generale approvato e in vigore, ma con edificazione soggetta a pianificazione attuativa; 3) piano regolatore generale seguito da pianificazione attuativa in vigore (ovvero anche piano regolatore generale la cui attuazione non sia subordinata a pianificazione attuativa); 4) avvenuto rilascio del permesso di costruire. Il valore venale in comune commercio poteva dunque risultare diverso in relazione a ciascuna delle quattro circostanze (come suggerito non solo dalla Corte di Cassazione a sezioni unite ma anche dalla Corte costituzionale nel brano riportato al par. 3.3.) e resta ferma al riguardo la giusta considerazione che si legge nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite: i criteri di calcolo dovevano essere applicati correttamente (con la conseguenza, si può aggiungere, che il valore venale non era lo stesso nelle quattro circostanze).

La sopravvenuta inedificabilità non poteva mai giustificare una richiesta di rimborso integrale dell’ICI pagata, ma soltanto un rimborso parziale, con la rideterminazione dell’imposta dovuta per differenza tra l’importo calcolato secondo il criterio del valore venale e quello basato sulle risultanze catastali. Ma, come ha ben spiegato la Corte di cassazione a sezioni unite, l’ICI era un’imposta che colpiva il patrimonio, non il reddito, ed era quindi logico che essa fosse ragguagliata, anno per anno, al valore delle aree secondo le loro caratteristiche per il relativo periodo di imposta, sempre con riferimento al 1° gennaio dell’anno di imposizione. Solo considerazioni equitative, rimesse all’autonomia regolamentare del singolo Comune, potevano dar luogo, in caso di sopravvenuta inedificabilità, al rimborso dell’ICI pagata, peraltro un rimborso parziale, come più sopra chiarito.

La Corte di Cassazione a sezioni unite e la Corte costituzionale ci hanno dato una ricostruzione coerente, sistematica e razionale della disciplina dell’ICI, cosicché non è prevedibile un cambiamento di giurisprudenza.

Si può aggiungere che questa disciplina dell’ICI aveva anche una giustificazione razionale che non compare nelle sentenze esaminate, le quali non avevano motivo di considerarla in funzione dei problemi da risolvere, ma che si mostra chiaramente a chi si occupa per motivi di studio di diritto urbanistico e che potrebbe essere confermata da chi ha pratica di governo del territorio. Non è frequente che i proprietari chiedano, nelle procedure di pianificazione urbanistica, di mantenere la destinazione agricola delle loro aree. I proprietari invece spesso esercitano forti pressioni sugli amministratori pubblici per ottenere, nelle stesse procedure, la destinazione edificatoria delle loro aree, anche se essi non hanno veramente intenzione di costruire immediatamente. La destinazione edificatoria di piano regolatore generale produce subito un incremento di valore delle aree, spendibile non solo in trattative commerciali con potenziali acquirenti, ma anche nei rapporti con le banche come garanzia per l’accesso al credito. L’ICI sulle aree fabbricabili commisurata al valore in comune commercio e non alla rendita catastale (come invece per le aree agricole) rappresentava un fattore di equilibrio del sistema, perché bilanciava le pressioni per ottenere con la pianificazione urbanistica destinazioni non corrispondenti a reali e attuali esigenze edificatorie. La disciplina tributaria si collegava alla disciplina urbanistica attenuando, sia pure parzialmente, le pressioni per piani urbanistici sovradimensionati.

La disciplina dell’ICI, così come ricostruita, è contestabile solo da chi, per pregiudizio ideologico e politico, ritenga che i tributi debbano colpire sempre i redditi e i consumi e non possano invece colpire i patrimoni. Le decisioni considerate invece esplicitamente qualificano l’ICI come imposta patrimoniale e la considerano compatibile con la Costituzione. Il rimborso dell’ICI per inedificabilità sopravvenuta era previsto dalla legge solo a discrezione del Comune, come misura equitativa, in stretta correlazione col carattere del tributo di imposta patrimoniale.

Le cattive scelte di pianificazione urbanistica operate in passato sono sempre suscettibili di essere corrette, riducendo o cancellando previsioni di edificabilità eccessive o sconsiderate. Ovviamente occorre che le nuove scelte siano disposte nel rispetto delle regole di legge, sostanziali e procedurali, sulla pianificazione e siano quindi indenni da vizi di legittimità censurabili dal giudice amministrativo. Ma la disciplina dell’ICI non costituisce una remora per le variazioni di pianificazione le quali, come si è visto, possono comportare conseguenze finanziarie sui Comuni solo nei limiti in cui gli stessi Comuni, per ragioni equitative, abbiano previsto il rimborso (parziale) dell’imposta pagata negli anni precedenti.

Si avverte, infine, che l’IMU ha la stessa natura dell’ICI e che la vigente disciplina dell’IMU, da applicare in via sperimentale nel triennio 2012-2014, non contiene, per il rimborso dell’imposta, nessuna disposizione diversa da quelle relative all’ICI.

16 febbraio2012

Il muro di Metropoliz come dispositivo architettonico nel lavoro del Dpu summerLab (University College London (UCL)

Abstract

Nel settembre 2011, la Development Planning Unit di Londra ha tenuto la prima edizione del summerLab programme a Roma: una immersione di sei giorni negli spazi di conflitto della città, particolarmente all’interno dell’universo di Metropoliz, un’occupazione a scopo abitativo i cui meccanismi di inclusione ed esclusione sono stati decostruiti dai partecipanti con la progettazione di dispositivi volti alla loro profanazione.

Roma e la lotta per la casa.

Metropoliz e molte altre occupazioni (oggi se ne possono contare più di trenta sul territorio romano) sono nate in uno scenario decisamente condizionato dalle pressioni della speculazione immobiliare. Le autorità sono state silenziose spettatrici di una situazione continuamente peggiorata negli ultimi venti anni: così, mentre molto famiglie diventavano pendolari potendo trovare affitti sostenibili solo nei comuni e nelle province limitrofe, una risposta alternativa si è materializzata nelle occupazioni a scopo abitativo, che allo stesso tempo hanno contribuito alla de-ghettizzazione delle geografie degli immigrati (altrimenti confinati all’estrema periferia della città in cluster reciprocamente esclusivi).

L’occupazione illegale di edifici abbandonati, frammenti della città dimenticati dallo sviluppo urbano, è stata dunque la strategia principale per la cosiddetta Lotta per la casa, condotta da una serie di associazioni (spesso vicine alla sinistra antagonista) che ricercano una legittimazione via via maggiore tramite la produzione (e ri-produzione) informale di spazio pubblico.

Di recente il loro obiettivo si è spostato dalla Casa all’Abitare, cercando di enfatizzare il ruolo delle occupazioni stesse come pezzi viventi e attivi della città: pezzi che non provvedono solo alla sistemazione di persone in emergenza abitativa ma anche a ricreare quei servizi e spazi pubblici scomparsi con lo stato sociale. In altre parole, ad asserire un pieno diritto alla città per tutti i suoi abitanti, tramite la resistenza giornaliera e la produzione di spazi e conoscenze alternativi.

Questa resistenza è tuttavia giornalmente minacciata dalla possibilità di venire sgomberati, e messi di fronte alla scelta di ricominciare da zero e essere di fatto senza casa o sistemati in centri di accoglienza (gestiti da istituzioni cattoliche) nelle estreme periferie. I rom, che si sono uniti alla lotta di recente, sono coloro che subiscono il trattamento peggiore, finendo in campi (amaramente chiamati Villaggi della solidarietà) che sono ormai la norma per la loro rilocazione.

Metropoliz.

La storia di Metropoliz inizia nel Marzo del 2009 con l’occupazione dell’ex fabbrica Fiorucci a via Prenestina 913 da parte dei Blocchi Precari Metropolitani, alla guida di un gruppo di una novantina di persone da tutto il mondo: italiani, marocchini, etiopi, eritrei, ucraini, peruviani e non solo. Iniziano a occupare gli edifici più piccoli, più facili da trasformare in abitazioni (spesso la loro funzione originaria era quella di uffici), per poi espandere il processo al resto della fabbrica, riutilizzando spesso i materiali già presenti sul sito e finanziando in parte i lavori con la vendita del ferro presente nelle sale di produzione della fabbrica.

Nelle fasi iniziali dell’occupazione il campo rom Casilino 700 viene sgomberato: i BPM offrono ai Rom un posto nell’occupazione, vedendo sicuramente una opportunità politica in questa alleanza, mentre gli altri abitanti – influenzati ovviamente dagli usuali stereotipi sui rom – cominciano a interrogarsi verso l’effettiva convenienza di convivere con un centinaio di persone in più.

Un compromesso viene trovato nella occupazione del lotto adiacente, dove i rom cominciano a costruire il loro nuovo insediamento, prima sfruttando il riparo di un capannone industriale e poi espandendosi nello spazio retrostante.

il muro come dispositivo.

I due siti sono divisi da un lungo muro alto un paio di metri e con una sola apertura. Questo è diventato simbolo della segregazione interna, rappresentando la mutua esclusione fra le due parti e catalizzando allo stesso tempo paure e desideri di sicurezza e controllo da parte degli abitanti stessi.

Il muro è stato il centro di investigazione del Rome summerLab, che ha cercato di de-costruirlo interpretando tracce (e ferite), guardando i suoi usi giornalieri, capendone i gradi di permeablità. In questa operazione il muro è stato visto come dispositivo, ossia come strumento in grado di connettere elementi eterogenei (citando l’originaria definizione di Foucault) in un assemblaggio riconoscibile ed identificabile. Gli interventi di design dovevano essere volti, usando le parole di Giorgio Agamben, a profanare il dispositivo muro, ad immaginare un contro-dispositivo che, pur riconoscendo e accettando l’esistenza e il funzionamento del muro, ne disinnescasse le dinamiche esclusive e aumentasse l’interazione tra le due parti e di entrambe verso la città.

Uno dei progetti ha identificato un punto lungo il muro come il locus della possibile espansione del muro stesso e la sua trasformazione in luogo di mediazione e incontro: provocatoriamente aumentandone lo spessore, paradossalmente privatizzandone uno spazio con la creazione di un possibile “Giardino di Salomone”, identificando uno degli abitanti come possibile mediatore tra le parti e iniziatore di questo processo di profanazione.

Il summerLab, progettando controdispositivi, mira a intervenire sulle relazioni tra elementi eterogenei e diacronici al fine di produrre un terreno fertile per l’interazione e la scrittura di nuove narrative comuni. I prossimi summerLab, sfruttando l’esperienza di Roma come fondamento per l’esplorazione di una progettazione politicamente impegnata e guidata da solide basi filosofiche, si svolgeranno a Bucarest, Sarajevo e Budapest tra aprile e settembre 2012.

Proprio mentre stiamo scrivendo questa breve nota per eddyburg, il 16 gennaio 2012 è stato sottoposto a provvedimento di custodia cautelare Massimo Ponzoni, ex assessore e attuale consigliere PDL della Regione Lombardia nonché segretario alla Presidenza del Consiglio regionale (e con lui, anche Franco Riva, ex sindaco di Giussano, Antonino Brambilla, vicepresidente della Provincia di Monza e Brianza, e altri). Fra le accuse per Ponzoni: “la capacità di determinare, almeno in parte, i contenuti dei PGT di Desio e Giussano, assicurando a imprenditori a lui vicini (…) cambi di destinazioni di terreni (da agricoli a edificabili)”. Ma il nome di Ponzoni era già emerso nelle carte dell’inchiesta “Infinito” sulla ‘ndrangheta in Brianza.In attesa di riscontri giudiziari probanti, si tratta di un ennesimo episodio che evidenzia che la Lombardia è coinvolta in una spirale di illegalità al cui centro stanno non soltanto il settore edilizio ma anche le politiche urbanistiche; e che, nelle amministrazioni comunali, non è più soltanto l’Edilizia privata il luogo principe delle occasioni di corruzione, ma anche l’Urbanistica.

I varchi della legislazione urbanistica lombarda

Un elemento appare comunque certo: di questo vero e proprio assalto al territorio, talora con caratteristiche di assoluta illegalità e talora legittimato dalla legge, siamo debitori alla legislazione urbanistica lombarda che, con la sua propensione alla ‘flessibilizzazione’, ‘sburocratizzazione’, ‘snellimento’ e ‘semplificazione’ delle procedure, ha creato le condizioni affinché le Giunte possano agire prevalentemente in deroga ai piani. I PGT, infatti, sono oggi in molti casi vissuti come meri adempimenti burocratici e/o come costosi esercizi retorici completamente svincolati dagli strumenti attuativi. E il risultato in termini di consumo di suoli, ma anche di tutti i costi collettivi che a questo incontrollato consumo sono correlati (i costi economici e ambientali di una mobilità irreversibilmente legata al trasporto su gomma, la perdita altrettanto irreversibile di prezioso suolo agricolo e di biodiversità, la crescente impermeabilizzazione dei suoli, la frammentazione degli habitat naturali e delle reti ambientali, la caduta complessiva di ‘urbanità’) appare davvero preoccupante.

Da un punto di vista meramente quantitativo, da un rapporto recente sui consumi di suolo emerge che in Lombardia nel periodo 1999-2004 il territorio urbanizzato è cresciuto a ritmi di 13 ettari/giorno; e a Milano la superficie urbanizzata ha registrato un incremento, nel periodo 1999 al 2007 (e cioè con l’avvio delle riforme urbanistiche regionali), del 10,5%. Attualmente la Provincia di Milano è urbanizzata per il 39,7%, ma se si escludono i Comuni del Parco Sud, ancora relativamente poco edificati, il territorio della conurbazione milanese è ormai totalmente consumato, con il Nord Milano che raggiunge livelli di urbanizzazione del 95% (DiAP, INU, Legambiente, 2011).

Ma in questo scenario in tutti i sensi insostenibile si stanno manifestando alcuni segnali positivi, sia per quanto riguarda l’attenzione crescente dedicata anche da alcune amministrazioni locali a misure per il controllo degli intrecci politica/malaffare mafioso, sia per quanto riguarda il tema del controllo del consumo di suolo attraverso piani più consapevoli e virtuosi.

Alla base sta il fatto che la norma che ha introdotto la possibilità di scioglimento dei consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso ( che risale al 1991) ha reso possibile, sull’intero territorio nazionale e in oltre vent’anni di applicazione, oltre 200 casi di scioglimento tra consigli comunali e provinciali e aziende ospedaliere.

Desio: dal commissariamento prefettizio alla variante parziale del Piano di Governo del Territorio

Uno dei casi più recenti è quello verificatosi, a fine 2010, a Desio (dove appunto il sopracitato Ponzoni potrebbe avere influenzato, secondo le autorità giudiziarie, gli orientamenti del PGT), un comune di oltre 40.000 abitanti situato nella provincia di Monza-Brianza. A fare da detonatore è stata appunto l’operazione “Infinito”, avviata nel luglio 2010 e gestita dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, che ha portato all’arresto di oltre 300 persone, tra affiliati e imprenditori prestanome, che gestivano traffici illeciti a favore di alcune cosche ‘ndranghetiste con radici sempre più solide nel cuore della Padania. Tra le persone coinvolte vi era qualche consigliere comunale di Desio, le cui relazioni con i clan locali emergevano dalle intercettazioni della magistratura. All’arresto hanno fatto seguito la dimissione di 11 consiglieri di opposizione e 6 di maggioranza e il provvedimento prefettizio che ha fatto di Desio il primo Comune lombardo sciolto a causa di infiltrazioni mafiose. Ciò che si profila, dalle indagini e dalle intercettazioni telefoniche, sottolinea una volta di più, per chi ancora non ne fosse convinto, che non esistono territori tabù per la criminalità organizzata e che il ‘pedigree padano’ non solo non è sinonimo di legalità, rigore e trasparenza, ma neppure rappresenta una barriera per operazioni illegali che trovano humus fertile in un’area economicamente avanzata, e quindi ricca di occasioni per l’investimento di denaro sporco, e in un tessuto sociale spesso privo di anticorpi. Insomma, in questi ultimi anni, mentre molti amministratori locali ribadivano, per i loro territori, il ritornello morattiano che “la mafia non esiste”, alcuni rappresentanti eletti dai cittadini contrattavano, con i boss locali, il numero di preferenze necessarie per la propria elezione.

L’immagine della ricca Brianza che scaturisce dai documenti della Magistratura è preoccupante: è l’immagine di un territorio sottoposto a forti pressioni da parte di potenti clan legati alla ‘ndrangheta (sollecitati anche dai ricchi appalti in progetto in vista di Expo 2015), attorno ai quali si stringono patti e affari tra esponenti politici e imprenditori sempre più disposti a tutelare gli affari della criminalità organizzata per vedere aumentare i propri profitti. E’ il territorio, oggi, che spicca come il fulcro attorno al quale ruotano i principali interessi della criminalità organizzata: appalti, ma soprattutto concessioni e piani attuativi per costruire che consentano un rapido riciclaggio del denaro sporco proveniente dagli altri traffici illeciti gestiti dalle cosche. E proprio in terra lombarda si fa sempre più stridente il contrasto tra una legge urbanistica che fa della semplificazione e dello snellimento burocratico i propri cavalli di battaglia e l’impellente necessità di elaborare nuovi strumenti di controllo in grado di arginare il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa che proprio da un modello de-regolamentato trae i maggiori benefici.

A Desio però le condizioni sono cambiate. Dopo un anno di Commissariamento prefettizio, la nuova Giunta di centro sinistra, insediatasi nel maggio del 2011, ha deciso di rivedere i contenuti di un PGT che, approvato nel 2009 dalla precedente Amministrazione, si era dimostrato incapace di guidare le operazioni immobiliari ed edilizie che, complessivamente, hanno prodotto 137.000 metri cubi di nuove abitazioni e 11.200 metri quadrati per le attività produttive al di fuori degli strumenti di pianificazione attuativa, senza quindi concorrere al miglioramento della città pubblica in termini di più servizi, migliore qualità urbana, minore congestione. Il nuovo Documento di Piano, alla cui elaborazione ha contribuito come consulente un docente del Politecnico, Arturo Lanzani, grazie a una convenzione a titolo gratuito (!) siglata con il Dipartimento Architettura e Pianificazione, cambia le regole del gioco. Gli atti di variante del PGT di Desio contengono infatti linee guida che si propongono di riformulare la strategia del Documento di Piano, al fine di riordinare l’assetto territoriale secondo principi di contenimento della crescita insediativa, di recupero degli spazi agricoli periurbani e di miglioramento della qualità dei servizi esistenti. Il riconoscimento del suolo come bene comune, in un contesto come quello della Brianza, che presenta elevatissimi livelli di urbanizzazione, costituisce un principio fondamentale che può segnare una svolta importante per consentire di immaginare forme di sviluppo finalmente lontane dai tradizionali modelli di dispersione insediativa ancorati a mere logiche di mercato. La riqualificazione del territorio urbanizzato volto ad evitare fenomeni di abbandono edilizio e di degrado, l’aumento della multifunzionalità dei servizi alla città, la tutela delle aree produttive da salvaguardare per impedire facili appetiti speculativi disposti a scommettere sul cambio di destinazione d’uso delle superfici dismesse, sono gli indirizzi generali che si propongono di rimodellare il territorio di Desio per migliorare la qualità della vita degli abitanti.

Oltre ai virtuosi principi generali, il nuovo Documento di Piano indica come priorità alcune azioni, fra le quali:

- la rettifica del perimetro urbanizzato, con la quale si è diminuito del 6% la superficie urbanizzata prevista dal PGT del 2009 e si vincoleranno le aree esterne per usi agricoli e forestali,

- l’introduzione di norme stringenti per gli interventi edilizi in ambito agricolo, con superfici minime di intervento da sottoporre a piano attuativo e con limitazione degli interventi possibili senza convenzionamento, al fine di evitare la frammentazione del territorio,

- l’inserimento di meccanismi di compensazione ambientale per qualsiasi tipo di intervento che preveda l’occupazione e la compromissione del suolo: è prevista la cessione di aree, in misura differenziata a seconda che l’edificazione sia prevista in aree di espansione, in tessuti consolidati o in zone già compromesse da precedenti usi, con vincolo di inedificabilità permanente e sistemazione a bosco, prato alberato o filari di siepi a carico dell’operatore.

- l’obbligo per gli interventi di nuova costruzione e ristrutturazione edilizia, che superino i 300 mq per gli edifici residenziali e i 500 mq per gli edifici produttivi, di presentare un piano attuativo, al fine di adeguare il sistema dei servizi fruibili e valorizzare la città pubblica,

- l’eliminazione della possibilità di calcolare la superficie utile di pavimento esistente come volume diviso l’altezza virtuale di 3 metri, al fine di evitare speculazioni incoerenti con i reali diritti volumetrici esistenti nel tessuto consolidato.

La struttura della variante è convincente nella volontà di innescare processi virtuosi di uso del territorio, volti alla tutela e alla valorizzazione degli elementi naturali (verde urbano e sistema degli spazi aperti), di quelli sociali (recupero e riqualificazione del tessuto consolidato aumentando la dotazione di servizi collettivi) e di quelli economici (supporto alle attività produttive). Come è ovvio, nei documenti della variante non vengono citate le passate controversie mafiose, poiché sono tuttora al vaglio della magistratura; ma appare chiara la volontà politica di operare scelte territoriali volte ad arginare interessi immobiliari sospetti che hanno, nel recente passato, prodotto esiti spaziali indesiderabili.

Altri Comuni dell’hinterland, anch’essi segnati da vicende ‘mafiose’, hanno avviato esperienze volte alla tutela della trasparenza, facendosi promotori di una politica della legalità in un contesto regionale fatto di luci e ombre come quello lombardo.

Corsico: un laboratorio della legalità per il governo dei beni comuni

A Corsico, un centro di oltre 30.000 abitanti a sud-ovest di Milano, da quasi dieci anni le Amministrazioni Comunali stanno conducendo una dura lotta contro l’evasione fiscale che ha portato anche all’arresto di alcune persone legate alla ‘ndrangheta, tramite gli accertamenti immobiliari eseguiti su immobili intestati a neo-maggiorenni nullatenenti. L’Amministrazione di Corsico ha investito sulla costruzione di una banca dati informatizzata che consente la sovrapposizione dei dati tributari, anagrafici ed edilizi, e sul ricorso ad efficaci strumenti per effettuare controlli incrociati. Ad esempio, con il monitoraggio dei passaggi di proprietà immobiliari, può oggi individuare plusvalenze che non vengono corrisposte all’erario semplicemente confrontando le date di acquisto e di vendita delle aree con i dati dei permessi di costruire. Se si riscontra un’anomalia, gli uffici comunali inviano la segnalazione all’Agenzia delle Entrate, che rimane l’unico ente competente per accertamenti tributari. Inoltre, a seguito di una convenzione stipulata nel 2010 con la stessa Agenzia delle Entrate, nel caso in cui la segnalazione venga accertata, la casse comunali incasseranno il 33% delle somme riscosse. L’impegno del Comune di Corsico non si ferma alla lotta all’evasione fiscale: Maria Ferrucci, sindaca di Corsico dal 2010 e il suo assessore all’Urbanistica Emilio Guastamacchia (anch’egli docente al Politecnico di Milano) hanno fatto della legalità una delle bandiere del loro mandato, diventando un modello di buona gestione per prevenire e contrastare le infiltrazioni criminali e assicurare la trasparenza amministrativa quale elemento fondamentale per garantire equità e giustizia sociale: ad esempio con l’istituzione di un “laboratorio legalità” cittadino che ha l’obiettivo di promuovere iniziative sociali e di elaborare strumenti amministrativi sempre più efficaci al fine di contrastare gli interessi illeciti concentrandosi, invece, sul governo dei beni comuni.

Merlino: un Protocollo di legalità per gli operatori immobiliari

Anche a Merlino, un piccolo centro di 1.800 abitanti al confine tra le province di Lodi e Milano, al fine di limitare le infiltrazioni mafiose nelle operazioni immobiliari private, è stato elaborato dall’Ufficio Tecnico Comunale, quale osservazione al PGT adottato, e sostenuto dal Sindaco, Dr. Giovanni Fazzi, un “Protocollo di legalità” che ora è parte integrante del Piano delle Regole del proprio PGT, in vigore dal luglio 2010. Il Documento di Piano indica come obiettivi principali il riuso delle numerose cascine dismesse al fine di contenere le nuove aree di espansione, la valorizzazione del sistema ambientale che in questo contesto è caratterizzato da un buon livello di qualità, il miglioramento della fruizione dei corridoi ecologici sovralocali e la compensazione ambientale per i nuovi interventi di espansione. All’interno di queste strategie si innesca il Protocollo di legalità che, facendo riferimento all’articolo 11 della legge urbanistica lombarda (L.R. 12 del 2005), che consente “…a fronte di rilevanti benefici pubblici, aggiuntivi rispetto a quelli dovuti e coerenti con gli obiettivi fissati, una disciplina di incentivazione in misura non superiore al 15% della volumetria ammessa per interventi ricompresi in piani attuativi finalizzati alla riqualificazione urbana e in iniziative di edilizia residenziale pubblica, consistente nell’attribuzione di indici differenziati determinati in funzione degli obiettivi di cui sopra…”, prevede che il bonus sia concesso, nella misura del 7%, agli operatori che realizzino immobili con sistemi di risparmio energetico avanzato, e nella misura dell’8% agli operatori che, in modo del tutto volontario, sottoscrivano il Protocollo. Con l’adesione al Protocollo, gli operatori immobiliari, in cambio del bonus volumetrico si impegnano a trasmettere all’Ufficio Tecnico Comunale informazioni sulla composizione societaria, sui contratti per lavori e forniture e sui subcontratti, adottando gli adempimenti anti-mafia in vigore per gli appalti pubblici. I contenuti del Protocollo diventeranno parte integrante della Convenzione Urbanistica che normerà il piano attuativo. Per i necessari controlli e verifiche l’Ufficio Tecnico si appoggerà al Prefetto, che rimane l’istituzione territorialmente competente in tema di anti-mafia. Il testo del Protocollo è l’esito di incontri e confronti tra le strutture comunali, la Prefettura, le associazioni di categoria e le associazioni di volontariato che si occupano di legalità sul territorio.

Milano: l’istituzione della Commissione antimafia

Infine, ultima in termini temporali, ma non certo per importanza, l’istituzione nel novembre 2011 a Milano di una Commissione antimafia per il contrasto della criminalità organizzata, fortemente voluta da Giuliano Pisapia anche in vista di Expo 2015: guidata da Nando Della Chiesa, e composta da Umberto Ambrosoli, Luca Beltrami Gadola, Maurizio Grigo e Giuliano Turone, essa opererà a titolo gratuito. Ed anche il Consiglio provinciale di Milano sta dando vita a una commissione consiliare antimafia che si propone di collaborare con quella milanese, la cui istituzione è stata formalizzata nella seduta consiliare del 16 gennaio.

La legalità quale strategia territoriale per uno sviluppo sostenibile

E’ possibile dunque per le amministrazioni locali impegnarsi concretamente per contrastare la criminalità organizzata che, con le sue mille sfaccettature e i suoi molteplici tentacoli, ha trovato in Lombardia varchi in contesti territoriali a lei sconosciuti ed è riuscita, infiltrandosi nel tessuto economico locale, a inquinare anche le tradizionali forme di rappresentanza democratica. E’ altresì possibile, attraverso la condivisione di buone pratiche che sono espressione di Amministrazioni Comunali che governano in nome del bene comune e non dell’affarismo, trovare nuove forme di contrasto per tutte le mafie, per immaginare un futuro diverso per il territorio lombardo: un futuro meno ‘vorace’ e più attento alla tutela delle risorse territoriali, degli equilibri ambientali e della qualità di vita dei suoi abitanti.

Queste esperienze sono importanti anche nell’ottica della futura città metropolitana di Milano. Il Piano generale di sviluppo del Comune di Milano 2011-2016 approvato negli ultimi giorni del dicembre 2011 - a seguito delle nuove Linee Programmatiche approvate dal Consiglio Comunale il 27 giugno 2011 ( il testo è allegato a Bottini in eddyburg.it, 2011) -, cita esplicitamente il concetto di legalità quale linea di intervento prioritaria, nella consapevolezza che “non basta il necessario contrasto all’illegalità e alle situazioni di criticità, non basta dare delle risposte alle forme di disagio, bisogna imprimere la consapevolezza che il contrasto all’illegalità, le relazioni solidali, la coesione sociale appartengono a una profonda cultura di legalità, di rispetto delle regole, di impegno per il bene comune.”

Riferimenti:

- Bottini F. (2011), “Urbanismo, carbone e bordelli” in eddyburg.it, 1 gennaio.

- DiAP, INU, Legambiente (2011), Rapporto 2011 sul Consumo di Suolo, Roma, INU edizioni.

Titolo originale: Jane Jacobs and the Power of Women Planners – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Fanno cinquant’anni a novembre, da quando l’uscita di La vita e la morte delle grandi città di Jane Jacobs cambiava in tutto il mondo il modo di considerarle. Eppure, nonostante da allora la si riconosca come un importantissimo contributo, c’è sempre invariabilmente quell’aggettivo di “casalinga”. Parlando di strategie per lo sviluppo urbano e socioeconomico, non c’è gran posto per le donne al tavolo delle decisioni. Certo lavorano nel settore, ma raramente in posizioni chiave dal punto di vista critico. Jane è stata un’eccezione. Ma la norma non è molto cambiata.

La Jacobs fece quella sua irruzione nel dibattito nazionale sulle città quasi per caso. Piuttosto riluttante a sostituire il suo direttore maschio dell’Architectural Forum al convegno del 1956. Aveva pubblicato alcuni articoli rivelatori sul metabolismo delle città, soprattutto su Vogue, a documentare il modo in cui a New York City crescevano armoniosamente i quartieri attorno a settori come pellicce o fiorai. Oggi quelle riflessioni sono considerate assolutamente innovative. Ma all’epoca si limitarono a metterla un po’ in luce.

E quella prima attenzione la Jacobs con gli articoli sia su Architectural Forum che su Fortune la trovò da parte di un prestigioso redattore maschio, William Holly Whyte. Lui era diventato famoso come autore del L’Uomo dell’Organizzazione, oltre che per sostenere idee simili alle sue. Ma anche lui fu costretto a superare i contrasti con un furioso e paonazzo editore di Fortune che gli chiedeva “Ma chi è quella pazza?”. Inaccettabile, quella casalinga senza una laurea. E anche la stessa caustica recensione di Lewis Mumford a La vita e la morte … era stata intitolata “Le ricette casalinghe di Mamma Jacobs”.

Riflettendo sul perché si consideravano in modo tanto diverso i contributi delle donne e degli uomini sul tema delle città, lei sottolineava quanto le donne tendessero a soffermarsi su cose prossime: la via, il quartiere, le relazioni. Coglievano così più facilmente quanta differenza si potesse fare, a partire da piccole cose. Gli uomini pensano in grande, nazionale, globale. Hanno un atteggiamento top-down. Un punto di vista proposto molto esplicitamente al pubblico quando il costruttore James Rouse e Jane Jacobs nel 1980 si presentarono insieme a Boston alla Conferenza sulle Grandi Città. L’argomento era se ci si dovesse orientare verso grandi prospettive e visioni ispirate, oppure procedere per più modeste trasformazioni progressive.

Parlò per primo Rouse, ricordando le parole di Daniel Burnham, “Non fate progetti modesti, sono senza magia, non rimescolano il sangue nelle vene degli uomini” citava. Venne il turno della Jacobs che esordì con, “Divertente, quei grossi progetti non rimescolano affatto il sangue delle donne. Loro hanno sempre preferito guardare ai progetti più piccoli”. Fu sommersa dagli applausi. Rouse sosteneva che coi grandi progetti si poteva consegnare al mondo città straordinarie. La Jacobs rispondeva che i grandi progetti portano a grandi errori, schiacciando creatività e possibilità alternative. Rouse affermava che con i grandi progetti si evita di sprecarsi in interventi sparsi e casuali. La Jacobs replicava che così ci si limita a standardizzare, a uniformare, a livellare.

Era il 1980. Molto tempo era passato da quando la Jacobs contribuiva sconfiggere Robert Moses su tre progetti che potevano cambiare radicalmente la città. E contribuiva anche ad accelerare il suo pensionamento. Era famosa in tutto il mondo per i suoi libri. Ma non pensò mai e poi mai che quanto sosteneva potesse avere lo stesso peso di qualcosa detto da uomini. Sono in tanti oggi ad affermare che i loro progetti si conformano ai precetti della Jacobs, mentre invece seguono l’idea della visione audace alla Robert Moses. Anche la Jacobs naturalmente sapeva pensare in grande, ma in modo diverso da Moses: non grossi progetti di demolizioni e superstrade, ma un complesso di infrastrutture e spazi sociali, dai trasporti alle biblioteche, o grandi reti urbane fatte di piccoli elementi, di interconnessioni fra quartieri.

Nell’introduzione all’edizione 1993 di La vita e la morte … per la Modern Library, Jane metteva in dubbio la diffusa convinzione che quel libro avesse tanto cambiato la cultura urbanistica. Cosa interessante, divideva il mondo in due, fra la gente che cammina e quella che va in macchina. A chi va a piedi, certo, quel libro forse aveva dato “legittimazione a quanto già sapevano, ma che gli esperti dell’epoca consideravano antiquato e contrario al progresso”. E proseguiva: Non è facile per chi non ha un ruolo formale opporsi a chi ce l’ha, anche quando i sedicenti esperti sono immersi fino al collo nell’ignoranza e nell’azzardo. Questo libro ha saputo dimostrarsi un’arma molto utile contro quel genere di esperti. Ma non è esatto chiamarlo qualcosa che ha avuto “influenza”, forse ha rafforzato, indotto a collaborare. Per contro, non ha mai voluto collaborare con quelli che ragionano in macchina, né li ha influenzati in alcun modo. Per quanto posso capire li lascia indifferenti anche oggi.

Il retropensiero, qui e in altri contributi della Jacobs, ricorda quello scambio di opinioni con Rouse, quel modo di verso di vedere le cose tra uomini e donne. Ne abbiamo discusso parecchio io e lei nel corso degli anni. Adorava ascoltare quanto le raccontavo delle mie ricerche in tutto il paese per i libri che stavo scrivendo, storie di riqualificazione urbana o di quartiere dove il catalizzatore erano sempre piccoli progetti, ancor più spesso sostenuti da donne. Oggi donne così ce ne sono un po’ dappertutto. A New York, Mindy Fullilove. Alexie Torres Flemming. Majora Carter. Kate Wood. Elizabeth Yampiere. Joan Byron. A New Orleans, Tanya Harris, Karen Gadbois, Carol Bebelle. Si tratta di attiviste, così come lo era la Jacobs. Un conto è stare nel mondo dei grandi principi, un altro partecipare attivamente alle trasformazioni di cui si avverte il bisogno. Qualunque osservatore attento delle città, nel XX o XXI secolo, non può negare che le donne siano sempre state all’avanguardia della loro salvezza e riqualificazione. Jane Jacobs era semplicemente una di loro.

Quando il giovane Earle S. Draper arriva nel Sud, dal suo punto di vista quella è davvero una straordinaria nuova frontiera. In Europa impazza ancora la prima guerra mondiale, si prepara a trionfare la cultura delle avanguardie artistiche e degli estremismi politici. Anche dall’altra parte dell’Atlantico, partecipazione alla guerra europea a parte, si prepara l’età del jazz, e cominciano a spuntare numerosi i primi grattacieli, al punto che New York per difendersi (e soprattutto difendere il valore degli immobili) si approva nel 1916 la prima ordinanza moderna di zoning. Nel vecchio Sud, dove ancora di solito si fa rigorosamente il baciamano alle signore, dove non si capisce e non si capirà davvero per generazioni che i neri non sono più schiavi, di tutto questo frastuono arrivano al massimo lontani echi.

Draper si è laureato da pochissimo in landscape architecture all’Università del Massachusetts, e la sua passione per quella che allora non si chiama ancora urbanistica lo ha spinto a cercare e trovare prestissimo un posto nello studio di John Nolen, massimo rappresentante della grande scuola americana di progettazione di quartieri suburbani integrati, che discende direttamente dal primo Frederick Law Olmsted. Proprio in questo periodo lo studio Nolen è impegnato nella realizzazione di un importante progetto a Charlotte, North Carolina, il quartiere suburbano di fascia alta di Myers Park, e il giovane architetto è incaricato di seguirne via via gli sviluppi attuativi, i perfezionamenti richiesti dal mercato ad esempio per l’organizzazione del verde, le sistemazioni stradali secondarie ecc.

È un grande momento di sviluppo economico per il Sud: se le metropoli si caratterizzeranno a cavallo di questi anni per l’età del jazz, o il mito dei solidi facili alla Al Capone, gli ex stati della guerra di secessione stanno vivendo una forse più radicale trasformazione, abbandonando il modello agricolo verso un’economia più industriale. Nel settore tessile, ad esempio, anche sulla spinta delle lotte dei lavoratori si sta abbandonando sia il vecchio modello del decentramento produttivo rurale che quello ottocentesco delle company town originarie, vere e proprie piccole dittature economiche fatte di segregazione sociale e dominio quasi assoluto dell’impresa su qualunque aspetto della vita quotidiana. Anche qui, come in parte già avvenuto in Europa, si ritiene che la realizzazione di borghi modello possa essere una risposta più semplice di quella del riconoscimento di maggiori diritti per i lavoratori.

Si apre in sostanza un ampio mercato per la progettazione urbanistica, specie per quella più attenta a certe qualità che vadano oltre la pura efficienza delle abitazioni, dei servizi tecnici, del rapporto funzionale casa-lavoro. Anche alla realizzazione del primo quartiere borghese modello suburbano di Myers Park (quelli che oggi la critica anche new urbanism definisce virtuosi suburbi tranviari) si potrebbero sommare moltissime nuove imprese del genere, come capisce rapidamente il giovane Draper. Propone allo studio Nolen di rafforzare presenza e disponibilità nella regione, ma gli rispondono picche: la ditta ha altri progetti di sviluppo. Lui però ha già deciso: è questa la sua nuova casa.

Interessato sin da studente all’urbanistica, Draper costruisce la sua cultura di progetto (e di approccio alla committenza) sostanzialmente su due filoni culturali. Il primo è quello della tradizione naturalistica all’americana che discende da Andrew Jackson Downing, e attraverso Olmsted sr. e Nolen consolida il modello del sobborgo a bassa densità otto-novecenteco. Il secondo è quello della città giardino europea, intesa non tanto nelle sue radici riformiste, quanto esclusivamente nel portato formale-funzionale divulgato dai lavori di Unwin e Parker. Per tutti gli anni ’20 lo studio di Draper sviluppa un proprio approccio innovativo al modello della company town “riformata”, che si allontana via via dallo schematismo originario di una specie di villaggio-monastero con al centro la fabbrica, circondata dalle celle-abitazioni (che è sostanzialmente anche quello del nostro decantato Crespi d’Adda).

Si tratta in sostanza, naturalmente al netto della centralità della funzione produttiva, e seguendo un modello suburbano a bassa densità, di una correzione del quartiere industriale verso la neghborhood unit, specie per quanto riguarda l’organizzazione del verde, degli spazi collettivi, di tutto ciò che conferisce identità e appartenenza. Come direbbe forse un progettista di oggi, sense of place. Il modello, specie partendo già dal contesto ex rurale, subisce quanto e più del quasi contemporaneo Radburn l’influenza crescente dell’automobilismo di massa, che proprio nelle zone di campagna e suburbio del Sud ha già nell’era pre-depressione un primo significativo sviluppo. Sviluppo pienamente accettato da Draper (e del resto anche dalla cultura della rooseveltiana Resettlement Administration). Basta guardare per un istante la planimetria dell’insediamento di Norris in Tennessee, firmato già da responsabile per il planning della Tennessee Valley Authority nel 1933, per notare quanto le distanze e l’induzione all’uso dell’auto non sembrino rappresentare affatto un problema, per Draper. Almeno in termini di principio, perché qualcosa è cambiato.

È cambiata forse, soprattutto, la cultura urbanistica, sulla spinta del medesimo riformismo rooseveltiano, così come di singole esperienze come quelle delle ricerche e polemiche sulla regione di New York, o il primo dibattito sul futuro dell’area metropolitana di Washington ecc. Negli anni ’30 si parla molto, moltissimo, di decentramento, addirittura di dispersione urbana. Gli sviluppi delle telecomunicazioni e dei trasporti, una nuova organizzazione del lavoro e della distribuzione commerciale, fanno sì che anche i sogni più sfrenati, come la Broadacre di Frank Lloyd Wright, trovino in qualche modo realizzazione concreta, almeno parziale. Gli studi della sociologia urbana afferenti all’innovativa Scuola di Chicago individuano già anche alla scala regionale, e non più solo cittadina, una nuova identità condivisa, una abitabilità allargata dello spazio, una disponibilità ad esperienze quotidiane in qualche modo più nomadi che stanziali. Tutto questo, Earle Draper lo accetta: non è sempre stato il sogno americano, la mobilità assoluta, la libertà individuale di rapporto col mondo esterno?

Ma proprio questa nuova consapevolezza, l’individuazione della dimensione regionale metropolitana, fanno emergere la necessità di coordinamento, di complementarità. Detto più terra terra: che senso ha muoversi liberamente da un luogo all’altro se tutti i luoghi finiscono per essere identici? Meglio ancora, se la ricchezza della nuova entità è data dalla convivenza di elementi urbani e rurali, compito della pianificazione sarà quello di valorizzare e sviluppare al massimo questa diversità, sottolineando gli aspetti specifici della città densa, del territorio agricolo, insomma di tutte le unità costitutive. E invece, pare non stia affatto andando così. La grande macchina organizzativa, istituzionale, conoscitiva della TVA, istituita proprio per monitorare e promuovere un tipo di integrazione del genere su un enorme territorio, vede l’emergere di qualcosa di vagamente inquietante: la diffusione, la dispersione non consapevolmente programmata, ma lasciata vuoi al caso, vuoi via via ai particolarismi del mercato, diventa qualcosa di nuovo.

Che Draper, ormai gentiluomo del Sud attento a non offendere orecchie sensibili, impiega un po’ a chiamare col suo nome, anche perché quel termine usato così ancora non l‘ha inventato nessuno, salvo le mamme quando sgridano i bambini perché non si sta “stravaccati” sul divano. La dispersione urbana si sta stravaccando sul territorio, è una tendenza facilmente rilevabile già negli anni ’30 ovunque lo sviluppo economico abbia messo a disposizione le risorse necessarie. E la dispersione urbana quelle risorse se le divora, a volte spostando diseconomie su altri territori, a volte obliterando gli stessi luoghi. La parola sprawl, però, che negli stessi anni ’30 si diffonde probabilmente anche in Europa (personalmente ne ho trovate tracce negli atti della britannica Commissione Scott sul paesaggio), sembra restare lì, sospesa nell’allarme lanciato da Draper agli urbanisti americani. E a giudicare da certa pubblicistica dalla coda di paglia, le cose anche oggi non sono cambiate tantissimo: lo “sviluppo” innanzitutto. Per rifletterci su, però forse è meglio ascoltarle tutte, le parole dell’Uomo che Inventò lo Sprawl.

Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica.

I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale” poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti.

I “miracoli economici”, i boom edilizi, industriali e autostradali, sono avvenuti tutti al di fuori di qualsiasi programmazione di autentico e lungimirante interesse generale: abbiamo sistematicamente trascurato di realizzare tutta l’armatura dei servizi pubblici e delle attrezzature collettive (dalle scuole agli impianti di depurazione, dalle riserve naturali ai piani di bacino idrografico, dal verde pubblico ai trasporti collettivi, dal rimboschimento alla difesa dei litorali ecc.), indispensabili alle esigenze di vita della popolazione in un’epoca di sempre più veloci trasformazioni economiche e sociali. Gli eventi franosi sono due-tremila l’anno, con un morto ogni otto giorni: i geologi del Servizio di stato sono cinque, uno ogni dieci milioni di abitanti (mentre nel Ghana sono uno ogni settantamila). Sarebbe davvero strano che l’Italia non andasse periodicamente sott’acqua. Gli interventi pubblici sono saltuari, sono frammentari, non coordinati (nulla di decisivo è stato ancora fatto per il bacino dell’Arno, a sei anni di distanza dall’alluvione). Nel 1970 la commissione interministeriale De Marchi ha calcolato che per la difesa idraulica del suolo italiano occorrono 5300 miliardi nel prossimo trentennio. Ecco il costo dell’imprevidenza, i conti sbagliati della nostra economia, che ha puntato tutto sul tornaconto immediato e sul profitto.

Fino a che la difesa della natura e del suolo non diventerà la base della pianificazione del territorio, fino a che questo non sarà considerato patrimonio comune (anziché res nullius, come è stato finora), continueremo a contare le morti e le distruzioni. Ma intanto questa Italia, sempre pronta a invocare la propria “povertà” per non fare le cose indispensabili, ha stanziato la settimana scorsa altri cinquecento miliardi di lire per costruire nuove autostrade.

Gennaio 1973

Nell’87 il Sevizio geologico è passato alle dipendenze del Ministero dell’Ambiente e successivamente alle dipendenze del Consiglio dei Ministri. Trentatré miliardi sono stati finanziati dalla legge finanziaria ’88, l’organico è stato portato a 128 unità, un nuovo impulso è stato impresso alla redazione della carta geologica in scala al 50.000. E’ pronto il progetto per il consolidamento e la ristrutturazione della sede di Largo Susanna. Tra gli anni settanta e ottanta l’edificio rappresentò un autentico pericolo per l’incolumità di chi ci lavorava, a causa di gravi dissesti statici: minacciava di crollare la sede che ospitava il servizio preposto alla prevenzione del collasso idrogeologico nazionale. (A.C.1991)

Per gentile concessione dell'Archivio Cederna www.archiviocederna.it

La Libera Università di donne e uomini si richiama ad Ipazia protagonista di quella rivoluzione scientifica e filosofica che, iniziata nel 200 a.C., ad Alessandria, viene cancellata, con il suo assassinio, dalla violenza del potere nel 415 d.C. La Libera Università intende intrecciare generi e generazioni, culture e saperi in modalità relazionali per dare spazio al dialogo, al confronto, in uno scambio dei ruoli, così da rendere pratica effettiva l'essere-insieme. Si vuole in tal modo creare uno spazio d'incontri, per contrastare la desertificazione culturale e cognitiva dei luoghi tradizionali di trasmissione delle conoscenza, per favorire attivi filoni di ricerca, e contrastare, in generale, quei processi sociali, politici e culturali disgregativi che fanno riemergere la violenza in tutte le sue forme.

Grazie a tutti/e quelli/e che hanno partecipato, in qualsiasi forma, alle giornate sulla "Città reale /Città possibile", tenute al Giardino dei Ciliegi nell'inverno del 2005, contribuendo così, direttamente e indirettamente, a questa carta dei desideri. Un particolare grazie ai colori e ai sogni delle alunne e degli alunni della seconda Media Scuola Città pestalozzi per il loro viaggio nella città di oggi e in quella di domani, che vorremmo all'altezza dei loro sorrisi.

Desideriamo anche esprimere il nostro debito alle/ai molte/i, le cui idee e il cui ricordo – dalla letteratura alla politica, dall'urbanistica alle arti - sono la trama e l'ordito di questo nostro tentativo, anche se le nostre lacune non sono certo a loro imputabili.

Premessa

Oggi, all'inizio del nuovo secolo, la città del welfare, incarnazione di un ideale di governo e progettazione dello spazio urbano volto a produrre integrazione sociale e a scongiurare gli effetti negativi prodotti dalle leggi di mercato, è in crisi. E' stata travolta dalla delocalizzazione, dal ridimensionamento produttivo, dall'evaporarsi delle politiche pubbliche e dalla corsa alle privatizzazioni. Si hanno così diverse conseguenze, fra cui un’accelerata mutazione dell’organizzazione spaziale della città, dove siti industriali e commerciali si svuotano ma sono consegnati nuovamente alla speculazione immobiliare. Le relazioni umane, sociali e culturali si lacerano, mentre sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione, le città tendono a rap¬portarsi fra loro come imprese private in con¬correnza, favorendo di conseguenza quella politica che considera il progetto, urbano o territoriale che sia, un ostacolo alle op¬portunità da cogliere, e l'edificazione un'esclusiva questione pri¬vata. Tale affermazione in realtà può essere rovesciata: costruire è sempre un atto pubblico, perciò inevitabilmente politico. Proprio per questo la crisi della città – cui le forze del mercato (immobiliare ma non solo) rispondono con nuove cementificazioni, con nuovi insediamenti spesso blindati, sprechi di risorse naturali e soffocamento urbano – può essere affrontata solo a condizione che il potere decisionale torni in mano pubblica.

La crisi della città

La struttura urbanistica delle città italiane arriva al 1860 quasi immutata rispetto alla loro fisionomia rinascimentale e barocca: dopo l’Unità, protagonista d'ogni ampliamento e d'ogni trasformazione è la rendita fondiaria urbana, vale a dire la differenza tra il valore agricolo iniziale e quello assunto dal terreno una volta reso edificabile dal Comune e dotato d'infrastrutture. Da allora la rendita fondiaria è strumento insostituibile di ogni avvenimento urbano, e addirittura ragione d’essere del sorgere di nuovi quartieri, di nuove case. La città realizzata sotto il dominio della rendita, diventa così elemento portante di una sintesi politica, capace di condizionare l'economia, la correttezza amministrativa, il rapporto fra i poteri, l'esercizio effettivo della sovranità popolare.

Infatti, molte delle patologie, di cui soffrono le nostre città, sono dovute alla pressoché perenne e devastante vendita all'incanto dei suoli che ha segnato l'assetto urbano e territoriale del nostro Paese fin dai primi anni dell'Unità politica, dove i pubblici poteri hanno semplicemente accompagnato qualsiasi modernizzazione, rendendo tutto vendibile, prostituendo il territorio e l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni (Franco Cassano).

A questa lunga tradizione va aggiunta oggi l'esplosione della crisi ambientale. Le modifiche climatiche, l’effetto serra, il buco dell’ozono, segnalano che la questione è ormai ineludibile poiché il sistema natura mostra evidenti limiti d’autoregolazione a livello globale e locale, con rischio per la salute del singolo e per la stessa sopravvivenza della specie umana. Il nesso tra “stato sociale” e “stato ecologico” dovrebbe risultare ovvio poiché il cittadino/la cittadina in quanto soggetti di diritto alla salute devono poter godere un’aria e un'acqua che non inquinino, mangiare cibi che non avvelenino, avere un lavoro che non faccia morire di cancro. Il diritto alla salute non comporta solo assistenza e terapia, come è noto, ma anche prevenzione e la prima prevenzione è salvaguardare l'ambiente.

Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale , e viceversa. Perciò l’innovazione delle procedure urbanistiche va considerata, valutata e giudicata all’interno di un programma sociale centrato su nuove regole di convivenza.

I tessuti urbani del nostro presente globalizzato sono alterati dal declino della grande fabbrica, dalla riduzione sia degli impianti produttivi sia dei lavoratori, e dall'apertura di fabbriche in paesi dal costo del lavoro e protezione sindacale più bassi (delocalizzazione). Come conseguenza, anche per la voluta assenza di politiche pubbliche, si determina una profonda mutazione della città: siti industriali e commerciali si svuotano senza essere tuttavia consegnati nelle mani dei cittadini per diventare luoghi di sviluppo diversi all'interno delle città, accogliendo funzioni di interesse culturale o di altro genere, e supplendo anche alla carenza di edilizia residenziale di tipo popolare, che non necessariamente deve essere rappresentata da casermoni. Sono invece nuovamente ceduti alla sistematica edificazione poiché la crescita economica per molti oggi passa necessariamente attraverso l'apertura della città all'impresa globale.

Essendo la mentalità dominata dalla logica d'impresa, emergono anche nei centri minori sia le regole di gestione ricalcate sul modello aziendale, sia il mito immorale della competizione: le città conducono, infatti, una politica economica senza esclusione di colpi l’una nei confronti dell’altra, offrendo il possibile e l'impossibile alla transnazionale o all'immobiliare di turno, rap¬portandosi così fra loro come aziende private in con¬correnza. In questa realtà fatta di integrale ade¬sione agli interessi economici finanziari e speculativi, l'Ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul ter¬reno sociale, è fervente interventista sul piano dell’economia e dei mercati, anche attraverso nuovi Piani regolatori e Piani strutturali, vere e proprie "offerte" al mercato di aree edificabili.

Eppure la città non è solo lo spazio della rappresentazione del denaro, poiché non ospita solo attività economiche ma ben più vaste costellazioni umane. Nella dimensione spazio-temporale le città non sono solo vetro, mattoni e cemento ma carne, sangue, grumi di esistenza, memorie, labirinti di strade e corpi: sono storia. Appena si varca la soglia di casa, andando per la città, in quello spazio sostanzialmente plasmato dal potere e dalla speculazione, s'incontrano corpi ed esistenze, desideri e bisogni che considerano l'economia un semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo.

E tuttavia la città è stata sempre piegata alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria; l'urbanistica contrattata favorisce le cordate economico-finanziarie e i condoni; l'espansione della rendita viene sempre pagata dai ceti sociali più sfavoriti e sottrae risorse per impieghi produttivi; i piani per l'edilizia economica e popolare sono ormai archeologia e gli Istituti delle case popolari non sono più titolari di politiche e di finanziamenti ad hoc. Inoltre alla “rendita assoluta” della fase espansiva a macchia d’olio si è aggiunta la “rendita differenziale” (o "relativa") che agisce su ogni singolo terreno o unità immobiliare, secondo l'ubicazione e/o in base al prestigio percepito. Infine va considerato che la valorizzazione fondiaria viene determinata dallo sviluppo generale della città ed è quindi una ricchezza collettiva di cui s'impossessa il solo proprietario.

Per tutte queste ragioni riteniamo che la generalizzata domanda di servizi collettivi e di trasformazioni ambientali, sia riassumibile nella più generale questione della qualità della vita, dove il problema ambientale confluisce. Se lo spreco di energia è grave, lo spreco di spazio lo è altrettanto in quanto la quantità di territorio disponibile è un bene limitato e irriproducibile. Dobbiamo convincerci che la rigorosa tutela della natura è garanzia di progresso sociale ed economico; che i vincoli sono un essenziale servizio pubblico; che la salvaguardia dei valori paesistici, culturali e l’uso parsimonioso del territorio, sono una priorità assoluta, alla quale va subordinata qualsiasi ipotesi di trasformazione.

Pianificare per ricostruire società

In Italia il dominio della rendita fondiaria ha comportato la rinuncia da parte di molti ceti politici agli obiettivi di pianificazione democratica. Questo dipende dal fatto che un piano vieta, almeno in linea di principio, mediazioni, eccezioni, modifiche continue fino allo stravolgimento, appoggi clientelari, deroghe, abusivismi . Se poi il Piano, oltre che avere una sua correttezza tecnico-scientifica, fosse anche aperto alla corresponsabilità attuativa e gestionale delle/dei cittadine/i, difficilmente si potrebbe attuare uno sfruttamento personale su quel bene collettivo che è una città. Si comprende facilmente, allora perché i piani siano stati visti da un lato come il "libro dei sogni", e, dall'altro come siano stati bruciati a favore della contrattazione caso per caso.

La ragione dello scadimento culturale e politico della materia urbanistica e architettonica sta essenzialmente nel fatto che, anche dentro la sinistra, neoliberismo, deregolamentazione e privatizzazione ad oltranza hanno messo radici. L'urbanistica guidata dal piano regolatore, nonostante la complessità delle sue regole, fornisce un sistema di garanzie, ma è stata progressivamente sostituita dalla discrezionalità cioè dalla contrattazione con la proprietà immobiliare che fa evaporare la pianificazione territoriale. Capofila di questa tendenza è il Comune di Milano dove, al di là della terminologia tecnico-giuridica adottata, i progetti e i programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore, ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, trasformandosi in una specie di ufficio del catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate (Vezio De Lucia).

Sostenuta in particolare dal mondo accademico, questa modalità si è affermata in larga parte d'Italia. Senza voler assumere l'ordinamento urbanistico tradizionale come se fosse un valore in sé, poiché il PRG è uno strumento molto spesso utilizzato con procedure oggettivamente indifendibili e presenta delle indubbie rigidità, tuttavia va evidenziato come l'urbanistica contrattata faccia prevalere l'interesse privato su quello pubblico. Questa si manifesta ogni volta che l'iniziativa sull'assetto del territorio è presa per la pressione diretta o con il decisivo condizionamento di chi detiene il possesso dei beni immobiliari, quando insomma comanda la proprietà e non il Comune (Salzano).

Il piano regolatore è stato fino ad ora uno strumento di tutela ma anche, come si è accennato, uno strumento rigido ed immobile. In particolare non rispecchia le caratteristiche dinamiche del territorio, se con questa parola non intendiamo solo un'unità spaziale ma un risultato complesso di fattori culturali, sociali ed economici; tutti fattori dipendenti in sostanza dalla popolazione che lo abita, la quale si modifica nel tempo, non solo in termini numerici, ma soprattutto in termini di distribuzione qualitativa. Inoltre è uno strumento di contrattazione individuale che prevede solo le "osservazioni", per di più a posteriori: il Comune apre di fatto una "trattativa privata" che mette il cittadino di fronte alla possibilità di contrattare unicamente sul singolo appezzamento o su ciò che lo riguarda molto da vicino. Questo fa sì che emergano solo interessi particolari e bisogni individuali (dei piccoli proprietari come dei grandi) ai quali l'amministrazione pubblica, al massimo, può contrapporre od imporre delle motivazioni di "utilità collettiva". Ma la verità è che, non presentando alcuna fase procedurale durante la quale chiamare i singoli a ragionare come comunità sullo sviluppo complessivo del loro territori, non permette agli interessi individuali di maturare, attraverso il confronto, il dialogo, l'informazione e di comporsi in un disegno comune che arriverebbe così a rispecchiare, senza doverlo imporre, una "Città come Bene Comune". Infine è uno strumento non in grado di correggersi per come è stato concepito. E' così in contrasto con il concetto stesso di sviluppo sostenibile, che prevede sì che le scelte iniziali debbano essere chiare, i principi condivisi e gli obiettivi rispettati, ma anche che i processi debbano essere flessibili ed in grado di assorbire nuove informazioni man mano che la situazione si sviluppa: è il concetto di feedback, particolarmente interessante nei processi di progettazione urbana sostenibile, perché prende atto del fatto che le condizioni possano variare in corso di realizzazione, e che vadano continuamente monitorate per trovare soluzioni senza però compromettere scelte, principi, obiettivi.

Nonostante questi limiti del Piano Regolatore, non ci separiamo dall'idea della centralità della pianificazione territoriale che possiamo ben dire decisiva affinché il "fare città" sia nelle mani dei/delle cittadini/e.

Di fronte alle idee dominanti dello sfruttamento (territorio come serbatoio di risorse) e della competitività (territorio come merce), la pianificazione del territorio perciò deve tornare ad incidere nella riproduzione dei cosiddetti «valori d'uso», per avviare forme e pratiche di «fare società» e riportare il confronto politico al centro di una necessaria ricomposizione di un collettivo sociale. Occorre dunque pensare ad un "processo di pianificazione ambientale" che "per la sue caratteristiche di continuità, autocorrezione, e adattabilità, diventi una funzione permanente del territorio. Si va progressivamente affermando il piano-processo, che trova la sua forza nella capacità di adattamento ai mutamenti continui di una realtà complessa ed in continua evoluzione» (Fernando Clemente). Di fronte al caos della città contemporanea - che non è una fatalità naturale, ma l'effetto di politiche diverse, tutte comunque indirizzate verso una identica azione di utilizzo dello spazio urbano – occorre parlare di urbanizzazione capitalistica. Non significa voler apporre un'etichetta per dar vita ad un affresco immobile e astratto, anzi è voler fare emergere dal territorio analizzato – al quale non si può guardare come fosse una cartolina - relazioni sociali e rapporti di produzione, perché il territorio stesso è soggetto e prodotto del processo di produzione: un processo costituito da divisione sociale del lavoro, da accumulazioni, da rapporti e, soprattutto, da «risorse» o meglio da «valori d'uso», che sono allo stesso tempo «oggetti materiali» e fattori della produzione di città (trasporti, spazi pubblici, scuole, strade, rete idrica, gas, elettricità, telecomunicazioni, servizi e attrezzature in genere, ecc. ).

Appare pertanto ancora oggi un valido punto di partenza considerare l'urbanizzazione capitalistica come una «molteplicità di processi capitalistici privati, di appropriazione dello spazio, dove ciascuno di tali processi è determinato dai singoli rapporti di produzione, cioè dalle regole di valorizzazione di ciascun capitale o frazione di capitale» (Edmond Préteceille). All'interno di questo processo la proprietà fondiaria e immobiliare è riuscita a superare il problema dell'appropriazione dello spazio, andando, tra l'altro, ad intervenire pesantemente proprio sulla natura della pianificazione urbana, svilendone i presupposti e depotenziandone le capacità, per avere più facile gioco nel controllo della produzione di quei «valori d'uso» necessari all'appropriazione dello spazio, e alla destinazione dei suoli.

Essendo la città uno spazio dove i problemi privati si connettono a quelli pubblici, riteniamo che nella pianificazione della città e del territorio debba prevalere una visione non tecnocratica ma attenta alle differenze qualitative dei luoghi e dei soggetti, a partire da quelli meno tutelati nelle loro concrete esigenze. Aprire il piano regolatore all'immenso arcipelago complesso dei corpi che abitano lo spazio, vuol dire intrecciare il Piano urbanistico con quello che Silvia Macchi chiama "un piano regolatore sociale", per poter pensare la città insieme ai soggetti reali che la vivono. Per tornare a vedere la policromia umana, è tuttavia preliminare prendere le distanze da qualsiasi automatismo tra crescita economica e qualità della vita, rovesciando la priorità delle leggi economiche in priorità delle persone e dell'ambiente. Per queste ragioni la pianificazione non può esprimersi nell'unica forma del piano urbanistico, ma deve tenere conto della necessità di una interazione tra tutti i soggetti sociali, e della pluralità di esigenze, obiettivi, percorsi e sbocchi. In questo senso il governo locale deve operare per una connessione tra pianificazione urbana e dinamiche sociali e politiche più complessive.

Questo approccio relazionale alla pianificazione, crea le condizioni – in un confronto fra tutti gli attori sociali – per riappropriarsi del territorio, attraverso la pianificazione come processo finalizzato al «fare società», il contrario dell'urbanistica contrattata. Il progetto, infatti, come scrive Dematteis, è una sfera spazio-temporale che mette in relazione i soggetti nelle più diverse accezioni: la razionalità, i desideri, i sentimenti, le passioni, le abilità, la memoria, la creatività. Il progetto della città e del territorio è un progetto collettivo, ossia è un processo di interazione sociale, è una emergenza dell'essere-insieme, è un progetto di società, un progetto politico e culturale.

Il concetto di territorio non serve solo per circoscrivere un'area più o meno omogenea con al centro la città, ma rappresenta la materialità dei 'luoghi' attraverso cui passa la costruzione di una società: rapporti, relazioni, rappresentazioni. Ecco perché un progetto di città è un progetto di territorio e viceversa; ecco perché gli esiti dell'interazione progettuale non riguardano solo le modalità di sviluppo e di organizzazione del territorio, ma le prospettive di costruzione e di 'fare società'. Il territorio infatti è una rete di soggetti politici e sociali, ossia di soggetti progettuali. Il progetto della città è un processo creativo che richiama l'attenzione sull'articolazione e sulla ricchezza della realtà, dello spazio, delle relazioni sociali: esperienze, memorie, emozioni che costruiscono una 'identità relazionale', mutante, plurale in continuo confronto/conflitto con ogni altra identità. Vedere la struttura sociale come sistema stratificato e intrecciato di relazioni è il punto di partenza e di arrivo per una pianificazione come funzione permanente del territorio e come interazione sociale fra tutti i soggetti che vi agiscono. Con questa diversa prospettiva il territorio può tornare ad essere il 'luogo' della ricostituzione del tessuto sociale.

Pertanto il piano deve riportare alla luce quella incorporazione sociale e culturale propria del territorio. Ma per poter fare questo occorre prima di tutto svelare il gigantesco processo di funzionalizzazione del territorio alla competizione globale. Il sistema produttivo è passato da una strutturazione centrata sulla fabbrica, luogo unico della produzione, alla sua dilatazione nel territorio, al punto che l'intero complesso territoriale è diventato luogo di produzione. Perciò Bonomi parla di "territorio come fabbrica" in quanto si è affermata la competizione tra sistemi territoriali, e le nuove configurazioni del territorio sono dettate dai sistemi di scambi produttivi. Ecco perché il territorio è diventato una merce e perché all'interno di questa logica, sul territorio finiscono per prevalere in maniera esclusiva le reti dei soggetti e dei luoghi funzionali alla produzione. Lo scollamento tra il territorio con una sua consistenza fisica, ambientale, culturale, storica, e il territorio come sola rete dei luoghi della produzione competitiva, è a questo punto completo.

Un diverso modo di pensare e vivere lo spazio urbano, rispetto a quello della città come mercato e del territorio come merce, dipende da tutti coloro che abitano, utilizzano e percorrono la città stabilmente e occasionalmente. I tempi e gli spazi della città influiscono sulla vita di tutti, sulla quotidianità e sulla materialità ed ecco perché devono essere i cittadini nel loro complesso i soggetti della pianificazione: una pianificazione plurale e diffusa nel senso della interazione fra diversità. In altri termini la pianificazione è necessaria perché deve regolare ed esaltare le diversità esistenti, non annullarle in un indistinto partecipato (come nel mercato), bensì dare forma ad una eguale partecipazione per costruire un progetto di società da rinnovare continuamente nella sua attuazione. L'obiettivo finale dell'interazione progettuale non è così né un compromesso, né una combinazione di interessi, ma una riflessione critica in divenire, un'attività elaborativa di riflessione sul modello di sviluppo, sui mutamenti in corso, sulle dinamiche sociali e culturali e sui «futuri della città».

Il piano diventa così il prodotto di una pianificazione capace progressivamente di ripensare se stessa perché non causa ed effetto di una proceduralizzazione amministrativa (il piano come regolazione e mediazione tra poteri e interessi), bensì capace di spostare l'attenzione sul carattere dei processi e sui soggetti che vi partecipano. Ecco che allora il piano diventa l'occasione per ricostruire un tessuto sociale attraverso l'interazione di tutti i soggetti, insieme alle istituzioni, recuperando il significato perduto della politica come relazione, confronto, conflitto. Così facendo il piano diventa un momento della pianificazione stessa come interazione sociale di tutti i soggetti che agiscono sul territorio e non solo del tecnico, dell'amministratore e dell'immobiliarista: al centro non vi sono più solo gli strumenti, ma le problematiche dello sviluppo e dell'ambiente, l'azione e le politiche dei soggetti coinvolti.

In questa prospettiva non è più il piano in sé ad essere oggetto di elaborazione, ma è il territorio stesso tramite e attraverso i soggetti che vi abitano e interagiscono. Il piano diviene così un momento del complessivo processo di pianificazione, un momento di formalizzazione del processo (progressivo e continuo) di riappropriazione culturale del territorio.

E' questo il tratto distintivo dello «sviluppo locale», che attiva un processo di responsabilizzazione collettiva del proprio patrimonio a sostegno della qualità del vivere (presente e futura), autodeterminazione del proprio modello di sviluppo, costruzione di reti sociali e produttive in grado di organizzarsi e relazionarsi criticamente e in autonomia con le reti globali.

I concetti di qualità urbana, di sviluppo sostenibile, di ecologia della vita quotidiana sono ovunque sempre più annunciati ma raramente tradotti in coerente azione pubblica. La qualità urbana è qualità d'insieme e non la si raggiunge se non si tenta di governare insieme le diverse parti che compongono la città e i suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità è raggiungibile solo mediante la tecnica della pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerando il territorio urbanizzato come un sistema, vuole governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. Perciò l'urbanistica contrattata è l'elusione della pianificazione. Se gli amministratori cercano oggi la scorciatoia dell'intesa con la proprietà è spesso perché non prendono in considerazione la possibilità di regole nuove e più efficaci anche perché l'impegno rigoroso e costante, necessario per costruire una politica della pianificazione, paga meno e meno rapidamente dell'accordo raggiunto con un potentato economico. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto e al rischio della corruzione ma li rende rinunciatari rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.

Non basta però limitarsi a denunciare un simile atteggiamento. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale deregolamentazione urbanistica promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che mentre screditava la pianificazione alla quale si arrivava ad imputare anche l'abusivismo edilizio ("abusivismo di necessità"), tendeva a spegnere ogni tensione per una riforma legislativa. E' un atteggiamento che oggi può essere superato solo con un costante impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete vertenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la sinistra può essere determinante per sbloccare finalmente la decennale vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici e per dare all'Italia una legge moderna sul regime delle aree e degli edifici; sul secondo terreno delle mille realtà locali, si misura la capacità della sinistra di fornire risposte adeguate alla crisi delle città, una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe dalla corposità degli interessi (Salsano).

Nelle decine di documenti che formano il nuovo strumento urbanistico di Roma e di Firenze, ad esempio, non c'è nessuna traccia di elaborazione sul consumo del suolo e sui metodi per fermarlo. Anzi è la stessa logica del piano che alimenta il consumo di suolo, poiché il meccanismo di produzione dei beni pubblici (verde, scuole, parcheggi, attrezzature) dipende dall'edificazione privata. Ed è anche evidente l'assenza di indirizzi in materia di politica abitativa, in particolare rispetto alla "domanda povera" (sfrattati, immigrati, senza fissa dimora, nomadi, ecc.) e di quella in ogni caso non opulenta. Un PRG non può certo risolvere tutti i problemi. Infatti se da oltre un decennio assistiamo alla cancellazione del concetto stesso di edilizia pubblica, non è certo l'urbanistica che può invertire questa deriva. Per questo servirebbe una politica che abbia a cuore il destino di tutti coloro che non hanno la capacità di accedere al mitico mercato.

A Firenze e a Roma, mancando questa impostazione, la cosiddetta crescita economica si traduce ineluttabilmente in crescita edilizia e le nuove cubature diventano merce di scambio tra operatori economici e amministrazione cittadina, ma nessuna "compensazione" potrà mai restituire gli spazi aperti e gli orizzonti liberi cancellati dall'edificazione. La mancanza di risorse fornisce il pretesto per ulteriori anche se inedite agevolazioni agli operatori immobiliari e alla speculazione fondiaria: il Comune rende edificabile un suolo, l'immobiliarista cede qualche alloggio per l'emergenza abitativa, non importa dove, non importa come.

L'impegno dev’essere dunque quello di dotare finalmente l’Italia della fondamentale legge che consenta di sottrarre alla taglia della rendita fondiaria terreni e immobili, separando il diritto di proprietà da quello di costruzione e la riaffermazione della politica di piano. Del resto il recupero della pianificazione dovrebbe essere il fulcro di una nuova politica amministrativa, per due ragioni: a) restituire certezza di diritto a tutti gli operatori, indipendentemente dai legami che si costruiscono, di volta in volta, con gli amministratori; b)avere lo strumento indispensabile per governare il territorio anche con risorse scarse.

Proposte

PRIMA PROPOSTA: IL PIANO METROPOLITANO?

Mentre bisognerebbe ripristinare e ampliare l'indipendenza dei comuni minori per valorizzare pienamente la loro specificità collettiva, si tratta di dare alle grandi città l'assetto metropolitano richiesto da quella macchia edificata continua, chiamata "città dispersa". Ciò non attraverso una procedura unificata ma secondo modelli istituzionali pensati a misura di ciascuna area, poiché ogni città è un caso a sé. Il Piano della città metropolitana sarebbe necessario non solo per ragioni di unitarietà del sistema ecologico e ambientale, ma principalmente perché tende a consolidarsi un vasto bacino di pendolarità determinato dal trasferimento di nuclei familiari, da trasformazioni dei modi di produrre e da processi di terziarizzazione, che superano i cristallizzati confini comunali.

Nel 2005, per la prima volta nella storia del pianeta, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne (dati ONU), causa ed effetto di quella uscita da un sistema produttivo manifatturiero e della maturazione del processo di mondializzazione economica secondo regole capitalistiche neoliberiste, che produce il proprio territorio e ambiente, e costruisce le proprie forme di territorialità, producendo un modello di città del tutto inedito.

La globalizzazione economica neoliberista ha fatto saltare i confini, facendo perdere di senso qualunque divisione amministrativa. La delocalizzazione dei comparti produttivi e la deterritorializzazione delle categorie di spazio e tempo sono le pesanti ricadute sulle città, poiché segnano il passaggio da una spazialità organizzata sulla centralità del 'luogo', ad una spazialità «di flusso» in cui lo spazio è oggetto continuamente ridefinito (Manuel Castells).

Il nuovo assetto urbano si sta caratterizzando per un accresciuta valenza delle grandi città e delle aree regionali, e per l'apertura di una fase di competizione diretta tra sistemi urbani. L'idea di innescare una competitività fra aree urbane mentre non ha sortito effetto alcuno sul miglioramento della qualità della vita e della qualità ambientale, è stata semmai funzionale a modellare la distribuzione della popolazione e delle attività economiche, sulla base di cointeressi (cordate, gruppi, centri) prevalentemente economici e di potere, che hanno piegato e cooptato la struttura istituzionale locale per intensificare lo sfruttamento del territorio e perseguire i propri interessi. Dunque i processi, le trasformazioni del capitalismo su scala mondiale non riguardano esclusivamente la sfera dell'economia, ma hanno pesanti ricadute sulla forma fisica, sulla struttura sociale delle città e sugli aspetti sociali del vivere quotidiano. Occorre pertanto partire dal riconoscere che i collegamenti tra la deriva mondiale dell'economia e i cambiamenti della struttura sociale e dei sistemi urbani sono il fenomeno centrale dell'epoca contemporanea.

La prima e più evidente trasformazione è la formazione e la crescita di strutture urbane metropolitane, che non possono più essere definite da rigidi confini amministrativi o da omogeneità morfologiche, in quanto emergono nuove categorie a stabilire le grandi conurbazioni contemporanee. (ad esempio la mobilità, la capacità di consumo, ecc.). Alla città tradizionale si sta sovrapponendo - ma non sostituendo - una nuova morfologia dettata dalle ragioni del consumo, dalla flessibilità e precarietà del lavoro, da una diversa organizzazione spazio-temporale del quotidiano. Comuni, Provincie e Regioni invece sono unità territoriali costruite per un sistema territoriale completamente diverso dai processi in atto. Inoltre, di fronte a tali cambiamenti, anche l'apparato concettuale e conoscitivo è divenuto ormai inadatto, e deve essere rimodellato e sottoposto a profonda revisione sulla base delle nuove mappe sociali che si stanno configurando.

La legge 142/90 Riforma dell'ordinamento degli enti locali - che ha riorganizzato amministrativamente il territorio - ha tentato di introdurre il concetto di «città metropolitana». Tale legge, pur presentando al suo interno contraddizioni e incertezze, e nonostante sia rimasta praticamente inapplicata, andava a cogliere uno degli elementi centrali di questa profonda trasformazione della forma urbana, che per intensità e diffusione ricorda il passaggio dalla città medievale a quella industriale del Settecento.

Il nuovo «sistema urbano policentrico», o «città a rete» - per riportare due tra le più diffuse espressioni - crea una complessità morfologica, normativa e analitica, ossia la convivenza di sistemi urbani crea problemi di certezza amministrativa e di rappresentanza politica affrontabili solo nell'ambito di una pianificazione che, partendo dalle dinamiche sul territorio, dia senso e voce al territorio stesso.

Oggi la città diventata metropoli, non è più il luogo della produzione, ma quello della distribuzione e del consumo di merci e servizi: magazzino di attività amministrative e di cultura mercificata. Il territorio perde così ogni possibile significato autonomo e diviene anch'esso merce a disposizione della metropoli. In una struttura sociale urbana basata sul profitto e sul consumo a dimensione globale, non si può non partire che dal mettere in discussione tale modo di sviluppo e cominciare ad intervenire nella società, per ricreare luoghi e tempi delle relazioni; e l'unica strada percorribile è la via della pianificazione, della progettazione plurale e collettiva per una riappropriazione del tessuto urbano da parte dei/delle cittadini/e. Una pianificazione che non può che essere a scala metropolitana, aperta e multidimensionale, nel senso che riesca a cogliere e tenere insieme le correlazioni, le interazioni di tutti i soggetti attivi nel territorio (Carlo Doglio). Programmare pluralmente il futuro della città significa programmare il futuro dell'intera comunità che in essa vive, lavora e si riproduce; e regolare la città come luogo di queste relazioni significa irrompere nei tessuti urbani del nostro presente globalizzato. Qui sta la dimensione plurale e metropolitana di un ripensare criticamente e continuamente i confini codificati, per la costruzione di nuove forme di territorialità.

SECONDA PROPOSTA: SEPARARE IL PROFITTO EDILIZIO DALLA RENDITA SUL SUOLO ATTRAVERSO L'ACQUISTO PUBBLICO TEMPORANEO DELLE AREE DA TRASFORMARE.

C'è un modo tradizionale che assegna all'amministrazione pubblica il compito di stabilire le regole per gli interventi altrui, e di gestire in proprio una parte minore del suolo, come le vie di comunicazione e gli impianti necessari a disimpegnare i terreni privati. I difetti di questo metodo – lo squilibrio finanziario derivante dalle spese pubbliche a fondo perduto che valorizzano i terreni privati – emergono già a cavallo dell'800/900, e conducono a un secondo metodo, che assegna all'amministrazione pubblica il compito di acquisire temporaneamente i terreni da trasformare, corredarli delle opere pubbliche e rivenderli in pareggio economico ai vari operatori pubblici e privati.

Olanda, Paesi Scandinavi, Gran Bretagna hanno applicato su larga scala questo secondo metodo, soprattutto nel secondo dopoguerra, per eliminare il sovrapprezzo speculativo sulla casa e rendere progettabile il nuovo paesaggio costruito. Si è cioè compresa la necessità di accompagnare il piano regolatore con strumenti che rendono possibile una politica non soggetta al ricatto della proprietà fondiaria e quindi finalizzata all'acquisizione preventiva delle aree da urbanizzare (Salzano). In Italia invece non si è riconosciuto il ruolo dell'intervento fondiario pubblico al fine di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo e si è accantonato definitivamente ogni idea di riforma organica della legge urbanistica del 1942. Pertanto nel nostro paese il saggio della rendita ricavata dalla compravendita delle aree può crescere indefinitamente, incidendo sul prezzo dell'alloggio in misura del 50%, 100%, il 200% e anche più. Questa tacita decisione ha escluso ogni ipotesi di acquisto pubblico preventivo dei terreni; ha lasciato crescere il prezzo delle case in vendita e in affitto; ha lasciato divergere domanda e offerta per cui oggi abbiamo una percentuale eccessiva di alloggi vuoti e contemporaneamente l'emergenza sfratti; ha determinato la costruzione di immense periferie disordinate; la cementificazione delle coste, la distruzione del paesaggio; ha consolidato l'ingerenza degli interessi fondiari nella formazione delle regole urbanistiche; ha reso difficilissima e persino impraticabile la formazione dei PRG lasciando quasi tutte le città italiane fino agli anni '60 senza piani aggiornati.

Qual è il problema? Non osando agire sulla causa si hanno alcuni esiti micidiali: l'Italia, pur avendo un patrimonio edilizio di stanze per abitante fra i più alti del mondo è in continua emergenza sfratti; gli affitti (mercato quasi interamente privato e anche quando è pubblico osserva le stesse regole) e i prezzi delle abitazioni sono tali che non solo la casa è fuori dalla portata di vaste masse di cittadini ormai sulla soglia della povertà, ma si è avuto un generale pesante aggravio per i bilanci familiari: mentre nel 1980 la spesa per l’abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel 1998 incideva per il 25%. Infine si è costruito un patrimonio di case pagate col denaro pubblico che, pur essendo quantitativamente insufficiente (sotto il 10%), viene oggi donato agli immobiliaristi. A ciò va aggiunta la decisione rovinosa della legge del dicembre del 1993 che, nella logica delle privatizzazioni, prescrive agli enti pubblici di vendere la metà delle case in loro proprietà. Si tratta quindi di una strategia in difesa del mercato immobiliare che spiega anche i continui conflitti fra politica edilizia e urbanistica.

Per impostare la politica nazionale delle aree fabbricabili basterebbe l'acquisto dei terreni da trasformare da parte delle amministrazioni comunali, e da inserire nel ciclo dell'urbanizzazione pubblica preventiva in pareggio economico (Benevolo). Per questo ciclo non occorrono finanziamenti ma anticipi di cassa, che i Comuni, le Regioni, lo Stato possono erogare per le vie consuete.

Le esigenze pubbliche chiedono che i nuovi quartieri nascano armoniosi, che si raggiunga un equilibrio tra la superficie destinata agli spazi liberi e quella per le costruzioni; tra la superficie destinata ai parchi ed ai giardini pubblici e quella per le strade e le piazze; tra l'edilizia popolare e quella di lusso. Le esigenze private si possono invece sintetizzare nella corsa di ogni proprietario di suolo a guadagnare il massimo di soldi dalla utilizzazione intensiva del proprio terreno, e nella tendenza delle società immobiliari a sostituirsi ai primitivi proprietari ponendo in essere tutti i possibili accorgimenti pur di valorizzare i metri quadrati posseduti.

Soltanto una legge che preveda l'acquisto obbligatorio e totale delle aree e delle zone di espansione a favore del Comune, come fase intermedia che precede l'urbanizzazione delle zone stesse, e che prelude alla cessione di un'aliquota delle aree ai cittadini per l'edilizia privata, può impedire che si perpetui la gara di corruzione e di favoritismi che accompagna fatalmente la redazione, l'adozione, l'approvazione e persino la pubblicazione e l'esecuzione dei piani regolatori. Questa pratica porrebbe tutti i proprietari in condizione di uguaglianza poiché i proprietari il cui suolo sarà destinato alla costruzione di una strada o di una scuola saranno trattati, quanto ad indennizzo, allo stesso modo.

Collocando l'intervento pubblico nel campo della manovra fondiaria – il che costituirebbe un ribaltamento della situazione - attraverso la fornitura di aree fabbricabili pubbliche in pareggio economico, si avrebbe il controllo della produzione edilizia; si libererebbe il mercato edilizio dalla speculazione fondiaria; si consentirebbe un controllo generale sull'assetto del territorio da parte delle comunità locali. Inoltre l'uguaglianza effettiva tra i proprietari renderebbe possibile l'attuazione più veloce dei piani regolatori, poiché verrebbero meno le lotte di interessi che si scatenano in regime privatistico di utilizzazione di aree fabbricabili. Sarebbe inoltre più facile anteporre agli interessi dei singoli gli interessi generali della città, in quanto la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli, medi e grandi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni e si pongono in netto antagonismo con i cittadini desiderosi di maggiori spazi con riduzione al massimo della densità fabbricativa. Lo scopo non è di punire o sanzionare i proprietari terrieri, quanto di impedire che l'ansia di speculare sulle aree fabbricabili condizioni l'evoluzione delle città.

Il secondo problema è come smaltire gli effetti di 50 anni di malaurbanistica. Dal dopoguerra si sono costruiti sui suoli privati, solo nell'edilizia residenziale, circa 10 miliardi di metri cubi (calcoli 1995), che al costo del 1995 di 400.000 lire al metro cubo sono costati circa 4 milioni di miliardi e hanno fatto lievitare il valore dei terreni urbanizzati fino a una cifra pressappoco equivalente. Questa somma, prelevata agli acquirenti delle case, è stata incamerata dai mercanti di aree. E' mancato invece il finanziamento delle opere pubbliche, dei servizi e degli standard urbanistici (al contempo una conquista epocale e un diritto alla vivibilità garantito a tutti i cittadini indipendentemente dal tipo di casa che si potevano comprare o abitare), che sono rimasti in buona parte ineseguiti.

Gli standard minimi obbligatori sono stati introdotti per la prima volta nel nostro Paese con la legge 765/1967 al fine di rispondere alle esigenze dei cittadini non solo in materia di abitazione, ma anche di qualità della vita. In molti paesi europei non si è verificata tale necessità poiché è inconcepibile edificare in una città senza pensare prima agli spazi pubblici e ai servizi. In Italia invece la costruzione del progetto di una città parte dagli spazi da destinare all’edilizia privata, lasciando quelli residui alle funzioni pubbliche. E' significativo che alcune città arrivano a far rientrare all’interno del computo per gli spazi pubblici le rotonde e gli sparti traffico. Da questa cattiva gestione dello spazio pubblico (non solo piazze e parchi, ma anche ospedali, centri sociali, asili, scuole, ecc.) deriva l’idea che le esigenze dei cittadini si risolvano attraverso una semplice operazione matematica mq/abitante, senza considerare la reale qualità di questi metri quadri (quasi sempre il minimo previsto dalla legge) e la relativa accessibilità e fruibilità. Il posizionamento di queste attrezzature deve avvenire infatti in un modo funzionale, e cioè in un modo che ne garantisca il reale utilizzo. E' quindi necessaria una riflessione sugli standard urbanistici, non per annullarli ma per renderli strumenti efficaci nella pianificazione, facendo coesistere qualità, quantità ed accessibilità reale nella loro progettazione.

Gli ambienti urbani indicano un cronicizzarsi di una condizione segnata da una crescente divisione sociale e dalla povertà . Il nodo della questione risiede nei processi economici generali che producono disuguaglianza, disoccupazione e precarizzazione del lavoro, in un quadro generale reso ancora più aspro dalla crescente discriminazione etnica e socio-spaziale, per cui nuove frontiere interne si creano nelle città: barriere non solo urbanistiche, ma anche psicologiche e culturali

Esistono quindi nelle diverse e disastrate periferie, condizioni di vita pessima e sacche di degrado e infelicità, un enorme arretrato di infrastrutture e servizi che dovrebbe essere colmato. Nei quartieri periferici per aprire una piazza, un centro culturale, un teatro ci vogliono anni e anni di battaglie, e altrettanti ce ne vogliono per trovare le risorse e superare le resistenze mascherate da burocrazia.

Mentre i fatti dicono inequivocabilmente che per le periferie non c'è mai una lira, occorre al contrario riportare l'ambiente residenziale a forma insediativa e qualità architettonica accettabili, mettendo in atto un intervento straordinario delle Regioni e dello Stato. Si potrebbe pensare a un piano pluriennale finalizzato all'adeguamento dei servizi e alla ricostruzione di reti di protezione sociale rispondendo così ad una fortissima domanda popolare al di fuori della retorica dell'ideologia della sicurezza. Infatti, le periferie disordinate e ossessive, realizzate nel corso di 50 anni, sono il luogo di residenza ormai consolidato della maggior parte della popolazione italiana, e proprio per questo devono essere migliorate nell'unico modo possibile: completando o ricreando e curando la rete dei servizi e degli spazi liberi, collettivi e pubblici.

Occorre evitare in futuro l'arretrato di infrastrutture e servizi derivante dalla non acquisizione pubblica delle aree. Infatti:

- Non è più ammissibile spendere risorse per rimediare a carenze che non hanno mai fine, poiché si perpetuano i meccanismi che producono all'infinito queste stesse carenze.

- Non è più accettabile finanziare a fondo perduto le opere di urbanizzazione primaria e secondaria – strade, impianti, scuole, biblioteche, mercati, giardini, impianti sportivi – il cui corrispettivo arriva ai proprietari dei terreni circostanti sotto forme di valorizzazione delle aree e degli immobili. Le opere pubbliche di interesse locale devono essere prodotte gratuitamente dal ciclo dell'urbanizzazione pubblica, quindi essere incluse nel prezzo di costo dei terreni e pagate dagli operatori prima degli interventi. Dunque l'amministrazione interverrebbe direttamente nel processo di trasformazione, riservandosi il passaggio essenziale: la fornitura delle aree fabbricabili ai vari operatori.

- Tuttavia le grandi quantità di nuove aree fabbricabili sono del passato. Oggi il problema più rilevante è dato – in particolare - delle aree industriali dismesse, ma nessuna amministrazione è stata finora capace di applicare a queste aree l'acquisto pubblico preventivo, per ricondurle a un disegno generale. In tale contesto hanno trovato terreno propizio i "piani di terza generazione" basati sulla contrattazione con la proprietà fondiaria: nascono tante trattative isolate dove l'esigenza di collocare per ogni terreno, opportunità pubbliche e contropartite private annulla la possibilità di qualsiasi manovra unitaria.

TERZA PROPOSTA: TRASFORMAZIONE ECOLOGICA DELLA CITTÀ.

Impegnarsi per la trasformazione ecologica della città e dell'economia, significa impegnarsi nella produzione della città della qualità della vita; determina vantaggi territoriali, produttivi ed occupazionali sia nella fase di costruzione della qualità (ambientale, sociale, culturale), sia nelle diverse fasi della sua realizzazione. La costruzione della qualità come “ambiente globale” è un progetto complesso di riqualificazione dell’intera città come sistema per vivere. La questione ambientale non è una moda, ma fa parte di un progetto politico e culturale nella consapevolezza che non si può salvare l’ambiente senza mettere in discussione gli assetti economici e di potere che lo hanno distrutto.

Se si facesse un sondaggio, i cittadini risponderebbero che il problema più grave è il traffico. Ed in effetti il traffico rende la città particolarmente invivibile. Tuttavia questo è anche un problema che, se si avesse coraggio, si potrebbe risolvere più facilmente di come in generale si pensa. Perciò questo non è il problema più grave. Quello più grave perché di natura strutturale è il problema del verde .

L'operazione più significativa, come critica diretta alle ragioni dell'economia vigente e all'impianto concettuale che vi presiede, può essere la messa in campo di una diversa pianificazione urbanistica, sociale e culturale del territorio, affinché si cominci ad agire sulle cause e non sugli effetti dei vari degradi. La nuova stagione dei diritti deve comprendere il diritto alla città per tutti i cittadini, vecchi e nuovi, nativi e migranti, sulla base del concetto della Città come bene comune.

Occorre che l’Ente locale – affinché non sia semplice accompagnatore politico-istituzionale degli interessi economici – rivoluzioni le priorità di bilancio, prendendo atto della spirale d'impoverimento e di esclusione, e intervenga con una nuova politica degli investimenti, una politica per la riqualificazione e ristrutturazione urbana contro la periferizzazione sociale e culturale, distribuendo sul territorio qualità sociale.

Un'opportunità in questo senso sembrava fornita dalla svolta per cui le città stavano disarmando sia per quantità di popolazione sia perché restano liberi ampi spazi dismessi, costituiti da fabbriche, officine, magazzini, negozi, ecc. frutto dei nuovi modi del produrre, del lavorare, del vivere. Gli spazi abbandonati avrebbero potuto assurgere a risorsa primaria per la collettività e non sono mancate formali dichiarazioni in proposito. Tuttavia nulla di tutto questo è accaduto e si è continuato a coltivare lo spazio urbano a cemento.

Non vi sarà nessuna nuova qualità del vivere se non si esce dalle logiche capitalistico-speculative ed è vano pretendere di avere ragione dei vari inquinamenti (dall'inquinamento dell'aria a quello estetico) se non se ne combatte la causa prima, e cioè l'uso distorto che da decenni tante amministrazioni vanno facendo del territorio. I vari “dismessi” possono ancora essere un'occasione a condizione che si pensi all’aumento degli spazi aperti nella città, a ridurre le densità edificabili, controllare le destinazioni, pensare anche a demolizioni per risarcire precedenti devastazioni, e ad un recupero a cubatura zero, vuoti strategici, sottratti alle logiche di mercato, per restituire il verde al paesaggio urbano e reintrodurre la natura nella città.

Come deve essere pensata la città in questa prospettiva? A questa domanda non si può dare risposta restando all’interno di una pianificazione urbana tradizionale, ma implica mutamenti profondi in molti settori dell’organizzazione sociale. Dalla critica dell’economia della crescita quantitativa, dalla compatibilità tra economia dell’uomo ed economia della natura, conflitto fra indicatori della crescita e del benessere, ai vincoli posti all’economia dai limiti biofisici (effetto serra, buco dell’ozono, piogge acide), ai limiti economici (disoccupazione strutturale) e ai limiti sociali (nuovi bisogni e nuovi valori). Le regole del nuovo progetto di città si esprimono in nuovi concetti transdisciplinari che producono nuovi indicatori sociali (benessere sociale contro crescita quantitativa) e nuovi standard qualitativi che interpretano le funzioni biologiche ed ecologiche del mondo vivente: regole legate alla capacità dei sistemi di assorbire inquinamento, rumori, variazioni climatiche, ecc.

Al di là delle grandi catastrofi (Chernobyl, Bhopal, Seveso), con i fenomeni macrobiologici, i mutamenti climatici, la crescente desertificazione, la riduzione della fascia di ozono, è la stessa vita quotidiana ad essere soggetta a un progressivo deterioramento direttamente legato al degrado dell'ecosfera. Questo si configura come un “secondo sfruttamento” dei cittadini, poiché come abbiamo una natura depredata, spogliata, inquinata così abbiamo uomini e donne depredati, spogliati, inquinati. Il sistema economico attuale è distruttivo ecologicamente e socialmente. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente legate.

All’attuale città che produce rifiuti, inquinamento, dissipazione di risorse, distruzione di ambiente naturale, occorre sostituire una città del riuso, del recupero, ossia una città caratterizzata per la quota sempre più bassa di materia ed energia destinata al proprio mantenimento. Al modello aziendalistico dell’Ente Locale che si manifesta nella pratica della concertazione che esalta solo la logica degli affari, va contrapposta l’idea della città come soggetto vivente. La questione ambientale impone la fine dei consumi di suolo e l’abbandono della concezione riduttiva del verde urbano, inteso come occasionale e inutile arredo urbano, per passare alle acquisizioni della biologia dei sistemi viventi che indicano come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire l’inquinamento acustico, per abbattere le polveri, per temperare il micro clima .

Mettere al centro la città a misura di vita, significa tradurre in politica la riconversione ecologica della città che investe non solo i modi di vivere e consumare ma anche le modalità dell’edificare e/o ristrutturare gli edifici pubblici e privati secondo i criteri dell’edilizia bio-compatibile, tenendo presente come gli elementi della natura siano potenti alleati contro inquinamento atmosferico e acustico e contro lo spreco di energia. Una strategia dunque che va oltre i metri cubi di cemento e dove i valori ambientali, diffusori di qualità, possono liberare le/i cittadine/i e le stesse attività economiche dalla rendita fondiaria che li soffoca. Tutto questo ha nel verde il suo asse primario.

Le ragioni per procedere in questo modo stanno nella crisi ambientale e climatica, che mette a rischio migliaia di esseri umani, non sono solo una questione estiva riguardante gli anziani (del resto invisibili per il resto dell’anno) cui si offrono le risibili soluzioni dei supermercati e delle caserme dei Vigili del fuoco. Il riscaldamento locale è dovuto all’urbanizzazione intensa e continua. Rinfrescare le città è il problema poiché sulle aree coperte da cemento e asfalto si forma la cosiddetta “isola di calore”, che surriscalda l’aria rispetto alla campagna circostante. Uno studio scientifico (2002) dell’Agenzia federale per l’ambiente Usa, dimostra che piantare 10 milioni di alberi a Los Angeles, permetterebbe di ridurre la temperatura estiva di 4 gradi. Le strategie di riforestazione urbana sono le prime da mettere in atto per produrre brezza termica anche in assenza di vento. Nelle conoscenze dell’ambientalismo scientifico vi sono dunque gli elementi per dei veri e propri piani per la riduzione del caldo in città.

Una città dopo l’automobile significa non la fine del trasporto privato individuale ma il suo contenimento e la sua subordinazione alle esigenze del trasporto pubblico di massa, della salute e del benessere collettivi, oltre che rappresentare quella struttura qualitativa benefica anche alla stessa produzione di merci. Ecco perché più che il potenziamento del sistema viario è importante la sua classificazione funzionale e una rigorosa politica dei parcheggi rimuovendo gli errori gravissimi che si stanno compiendo in materia. Ma soprattutto è centrale che la politica della mobilità sia integrata a quella del verde e della qualità ambientale.

Una volta si parlava di isola pedonale per il Centro, oggi non basta più dal momento che in tutta la città sono superate le soglie a rischio di inquinamento. Ci vuole un arcipelago pedonale e una rete mista di itinerari pedonali e ciclabili che unifichino tutti gli spazi verdi della città e della conurbazione, diventando una struttura portante del disegno urbano metropolitano.

Proviamo immaginare, diceva Walter Tocci per Roma, che nel deserto fatto di lamiere di automobili, di ingorgo e aria irrespirabile possano sorgere delle oasi, dei luoghi dove si possa passeggiare, giocare, respirare e chiacchierare. Allora l’idea è creare tanti e tanti spazi completamente liberati dalle automobili e restituiti alle forme di vita più semplici, separando finalmente il traffico veicolare da quello pedonale.

Non si tratta di fare grandi opere ma di curare la manutenzione del tessuto urbano: rifare la pavimentazione a misura dei pedoni, togliendo marciapiedi e asfalto; ecc. Da queste nuove piazze potrebbe partire almeno una strada interamente riservata ai mezzi pubblici (elettrici) tale da consentire un collegamento facile con altre piazze simili rendendo quindi fattibile la limitazione al traffico ben al di là della singola isola pedonale. Nelle piazze così rinnovate possono essere accessibili tutti i moderni mezzi di relazione, che potrebbero consentire di fruire collettivamente di spettacoli, performance e manifestazioni di vario tipo, o di seguire in diretta alcuni eventi comprese alcune sedute del consiglio di Quartiere e/ del Consiglio Comunale: una sorta di "agorà" anche in talune modalità elettroniche, fra generazioni, fra culture ed esperienze diverse, per esperire insieme modelli comunicativi e spettacolari non mercificati, contribuendo così a cercare forme di vivere quotidiano fuori dal coma ipermediatico.

Cominciamo dal proprio quartiere, e dalle aree dismesse a costruire una città nuova.

QUARTA PROPOSTA: ELOGIO DEI MARGINI PER UNA CITTÀ PLURALE

Nel suo libro La città imprevista, Paolo Cottino racconta alcune pratiche di dissenso rispetto all’utilizzo convenzionale di svariati spazi urbani milanesi: occupazioni di edifici abbandonati, mercatini autogestiti e vendita in strada, orti cittadini sono alcune delle esperienze che immigrati, pensionati, disoccupati sperimentano a partire dai loro desideri e bisogni, dalla loro quotidianità e posizione subalterna. La descrizione di queste pratiche di riutilizzo e trasformazione degli spazi urbani – luoghi solitamente marginali, oppure centrali ma ‘problematici’ secondo le accezioni del senso comune come stazioni, parchi e marciapiedi riconvertiti alla socialità – rimanda ad una proposta politica: l’abbandono di una visione organica, unitaria e tecnicistica del territorio e delle sue funzioni a favore di una nuova centralità dei soggetti e delle loro pratiche, soggetti sempre più plurali, diversi, differenziati sia dal punto di vista delle origini e delle culture sia in termini di generazione, genere, classe, stili di vita, tempi, accesso alle risorse e gestione del potere.

La retorica della città ‘multiculturale’ imperversa quasi ovunque, alternando spesso la descrizione di scenari catastrofici con appelli paternalistici in difesa di diversità congelate, stereotipate. Un’idea altra di città – la città bene comune - colloca invece al centro i soggetti con le loro molteplici determinazioni; e guarda ai luoghi e alle pratiche ‘marginali’ come possibilità di riappropriarsi e di trasformare l’imperativo oggi dominante della legge e dell’ordine, a servizio di un altro imperativo con cui si modella la vita urbana contemporanea, ‘consumare e produrre’. Diversi soggetti collettivi, i/le migranti in primo luogo, stanno già rinegoziando l’utilizzo e il significato dello spazio urbano imposto dalla norma e dal senso comune predominante; pratiche di utilizzo e riappropriazione materiale e simbolica che sono quotidianamente davanti ai nostri occhi, dall’occupazione di spazi abitativi ai ritrovi in luoghi pubblici riconvertiti dal desiderio di socialità. Invece del ritorno alla normalità, chiediamo che questi soggetti, le loro pratiche e i loro modelli, siano inclusi in quel processo incessante di negoziazione che dovrebbe essere alla base della costruzione della territorialità e dei legami sociali che la definiscono. Dai margini e attraverso i margini ci arrivano molteplici pratiche di disobbedienza urbana e autorganizzazione che contribuiscono ad aprire spiragli per l’immaginazione di città diverse, plurali: "le variegate domande di fruizione degli spazi urbani, i conflitti attorno ai suoi molteplici possibili usi, sono dunque buoni indicatori del cambiamento sociale in corso e rimandano all’insieme dei nuovi significati che le nostre città oggi sono chiamate ad accogliere" (Paolo Cottino).

Perché ciò avvenga sono indispensabili spostamenti che coinvolgono processi materiali e simbolici, al centro dei quali vi è la necessità di riconoscere nell’altro/a – nelle sue variegate articolazioni – un soggetto che attivamente partecipa dal basso alla ridefinizione delle regole, dei significati e delle politiche del vivere cittadino. Tradotto in ambito urbano implica di favorire l’organizzazione della diversità piuttosto che l’estensione dell’uniformità; il valore della pluralità piuttosto che la sintesi uniformante; il riconoscimento dell’irreversibilità dei processi di complessificazione della società e delle città non in termini di frammentazione ma di riconoscimento che include conflitti, tensioni e cambiamenti.

QUINTA PROPOSTA: LA CITTÀ ACCESSIBILE.

Le città ,"in cui quasi tutti sono venuti da un altro luogo" (Anne Michaels ), devono offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere. Se si guarda al fenomeno della trasformazione della città dal punto di vista dell’insediamento, si pone la questione della definizione dei modi stessi dell’abitare delle comunità accolte, questione affrontata fino ad ora costruendo recinti reali e simbolici di emarginazione e sofferenza.

Eppure è esistita un'architettura moderna che ha elaborato il tema dell’abitare di massa, dando consistenza a programmi urbanistici, sorretti da strategie politiche, che propugnavano l’inserimento delle classi considerate subalterne nel corpo delle città, come ad esempio la Garbatella romana degli anni Venti, costruita da Innocenzo Sabbatini e altri, e l'intervento di edilizia sovvenzionata destinato a ceti popolari, come il Tiburtino III, che Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni costruirono in anni di attuazione del Piano Fanfani attraverso lo strumento dell’INA Casa. Oggi si tratta di comprendere che la modalità dell’accoglienza di popoli altri – fuori dell'emergenza - obbliga a pensare nuovi modi di vita collettiva: nuova tipologia dell’abitazione, nuovi disegni di impianto per le aree di risanamento, nuovo rapporto tra alloggi e servizi.

La storia della città si è depositata nella sua forma: i rapporti - con il potere di turno, e tra poteri - sono più o meno leggibili dietro l'insieme delle costruzioni, così come gli obiettivi sociali. In questa scena ogni abitante è molto simile ad uno spettatore inserito in uno spazio esistente (strade, piazze, palazzi, case, ecc.) che stimola l'interazione, la riflessione, la conoscenza, in una pluralità di forme e modalità di cui non possiamo predeterminare gli effetti. La città è così – di per sé - uno spazio pubblico, interpretato attraverso il vissuto di chi lo abita. Ma lo spazio pubblico – che non nasce mai come condiviso, spartito, comune - è continuamente attraversato da confini, conflitti e dialettiche più o meno asfittiche. Dunque la città c'invita a riflettere non per definire in senso astratto lo spazio pubblico, ma per vederlo costruito relazionalmente nella situazione concreta in cui, di volta in volta, si dà. Dunque la città come spazio pubblico è uno spazio eminentemente esposto, donato, inassimilabile alle logiche proprietarie, eppure mai definitivamente salvo come mostrano la storia e la cronaca dei nostri tempi

Al di là di come gli individui siano posizionati nello spazio della città, la periferia può essere ovunque, legata com'è alla distribuzione disuguale delle risorse fisiche, sociali, economiche, culturali e ambientali: periferia come rappresentazione di un vivere dimezzato simile allo stare in una riserva come versione più discreta di un vecchio ghetto.

In questo senso la città è un organismo vivente, è un'unità ricca e complessa e l'altrove (classi, generi, culture) comincia qui. Di fronte all'altrove sentito come pericolo, si possono creare "città fortezza", oppure delineare città accessibili. Rendere accessibile la città significa, nel suo significato più profondo, il prevalere di una centralità per le persone di ogni età: si riconoscono così i corpi, le specificità dell'appartenere a generi e generazioni differenti, le diversità dei percorsi e scelte di vita, le culture di origine di chi viene da fuori, la creatività e l'immaginario individuale e collettivo.

Il programma del governo Prodi contiene molte buone formulazioni. Una riguarda il futuro delle città e del territorio. Afferma infatti il programma: “In particolare proponiamo di varare una nuova legge quadro per il governo del territorio che operi secondo i seguenti criteri: evitare il consumo di nuovo territorio senza aver prima verificato tutte le possibilità di recupero, di riutilizzazione e di sostituzione”. Questa proposta arrivava quando era ormai scampato il pericolo dell’approvazione della famigerata legge Lupi, la riforma neoliberista che assegnava il destino delle città alla rendita speculativa. Per dare concreta attuazione a quella posizione di principio, il gruppo di urbanisti e di intellettuali che gravita intorno al sito Eddyburg ha pensato di elaborare una legge e chiamare a discuterne i partiti del centrosinistra.

Il principio cardine della proposta è semplice: “Il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune. Le autorità pubbliche ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze”. Il territorio è dunque un bene comune e spetta allo Stato promuovere politiche di indirizzo per il suo uso. Si afferma ancora che: “Nuovi impegni di suolo ai fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative al riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”. Perseguire l’obiettivo del risparmio di suolo è un modo per rendere l’Italia uguale a tutti gli altri paesi d’Europa che attuano da anni politiche di contenimento della diffusione urbana. Quei paesi stanno costruendo la prospettiva è quella della riutilizzazione dell’enorme patrimonio già realizzato, la sua riorganizzazione, l’evoluzione della dotazione tecnologica in coerenza con la necessità di risparmio energetico. Le città e il territorio dell’Europa stanno diventando il campo su cui si misurano le capacità dei singoli paesi di saper costruire un futuro sostenibile.

La salvezza delle città è dunque legata al recupero del concetto di governo pubblico del territorio. La proposta di legge riafferma così due fondamentali principi dell’urbanistica classica. La titolarità della pianificazione compete esclusivamente alle istituzioni pubbliche e si esercita attraverso atti di pianificazione. La proposta, poi, arricchisce i principi cui deve essere soggetta la pianificazione. In primo luogo, il “diritto alla città e all’abitare”. Si propone non soltanto di confermare la storica conquista degli standard urbanistici, cioè di una dotazione minima di spazi pubblici garantita a ogni cittadino. E’ maturo il tempo per affermare i diritti al godimento di un’abitazione; alla mobilità e all’accessibilità; all’uso delle risorse territoriali. Affermano l’Ance e Nomisma che la rivalutazione media italiana degli immobili ha superato il 70% nel periodo 1998-2005. Se si tiene anche conto che il settore delle abitazioni sociali è stato azzerato, si comprendono le radici della nuova questione abitativa. Sul tema della mobilità urbana, poi, si misurerà la capacità a misurarsi con la sfida tecnologica. L’aria delle città è avvelenata e occorre ripensare in modo sistematico le modalità di spostamento collettive, così da riportare ai valori minimi i livelli di inquinamento atmosferico e acustico.

Il secondo principio “nuovo” riguarda infine la partecipazione sociale alle scelte del governo del territorio. E’ un tema più generale, poiché riguarda i problemi stessi dell’esercizio della democrazia. E le scelte di sviluppo del territorio e delle città, per il loro carattere “statutario”, rappresentano uno dei campi fondamentali in cui deve essere perseguita la più ampia partecipazione sociale.

La proposta di legge è stata presentata ad un nutrito gruppo di parlamentari e di associazioni il 28 giugno scorso: i lettori lo troveranno su www.eggyburg.it. Da quella data è aperto il dibattito e il giudizio critico. Si potrà migliorare e integrare in una logica di confronto tra le culture che caratterizzano lo schieramento progressista. L’importante è giungere ad una proposta di legge al passo con i fenomeni che caratterizzano la vita delle città.

Il Giornale dell'Architettura ha chiesto ad alcuni dei più importanti urbanisti italiani d'indicare un punto che il Parlamento non dovrà dimenticare nella redazione della nuova bozza di legge urbanistica. Alla discussione aperta da Edoardo Salzano con un articolo sul Consumo di suolo segue ora l'opinione di Bruno Gabrielli.

Un urbanista che si rispetti non può che essere d'accordo con quanto scritto da Edoardo Salzano nel numero scorso. Contenere il consumo di suolo è certamente una priorità. Ma è suffìciente l'enunciazione di principio? Davvero si può risolvere la questione con un divieto generalizzato imposto da una nuova legge urbanistica?

Pongo una questione di metodo, non di merito: ho idea che si debba ormai ragionare in maniera «integrata» per colpire un fenomeno che non è causa ma conseguenza d'altri fenomeni, ed è a essi che occorre, almeno contemporaneamente, mirare. Hanno tra l'altro contribuito al consumo di suolo: a) il settore pubblico attraverso le realizzazioni dei quartieri d'edilizia economica e popolare: si pensi alle enormi «167» realizza te da Comuni come quello di Paternò, dove s'è assistito al quasi completo trasferimento degli abitanti e a una «desertificazione» del pur cospicuo centro storico; b) gli operatori privati, attraverso lo strumento della lottizzazione; c) i «piccoli» operatori privati utilizzando le aree a bassa densità dei PRG o costruendo abusivamente.

Una nuova legge urbanistica potrebbe dare la necessaria chiarezza prescrittiva per evitare i primi due punti. Per quanto riguarda il primo, sarebbe sufficiente smetterla (questo sta già avvenendo) di realizzare quartieri d'edilizia popolare e provare invece (questo non sta avvenendo) a realizzare «parti» di città ove collocare quote d'edilizia popolare pubblica.

La questione sollevata al terzo punto ha invece radici economiche, sociali e culturali legate alla formazione della domanda. Trionfa un modello culturale che nega la città contemporanea e che premia, allo stesso tempo, i centri storici e le casette sparse. Ho idea che nel merito non vi sia legge che tenga: sono gli architetti, gli urbanisti e gli amministratori pubblici che debbono saper dimostrare che si può realizzare una città contemporanea vivibile.

Consumo di suolo e rendita fondiaria sono, del resto, due questioni indissolubilmente legate ed è questo, a mio avviso, il punto che il legislatore non dovrà dimenticare nel prossimo testo urbanistico. Bella scoperta, si dirà. Ma da questo discendono la possibilità d'un reale governo pubblico del territorio, la qualità della città contemporanea (che è un obiettivo essenziale) e l'equità dei processi trasformativi (che è un principio irrinunciabile dell'urbanistica). Una nuova legge può garantire tutto questo? Non può garantirlo, ma può fornire strumenti per renderlo possibile.

La nuova legge potrebbe conferire al piano la possibilità di ridistribuire la rendita che, attraverso un meccanismo di perequazione diffusa, renderebbe indifferente la proprietà dei suoli; è questo l'unico strumento che garantirebbe la densificazione come alternativa alla dispersione. Lo sprawl è infatti anche un fenomeno di rendita minuta, d'interessi di piccoli proprietari che possono trovare soddisfacimento con il trasferimento di quelle possibilità edificatorie che provengono dall'equa distribuzione delle quantità poste in essere dal piano. Questa strada potrebbe condurre all'attuazione di servizi pubblici senza problemi d'espropri o d'indennità o di decadenze di vincoli. Il piano urbanistico (e non la legge, che deve però consentirglielo) può fissare i criteri d'un modello perequativo precisamente adattato a quelle specifiche realtà urbane e territoriali che deve governare, conferendo alle amministrazioni pubbliche un reale potere di scelta e di responsabilità.

Vedi sull'argomento l'Eddytoriale n. 92

Della sua bella e lunga vita mi piace ricordare un momento importante, che forse pochi conoscono, e che fa di Mario uno dei protagonisti dell’urbanistica moderna in Italia.

Mi riferisco al ruolo da lui svolto nella formazione di quelle misure – volute dal ministro Giacomo Mancini e dal direttore generale Michele Martuscelli, dopo la frana di Agrigento del luglio 1966 – che furono definite standard urbanistici, per migliorare le condizioni di vita nelle città, aumentare e qualificare le dotazioni di servizi e di spazi pubblici.

Mario Ghio dette il meglio di sé. Diventò di fatto il coordinatore del gruppo di lavoro, al quale collaboravano illustri urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Luigi Piccinato, Fabrizio Giovenale, Marcello Vittorini, Vincenzo Di Gioia, Bubi Campos Venuti, Edoardo Salzano e altri. Il lavoro era molto seguito dalla stampa e da giornalisti, soprattutto da quelli, come Antonio Cederna e Vittorio Emiliani, più attenti alle sorti delle città e dei cittadini.

Chi vi parla era allora giovane funzionario del ministero incaricato di seguire il lavoro della commissione. Divenni subito il più diretto collaboratore di Mario. So che in circostanze come queste non è bello riferire in prima persona, mi permetto di farlo soprattutto per testimoniare una delle qualità di Mario: la sua straordinaria attitudine a lavorare con i giovani, a formare i giovani. Per me fu una prestigiosa scuola privata che ben pochi hanno potuto permettersi.

Alla base del nostro lavoro stava quel libro prezioso, scritto da Mario e da Vittoria, Verde per la città, che ha fatto conoscere in Italia la cultura degli spazi aperti e le migliori esperienze straniere. “Un libro che mi ha aperto la mente”: mi ha detto qui stamattina Giuliano Prasca.

Ho raccontato altre volte del “terrificante perfezionismo” di Mario, e della sua sconfinata capacità di lavoro. Finito l’orario d’ufficio continuavamo a casa Ghio. Elaborò tabelle e quadri sinottici complicatissimi. Poi drasticamente semplificati e sottoposti a discussioni anche aspre, in ogni sede, prima di essere tradotti nel decreto ben noto a chi si occupa di urbanistica. Ma la tenacia, la determinazione, anche il coraggio di Mario, non permisero che fossero sacrificate le quantità e la qualità dei servizi collettivi.

Voglio solo ripetere che se in molti paesi e città italiani, a cominciare da Roma, si dispone di verde e di aree per il gioco, lo svago, l’istruzione, la cultura, la contemplazione, lo si deve anche a Mario Ghio.

Nella sua bella e lunga vita Mario ha sempre lavorato intensamente, all’università, nella professione, nelle associazioni culturali, ha scritto testi e disegnato piani che restano fondamentali. Sempre con la stessa caparbia fermezza mostrata al tempo degli standard. Sempre insensibile al cambio delle stagioni politiche e culturali. Avendo sempre lo stesso indiscusso obiettivo della prevalenza dell’interesse generale.

Addio Mario, non ti dimenticheremo.

Nel corso del 2007, la regione Puglia guidata da Nichi Vendola, con l’assessore all’Assetto del territorio Angela Barbanente, ha avviato la redazione del nuovo Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr), affidandone il coordinamento scientifico ad Alberto Magnaghi dell’Università di Firenze. L’attività di redazione del piano è nella sua fase centrale, con lo svolgimento delle conferenze di pianificazione di dicembre 2008 ad Altamura, Acaja, Lucera. Qui si sono affermati alcuni cardini dell’azione di piano (la “certezza” del vincolo, la conoscenza e rappresentazione delle peculiarità dei paesaggi regionali, lo stop al consumo di suolo, l’integrazione paesaggistica delle politiche agricole in una prospettiva multifunzionale, la tensione verso la riqualificazione dei paesaggi degradati della periferia, della campagna e della costa, la partecipazione degli abitanti alla costruzione del piano ecc.) che cercherò di sintetizzare, non prima di aver collocato il Pptr in un quadro più generale. Esso sostituirà, una volta concluso l’iter di approvazione, il Piano urbanistico territoriale tematico, Putt., attualmente in vigore che, anche per un notevole deficit conoscitivo, rinvia essenzialmente ai comuni e ai singoli progetti le scelte di trasformazione. Una forte volontà politica di rilanciare la qualità del governo del territorio nella regione si è concretizzata tra l’altro nel Drag (Documento regionale di assetto generale, http://www.regione.puglia.it/drag/) un insieme di atti amministrativi e di indirizzi alla pianificazione provinciale e comunale che, previsto dalla legge regionale 20/2001, ne rilancia l’efficacia.

La conoscenza condivisa

La riorganizzazione degli strumenti di governo del territorio ha significato anche una forte spinta verso la creazione di “conoscenza condivisa”: la redazione della nuova carta tecnica alla scala 1:5.000 a cura di Tecnopolis, unita a specifici indirizzi del Drag, rende possibile in prospettiva l’omogeneità dell’organizzazione delle informazioni pur nel rispetto delle peculiarità locali. Alcuni esempi apprezzabili si hanno già con alcuni piani comunali in fase di redazione, come quello di Manfredonia.

Su queste basi si sono avviate altre operazioni di conoscenza. La redazione della carta Idrogeomorfologica regionale (affidata all’Autorità di bacino pugliese) definita con la collaborazione dei redattori del Pptr, si concluderà entro i primi mesi del 2009. La redazione della Carta dei beni (coordinatori prof. Giuliano Volpe rettore dell’Università di Foggia e l’arch. Ruggero Martines, Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Puglia) ha il compito di censire tutti i beni immobili e le aree di valore culturale e paesaggistico localizzati in aree extraurbane. La redazione della Carta può contare su di un costante confronto con l’azione di piano, affinché essa divenga non solo strumento di tutela, ma premessa alle azioni di “valorizzazione integrata” e di sviluppo sostenibile nell’ambito del più ampio quadro di azione del Pptr.

In una amministrazione ristrutturata per Aree dentro le quali si vuole avviare un maggiore coordinamento tra settori, si colloca la redazione del Pptr: occasione ulteriore per una azione di raccordo tra gli strumenti di conoscenza, programmazione, pianificazione, grazie anche al lavoro di un gruppo di Vas (Iuav Studi e Progetti) che indaga le ricadute delle azioni di piano sui vari settori interessati. È chiara la necessità che il Pptr, nel corso della sua redazione, dialoghi con gli altri strumenti (il Piano di sviluppo rurale, il Piano delle infrastrutture, il Piano delle coste, i piani di area vasta, i Ptcp ecc.) e orienti le “politiche” attive sul territorio e sul paesaggio regionale.

Tre sezioni

Il Pptr come strumento tecnico è articolato in tre sezioni: l’Atlante del Patrimonio Ambientale, Paesaggistico e Territoriale, lo Scenario Strategico, le Regole.

L’Atlante costituisce il quadro conoscitivo del Pptr, che organizza il corpus di informazioni derivante dalle varie operazioni conoscitive avviate e pregresse, arricchite da indagini originali svolte dalla Segreteria Tecnica del Pptr. Le sezioni dell’Atlante alle differenti scale sono articolate in livelli analitici, sintesi strutturali e descrizioni patrimoniali. Questa struttura conoscitiva è orientata (oltre che alla riorganizzazione delle informazioni, ad esempio alla sistematizzazione del quadro dei vincoli su basi cartografiche certe) alla descrizione delle peculiarità regionali e alla evidenziazione delle regole insediative che le hanno prodotte.

L’indagine storica tende a ricostruire, nel lungo periodo, le grandi fasi di territorializzazione [fig.1], ad indagare la formazione dei caratteri dei paesaggi rurali assegnando ad alcuni un carattere “tradizionale”; ad analizzare le forme dell’insediamento nelle sue evoluzioni, specie nella variazione del rapporto tra spazio costruito e spazio aperto; a definire le “figure territoriali e paesaggistiche”, unità di “minima scomposizione delle individualità territoriali con una specifica struttura morfotipologica”. Il Piano rivolge molta attenzione alle dinamiche contemporanee, per poter registrare la natura della loro incidenza sulle grandi strutture invarianti che connotano il territorio regionale. Individuate le componenti strutturali dei diversi paesaggi regionali (e compiuto il tentativo di “rappresentarle” in elaborati efficaci, come ad esempio la Carta del patrimonio territoriale dei paesaggi della

Puglia [fig.2], che sarà anche articolata al livello di ambito e figura territoriale), il piano và definendo degli “obiettivi di qualità“ e calibrando regole per realizzare le condizioni della loro riproduzione in coerenza con il cammino tracciato dal DRAG per gli strumenti provinciali e comunali, che dovranno trovare nel piano regionale una salda visione di insieme.

La volontà di evidenziare la “lunga durata” delle dinamiche che hanno strutturato nel tempo la formazione delle peculiarità dei paesaggi pugliesi è una attenzione al passato rivolta essenzialmente a radicare nel territorio le scelte dello Scenario Paesaggistico contenuto nella seconda parte del Pptr, prefigurazione del futuro di medio e lungo periodo del territorio della Puglia. Lo scenario serve da riferimento strategico per “avviare processi di consultazione pubblica, azioni, progetti e politiche, indirizzati alla realizzazione del futuro che descrive”.

La terza parte organizza l’insieme delle Norme, che è prematuro trattare: sono un elenco di indirizzi, direttive e prescrizioni che dopo l’approvazione del Pptr avranno un effetto immediato sull’uso delle risorse che costituiscono il paesaggio. Tuttavia, nella calibrazione degli indirizzi e delle direttive tese al raggiungimento degli “obiettivi di qualità”, il Pptr (tra i primi strumenti regionali a sperimentare nel corso della sua redazione forme attive di partecipazione in applicazione della Convenzione europea del paesaggio) ha avviato la produzione di “linee guida” e di “progetti integrati sperimentali” tesi al raggiungimento degli assetti prefigurati negli scenari. Linee guida e progetti sono rivolti soprattutto ai pianificatori e ai progettisti, ma in diversi modi coinvolgono i “produttori” di paesaggio (costruttori, imprenditori agricoli, amministratori, abitanti riuniti in associazioni ecc.).

Le linee guida, in parte operanti all’interno dei progetti integrati che tentano di tipizzare, vengono redatte in forma di schede-norma, abachi e regolamenti mirati a particolari aspetti gestionali o costruttivi la cui dimensione interessa gli aspetti paesaggistici. Ad esempio, rispetto alla qualificazione ambientale e paesaggistica delle infrastrutture lineari (strade, ferrovie, linee elettriche, acquedotti), verranno rilasciate apposite linee guida con il concorso del recente Piano Regionale delle infrastrutture. Per la rete di mobilità infraregionale su ferro, si sono attivati due progetti sperimentali di valorizzazione di ferrovie minori: la Ferrovia del Parco nazionale dell’Alta Murgia e la Ferrovia del Parco nazionale della Valle dell’Ofanto. Su altre infrastrutture di produzione energetica (impianti fotovoltaici ed eolici) linee guida ad hoc detteranno i criteri localizzativi, dimensionali e tipologici.

Un altro esempio di linee guida si svolge nel campo delle morfotipologie insediative delle urbanizzazioni contemporanee, delle periferie e degli insediamenti costieri degradati, assumendo la necessità di una loro riqualificazione paesaggistica: qui il Pptr si appoggia sul Programma 2007-2013 di “Riqualificazione dei paesaggi dell’abbandono e della marginalità”. Anche la qualificazione paesaggistica e ambientale di un regolamento edilizio interessa un progetto sperimentale e darà vita a specifiche linee guida: con il Comune di Giovinazzo si propone un regolamento-tipo regionale, con l’introduzione di regole qualitative sui materiali da costruzione, le tipologie, i colori, l’inserimento edilizio nel paesaggio urbano e rurale, ecc. Un altro protocollo riguarda il regolamento per il Parco Nazionale dell’Alta Murgia concordato con l’Ente parco, che prevede indicazioni morfotipologiche per gli interventi di recupero e di nuova edificazione. Sui temi della riprogettazione delle strutture balneari e sul recupero delle aree costiere abbandonate è allo studio la delocalizzazione di oltre 400 alloggi abusivi a Lesina, con la decisione dell’assessorato regionale all’Assetto del Territorio di dare operatività al progetto esecutivo (Pirt) di demolizione, in quanto tali edifici compromettono la fascia dunale.

Dal punto di vista del recupero paesaggistico e ambientale, sono stati avviati progetti di recupero di cave a Cursi, Apricena, Avetrana, con ipotesi di riuso per funzioni pubbliche. L’integrazione delle linee guida con i progetti sperimentali è particolarmente evidente sulla progettazione e gestione di aree produttive ecologicamente e paesisticamente attrezzate (Apea). Rispetto a questo tema, sono stati firmati protocolli con il comune di Cisternino, nell’ambito del PUG, e con il comune di Modugno: le linee guida che ne deriveranno ambiscono a declinare regole generali da applicare nelle aree Pip e nelle zone Asi.

Il Piano mette in campo altri progetti. Ad esempio, proposte per una guida turistica innovativa sulla base dell’Atlante, che aiuti alla comprensione ecologica e storico strutturale dei paesaggi; restauri e recuperi di tratturi ancora integri o riconoscibili (ad esempio presso Motta Montecorvino, nel Subappenino Dauno, o nel tratto terminale del Tratturo Pescasseroli-Candela); riapertura di un “corridoio ecologico” in provincia di Foggia, sul torrente Cervaro, come anticipazione della Rete ecologica regionale, ecc.

Coinvolgimento degli abitanti

Soprattutto, il piano esprime al fondo una tensione al coinvolgimento degli abitanti nei processi conoscitivi e decisionali riguardo al paesaggio regionale, che si esplica anche nella scelta e nella calibrazione dei progetti integrati: ad esempio, con la redazione di mappe di comunità a Botrugno, Acquatica, Neviano, dove il processo di costruzione delle mappe ha potuto contare su azioni già avviate sul territorio, mentre è stato firmato recentemente un protocollo per l’Ecomuseo della valle del Carapelle, che integra al suo interno le mappe di comunità. In questo senso va il protocollo firmato con il Comune di San Cassiano e il Laboratorio urbano aperto (Lua), attivato per sostenere la realizzazione di un progetto in forma partecipata, avviato da tempo, di un parco agricolo multifunzionale nel Salento.

In questo spirito, il Pptr sta sviluppando un sito (dove saranno pubblicati in progress gli elaborati del piano) che include l’Osservatorio del paesaggio: uno strumento calibrato sui principi della Convenzione Europea del Paesaggio nel tentativo di indagare le percezioni degli abitanti, singoli o associati, del loro ambiente di vita (www.paesaggiopuglia.it). Qui qualsiasi utente ha la possibilità di contribuire a costruire una mappa “dal basso” con le proprie segnalazioni relative ai beni del paesaggio e alle offese al paesaggio, alle buone e alle cattive pratiche riferite al paesaggio. Vuole essere un segno di attenzione alla voce e alla sensibilità degli abitanti, e un tentativo di fare emergere (mappando le buone pratiche) quelle energie progettuali che il piano paesaggistico intende esaltare includendole nel proprio scenario strategico.

Premessa (*)

La Lombardia, a quanto pare nel bene e nel male avanguardia per altre regioni italiane, ha sviluppato recentemente un processo di riforma – culturale, legislativa, di pratiche – legato a doppio filo alle aspettative dell’operatore privato, che in sostanza ha messo ai margini o comunque subordinato l’interesse collettivo. Tema naturalmente già affrontato da molti punti di vista, che le note seguenti vogliono però in qualche modo riassumere e sistematizzare brevemente.

I pilastri del modello sono:

- la possibilità per l’iniziativa privata di prefigurare anche strategicamente l’organizzazione del territorio;

- la delega della difesa degli interessi collettivi alla negoziazione fra pubblico e privato;

- sfiducia per la pianificazione in quanto tale e auspicio di un ritorno al puro mercato.

Le tappe della riforma

Mentre altre Regioni iniziano a lavorare sulle leggi urbanistiche di seconda generazione, la Lombardia procrastina la riforma, procedendo invece a deregolamentazioni parziali successive; parole d’ordine: semplificare, velocizzare, flessibilizzare. Drastica semplificazione concettuale, confusamente mescolata a vaghi obiettivi di sostenibilità, contenimento del consumo di suolo, solidarietà, sussidiarietà, partecipazione. Gli scopi reali sembrano però lontanissimi da quelli delle pratiche internazionali, che apparentemente evocano.

Tra queste tappe progressive di avvicinamento:

-L. R. n. 15/1996, Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti, che compromette molti skyline urbani ed equilibri urbanistici senza alcuna vera contropartita collettiva;

- L. R. n. 23/1997, Nuove norme regionali per lo snellimento e la sburocratizzazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi, che introduce le varianti semplificate ad approvazione comunale;

- L.R. n. 9/1999, Disciplina dei Programmi Integrati di Intervento, che semplifica l’accoglimento dei progetti di trasformazione proposti dal privato. Introduce il Documento di Inquadramento dei piani che espropria di fatto il piano regolatore dei suoi compiti, ed è continuamente e radicalmente modificabile a seconda di quanto il “mercato” dovesse proporre;

-L.R. 1/2001 che agevola cambi di destinazioni d’uso, liberalizza gli interventi in aree agricole, scardina le norme dei centri storici e riduce gli standard.

Frutti maturi

Alla fine del percorso, il testo della legge generale accoglie tutte le deroghe precedenti, a partire da quella fondante dei Programmi Integrati. Al PRG subentra il Piano di Governo del Territorio articolato in tre atti, Documento di Piano, Piano dei Servizi, Piano delle Regole, a durata differenziata e comunque sempre modificabili. La loro elaborazione promette di ampliare il mercato delle consulenze, rendendo però assai gravoso il compito dei Comuni.

Parallelo e sostanzialmente sganciato il percorso degli strumenti attuativi, attraverso la programmazione negoziata e la valutazione caso per caso. Significativamente: ai Consigli l’approvazione degli strumenti generali, alle Giunte gli attuativi (ma con la LR 12/2006 questa competenza è stata opportunamente restituita ai Consigli, riconoscendone il ruolo di indirizzo).

La DIA è equiparata al permesso di costruire, eridimensionato il ruolo della Provincia e della pianificazione di coordinamento cui vengono conferite modestissime competenze prescrittive (nella regione dove si localizza l’area più metropolitana del paese).

Emblematici appunto di questo approccio a doppio binario i programmi integrati di iniziativa privata: sia nei casi più discussi, sia (e forsemolto di più) in quelli innumerevoli delle trasformazioni locali. Tra i primi spicca il progetto City Life per il dismesso recinto della Fiera di Milano, balzato anche alle cronache nazionali forse più per questioni di forma (i grattacieli a cavatappi) che per le sostanziali trasformazioni che questo genere di interventi fa calare nell’evoluzione metropolitana, delegata ufficialmente dal Documento di Inquadramento ai «progetti di investimento di cui si ha notizia».In definitiva, le pur aspre polemiche sugli aspetti urbani e architettonici dell’insediamento di grattacieli e alte densità oscurano la questione della regione urbana di fatto lasciata in balia degli operatori vincenti sul mercato.

Ancora più evidente la frattura rispetto al modello di pianificazione territoriale nei casi “minori”, la cui pura somma aritmetica manifesterà in futuro effetti molto più radicali dei vistosi grandi progetti metropolitani. Sono le trasformazioni, urbane e non, spalmate su tutto il territorio regionale, dove letteralmente il Documento di Inquadramento si compone di qualche estratto della legge a cui si affiancano gli obiettivi del “progetto di riferimento” che l’ha determinato. E dove appare onestamente quasi impossibile, nei casi “virtuosi” in cui almeno i procedimenti di VAS rendono facilmente disponibile la documentazione, distinguere fra gli obiettivi particolari del privato e quelli dell’amministrazione. È così che dalle fasce urbane sino al più estremo esurbio regionale e fin nelle zone rurali si “sviluppa il territorio”.

La riforma riformata

Il processo non si esaurisce ovviamente con la legge di governo del territorio, ma prosegue. Con la LR12/2006 si introduce un premio volumetrico a PRU e PII per ‘ edilizia residenziale pubblica’; la LR 1/2007, Strumenti di competitività per le imprese e il territorio della Lombardia che, all’art. 7 apre la strada al recupero delle superfici dismesse tramite Programma Integrato di Intervento, con qualsivoglia progetto, in genere lontanissimo dagli obiettivi di “posizionamento competitivo della Lombardia in Europa” della legge; c’è poi la vicenda del cosiddetto e famigerato “emendamento ammazzaparchi”.

Preceduto dal caso, particolare ma indicativo di una cultura diffusa, della variante introdotta per il Parco Agricolo Sud Milano allo scopo di trovar posto ai 600.000 metri quadrati del Centro Ricerche Biomediche Avanzate, fortemente voluto dall’oncologo Umberto Veronesi esattamente sui terreni, di proprietà di Salvatore Ligresti nella fascia meridionale del comune di Milano. Alla faccia della greenbelt e di qualunque strategia metropolitana, vince la combinazione di interessi particolari: “quel” progetto in “quel” posto. Intenzione della Regione è appunto di trasformare l’eccezione in norma, consentendo correntemente varianti rapide per le indifferibili esigenze di “sviluppo del territorio” in zone a parco. Solo una diffusa e trasversale opposizione sociale riuscirà ad evitare (ma per quanto?) questo ennesimo obbrobrio nel nome di una concezione arcaica di modernità. Nel respingere il tentativo di ridimensionare il ruolo dei parchi nell’organizzazione del territorio, si recuperano anche, e in forme onestamente bi-partisan, le medesime sensibilità che sono alla base dell’urbanistica novecentesca.

Accantonata per il momento anche la cosiddetta “ Legge Obiettivo” regionale che intendeva tra l’altro legare esplicitamente la realizzazione delle infrastrutture all’urbanizzazione diffusa che direttamente alimentano. Ovvero riprodurre con un paio di generazioni di ritardo le esperienze internazionali di colonizzazione automobilistica dei territori e di proliferazione dello sprawl di villette, capannoni, centri commerciali e simulazioni urbane sparse, e di farlo per zone franche anche rispetto ai piani comunali. Facile immaginare certe forme di questa ubiqua strip, già oggi piuttostoinvadenti estendersi all’intera rete della grande comunicazione regionale: dall’asse autostradale centropadano Stroppiana-Broni-Casteldario, alla Bre.Be.Mi, alla gigantesca e inquietante T.O.M., Traiettoria Orbitale Metropolitana.

Conclusioni: la città è finita (anche la campagna non scherza)

Qualche anno fa si è subdolamente imposta con gran successo di pubblico e di (a)critica la cosiddetta città infinita, dopo una serie di iniziative che vedevano in primo piano operatori della comunicazione, ma non delle discipline del territorio. Nuovo paradigma, buono per tutte le occasioni e perfetto plafond ad una legislazione deregolativa per “lo sviluppo” inteso come quasi unico obiettivo del governo del territorio. Questo modello, ormai consolidato con poche eccezioni in Lombardia, rischia di “far morire” sia la città che la campagna? Ci sono parecchi indizi in questo senso:

● negoziazione senza rete, senza regole, poco trasparente;

● potere discrezionale dei comuni altissimo, con prospettive locali quindi anche per temi squisitamente sopracomunali;

● potere discrezionale dei privati elevatissimo, con attribuzione impropria di funzioni, mezzi e valori;

● il mercato (immobiliare) detta le priorità, gli ambiti di intervento e le regole, e la “frenesia autodistruttiva” segnala un drammatico vuoto culturale;

● trascurati promozione e sostegno all’associazionismo volontario intercomunale, proprio quando in tutta Europa è qui il punto di equilibrio fra sviluppo, sostenibilità, qualità della vita e identità locale.

La qualità della vita, nella prospettiva di sviluppo proposta da queste note, appare al massimo orientata ad una sola espansione dei consumi, o al massimo alla sommatoria aritmetica di interessi puntuali. Città sempre più congestionate e invivibili, speculare consumo di risorse territoriali imposto dalla ricerca di ambienti di vita un po' migliori. Ciò che avviene nella più classica tendenza alla suburbanizzazione, sino alle fasce più esterne dell’ esurbio, con tempi di pendolarismo quasi sempre automobilistico che si avvicinano e a volte superano le due ore. Oppure con la proliferazione di altri locally unwanted land use (LULU) come inceneritori, impianti variamente ingombranti ecc. nelle zone a più bassa conflittualità, che spesso si identificano anche con le più pregiate dal punto di vista ambientale, agricolo, paesistico.

Nella debolezza dell’iniziativa politica attuale nella formulazione di proposte alternative, sono forse le comunità locali a rappresentare almeno in potenza un contraltare importante al decisionismo ufficiale e al potere dei grandi operatori economici. Ci si può attendere qualche cambiamento dalla crescita, culturale e di consapevolezza diffusa, derivante dalla VAS che mette a disposizione diretta dei cittadini la documentazione dei piani e progetti di trasformazione. Forse non è molto, ma può iniziare a controbilanciare propositivamente le scelte in gran parte miopi e discrezionali dell’attuale classe dirigente. E a preparare un’alternativa credibile.

(*)Questo articolo è desunto dalle tesi e conclusioni di un saggio molto più corposo e documentato, in corso di pubblicazione su Contesti, rivista del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio dell’Università di Firenze, in un numero dedicato alla comparazione di alcune esperienze italiane

L’area vasta della Città Murgiana così come individuata dalla Regione Puglie nel definire i bacini per la pianificazione strategica, comprende le circoscrizioni comunali di Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini e Santeramo in Colle, per un totale di circa 140.000 abitanti su 995 chilometri quadrati.

Una comunità locale che si interroga sul proprio presente e riflette sul futuro esprime la propria capacità di coesione sociale e territoriale; di sviluppo avveduto e lungimirante, a migliorare la qualità della vita, promuovere la crescita culturale, valorizzare le risorse economiche, sociali, ambientali, rafforzando ad un tempo la propria identità. Il percorso di pianificazione strategica è dunque molto articolato, anche se si rende più fluido alimentandosi alla ricchezza della società e dell’ambiente locale. Però è anche possibile più semplicemente chiedersi: dove vogliamo andare?

E semplicemente rispondersi: verso uno spazio territoriale simile a quello attuale, ma che ha evitato il rischio del degrado da sprawl organizzandosi per nodi compatti entro una rete policentrica non gerarchica. In tal modo, si sono rallentati i ritmi di consumo delle risorse, la rigenerazione e riqualificazione prevalgono sull’urbanizzazione. Lo sviluppo è qualificato, diversificato, parallelo e complementare alla diffusa crescita della qualità della vita locale. Un turismo culturale ecocompatibile si affianca alla rigenerazione urbana e alla tutela del paesaggio agricolo e naturale.

È stata una rilettura della storia locale a individuare nelle fratture e discontinuità sociali, nel rapporto a volte perverso fra sviluppo economico e sociale e risorse territoriali, uno dei principali elementi di debolezza strutturale. Quindi ora si tratta di privilegiare un percorso di rete territoriale, integrato non solo nelle singole azioni, ma anche nell’orizzonte di sviluppo.

I vantaggi di una Città delle Reti si riassumono in:

● uso avveduto delle risorse (finanziarie, manageriali e politiche) per la realizzazione di progetti di rilevanza intercomunale;

● valorizzazione del capitale sociale;

●economie di scala grazie alla dimensione territoriale e al coinvolgimento della collettività;

● costruzione di consenso per alcuni progetti condivisi di rilevanza strategica per i rapporti con le reti esterne;

● possibilità di avviare un marketing territoriale unitario;

● aumento della competitività generale;

● miglioramento dell’abitabilità/vivibilità urbana integrata alle reti ambientali;

● giudizioso consumo delle risorse territoriali, nella prospettiva di una vera autosostenibilità locale.

La rete della Comunità

Esiste nel territorio un capitale sociale incorporato nei luoghi sotto forma di senso di appartenenza e di tradizioni identitarie consolidate, e un capitale relazionale dato dalla capacità di cooperare per la salvaguardia e valorizzazione del territorio, per un minimo consumo di suolo, per migliorare la coesione sociale attraverso servizi unificati.

Si individuano da subito almeno due opportunità in questa direzione: l’elaborazione congiunta degli strumenti urbanistici (in particolare delle“previsioni strutturali” dei piani urbanistici comunali che definiscono le grandi scelte di assetto territoriale, e identificano i valori e gli obiettivi non negoziabili che sono l’espressione dell’integrità fisica, dell’identità ambientale, storica, culturale, e la struttura portante dell’infrastrutturazione e attrezzatura del territorio); l’elaborazione alla scala intercomunale delle politiche e dei progetti di rigenerazione urbana.

La rete dell’Abitare

Abitabilità ( livability), significa reinterpretare gli elementi fisici e sociali positivi della città tradizionale proiettandoli verso il futuro, con modelli insediativi compatti, densi, misti, ben accessibili, attenti allo sviluppo spaziale e socioeconomico sostenibile, e alla solidarietà sociale: tutti elementi scomparsi dall’insediamento disperso.

Si tratta di migliorare sensibilmente la qualità di vita degli abitanti e il senso di comunità, ponendo al centro la tutela delle risorse non intaccate dall’urbanizzazione, un potenziamento del trasporto pubblico, un’accessibilità per reti gerarchiche integrate, dove a ciascuna modalità – pedonale, ciclabile, automobilistica, coi mezzi collettivi - corrispondono funzioni, densità, servizi, uso specifico dello spazio, qualità e sicurezza adeguate.

All’assetto fisico del territorio si accompagna un recupero della ”urbanità”, obiettivo ricco di significati: piacere di vivere la città per il suo carattere sociale; eterogeneità, sicurezza, apertura, orgoglio locale, impegno ad agire eventualmente insieme.

Migliorare l’abitabilità territoriale, costruire una nuova urbanità, passa attraverso la realizzazione di progetti anche delimitati per settore e territorio, ma orientati a obiettivi generali.

La rete dei Flussi

La Città Murgiana si configura come arcipelago di relazioni determinate dai più recenti sviluppi delle infrastrutture stradali, dal sistema socioeconomico autocentrico al quale col tempo si sono aggiunte le aggravanti dei forti costi di adeguamento dei trasporti pubblici, e la catena di automatismi progettuali incrementali associati alla routine delle decisioni urbanistiche comunali. Appare però possibile affrontare il tema avvincente di una nuova progettualità a rete pensando ad esempio a percorsi continui pedonali-ciclabili integrati a strade e fermate del trasporto pubblico, alle comunicazioni telematiche, al coordinamento localizzativo delle funzioni polarizzate. I progetti infrastrutturali del futuro avranno come obiettivo quello di migliorare i caratteri di integrazione al contesto, e evitare una genesi separata delle opere rispetto al territorio di cui dovrebbero essere parte. Adeguamenti e connessioni sulla grande rete di viabilità saranno orientati a partire dalla priorità del tessuto urbano e territoriale locale.

La rete della Storia e della Natura

Il paesaggio dell’altopiano è risorsa unica, patrimonio nel quale si riflette in modo tangibile e immateriale la storia in evoluzione delle comunità. La sedimentazione storica costituisce un complesso di asset strategici disponibili, se ben compresi nella loro natura profonda, ad intrecciarsi virtuosamente con lo sviluppo sociale ed economico, nel segno della qualità e del benessere nel territorio locale. Sinteticamente le azioni saranno orientate a:

● ri-conoscere e promuovere il patrimonio esistente in tutta la ricchezza e diversità;

● individuare contesti ambientali e metodologie per la loro valorizzazione culturale;

● dotare il territorio di un sistema di monitoraggio dei siti turistico-culturali;

● creare una rete di istituzioni al fine di potenziare la consapevolezza del valore identitario.

In particolare per il riuso e valorizzazione del patrimonio storico sarà centrale l’impegno a progettare un organico piano di recupero e di rivitalizzazione dell’intero parco dell’architettura costruita.

In un contesto di reti urbane, rurali, naturali, il ruolo della campagna e della natura appare molteplice e complesso. Dalla promozione del territorio come giacimento di prodotti di qualità, o del sistema distributivo secondo una interpretazione allargata della formula “km zero” delle filiere corte. Valorizzare la produzione locale di alta qualità anche con sperimentazioni nel campo della distribuzione organizzata, inserendo il modello “ farmer’s market” anche nei progetti di riqualificazione urbana.

Assumono nuovo senso alcuni elementi fondativi della pianificazione territoriale, come la greenbelt agricola a delimitare l’urbanizzato e incentivare la rigenerazione, i corridoi o greenways a integrare la rete della mobilità locale sostenibile in parallelo ad attività agricole; l’integrazione fra reti ecologiche riducendo al minimo il consumo di suolo. Secondo un’idea di vero e proprio metabolismo alimentare della regione urbana.

La rete dello Sviluppo

Un futuro di continuità e cambiamenti dell’ambiente socio-economico vede alla base dimensioni e qualità disponibili, da cui sviluppare processi di upgrading del sistema senza trascurare aspettative sociali di breve periodo. Dove sussiste una concentrazione di domanda, lo sviluppo dell’offerta appare più facile: nei poli urbani. Unico polo attualmente dotato di dimensione “economicamente” rilevante è Altamura, che svolgerà una funzione di caposaldo.

Santeramo sarà nodo specializzato di massima concentrazione di attività manifatturiere. La zona industriale di Jesce si relazione direttamente a quella in territorio di Matera, costituendo già al presente e ancor più nel futuro una forte polarità continua aperta a sperimentazioni innovative delle produzioni e di governance.

Gravina e Poggiorsini si configurano come centri di alta qualità abitativa-residenziale e ambientale estesa a funzioni di qualità e benessere anche salutistico, in una continuità interregionale.

Per quanto riguarda l’industria agroalimentare, il futuro prospetta varietà e tecniche colturali capaci di assorbire le innovazioni e le tecnologie, ora prodotte all’esterno dell’area, giovandosi della rete di conoscenza e ricerca. Ma si tratta di connettere capacità esistenti ma sparse, integrarle con ricerca e innovazione e specializzarle in termini di selezione varietale e di marketing.

Il sistema produttivo appare in parte penalizzato da carenze infrastrutturali dell’area, ma la logistica da sola non è in grado di creare le condizioni di miglioramento. La realizzazione delle infrastrutture dovrà essere inserita in modo integrato nello sviluppo del territorio, attraverso piani di area vasta, e adeguata ai vari obiettivi generali di sviluppo.

Nota: questo testo è stato elaborato appositamente per eddyburg.it, ma è desunto dagli studi e documenti confluiti nella Visione della Città Murgiana della Qualità e del Benessere. Tutti i documenti del Piano Strategico sono disponibili sul sito http://www.lacittamurgiana.it (f.b. - m.c.g.)

Carlo Donolo, nel suo libro Disordine. L’economia criminale e le strategie della sfiducia (Donzelli, 2001), definisce la deregolazione come “la correzione deliberata di un regime ritenuto iperregolato, quindi inefficiente e costoso”; poi aggiunge che “attori auto interessati sono inclini a sopravvalutare il peso delle regolazioni e a usarle come capro espiatorio di proprie incapacità o inefficienze. La deregolazione risulta vantaggiosa a breve per i singoli attori, ma tende a medio termine a danneggiare beni pubblici essenziali, a meno che non intervengano correzioni tempestive”.

Alla luce delle parole di Donolo è più semplice inquadrare alcune delle “innovazioni” contenute nel Decreto per lo Sviluppo, poi convertito in legge lo scorso luglio, (Legge12 luglio 2011, n. 106 - Prime disposizioni urgenti per l'economia), che sanciscono in pochi commi, peraltro scritti malamente, di fretta e variamente interpretabili, (la classe degli avvocati così ben rappresentata tra i banchi di questa maggioranza deve pur campare!), la condanna a morte dell’urbanistica intesa come pianificazione organica e complessiva di un territorio. Pur riconoscendo che la pianificazione territoriale in Italia non ha mai goduto di ottima salute, ora il rischio è che venga definitivamente archiviata in quanto pratica obsoleta e inadeguata per le esigenze di un mondo che cambia sempre più in fretta. Forse, più semplicemente, non appare idonea a soddisfare gli interessi delle lobbies che, con il supporto di una classe politica spesso connivente, l’hanno progressivamente trasformata in una catena di operazioni immobiliari fini a sé stesse, prive di qualunque politica di supporto territoriale o sociale in grado di valorizzare la dimensione pubblica della città.

Non si può prescindere innanzitutto da una critica agli stessi principi ispiratori, di una norma che insiste ad interpretare il tema dello sviluppo con le dinamiche della crescita edilizia, come se non fossimo mai usciti dalla fase del boom post-bellico e si dovesse ancora provvedere a garantire una casa a milioni di italiani. In questo modo la nostra classe politica, in particolare quella di governo, si rifiuta di ammettere che questi continui incentivi al mercato immobiliare consentono il proliferare di operazioni finanziarie che non porteranno nessuna qualità allo spazio urbano e al territorio, prolungheranno l’agonia di un sistema bancario fortemente esposto con il “mercato del mattone” e, in qualche caso non troppo sporadico, agevoleranno la crescita dell’economia illegale che fa capo alla criminalità organizzata, sempre più a suo agio tra cantieri e richieste di varianti ai piani regolatori.

Esaminando i contenuti formali della legge, si nota che un intero articolo è dedicato a nuovi istituti amministrativi e dispositivi. O meglio, all’eliminazione di quelli attuali, al fine di liberalizzare il settore dell’edilizia privata. Dato che la norma statale, in tema di urbanistica, deve limitarsi a indicare gli indirizzi, spetterà poi alle Regioni emanare le leggi di dettaglio, che comunque dovranno affrontare questioni come l’introduzione del “silenzio-assenso” per i Permessi di Costruire, lo sdoganamento della SCIA che sostituisce la DIA, l’introduzione del Permesso di Costruire in deroga, la riedizione del Piano Casa e la formalizzazione della forma contrattuale per la cessione di cubatura.

Proprio quest’ultimo strumento pare un ottimo grimaldello per scardinare l’impostazione della legge fondamentale del 1942 e sue successive modifiche, in particolare quanto sancito negli articoli 1 (“L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica sono disciplinati dalla presente legge”) e 3 (“La disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali”). L’introduzione del dispositivo contrattuale segna una svolta importante ed epocale: il contratto, nel nostro ordinamento giuridico, è l’accordo tra due o più soggetti per la negoziazione di un bene a cui si attribuisce un certo valore economico, quindi la capacità edificatoria, il volume realizzabile e non più solo il terreno, diventa merce di scambio e bene di libera commercializzazione. Tutte le negoziazioni di diritti edificatori dovranno essere registrate presso la Conservatoria (che avrà la funzione di comprovare la titolarità) e presso il Registro Comunale dei diritti edificatori, che documenterà l’attuazione di quanto previsto, sostituendo, di fatto il piano urbanistico comunale. Infatti i diritti edificatori possono essere generati dai Permessi di Costruire in deroga oltre che dai Piani Urbanistici comunali e potranno spostarsi in ambiti anche non omogenei, secondo l’istituto della perequazione.

In questo modo, non solo il settore edilizio, ma tutto il processo di pianificazione, diventerà di esclusiva competenza degli operatori privati, al pubblico restando poche armi per l’autotutela, e praticamente nessuna per garantire uno sviluppo organico ed equilibrato del proprio territorio. Ancora Donolo scrive che la “deregolamentazione deliberata viene ottenuta per lo più tramite la politica degli interessi e la pressione lobbistica. Deregolando si tiene perciò poco conto sia di interessi generali che di interessi diffusi”.

Avrà ancora senso parlare di Piani Regolatori Comunali? Che funzione avranno gli strumenti di pianificazione se grazie al ricorso del Permesso di Costruire in deroga si potranno realizzare modifiche alle destinazioni d’uso e spostare volumetrie edificatorie in altri ambiti della città? Amministrazioni comunali private di qualsiasi funzione di guida potranno ancora parlare di politiche per la città del futuro?

“Il condono? Roba da Repubblica delle Banane. Non possiamo certo pensare al condono per determinare le politiche di sviluppo”. Il liberismo immobiliare è meglio, ministro Calderoli?

Probabilmente molti lettori di eddyburg se ne ricorderanno, della campagna contro la legge cosiddetta Ammazzaparchi, campagna vittoriosa perché contro i progetti di una parte dello schieramento politico di centrodestra riuscì a coalizzarsi un insieme di forze molto trasversale, dall’ambientalismo, ai partiti dell’opposizione di centrosinistra, e in modo determinante sino ai rappresentanti della base leghista, che sulle tematiche del territorio e dell’identità aveva da sempre giocato i propri consensi. Premessa indispensabile, questa, se si vuol cercare di leggere in modo non del tutto teorico e/o ideologico quanto sta accadendo oggi su scala infinitamente più ampia e diversificata in Gran Bretagna, dove notoriamente si discute della riforma delle leggi nazionali urbanistiche, in una prospettiva sostanzialmente “semplificatrice” e con notevoli deleghe decisionali a enti locali e interessi particolari.

Sono proprio questi interessi particolari che iniziano a configgere, forse preannunciando le modalità di confronto future, quando si indebolirà di molto la garanzia di equidistanza della legge, col previsto taglio da oltre 1.000 a meno di 100 pagine del planning framework che struttura gli obiettivi di massima delle trasformazioni territoriali. Il quotidiano popolare a orientamento conservatore The Telegraph ha annusato l’aria, in un paese dove la campagna da sempre, nella realtà e/o nel mito, fa parte integrante dell’identità nazionale, dove anni fa ha avuto notevole eco lo studio sistematico della CPRE sui vantaggi per la salute e l’economia della contemplazione del paesaggio, e dove tanti dei deputati tories vengono eletti in collegi rurali. Così più o meno dal momento in cui le associazioni per la difesa del paesaggio – National Trust e CPRE in testa – hanno iniziato a far muso duro nelle fasi di consultazione allargata sul progetto preliminare di legge, il quotidiano ha lanciato una propria campagna: Giù le mani dal nostro territorio!

Che si struttura attorno a una raccolta aperta di opinioni dai cittadini comuni, e di interventi di osservatori privilegiati, politici, esponenti della società civile, giornalisti ecc. A dare il tono forse basta il breve testo che introduce le opinioni dei cittadini:

"Il governo propone una riforma del sistema di decisione urbanistica, secondo la quale le amministrazioni locali dovranno in ogni caso essere “preventivamente favorevoli a progetti di trasformazione sostenibili”. Sostituendo i rigidi vincoli sulle costruzioni in aree rurali in vigore sin dagli anni ‘40.

La maggioranza parlamentare ritiene che così si possa risolvere la crisi delle abitazioni, con problemi di sovraffollamento e persone del tutto prive di casa che rischiano di sfuggire del tutto al controllo, se non si interviene approvando la riforma urbanistica. Ma gli ambientalisti rispondono che invece il governo “sta anteponendo a tutto vantaggi economici di breve termine”.

Siete convinti che così si devastino le campagne? Dobbiamo proteggere ad ogni costo le zone rurali del paese? Si sta davvero mettendo “il guadagno a breve termine” davanti a considerazioni ambientali di più lungo periodo?

Oppure siete d’accordo con le riforme chieste dal governo di coalizione? É giusto mettere prima di tutto le esigenze della popolazione? Con queste riforme si risolve la crisi della casa? É l’unico modo per aiutare chi vorrebbe comprarne una, e allentare il problema del sovraffollamento? Chi si oppone alla riforma è solo un NIMBY?"

Forse val proprio la pena di partire da quest’ultima considerazione, dalla parolaccia nimby, che curiosamente di solito è proprio accostata all’altro aggettivo, quello di territorio locale, su cui il ministro per le aree urbane Eric Pickles sta impostando il braccio secolare della Big Society di David Cameron. Scorrendo le risposte (una dozzina quelle disponibili in homepage, più o meno) del pubblico pare emergere da una lato una notevole articolazione di opinioni, dall’altro colpisce quanto due o tre generazioni di buona urbanistica abbiano saputo far germinare, anche nei lettori di un quotidiano per nulla elitario. Si va da chi sposa senza dubbio la causa della casa per tutti, senza badar più del dovuto alla tutela, ai difensori a spada tratta della campagna luogo di identità, a considerazioni decisamente articolate e mature, come la necessità di rivedere prima le politiche sulle aree urbane dismesse (che i conservatori hanno molto intiepidito), o evitare forzature come quella posizione “preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili” senza chiarire cosa sia o non sia sostenibile.

Gli interventi di testimoni privilegiati e specialisti appaiono naturalmente più sfumati e con meno sorprese, il quotidiano li propone già raggruppati in Favorevoli e Contrari, e anche qui naturalmente ci sono le posizioni che privilegiano aspetti socioeconomici, come quelle governative sulla casa, la crisi, il rilancio delle imprese, o il mondo ambientalista e associativo più incline, per usare le parole della presidente National Trust Fiona Reynolds, a esaminare gli aspetti di “fretta eccessiva” con cui si vorrebbe far partire un meccanismo che rischia di provocare “conseguenze imprevedibili, aumentare la confusione, determinare incertezze nel settore edilizio e ansietà nella popolazione e fra le amministrazioni”.

Ricordando l’intervento di George Monbiot che sul Guardian ( riproposto anche su questo sito) giudicava un po’ populista la mossa del Telegraph con la sua campagna parallela alle associazioni ambientaliste, viene da pensare però a quale tono avrebbe potuto avere, nel nostro paese, una iniziative del genere, magari sulle pagine del il Fatto oppure sull’altro versante del Giornale, e come in realtà si possano già vedere spesso scontri ben più confusi e faziosi nella stampa locale. In conclusione, ferma restando da parte del sottoscritto una certa diffidenza nell’atteggiamento di “equidistanza” quando si tratta di temi tanto direttamente legati sia alla società che all’ambiente come in questi casi, suscita una certa invidia guardare da lontano tanta e diffusa maturità, anche se ovviamente non sfuggono prevedibili forzature, o pure e semplici balle.

Ovviamente potremmo anche noi sviluppare una discussine a quei livelli. Come?

Facile: dopo aver approvato e gestito con continuità un sistema moderno e democratico di planning per un paio di generazioni o giù di lì. Da dove si comincia?

Già negli anni ’30 del primo automobilismo diffuso negli Usa, qualche urbanista notava come il mito della suburbanizzazione a bassa densità stesse ampiamente sbandando dal modello originale di Ebenezer Howard, anche reintepretato dalla Resettlement Administration rooseveltiana con le sue cittadine modello a bassa densità. Una sensazione di disagio confermata nel dopoguerra, quando nonostante tutti i trionfi di immagine e non del cosiddetto mito di suburbia qualche autore più attento iniziava ad esempio a notarne alcuni strascichi di ordine ambientale e sociale. La fede nel modello fortemente decentrato, anche da parte pubblica e col supporto della comunità scientifica, continuava però almeno fino ad anni ’60 inoltrati, sia sul versante dell’intervento privato che nel quadro di grandi piani regionali come quello per l’area della Capitale con le new towns, sponsorizzato da Lewis Mumford.

È dagli anni ’70 (quelli delle grandi crisi urbane, della fuga delle imprese dalle downtown ecc.) che in qualche modo inizia una inversione di rotta, ad esempio nello stato del Maryland quando si riconosce da un lato una perversa tendenza di questo tipo di crescita socioeconomico-insediativa a mangiarsi risorse insostituibili, naturali e non solo, dall’altro la necessità di rimettere in discussione lo stesso impianto dell’intervento pubblico, che in un modo o nell’altro con le sue modalità di spesa e strategie di settore aveva promosso la dispersione. Sono i primi vagiti della cosiddetta smart growth, quella che forse conosciamo meglio nella versione professionale divulgativa e un po’ interessata della cultura new urbanism, in cui se ne enunciano i soli portati spaziali diretti. Spesso dando per scontate, quando non lo sono affatto, anzi, le grandi scelte a monte di investimento infrastrutturale, politiche e norme ambientali, fiscali, sulle imprese ecc. ecc.

Beh, ci sono voluti quasi quarant’anni perché gli organismi creati ad hoc dal governo statale del Maryland arrivassero alla stesura semi-definitiva del Piano Territoriale Statale (uso questo termine perché mi pare il più adeguato a chiarire il concetto). Ma adesso a quanto pare ci siamo.

Il modello del piano territoriale, oltre che per caratteri specifici di particolare trasversalità rispetto alle varie agenzie di settore, è anche molto diverso da altri pur avanzati interventi sulla forma insediativa come ad esempio il recente Senate Bill 375 della California voluto dall’ex governatore Schwarzenegger. Lì – come del resto in altre politiche, prima fra tutte quella molto discussa federale per la ripresa economica – si parte da un singolo elemento, nel caso specifico le emissioni con effetti climatici, per arrivare a cascata ad effetti sulla pianificazione regionale e di conseguenza locale. Quella del Maryland è invece una scelta direttamente territoriale, ovvero che a partire da esigenze complessive e trasversali costruisce una cornice di azione (il piano) e una di garanzia (un sottosegretariato speciale) perché tutti gli investimenti, singolarmente e nei rapporti reciproci, tengano sempre presenti alcuni obiettivi di assetto spaziale. Va anche sottolineato che i due Stati sono analoghi in pratica solo in quanto tali: gigantesca e geograficamente articolatissima la California, con 37 milioni di abitanti, relativamente piccolo il Maryland, marginale alla megalopoli della costa orientale Bos-Wash con l’area metropolitana di Baltimora (meno di tre milioni di abitanti a insediamento parecchio sparso) e una popolazione complessiva che supera di poco i 6 milioni.

Nei 37 anni trascorsi da quando la prima legge sullo sviluppo urbano sostenibile individuava la necessità del Piano, i modi di urbanizzazione del territorio statale si sono caratterizzati ad esempio per una crescita esponenziale degli spazi privati (il lotto edificabile) e di conseguenza si sono occupate fasce sempre più esterne ai nuclei cittadini e metropolitano, con ritmi assai più rapidi rispetto all’aumento di popolazione e del numero di nuclei familiari. Risultano urbanizzati complessivamente 688.000 ettari, pari al 27% della superficie statale. E di queste aree circa il 60% risulta trasformato dopo il riconoscimento della necessità di far qualcosa con un Piano, nel 1973. In altre parole, se ci sono voluti tre secoli per urbanizzare 263.000 ettari di territorio, negli ultimi 37 anni se ne sono mangiati più di 400.000.

Di questo passo se non si cambia strada, secondo i calcoli del Planning Department statale nel 2035 si saranno urbanizzati altri 163.000 ettari, e il Maryland avrà perduto oltre 91.000 ettari di superfici agricole e 71.000 a boschi. Oltre l’87% di tutte queste superfici sarebbe occupato da insediamenti residenziali a bassa o bassissima densità.

Questa inesorabile marcia dello sprawl è spinta da un ciclo perverso e insaziabile: man mano si edificano nuove aree più esterne, che richiedono nuovi servizi, generano necessità di spostamenti pendolari più lunghi, fanno aumentare spesa pubblica e prezzi dei terreni, per trovare terreni meno cari allora ci si sposta ancora più lontano … Mentre invece al centro di queste onde concentriche ci sono infrastrutture sottoutilizzate e complessivo degrado.

Il Piano Territoriale del Maryland ha come obiettivo di massima la rivitalizzazione e la crescita delle e nelle città e cittadine esistenti, stimolandone e sostenendone lo sviluppo economico. Con tre azioni parallele:

Concentrare trasformazioni e densificazioni nei nuclei e aree consolidate e già dotati di infrastrutture.

Tutelare le superfici rurali, le aree naturali e risorse rispetto alla trasformazione urbana.

Promuovere una migliore qualità della vita in tutto il Maryland in una prospettiva di sostenibilità.

Più specificamente il Piano promuove:

Qualità della vita e sostenibilità: appare evidente come una migliore tutela del territorio, dell’aria, dell’acqua, una politica per le città sostenibili, possa se adeguatamente governata e promossa facilmente tradursi in qualità della vita per i residenti;

Partecipazione dei cittadini: gli abitanti devono diventare interlocutori attivi nelle iniziative di programmazione ed essere resi consapevoli dei propri diritti e doveri negli obiettivi per il territorio;

Poli privilegiati di sviluppo e forma urbana: la crescita dovrà privilegiare gli ambiti di insediamento residenziale e di attività economiche esistenti, ed eventualmente altri nuovi adeguatamente pianificati; la forma di questi insediamenti sarà compatta, spazi più fruibili a piedi e coi mezzi pubblici, per utilizzare nel modo migliore le risorse del territorio e salvaguardare spazi aperti, sistemi naturali, beni culturali e altre risorse;

Infrastrutture e Trasporti: i poli privilegiati per lo sviluppo saranno quelli meglio collocate dal punto di vista geografico, delle infrastrutture, in grado di garantire impatti ambientali più contenuti anche in una logica di crescita. Per i trasporti ci si orienta verso un sistema multimodale che consenta una grande mobilità della popolazione per fruire di prodotti e servizi e spostarsi da e verso i posti di lavoro;

Abitazioni: si vuole offrire un’ampia possibilità di scelta della casa sia dal punto di vista delle densità abitative, che delle tipologie, dimensioni, fasce di reddito ed età.

Sviluppo economico: le attività più auspicabili sono quelle che sappiano sommare offerta di posti di lavoro, produzione di ricchezza, uso accorto di risorse naturali, rivolte a tutte le fasce di popolazione e coordinate coi servizi pubblici e infrastrutture.

Tutela dell’ambiente e delle risorse naturali: territorio e acque, come quelle della baia di Chesapeake o delle altre zone costiere, sono adeguatamente tutelati e gestiti per l’indispensabile ruolo nel sistema ambientale. Allo stesso modo è promossa tutela e valorizzazione di boschi, zone agricole, spazi aperti e paesaggi.

Garanzia di continuità e attuazione del Piano: la responsabilità di costruire un sistema insediativo adeguato è del governo statale, ma anche di imprese e cittadini, che collaborano ad equilibrare le esigenze dello sviluppo con quelle della sostenibilità e tutela. Per attuare il Piano con le sue scelte e strategie è essenziale procedure in modo integrato e trasversale nei vari settori e ai vari livelli dell’amministrazione, centrale e locale.

Un aspetto importante riguardo all’ultimo punto, dell’attuazione del Piano, è il suo basarsi su leggi e norme esistenti, salvo eventuali aggiustamenti e modifiche suggeriti dai singoli uffici statali per quanto di loro competenza settoriale, e proprio per garantire il massimo coordinamento e trasversalità. Nel caso un’agenzia dello Stato individuasse l’esigenza di modifiche a leggi o norme, si procederà comunque per vie ordinarie.

Resta aperta la questione del rapporto con le amministrazioni locali e la loro autonomia nelle decisioni riguardanti il proprio territorio. Il Piano è soprattutto di indirizzo e coordinamento dell’azione statale, e quindi della spesa e investimenti nei vari settori di competenza diretta: non può e non vuole scavalcare le autonomie locali e non chiede norme diverse in questo senso. Si capisce però che è proprio nella somma delle trasformazioni locali che si sostanziano poi gli effetti di qualunque politica territoriale, e quindi si richiede una partecipazione attiva delle amministrazioni.

Uno dei compiti del Sottosegretariato alla Smart Growth responsabile per l’attuazione e il monitoraggio del Piano sarà appunto quello di tenere costantemente aperti i canali di comunicazione e concertazione, ad esempio perché i programmi locali possano adeguarsi e trarre il massimo vantaggio dai progetti statali (es. infrastrutture e trasporti, tutela ambientale, sviluppo rurale, risparmio energetico).

Fra gli altri obiettivi del Sottosegretariato:

Informare puntualmente tutti i soggetti coinvolti ai vari livelli e competenze.

Promuovere e divulgare conoscenze specifiche nelle materie del Piano presso agenzie statali e amministrazioni locali, perché possano essere inserite nei loro strumenti operativi.

Progettare migliori meccanismi istituzionali di collaborazione trasversale per la realizzazione del Piano

Facilitare il percorso di norme e altri interventi per rendere più agevole l’attuazione.

Per chi voglia leggersi tutto il PlanMaryland, un centinaio di pagine che comprendono anche la parte analitica e istituzionale qui necessariamente quasi sorvolate, allego di seguito il pdf della bozza in corso di discussione finale. Altre informazioni sul sito dedicato http://plan.maryland.gov/

La scelta del tema del workshop

Nel proporre come ipotesi di lavoro il tema dell’”equità”, piuttosto che partire da una definizione univoca del concetto abbiamo preferito affidarci ad un ventaglio di parole chiave, aventi tutte una funzione di richiamo ad alcune questioni cardine e di spunto per la discussione collettiva, nonché come guida per i dottorandi nella scelta del workshop nel quale inserirsi. Le parole che abbiamo proposto sono state le seguenti: bene comune, costruzione sociale, etica, egemonia, identità, ecologia, processi di pianificazione non istituzionali, diseguaglianza urbana, diritto alla città, empowerment, qualità, partecipazione.

Tuttavia, implicitamente, il nostro punto di partenza è stato il concetto di equità inteso, nell’ambito della pianificazione, come la possibilità per tutti gli abitanti di fruire dei beni che costituiscono la città e di partecipare al suo governo, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali e dal potere di ciascuno, ma in base alle differenti esigenze, includendo tutti i soggetti, ivi compresi i gruppi più marginalizzati. Assumere l’equità in questo senso significa attribuire alla pianificazione un obiettivo sociale ed enfatizzare il ruolo politico, prima ancora di quello tecnico.

Alla base del desiderio di affrontare un tema così complesso c’è la volontà di ricostruire dei percorsi di senso in cui l’equità diventi chiave di lettura per molte delle questioni irrisolte dell’attualità, esplicitando il ruolo di quelle disparità e ingiustizie sociali che tendono ad essere attenuate, se non negate, dal paradigma interpretativo dominante.

Le diseguaglianze di reddito, di distribuzione delle risorse e dei benefici, rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano di nuovi, sia a livello globale che locale. Le diseguaglianze aumentano in termini di sfruttamento, marginalizzazione e segregazione su base economica, sociale e razziale, in termini di potere decisionale e di rappresentazione, così come emergono nuove vulnerabilità sociali sotto l’effetto dei problemi del mondo del lavoro, delle metamorfosi della condizione salariale, della riduzione delle garanzie sociali e più generalmente come risultato delle trasformazioni strutturali del sistema socio-economico attuale.

I mutamenti investono l’economia - ora globalizzata, liberalizzata, finanziarizzata - contrassegnata sempre più da uno stile speculativo e predatorio e soggetta a periodiche crisi; investono l’assetto politico-istituzionale, che nella prospettiva di uno stato più snello e più moderno che "regola ma non gestisce" vede la progressiva riduzione dell’intervento statale nella ridistribuzione delle risorse e dei benefici sociali e territoriali, il trasferimento di risorse e beni dal pubblico al privato e il supporto all’accumulazione privata attraverso politiche e interventi a rafforzamento dei diritti individuali (proprietà privata in primis) a discapito della tutela dell’interesse collettivo e di quello dei gruppi deboli.

Nel contesto della società capitalistica del welfare l’obiettivo della giustizia sociale era largamente condiviso tant’è che, a fianco dei diritti individuali di libertà e politici, si sono affermati i diritti sociali che esprimono la maturazione di nuove esigenze e nuovi valori, tra cui quello dell'uguaglianza non solo astratta, ma anche in termini di servizi e benessere. Anche in Italia negli anni Sessanta e Settanta una serie di parole d’ordine e di lotte (e poi di conquiste) miravano a questo obiettivo: “diritto alla città” (PCI, 1969), “casa come servizio sociale” (Indovina, 1972), accesso ai servizi e alle attrezzature collettive utili alla vita quotidiana individuale e sociale (Salzano, 1969, UDI, 1964) e non ultimo la partecipazione dei cittadini al governo della città (Della Pergola 1974) quindi giustizia sociale non solo come una questione di distribuzione di benessere, servizi, opportunità, ma anche in termini di democrazia partecipativa ed eliminazione delle strutture di dominazione e segregazione. Il richiamo all’ecologia è un riferimento sia alle riflessioni di Murray Bookchin (1989) che mirano a unificare le tematiche ambientali, femministe e comunitarie con quelle sociali e a stimolare un approccio antiautoritario, che di Wolfgang Sachs (2002) che si riferisce ad un concetto di giustizia intergenerazionale - proiettando sull’asse temporale il principio dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle future – oltre che intragenerazionale.

La parola egemonia vuole richiamare sia la questione del potere in generale, che stimolare una riflessione su alcune definizioni dominanti di equità, giustizia sociale, uguaglianza che tendono a circoscrivere la problematica attorno alla ridistribuzione o ancora peggio a identificare nel mercato l’agente supremo predisposto all’allocazione più “equa” delle risorse. In contrapposizione a questa interpretazione si può assumere l’uguaglianza come contrario di privilegio e non come omologazione e massificazione (Zagrebelsky 2007), dal momento che «trattare le persone con giustizia può implicare un trattamento tra loro difforme e, d’altro canto trattarle come se fossero tutte uguali non significa trattarle con giustizia» (Lummis 1998, p.416).

La “voglia di equità” sembra porsi controcorrente rispetto alle principali tendenze che hanno contrassegnato negli ultimi decenni l’urbanistica. Questa ha privilegiato l’obiettivo dell’efficacia della pianificazione rispetto a quello dell’equità (Martinelli 2002), sulla scia di una politica che ha cercato di raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della democrazia. Infatti la ricerca di accordi con la proprietà immobiliare (che ha caratterizzato la pianificazione a partire dalla spinta esercitata dalle aziende proprietarie di complessi industriali che, per effetto della ristrutturazione dell’industria manifatturiera, divenivano obsoleti e suscettibili di diversa “valorizzazione economica”) è diventata un obiettivo delle politiche urbane che hanno individuato l’efficacia nello stipulare accordi remunerativi per i proprietari, rinunciando di conseguenza ad assegnare priorità alle esigenze dei cittadini in quanto tali e in particolare dei gruppi sociali più deboli.

La presentazione delle ricerche e delle domande dei partecipanti ha stimolato il dibattito della prima giornata e inserito nel ragionamento sull’equità nella pianificazione i primi elementi su cui confrontarci; possiamo ricondurli a tre filoni principali che si intersecano tra di loro: nel primo ci si interroga sull’equità nella costruzione delle scelte che riguardano il territorio attraverso processi partecipativi; nel secondo si indaga il ruolo del planner tra attenzione alle pratiche informali e responsabilità tecnica; nel terzo si affronta il tema della partecipazione e dei beni comuni da una prospettiva territoriale e ambientale.

Dopo il workshop, alcune riflessioni sul tema

I quesiti posti dalle dottorande hanno espresso delle preoccupazioni e degli interessi specifici e di tipo prettamente tecnico-operativo, difficili da affrontare approfonditamente in un contesto eterogeneo come quello creatosi nel workshop. L’apporto dei discussant è stato quello di collocare le domande all’interno del dibattito più generale, riconducendole a problematiche di ampio respiro. Questo ci ha portato a risalire ai concetti di base, alla pluralità e alla conflittualità degli approcci e delle definizioni, per cui la discussione è stata molto ampia, si è ramificata in molte direzioni, ma non si sono formulate delle risposte o delle ricette. Risulta perciò difficile restituire un senso generale e compiuto all’insieme degli spunti che sono emersi; ci proponiamo qui di esprimere una serie di considerazioni che raccolgono parte di quanto si è detto e lo interpretano alla luce delle nostre opinioni e conoscenze.

Abbiamo scelto tre chiavi di lettura per organizzare il nostro discorso: la prima riguarda l’equità rispetto all’oggetto, che abbiamo declinato in termini di beni comuni, la seconda riguarda l’equità rispetto ai soggetti, con riguardo al tema della differenza intesa come pluralità, l’ultima è centrata su alcuni degli strumenti disponibili per una pianificazione equa.

Equità rispetto all’oggetto: beni comuni

I termini “comune” e “individuale” non indicano due condizioni opposte e vicendevolmente escludenti, tra di esse ci dovrebbe essere piuttosto la ricerca di un equilibrio e di una reciproca utilità. Fa parte dell’individualismo pensare di poter vivere ciascuno senza dipendere dagli altri ma questa illusione, come sostenuto da Tocqueville, paradossalmente produce l’atomizzazione della società in individui uniformi, il che non implica (anzi esclude) una tendenza verso l’eguaglianza economica (Lummis 1998). Con l’intenzione di allargare il discorso sulla questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale più strutturale, alcuni degli interventi hanno fatto riferimento alla fruizione dei beni comuni e alla loro individuazione e gestione nella pratica del governo del territorio.

L’attribuzione di determinati beni localmente disponibili ai soggetti che utilizzano un determinato territorio può comportare la privazione di quei beni da parte di soggetti che li utilizzerebbero in un altro spazio o in un altro tempo . La visione di chi sceglie/decide deve perciò tener conto dell’altrove e del futuro. A questo proposito il ruolo della pianificazione territoriale può essere decisivo, e grande è la responsabilità dei pianificatori nel rendere evidenti ai decisori le conseguenze delle loro scelte.

Tra i beni comuni c’è certamente la possibilità di fruire delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita sociale e alle esigenze individuali di approvvigionamento, salute, apprendimento, cultura, ricreazione ecc., la mobilità sul territorio, la partecipazione alle decisioni sull’organizzazione della città, il godimento di un ambiente sano e di un paesaggio di qualità.

Tuttavia, i beni comuni non sono definiti una volta per tutte; essi derivano dalle disponibilità, dai bisogni, dalla cultura, dai risultati dei conflitti.

La novità introdotta nella definizione del bene comune da parte dell’antropologa Mary Douglas (1994) consiste nel sottolineare come un bene pubblico non possa dipendere dal genere di beni scambiati ma dal tipo di comunità in cui avviene lo scambio e come uno stesso bene può essere sentito diversamente a secondo del gruppo che ne fa uso. Riccardo Petrella (2006) elenca una serie di criteri utili alla definizione di beni comuni, tra cui la responsabilità collettiva, in base alla quale un bene è comune in quanto implica un impegno collegiale al proprio mantenimento e la necessità della democrazia come condizione per l’esistenza dei beni stessi.

Perché un bene assuma il carattere di “comune” deve prima essere ritenuto necessario, di “senso comune” (in questo è rilevante la funzione dell’ideologia) e deve venir conquistato collettivamente. Il discorso sui beni comuni e sui diritti ad essi connessi non può che partire da una ridefinizione condivisa delle risorse collettive, che è apertura al progetto con una valenza fortemente politica: nelle questioni della produzione e riproduzione di risorse ambientali, paesaggistiche o di spazio pubblico emerge la partecipazione come chiave di accesso a questa prospettiva creativa che parte proprio “dall’autodefinizione dei bisogni e degli stili di risposta”(Giusti 1995, p.60).

A questo proposito Ignacy Sachs sottolinea l’opportunità di aprire e tenere viva una discussione generalizzata sugli stili di vita (Sachs 1988) e sul progetto di civiltà (Sachs 1978) - e quindi sulla stessa definizione di un orizzonte comune da parte di ogni società (Giusti 1995) - ponendola alla base di una pianificazione che sappia farsi «visionaria e pluridimensionale, […] organizzatrice del processo di apprendimento sociale» (Sachs 1988, p.39-40).

In questa chiave, bene comune è anche, per esempio, l’accessibilità ad un’abitazione adeguata ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa, nel senso che è necessario un sistema equo di pianificazione che regoli i meccanismi del mercato della casa. Considerare il problema dell’abitazione in termini di diritto alla casa apre certamente la possibilità di una rivendicazione (individuale) di tale diritto, ma non necessariamente lo rende a tutti gli effetti attualizzabile e non implica una ristrutturazione del sistema socio-economico che regola il mercato della casa. Riconoscere l’accesso alla casa in termini di bene comune potrebbe portare ad un ribaltamento dell’approccio e creare le condizioni per cui questo bene sia fattivamente disponibile.

«Se per ricchezza intendiamo il surplus economico, comunità diverse tra loro possono operare differenti scelte circa la forma che deve assumere quel surplus. Il surplus, ad esempio, può prendere la forma di consumo privato o di lavori pubblici; può assumere la forma della riduzione dell’orario di lavoro per liberare più tempo da dedicare all’arte, all’apprendimento, ai festival o alle cerimonie. Queste non sono ineluttabilità economiche ma scelte politiche, se per politica intendiamo il fondamentale processo decisionale che riguarda la distribuzione di beni entro una comunità. Se la regola di una giusta distribuzione è “sia dato a ciascuno ciò che gli spetta”, occorre comprendere che nel mondo esistono comunità che si sono organizzate per dare il dovuto alla terra, al mare, alla foresta, ai pesci, agli uccelli e agli animali in genere. Le comunità che si sono organizzate in modo tale da dare alla terra ciò che le è dovuto, magari quelle considerate le più povere, hanno effettivamente mantenuto in questo modo un ampio “surplus” ed una ricchezza comunemente condivisa. Dall’unione tra l’idea antica di cosa pubblica e la concezione ora emergente (o riemergente) di ambiente può nascere una nuova, promettente idea di ciò che è reale “ricchezza”» (Lummies 1998, p.419-420).

Equità nelle differenze

Si è discusso sull’equità anche in riferimento ai soggetti. L’equità comprende l’aspirazione alla soddisfazione dei bisogni riconosciuti socialmente come tali, ma i soggetti hanno bisogni differenti che non sono conciliabili con una definizione astratta dell’eguaglianza (la torta divisa in fette uguali). La prima operazione da compiere (se l’equità ha un significato operativo, cioè è un criterio di scelta) è il riconoscimento concreto delle differenze in termini di bisogni, desideri, condizioni, sia che esse derivino da una diversità di carattere culturale, da vincoli e impedimenti di natura patrimoniale, sociale, economica, oppure ancora dalla presenza di ostacoli di tipo discriminatorio. Probabilmente non tutti possono essere rimossi, ma essi possono certamente essere mitigati; Infatti Francesco Indovina da una lettura complessiva della città stessa come un potente (potenziale) strumento di mitigazione. La città, con il suo mettere insieme stranieri, estranei e differenze può portare ad un nuova concezione di pubblico, in grado di postulare tolleranza e impegno civile e il riconoscimento “dell’impossibile assimilazione reciproca”, che diviene così sinonimo di civiltà e di rispetto della diversità degli altri in tutti i loro aspetti (Young 1990).

La partecipazione di ciascun soggetto al processo di decisione (al governo), principio che del resto è alla base della nozione di “diritto alla città”, è condizione necessaria per il riconoscimento delle differenze e per una visione plurale della città, tenendo conto che la partecipazione stessa non avviene su basi di uguaglianza intesa come assenza di disparità. Si apre a questo proposito la questione del potere, dell’egemonia, di chi la esercita, in nome di quali interessi. È evidente che l’attuale distribuzione dei poteri privilegia i pochi (i più dotati, i più ricchi…) rispetto agli altri. Questo pone il problema (l’obiettivo) politico di dar voce e forza ai più deboli; le stesse pratiche dell’empowerment non sono tuttavia prive di ambiguità. Il rischio di un uso strumentale della partecipazione è anch’esso emerso nel corso della discussione, sia nel senso di una falsificazione del consenso, che nasconde un piegarsi agli interessi degli attori forti, sia nel senso di una manipolazione di attori e culture locali.

«Nessuna forma di interazione o partecipazione sociale può caricarsi di significato ed essere liberatoria sino a che i singoli individui coinvolti non agiscano come esseri umani liberi ed equanimi; ed il fatto che tutte le società sino ad oggi hanno sviluppato credenze largamente condivise (religioni, ideologie, tradizioni, ecc.) le quali, a loro volta, condizionano ed aiutano ad originare persone interiormente non-libere e parziali. Il dilemma è di difficilissima soluzione in un momento in cui le antiche modalità di condizionamento socioculturale hanno assunto forme nuove ed inquietanti. L’economicizzazione della vita sotto tutti i suoi aspetti (culturali, politici e sociali) assoggetta chi vi partecipa, in tutto il mondo, a processi di manipolazione addizionale spesso non manifesti e di tipo strutturale, con il risultato di portare le persone a credere che i propri pregiudizi, i propri condizionamenti e la propria mancanza interiore di libertà rappresentino non solo espressioni della propria libertà, ma anche di una libertà ancora più grande e di là da venire» (Rahnema 1998, p.134).

Strumenti per la conquista dell’equità

L’equità non è un dato naturale della società, forse di nessuna società, di certo – come abbiamo già detto – non di quella attuale. Essa va conquistata, non verrà graziosamente concessa da chi esercita il potere e dispone della maggioranza delle risorse disponibili. È quindi essenziale il ruolo del momento pubblico e della politica, intesa non come un’attività specializzata riservata a pochi, ma come una dimensione essenziale dell’uomo e della società, di cui la partecipazione è parte integrante.

«Lo spazio civico - polis, città o quartiere - è la culla in cui l’uomo si civilizza (letteralmente!) al di là del processo di socializzazione in seno alla famiglia. “Civilizzare”, in questo senso, è sinonimo di politicizzare, di trasformare una massa in un corpo politico deliberante, razionale, etico. La realizzazione di questo concetto di civitas presuppone esseri umani che si aggreghino non come monadi isolate, che comunichino, direttamente con modalità espressive che vanno “oltre le parole”, che dibattono razionalmente in maniera diretta, faccia a faccia, e giungano pacificamente ad una comunicanza di opinioni tali da rendere possibili le decisioni e coerente con i principi democratici la loro applicazione. Formando e facendo funzionare tale assemblee, i cittadini formano anche se stessi, perché la politica non è nulla se non è educativa, se la sua apertura innovativa non promuove la formazione del carattere» (Bookchin 1993, p.32).

In questo momento storico la società civile trova espressione attraverso la problematizzazione degli stili di vita e la formazione di comitati che si oppongono anche radicalmente alle posizioni della politica dei partiti, che oggi più che mai non comprende la partecipazione come spazio del conflitto e della contestazione. La teorizzazione della partecipazione come possibilità di «ri-centrare il potere politico nella società civile» (Giusti 1995, p.11) deriva in parte proprio da questa crisi della politica, e in parte dalla parallela crisi della razionalità tecnica.

Quest’ultima è riconducibile alla scoperta della “complessità “ e dell’incertezza che connotano la condizione attuale; quindi crisi del sapere esperto, ma anche cambiamento del concetto di territorio, non più riducibile a spazio delle funzioni, ma luogo complesso, vivente, individuato dall’intreccio di dimensioni fisiche e sociali, dotato di specificità (Magnaghi 1990).

In questo quadro la conoscenza e il progetto non sono più delegate agli esperti, ma devono coinvolgere gli attori che sono radicati nelle famiglie, nelle istituzioni e nei movimenti sociali della società civile (Friedmann 1993).

La partecipazione quindi implicherebbe una rivoluzione nel linguaggio della pianificazione, un allargamento dello spazio della democrazia (ma anche della responsabilità), una maggiore efficacia del piano legata al suo avvicinamento rispetto alla molteplicità delle pratiche che si propone di governare (Giusti 1995).

A questo punto viene spontaneo chiedersi se la “produzione” di città e territori equi o processi trasformativi equi sia un obiettivo raggiungibile. Nel tentare di dare una risposta possiamo partire dal ragionamento di Giovanni Caudo che propone di trattare l’equità come un criterio per orientare l’azione, potremmo dire un principio guida che impronti le singole scelte a prescindere dal risultato finale . A sostegno di questa interpretazione viene citato il teorema dell’impossibilità della scelta collettiva di Kenneth Arrow, secondo il quale è impossibile decidere in maniera universalmente valida quale sia l’interesse collettivo; da qui la necessità di riformulare la domanda sull’equità: in base a quali parametri giudicare l’equità delle scelte?

La proposta emersa è quella di un ritorno alla concretezza dei casi e delle situazioni, raccogliendo l’invito di Albert Hirshmann a collocare la nostra ineludibile condanna all’incertezza in una prospettiva positiva e creativa opposta alla tesi dell’inutilità della pianificazione. Al contrario valutare la complessità del reale diventa uno strumento per «capire e correggere gli errori fatti, per attuare politiche flessibili che pur non pretendendo di predeterminare un preciso risultato, si incamminino però verso una strada, un sentiero di crescita, una possibilità di miglioramento. Tale cammino deve essere tale da lasciare comunque spazio alla variabile “incertezza sociale” pur tentando di indirizzarla verso i criteri o i valori ritenuti più auspicabili» (Poma 1994, p.26).

Un altro elemento su cui abbiamo riflettuto e dibattuto a lungo è il ruolo del planner. Spesso nel corso della discussione ci si è chiesti se nei processi partecipativi il planner non rinunci alla sua “responsabilità tecnica”, una preoccupazione a cui vorremmo però quantomeno affiancare la preoccupazione opposta di chi sostiene che l’intervento del professionista produca un effetto mutilante, si pensi alla demistificazione del ruolo dell’esperto in Ivan Illich (1978).

A questo proposito si può citare la pluralità delle figure ipotizzate per confrontarsi, sia pure con accenti e priorità diversi tra loro, con quello che è stato trattato come un dilemma (nonchè origine di vari paradossi): si pensi al pianificatore critico di Forester, evidenziatore di problemi in un contesto comunicativo, al pianificatore radicale di Friedmann, intento a facilitare l’espressione degli attori sociali e perennemente in bilico tra teoria e pratica radicale, al professionista riflessivo di Shon che costruisce conoscenza nel corso dell’azione in un contesto conflittuale, per cui questa consiste nella difesa del proprio punto di vista da quelli avversari, ma anche in un continuo sforzo di comprensione. Per una trattazione più completa del tema si rimanda al testo di Giusti (1995), nel quale egli stesso propone una propria sintesi critica, in cui si sottolinea la funzione del planner in quanto «costruttore di contesti, scenari, immagini complessive di città capaci di inquadrare in maniera verosimile l’azione locale, volti non a prescrivere comportamenti ma a orientarne l’azione»(Giusti 1995, p.242).

Stando agli autori sopra citati, si potrebbe affermare che più che rinunciare alle proprie responsabilità il planner persegua l’accesso ad una diversa responsabilità, collocata in un’ottica in cui è centrale la problematica del rapporto tra conoscenza e potere. Non esistono questioni esclusivamente tecniche o esclusivamente politiche, non si opera semplicemente in un regime di incertezza in cui sperare di scoprire “soluzioni”, ma piuttosto si fronteggiano “ambiguità strutturali” che richiedono l’espressione di giudizi di valore e la costruzione di “soluzioni” (Giusti 1995).

Questo implica anche un importante componente “creativa” del pianificare, intesa come capacità di immaginare connessioni nuove tra elementi esistenti, di giocare con il quotidiano per ricomporlo in una sintesi non statica, come capacità di applicare le “regole" esistenti in maniere nuove o a campi nuovi e di istituirne di diverse. Una componente che comporta quindi una continua ai cambiamenti della società, per soddisfare in maniera sempre più varia nuovi bisogni, esprimendo una costante ricerca di nuove forme di relazioni, nuove mutevoli modalità del vivere insieme.

Questa prospettiva trova degli interessanti echi nella rivendicazione di David Harvey al diritto alla città (Harvey 2008) come diritto di scegliere di diventare altro da sé, diritto ad una socialità creativa e plurale, il diritto degli abitanti di realizzare (e concepire) forme spaziali e sociali alternative: di fare e rifare le nostre città. Implica la messa in discussione delle strutture fisiche e istituzionali che il mercato ha prodotto e ci ha imposto; un nodo da rilevare è infatti la componente distruttiva della creatività: innovare implica necessariamente sottrarre spazio alla tradizione, e quindi, inevitabilmente, distruggere parte di ciò che è dato per certo.

Il seme della trasformazione dovrebbe emergere dalle contraddizioni dell’organizzazione presente, basarsi sulle possibilità esistenti ed essere capace di puntare verso differenti traiettorie di sviluppo, raccogliendo le manifestazioni di discontento, innovazione sociale e creatività espresse a livello locale, pur nel loro particolarismo e limitata visione globale e complessiva.

Della prospettiva di Harvey (1996, 2003, 2008) ci sono sembrati stimolanti e rilevanti per il discorso che si è svolto nei due giorni del workshop, due aspetti. Innanzitutto il voler porre attenzione alla qualità di tutti gli ambienti – l’ambiente costruito, sociale, politico-economico e naturale – che equivale a porre in relazione dialettica le trasformazioni della natura con i possibili modi di autorealizzazione di una particolare forma di natura umana. In secondo luogo la necessità di atteggiamento rivoluzionario (sia nel pensiero che nella politica) che riparte dall’esplorazione e dalla costruzione di processi sociali e forme spaziali alternative, sia di lungo termine che attraverso movimenti e azioni locali di breve periodo, senza aspettare il compimento di una rivoluzione politica che metta le nostre città nella condizione di consentire a nuove e migliori relazioni sociali e territoriali di fiorire.

Occorre una forte azione di traduzione, da parte dell’architetto insorgente (Harvey 2003): tradurre le aspirazioni politiche nella varietà e eterogeneità delle condizioni socio-ecologiche e politico-economiche, mettendo insieme e relazionando differenti costruzioni discorsive e rappresentative del mondo, confrontandosi continuamente con le condizioni e le tendenze attuali dello sviluppo geografico diseguale, tenendo conto di ciò che abbiamo in comune e registrando le differenze, difendendo i diritti (compreso quello di vivere in un ambiente sano, di controllare collettivamente i beni comuni, di cambiare, di produrre spazio…) riconoscendo che la loro formulazione deriva dalla concretezza della vita sociale e che rimarranno privi di significato se non accompagnati da un processo di individuazione e formazione collettiva, e dal necessario sostegno delle istituzioni.

Per i riferimenti bibliografici si veda il PDF allegato

Titolo originale: Localism agenda at stake as battlelines are drawn over planning reform – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Se fossi il sottosegretario all’urbanistica, Greg Clark, o quello alla casa Grant Shapps, sarei terrorizzato. Proprio com’è successo alla responsabile per l’ambiente Caroline Spelman, che ha sbagliato di grosso a prendere le misure al paese quando pensava di privatizzare le foreste senza che nessuno reagisse, o ci facesse caso, allo stesso modo i due piacenti sottosegretari devono aver immaginato che fosse abbastanza semplice buttare alle ortiche il sistema di pianificazione, a tutto favore dei privati e degli affari.

E hanno sbagliato. Negli ultimi tempi, l’incendio è iniziato prima con la pubblicazione del documento di indirizzo ( National Planning Policy Framework, che parte da una logica “semplificatoria” un po’ simile a quella del nostro ministro Calderoli n.d.t.) a luglio, ed è divampato sino a scatenare la rabbia in tutto il paese. Si stanno ora delineando gli schieramenti prima degli appuntamenti politici, che saranno inevitabilmente di sanguinoso scontro.

In rapida successione si sono uniti tutti i principali gruppi di associazioni, ad esprimere profonda preoccupazione per quel documento di indirizzo, che potrebbe aprire le porte alla discrezionalità totale e intaccare il sistema di democrazia locale. Dal National Trust, alla Royal Society for the Preservation of Birds, agli Amici della Terra, alla Campaign to Protect Rural England, all’ Istituto Reale di Urbanistica alla Town and Country Planning Association e moltissimi altri fra cui Ramblers e Woodland Trust, da punti di vista e priorità diverse, ma individuando un terreno comune a collaborare per respingere gran parte della riforma.

Martedì hanno aderito anche personalmente venticinque fra i più importanti urbanisti pubblici del paese. E si può prevedere che seguiranno celebrità, ambientalisti, associazioni di comuni, gruppi di volontariato, enti di valutazione e singoli parlamentari. Fiutando l’aria, il Daily Telegraph (quotidiano tendente a destra n.d.t.), ha subito lanciato una campagna per modificare la proposta. Il governo appare diviso, come già accaduto col caso delle foreste, e scioccato da queste reazioni. Sinora l’unico sostegno al documento di indirizzo arriva dagli ambienti che fanno riferimento al mondo immobiliare e delle costruzioni che dovrebbe guadagnarci. Ad esempio il Times mercoledì pubblicava (a pagamento) una intervista al responsabile uscente della Camera di Commercio Britannica a sostegno di un “governo saldo sulla sua linea” di riforma.

I responsabili ministeriali hanno suscitato le ire di tutto il paese, ma devono temere in particolare il confronto con Fiona Reynolds, la responsabile del National Trust, che in uno dei suoi momenti ispirati da grande riformatrice sociale d’altri tempi si sta affermando come ufficiosa portavoce di tutto questo diffuso e qualificato movimento: una specie di Marianna da Rivoluzione Francese, simbolo di tenacia e buon senso comune.

Settimana prossima la Reynolds scriverà a tutti i quasi quattro milioni di iscritti al trust (che sono il 10% degli elettori britannici) per chiedere non solo di firmare la petizione contro la riforma governativa, ma anche di esercitare pressioni dirette tramite il deputato del loro collegio. Si aspettano almeno centomila adesioni.

A Cameron e al suo governo – possiamo dare per certo che siano iscritti del trust – andrà di sicuro di traverso il caffelatte della colazione, aprendo quella lettera. Ma non possono far finta che non sia successo niente come con il caso delle foreste, perché stavolta ci sono in ballo tanti e tanti soldi, per non parlare del programma sul localismo ( strumento attuativo sul territorio della Big Society n.d.t.).

Prevedo che annunceranno entro qualche settimana grossi cambiamenti, o quantomeno che si convochi una conferenza di pace.

Nota: di seguito scaricabile direttamente la bozza di documento gvernativo di indirizzo, che nella logica "semplificatrice" passa da parecchie centinaia a alcune decine di pagine, a comprendere tutti i settori anziché articolarsi su residenza, commercio ecc. Qui anche la PETIZIONE del National Trust (f.b.)

(per motivi di spazio sono state omesse Note, immagini e Bibliografia, per cui naturalmente si rinvia alla pubblicazione cartacea)

Il piano Milano Verde, elaborato nel 1938 da un gruppo di progettisti legati a Giuseppe Pagano e alla rivista Casabella, rappresenta un singolare caso di scollamento tra immagine e realtà. Come ne La liahison des images di Rene Magritte, che raffigura una pipa seguita dalla dicitura ceci n' est pus une pipe, tra la rappresentazione di un oggetto e la sua realtà vi è la stessa distanza che possiamo trovare tra l‘immagine di questo piano urbanistico e i suoi reali contenuti insediativi. Che il piano Milano Verde abbia affermato e consolidato il proprio ruolo soprattutto in quanto icona è confermato dal fatto che, negli ultimi 40 anni, sono stati presentati esemplari del plastico in diverse esposizioni, senza tuttavia che si entrasse mai compiutamente nel merito qualitativo e quantitativo del progetto. Ed è proprio grazie alla forza della sua immagine 'dimostrativa' che il piano è stato ideologicamente assunto dalla storiografia contemporanea come un vero e proprio quartiere-modello.

Ad esempio, nel 1979 Francesco Dal Co affermava che questo «rigoroso» progetto rappresentava una delle «testimonianze» delle «battaglie degli architetti razionalisti» nel periodo tra le due guerre; secondo Antonino Saggio, Milano Verde «presenta una gerarchizzazione tra i volumi, una calibrazione attenta dei servizi e del verde, un corretto orientamento degli edifici che si richiamano alle esperienze di Gropius e di Oud, che faranno scuola tra i giovani architetti». Anche per Arturo Carlo Quintavalle il rapporto più ovvio di Milano Verde «è ancora con la progettazione di Gropius per i quartieri popolari di Dessau»; mentre per Cesare De Seta il piano divenne addirittura un punto di riferimento per il razionalismo, al punto che «il piano per un quartiere operaio a Rebbio di Terragni e Sartoris può considerarsi un [suo] ideale completamento».

Lo stesso Ignazio Gardella, uno dei progettisti del piano, nel 1986 lo aveva legato alle esperienze tedesche, riconoscendone peraltro i limiti culturali: «il progetto di Milano Verde del gruppo Pagano, di cui anch'io facevo parte, aveva un'evidente parentela con le famose 'Siedlungen' delle città tedesche e un impianto molto rigido, con il costante ossessivo allineamento dei fabbricati secondo un unico, asse di orientamento. Non è certo un modello da riproporre oggi, neanche come modello di riferimento».

Questi giudizi, che accomunano frettolosamente Milano Verde ad altre esperienze del tutto eterogenee tra loro di quartieri popolari, le Siedlungen tedesche, Gropius, Oud, Terragni e Sartoris, ecc.) potrebbero far pensare a un'idea di coesione e di coerenza del razionalismo che non è assolutamente mai esistita ne in Europa ne tantomeno in Italia. Rispetto alle polemiche e alle divisioni culturali del Movimento Moderno in ambito europeo, la vicenda dell'architettura italiana degli anni Venti e Trenta si presentava ancora più sfaccettata e sfrangiata, tra una tradizione accademica molto forte e radicata, tra le esperienze artistiche autoctone del Novecento, dell'arte Metafisica e dell'avanguardia Futurista e tra un codice linguistico 'moderno' d'importazione europea. In quel periodo l'architettura rivestiva un ruolo politico di primaria importanza come strumento di regime per ottenere il consenso popolare. In Italia l'architettura moderna era soprattutto una questione di stile, nel tentativo - quanto mai votato all'insuccesso- di promuoversi come «arte di Stato», secondo la formula coniata da Pietro Maria Bardi.

Non a caso già ne1 1933, in occasione della V Triennale, Edoardo Persico aveva decretato la fine del razionalismo italiano, da lui ritenuto niente più che «un bisogno artificioso di novità» o un'«imitazione dell'estero», per sottolineare come sotto l'ombrello di comodo del razionalismo si radunassero troppi architetti, pochi per reale convinzione e molti per convenienza professionale. L'architettura moderna italiana si riduceva quindi, in molti casi, a un tentativo di autopromozione tramite l'espressione di uno stile d'importazione mescolato ad alcuni equivoci linguistici quali la 'mediterraneità' e la 'romanità', che avrebbero dovuto confermare una presunta tradizione italica della modernità, incrociata con il classicismo quale carattere genetico dell'arte italiana.


Lo stesso contesto milanese in quel periodo era tutt'altro che unito, nonostante molti storici abbiano esaltato a più riprese, con toni epici" il luogo comune delle cosiddette «battaglie degli architetti razionalisti». Tra il 1933 e il 1936 i principali riferimenti milanesi erano costituiti dalle redazioni delle riviste: Domus di Gio Ponti, Casabella-Costruzioni diretta da Persico e Pagano (attorno alla quale si riunivano soprattutto Albini, Palanti, Romano e Gardella) e Quadrante, alla quale erano maggiormente legati i Bbpr, Figini e Pollini, Terragni.

Quindi, sotto le etichette dei termini 'razionalismo' e 'moderno' in quegli anni si accavallavano diverse linee culturali e progettuali, all'insegna di una volontà d'innovazione e, soprattutto, di affermazione professionale. Non vi era assolutamente una tendenza predominante, ma una compresenza d'atteggiamenti diversi, accomunati dalla volontà di contribuire a costruire l'espansione di Milano secondo il nuovo Piano Regolatore di Cesare Albertini de1 1934.

Il Piano Milano Verde fu presentato su Casabella-Costruzioni nel 1938, con un saggio introduttivo di Giuseppe Pagano dall'impegnativo titolo L'ordine contro il disordine, nel quale si scomodava perfino il Libro della Genesi per introdurre il tema del reticolo ortogonale come conquista della civiltà. Il disordine rispetto al quale Milano Verde voleva intervenire non era tanto quello della situazione esistente, quanto quello della pianificazione allora in atto, il Piano Albertini, che in quell'area prevedeva la lottizzazione della Fiera e dell'ex-scalo ferroviario lungo via Pallavicino, con un disegno piuttosto complesso di strade diagonali.

Il settore urbano interessato dall'intervento, compreso tra l'area della Fiera e Corso Sempione, aveva un'estensione territoriale di circa un milione e mezzo di metri quadri. Milano Verde nasceva anche come esplicito tentativo di concretizzare una serie di rilevanti trasformazioni urbane che si presentavano a quel tempo, con alcune impressionanti coincidenze con la Milano contemporanea di questo primo decennio del XXI secolo. Ne1 1938, infatti, oltre che della trasformazione dell'area dello scalo ferroviario di smistamento s'iniziava a parlare anche del trasferimento della Fiera e dello spostamento delle caserme tra via Mario Pagano e via Reggimento Savoia di Cavalleria, altri temi d'attualità dopo oltre settant'anni. È soprattutto su queste aree di proprietà pubblica e su quelle private ancora libere che il piano Milano Verde giocava le proprie possibilità di realizzazione. In questo senso, questo progetto aveva senz'altro una valenza culturale ma, privo com'era di una vera e propria committenza, assumeva anche i connotati di un vero e proprio progetto promozionale.

Come già detto, Milano Verde si presentava con la nitida immagine del quartiere fondato sul principio dell'edilizia aperta, nel quale assumeva una certa importanza il corretto distanziamento degli edifici e una caratterizzazione specializzata degli spazi aperti ('verde' pubblico e privato, strade, giardini, parcheggi). Quello che viene proposto è un vero e proprio masterplan ante-litteram, cioè un sistema di lottizzazione di iniziativa privata destinato a un mercato di edilizia borghese di livello medio-alto. A questo proposito, uno delle letture più attente di questo piano urbanistico è stata quella di Guido Canella il quale, pur senza addentrarsi in un'analisi puntuale, ha osservato come Milano Verde risulti «funzionalmente distorto dal paradigma del quartiere razionalista e che è improprio attribuirgli un 'ideologia ed una strategia aderenti al Movimento Moderno internazionale», per la sua destinazione al ceto borghese medio-alto anziché alla classe operaia; per la " dimensione di molto superiore all'unità minima teorizzata dai Ciam (il piano prevede un insediamento di 45.000 abitanti contro quella che è l'unità minima di 6.000-7.000); per la sua stretta dipendenza e complementarietà al centro storico; per non essere un quartiere auto-sufficiente e per la dotazione, la qualità e la gestione dei suoi servizi.

In effetti, saranno ben altri i progetti nei quali gli architetti milanesi affronteranno più compiutamente il tema della residenza popolare e del quartiere autosufficiente. Nel 1940 Giuseppe Pagano, Irenio Diotallevi e Franco Marescotti presentano il ben più radicale Progetto di città orizzontale applicato al caso pratico di Milano tra via Brera e via Legnano19. Nel 1940 L'Istituto Fascista Autonomo Case Popolari (Ifacp) commissiona a un gruppo abbastanza eterogeneo, composto da Albini, Bottoni, Cerutti, Minoletti, Palanti, Pucci e altri il progetto di Quattro città satelliti alla periferia di Milano da realizzarsi in aree esterne rispetto alla città. Questi quattro progetti rappresentano uno dei contributi più significativi al tema del quartiere popolare. Inoltre, verranno realizzati, sempre per l'lfacp, i quartieri Fabio Filzi (1936-1938), Gabriele d’Annunzio (1939), Ettore Ponti (1939) su progetto Franco Albini, Renato Camus e Giancarlo Palanti.

Un montaggio di questi progetti del triennio 1938-1940 su una planimetria di Milano del 1936 mostra l'estensione dimensionale degli interventi rispetto al corpo della città. Da questo collage si nota come l'orientamento principale dei progetti sia prossimo a quello nord-sud, con due significative eccezioni, costituite dai progetti localizzati lungo la strada del Sempione: il quartiere Ifacp Costanzo Ciano in viale Certosa e proprio il piano Milano Verde. Soprattutto in quest'ultimo caso, è evidente come sia stato assunto l'orientamento del tessuto urbano già consolidato del Piano Beruto lungo Corso Sempione.

Milano Verde è un progetto di ricucitura urbana, che riallaccia i fili della maglia berutiana impostata sull'asse del Sempione, assumendone le direttrici principali. La viabilità è risolta secondo un principio di gerarchia funzionale legato al nuovo ordine ortogonale che viene impresso a tutto il settore urbano. Sono cancellate in modo definitivo le diagonali e i tracciati fuori squadra della Fiera e dell'ex-scalo di smistamento. All'interno delle direttrici principali che si legano ai tracciati esistenti si sviluppa una serie di strade secondarie di distribuzione ai lotti residenziali, vere e proprie «strade giardino», come sono definite dagli stessi autori.

Di fatto, Milano Verde tentava di coniugare due modelli urbani tra loro inconciliabili: quello dell'edificazione intensiva e quello della città-giardino. Il tentativo dei progettisti milanesi era quello di dimostrare che l'urbanistica moderna poteva essere conveniente dal punto di vista immobiliare, facendo coesistere in modo realistico e pragmatico la densità urbana con la qualità dell'abitare.

Il tema della densità era legato alla specificità del luogo e rappresentava la volontà di rispondere realisticamente alle opportunità del mercato immobiliare utilizzando i suoi stessi strumenti. Infatti, questa zona della città era già allora considerata di notevole pregio, al punto da essere definita come «il salvadanaio di Milano».

I lotti residenziali si inquadrano in un sistema di isolati di circa 110 x 220 m, che si sviluppa secondo le misure e gli orientamenti del Piano Beruto. Benché sia un concetto improprio in questo caso, è possibile quindi individuare un 'tessuto' prevalente di edifici in linea di 6 piani fuori terra (chiamati dai progettisti «case basse»), che insistono su lotti edificabili con un giardino privato. In totale vi sono 152 lotti di case a sei piani. Questo tessuto di «case basse» è interferito da due elementi principali. Il primo è costituito dalle «case alte», di 20 piani fuori terra, che sono in totale 15 (4 lungo Corso Sempione e 11lungo la Via Trionfale, prolungamento di via Vincenzo Monti) .Coerentemente con i principi dei Ciam, gli edifici sono distanziati in base all'altezza (il rapporto è più o meno 1/1).

L'indice di utilizzazione territoriale è di 1,06 mq/mq. È importante notare il peso che ha la viabilità urbana, pari a 658.719 mq per un totale del 42% del totale, addirittura superiore alle aree edificabili, di 638.685 mq (41 %). Ogni trenta metri era prevista una strada di accesso alle abitazioni, il che non permetteva certo di risolvere al meglio la distribuzione. Se gli isolati fossero stati accorpati a due a due si sarebbero ottenuti giardini più grandi e si sarebbe ridotta quasi della metà la superficie stradale. Un gruppo di 17 ville urbane si dispone lungo la fascia verde, con un peso insediativo del tutto trascurabile. Altre interferenze puntuali inglobate nel disegno sono costituite dalle preesistenze, come il velodromo Vigorelli.

Il secondo tema, quello della dttà-giardino, per sua natura estensivo e quindi antitetico a quello della densità, vuole costituire una critica alla città ottocentesca. Al principio moderno dell'edilizia aperta viene abbinato il tema del verde privato diffuso. In questa combinazione di verde privato e di edificazione in linea (nella relazione di progetto si usa il termine «edifici a .schiera» ) si possono trovare le principali analogie con la città giardino. Ma una città-giardino densa come Milano Verde è un ossimoro urbanistico; gli edifici di sei piani con i giardini privati antistanti sono di fatto inconciliabili con i principi della città-giardino.

Paradossalmente, in Milano Verde il peso insediativo del verde è molto basso. Il verde pubblico è solo il 12% della superficie territoriale, come dichiarato dagli stessi autori. Quello che è chiamato «parco» in realtà è un giardino urbano, più o meno delle stesse dimensioni di quello attuale di via Pallavicino sull'ex- scalo ferroviario. Il verde privato è più del doppio: in totale i giardini condominiali incidono per il 25,5% della superficie. Resisi conto della scarsità di verde, i progettisti hanno sommato le due quantità, dichiarando che il verde totale è il 37,5 % , anche se più di due terzi è privato.

Lo stesso Pagano aveva evidentemente sentito il bisogno di ritoccare le foto del plastico pubblicate su Casabella-Costruzioni per accentuare la percezione del verde. Anche gli spazi per i parcheggi pubblici sono molto ridotti, solo il5 % della superficie territoriale totale. Un confronto con la pianificazione attuale non ha ovviamente alcun valore critico, ma è comunque utile come termine di paragone: se Milano Verde fosse un odierno piano attuativo sarebbe ben al di sotto della dotazione di servizi richiesti. La realizzazione del piano si doveva articolare in tre fasi, anche in relazione alla demolizione degli edifici esistenti .La prima fase prevedeva la lottizzazione delle aree libere, dell'ex scalo ferroviario e degli isolati ancora non lottizzati. La seconda fase prevedeva la demolizione della Fiera e delle caserme di via Mascheroni. La terza e ultima fase rappresentava un completa- mento del disegno urbano.

Nonostante il plastico e le prospettive d'insieme mostrino una totale omogeneità architettonica, questa viene sorprendentemente negata nelle due viste prospettiche ravvicinate, che raffigurano una strada residenziale secondaria e la Via Trionfale. Il piano insegue infatti una notevole flessibilità realizzativa, in quanto i lotti lineari si possono suddividere secondo diverse modalità, come si vede nella tavola degli «schemi delle varie possibilità di suddivisione dei lotti per abitazione». Fatti salvi alcuni parametri fondamentali (il principio dell'edilizia aperta, lo spessore del corpo di fabbrica, l'altezza di gronda) ciascun edificio può quindi essere progettato e realizzato da operatori diversi. A detta degli stessi progettisti, infatti, «il regolamento di lottizzazione offre la possibilità dei più svariati raggruppamenti di volumi, di colori e di forme per ottenere, pur nell 'indispensabile controllo di un ordine generale, una varietà nel particolare e una vivacità nel dettaglio in modo da eliminare quella eventuale 'monotonia' che è l'ossessione del borghese, che pur si compra i vestiti fatti e sogna l'automobile 'di serie'»26. Quindi, pur auspicando una «sorveglianza artistica e tecnica totalitaria» per tutte le opere d'urbanizzazione, il verde, gli edifici pubblici egli spazi di uso pubblico, il piano accetta il tema della varietà architettonica degli edifici privati.

L'immagine urbana che ne consegue è dunque molto lontana da quella uniforme dei quartieri popolari di quegli anni, ma è molto più vicina alla varietà della città ottocentesca. Edifici moderni si accostano l'uno all'altro, accanto a diversi esempi novecentisti. La possibilità di suddivisione degli isolati lineari, peraltro regola- ta nel dettaglio e illustrata in ben tre elaborati grafici, è del tutto simile ai meccanismi di frazionamento immobiliare dell'isolato ottocentesco. E proprio qui nasce una delle più interessanti contraddizioni di questo piano: di fatto, i lotti residenziali con giardino non sono altro che degli isolati ottocenteschi 'stirati' e trasformati in elementi lineari, dove il giardino prende il posto del cortile condominiale. La differenza sta nel passaggio dalla forma chiusa dell'isolato a quella aperta dell'elemento in linea, ma il meccanismo di costruzione della città è lo stesso. Inoltre, gli edifici affacciati sul giardino non fanno altro che riproporre, in forma diversa, i rapporti della città ottocentesca. È difficile pensare che gli affacci sul giardino siano del tutto equivalenti a quelli sulla strada posteriore. Questi apparenti edifici lineari hanno poco in comune con il principio dell'edilizia aperta, sono pezzi di isolato con un fronte verso i giardini e un retro verso la strada posteriore.

Milano Verde non fornisce alcuna idea tipologica degli edifici residenziali. L'unica indicazione è quella relativa allo spessore dei corpi di fabbrica, di 13 metri. Questa vaghezza è dovuta al fatto che non c'era alcun bisogno di ulteriori indicazioni in quanto, essendo un piano fondato sull'iniziativa privata, doveva avere il massimo grado di generalità e di flessibilità. Le piante degli alloggi sarebbero quasi sicuramente risultate del tutto simili a quelle della città ottocentesca, con il tradizionale corpo doppio, il muro (o i pilastri) di spina e il corridoio di distribuzione centrale.. È negli spazi pubblici che Milano Verde esprime i suoi aspetti più interessanti. Anche in questo caso si misura comunque una significativa presa di posizione rispetto al tema della strada. In- fatti la via 1ìionfale, costituita da carreggiate stradali e tramviarie e da un percorso pedonale porticato su due livelli, recupera in pieno il ruolo della strada urbana come «valore di architettura civile» e non solo come arteria di scorrimento veicolare. Il percorso in quota conduce a una piazza sopraelevata situata al centro del progetto, intorno alla quale si trovano gli edifici di uso pubblico: un caffè, un cinema-teatro, una loggia.

Da questo punto una passerella conduce al parco, suddiviso in due parti dal prolungamento di via Domodossola. Il disegno degli spazi pubblici è studiato con molta accuratez- za. Particolarmente interessante è anche l'uso dell'acqua nel disegno urbano.

Il piano Milano Verde non ha avuto seguito, anche per il sopraggiungere della guerra. Tuttavia vi sono state alcune significative ricadute di questa esperienza, soprattutto per la chiarezza dimostrativa, quasi didattica, del suo impianto urbano. Nel 1948 viene presentata una proposta progettuale denominata «Fiume verde» sull'area dell'ex-scalo ferroviario, ad opera di Giulio Minoletti e Gio Ponti. Minoletti, uno dei progettisti di Milano Verde, cita espressamente l'esperienza di dieci anni prima, rispetto alla quale viene ripreso il tema del rapporto con gli spazi aperti, ma con una maggiore libertà compositiva ed una maggiore varietà tipologica. Proprio sulla base di quest'ultima esperienza, che riprende il tema dell'edilizia aperta alternando edifici a torre e palazzine di limitata dimensione, viene redatto negli anni' 50 il Piano Particolareggiato della zona Sempione- Fiera29, come attuazione del Prg del 1953 (fig. 19). La planimetria generale del Piano Particolareggiato ha pochissime congruenze planimetriche con I' analoga porzione di Milano Verde, il cui orientamento sud-est/nord-ovest è alternato con orientamenti ad esso ortogonali.

Di Milano Verde rimane comunque una evidente conseguenza architettonica, che mostra una singolare continuità con il progetto originale: il Palazzo Ina di Piero Bottoni in Corso Sempione a Milano, realizzato nel 1953-1958, che riprende alla lettera la volumetria e la collocazione del quarto degli edifici alti disposti a pettine lungo Corso Sempione.Questo edificio isolato, forse troppo isolato, rappresenta un vero e proprio frammento di quest'esperienza milanese de1 1938, la cui vera natura è rimasta a lungo celata dietro la sua candida immagine.

La vera natura, sfuggente e contraddittoria, di questo progetto contribuisce a mettere in crisi, con la sua ambiguità tra idealismo e realismo, quel quadro semplicistico dell'architettura moderna fatto di fragili catalogazioni e di rassicuranti luoghi comuni. Questa vicenda è la riprova di come il razionalismo a Milano si realizzi nella sua progressiva scomparsa, o se vogliamo nella sua progressiva trasfigurazione in entità espressive difficilmente catalogabili o, peggio ancora, etichettabili. Realismo, sperimentazione, rapporto con la storia, tradizione/tradizioni, compromessi, illusioni: in questa vicenda ci sono tutte le parole-chiave delle diverse vie che caratterizzeranno una parte significativa dell'architettura italiana nel secondo dopoguerra.

Questa rilettura di Milano Verde è basata solo su documenti noti e alla portata di tutti da 73 anni, cioè dalla data della loro pubblicazione. Ritroviamo qui la conferma dell'importanza dello studio delle opere e dei documenti per ricostruire la realtà dei fatti e la storia delle idee. Il fatto che molti studiosi si siano fermati a un livello di lettura quantomeno parziale di questo piano è abbastanza sorprendente, e si può forse spiegare proprio da un punto di vista metodologico.

Tralasciando gli episodi di superficialità, da escludere in quasi tutti i casi citati, le vicende dell'urbanistica e dell'architettura viste attraverso la lente deformante dell'ideologia permettono di cogliere solo aspetti parziali e distorti della realtà, legati a contenuti dimostrativi e propagandistici. Ma forse il ruolo che Milano Verde ha assunto nella storiografia moderna è stato proprio ciò che la cultura architettonica voleva inconsciamente sentirsi raccontare. In fondo, le ambiguità di questo progetto sono talmente inquietanti da essere state rimosse. L'immagine di «ordine contro il disordine» propagandata da Pagano è forse poco veritiera ma certamente rassicurante. I plastici che abbiamo avuto sotto gli occhi, sia quello originale (andato perduto, a quanto risulta), sia quelli realizzati per le varie esposizioni, mettono in scena un'immagine urbana ordinata e convincente, spesso impropriamente imitata da molti progettisti come una sorta di antidoto contro il caos metropolitano contemporaneo.

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