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Il tour di un paesologo attraverso gli anfratti più reconditi di tre regioni: Basilicata, Calabria e Campania. Tra montagne in cerca di un nuovo umanesimo, borghi da raccontare e intellettuali tardo-magno greci. Il manifesto, 18 luglio 2013

La Salerno-Reggio Calabria a un certo punto esibisce i suoi famosi cantieri. Ho la sensazione che li vedranno anche i miei nipoti. Siamo tra Lagonegro e Lauria, alberi e ponti, viadotti, gallerie, betoniere, scavatori. Forse qualche tratto poteva pure rimanere stretta, non c'era bisogno di allargare tutto. A un certo punto si può anche andare piano. Ma ormai qui i cantieri sono un mantra, l'autostrada sembra un pretesto per tenere in vita i cantieri.
Faccio confusione tra Laino Castello e Laino Borgo, non capisco dove sia il pezzo di paese morto. Poi lo trovo, scatto una foto da lontano. È presto, ma la calura è già minacciosa.

Arrivo a Rotonda, dove già sono passato. È il paese di un mio fraterno amico, Andrea Di Consoli. Lui è figlio di contadini e ora vive e scrive a Roma. Capisce profondamente i libri degli altri e scrive i suoi in una lingua accaldata, intensa, senza vezzi e aloni. Lui mi piace molto di più del suo paese. In piazza ci sono degli alberi canadesi, messi dai soliti architetti che vorrebbero abbellire quelli che nel loro gergo si chiamano «invasi spaziali». Mi siedo per scrivere che l'insegna più scintillante è quella della farmacia. E poi una scritta nell'atrio di una casa che ospitò Garibaldi: E la splendida turba e il vano fasto lieto deride. Non vedo ruderi, parti decrepite, c'è un po' di gente in giro, il panificio, la macelleria, la gioielleria, il negozio di piante e fiori e poi i bar, quanti ne vuoi. A un certo punto un tipo mi chiama per nome. Gli ha parlato di me Di Consoli. Mi dice che è tornato da Torino, dipinge e fa altri lavoretti. Il reddito sicuro lo assicura la moglie che è insegnante. Mi porta a vedere i suoi quadri. Mi regala una maglietta dipinta. Ha fretta di dirmi tante cose, la foga tipica di chi è incerto se pensarsi genio o fallito. Se passate da Rotonda cercatelo, si chiama Adriano Galizia.

L'appuntamento con la persona che ci deve fare da guida è all'una, in piazza, a Viggianello. Arrivo al paese e non vedo la piazza. Non è sulla strada, non ci puoi parcheggiare la macchina dentro. È un palmo di mano nascosto sotto il campanile. La trovo e mi siedo con la sposa su una panchina nel filo d'ombra che rimane. Silenzio e calura. Ecco un tipo con un carrello a motore con alcune buste della spesa dentro. L'operazione di scendere le scale è laboriosa. La seguo in tutte le sue fasi poi gli chiedo spiegazione. Lui dice che il carrello di solito lo usa per trasportare la legna. In questo paese tutti si riscaldano con la legna, ma ci sono da fare un sacco di passaggi dall'albero al camino. Faccio notare al mio animoso interlocutore che portando le buste in mano avrebbe fatto meno fatica. Intanto siamo già in confidenza. Parliamo, perché lui non sa che fare e noi dobbiamo aspettare la guida. Mi colpisce che lui identifichi il successo del paese con la presenza dei cantanti. È una cosa che ho sentito altre volte. Se non arrivano più i cantanti famosi è segno di decadenza. Penso al sindaco che ha invitato me. Non credo sia una scelta che si può spendere in campagna elettorale. Al Sud è successo che a un certo punto le persone hanno smesso di cantare, si è rotto il legame tra musica e vita quotidiana. Il canto non serviva più per far dormire i bambini, per fare le serenate, per lenire le fatiche. Il cantante famoso che veniva alle feste del patrono era il segno del paese che voleva mettersi alle spalle la sua cultura, voleva rottamare i suoi suoni antichi e diventare moderno, telegenico. Si può anche capire questa scelta negli anni settanta, ma adesso appare assurdo spendere diecimila euro per un modesto urlatore che ha il solo merito di essere apparso qualche volta in televisione.

La guida è arrivata, e la sua presenza un poco rompe il mio disagio. Andiamo in un agriturismo che a me sembra lontano dal paese, ma a loro no, perché il paese è tutto fatto di frazioni e da un estremo all'altro ci sono trenta chilometri e quasi mille metri di dislivello. Il pranzo è buonissimo, mi mette di buon umore per tutto il pomeriggio. Apprezzo particolarmente la minestra 'mbastata (minestra "impastata" con patate e verdure di stagione).

Alle sei è prevista in piazza la presentazione del mio ultimo libro. In attesa che arrivi gente la giornalista del posto mi fa una lunga intervista. Tante domande, ma in questi casi mancano sempre quelle sulla lingua. L'essenza della paesologia non è la difesa dei paesi, ma un certo modo di far girare le frasi, di sentire la lingua. Comunque è una bella serata, il cielo è pieno di rondini. Al mio fianco oltre al sindaco, c'è Biagio Accardi, un giovane cantastorie che da tre anni gira a piedi i paesi del Pollino in compagnia di Cometina, un'asina pure lei giovane. I paesi sono cinquantasei, trentadue nel versante calabro e ventiquattro in quello lucano.

A questo punto è il caso di citarli tutti. I comuni calabresi sono: Acquaformosa, Aieta, Alessandria del Carretto, Bagnara, Belvedere Marittimo, Buonvicino, Castrovillari, Cerchiara di Calabria, Civita, Francavilla Marittima, Frascineto, Grisolia,Laino Borgo, Laino Castello, Lungro, Maierà, Morano Calabro, Mormanno, Mottafollone, Orsomarso, Papasidero, Plataci, Praia a Mare, San Donato di Ninea, Sangineto, San Lorenzo Bellizzi, San Sosti, Sant'Agata d'Esaro, Santa Domenica Talao, Saracena, Tortora, Verbicaro.

I comuni lucani sono: Calvera, Castelluccio Inferiore, Castelluccio Superiore, Castronuovo di Sant'Andrea, Carbone, Castelsaraceno, Cersosimo, Chiaromonte, Episcopia, Fardella, Francavilla in Sinni, Latronico, Lauria, Noepoli, Rotonda, San Costantino Albanese, San Giorgio Lucano, San Paolo Albanese, San Severino Lucano, Senise, Teana, Terranova del Pollino, Valsinni, Viggianello.

Il secondo giorno è prevista un'escursione sul Pollino. La manifestazione organizzata dal Comune di Viggianello si chiama Uomini e cime e prevede tre giornate tra giugno e agosto con tre scrittori. Il sindaco è di Sel e pure lui scrive. Quelli che si aspettano i grandi cantanti resteranno delusi.

Arriviamo in macchina fino a un certo punto e poi comincia la marcia. I primi passi sono affannosi. La mia ipocondria si fa subito viva quando mi avvio in zone dove non è facile il soccorso. Penso a un infarto e al fatto che non ci sarebbe il tempo utile per provare a salvarmi. In effetti non si capisce perché dovremmo salvarci. Sono deluso, pensavo e speravo che dopo la morte di mia madre almeno l'ipocondria si attenuasse, pensavo che la paura della morte andasse in vacanza e invece è sempre qui, al lavoro. Saliamo verso l'alto, comincio a prendere un poco fiducia, ma arrivati in un bel pianoro io e la mia sposa, insieme a una coppia di giovani sposi salentini, decidiamo di fermarci. Il resto della compagnia si dà come meta la cima del Pollinello, pure loro decurtano un poco le ambizioni iniziali, ma saliranno comunque in una zona utile per ammirare da vicino gli esemplari di pino loricato, l'albero simbolo di queste montagne. Io li guardo da lontano questi alberi che cercano la cima, alberi da due rami, alberi in preghiera, che quando muoiono diventano bianchi e lisci come un osso.

Il Pollino è una montagna di nicchia, non ha villette, alberghi ad alta quota, attrazioni pacchiane. È una rosa di montagne sparse ai quattro venti. Non c'è una cima aguzza, un pezzo firmato, è una montagna corale, comunitaria. Nessuna cima si stacca dalle altre. Non sono montagne da scalare, ma da ruminare. L' hardware c'è tutto, forse bisogna lavorare sul software. Penserei a una serie di musei immaginari: museo dell'aria, museo del silenzio, museo della luce.

Il sole sul Pollino mi ha bruciato un occhio. Stendermi sotto il sole mi mette in pace, ma non lo avevo mai fatto alle due del pomeriggio a 1700 metri di quota. Dopo due giorni senza lingua l'occhio gonfio mi riporta alla scrittura. È sempre il guasto, l'errore ad avviarmi alle parole. Mi hanno chiamato qui per raccontare la montagna, ma io la montagna non la capisco. Il mio paesaggio è un altopiano, la terra mossa dell'Irpinia d'Oriente. Dell'altopiano abito l'orlo, il punto in cui si crepa, si squarcia. Dormo sul precipizio. La terra frana, l'aria è sempre mossa dal vento. L'unica analogia col Pollino è il cuore sismico che batte nel profondo.

Del Pollino mi piace la lontananza. Tutto è lontano da questi paesi, perfino le montagne che hanno sulla testa. A Viggianello sentono che intorno a loro c'è un'ora di vuoto. Ci vuole un'ora e mezza per il mare, per l'ospedale. Un'ora e mezza per la città più vicina, Cosenza, ma è in un'altra regione. Il Pollino è troppo ampio per questi tempi stretti, troppo austero per quest'epoca fumosa e posticcia.

A Viggianello puntano sul turismo, ma i turisti sono ancora pochissimi. Arriva qualcuno da Taranto, da Bari. I napoletani hanno altre mete, i lucani e i calabresi altre montagne.

L'ultimo giorno Vincenzo Corraro, il sindaco di Viggianello, mi porta a vedere Pedali, la sua frazione, la più popolosa, quella da cui vengono tutti i sindaci. È una frazione spezzettata, un'edilizia che concede poco alla bellezza, come in quasi tutti i paesi del parco. La storia cambia quando saliamo sulla montagna che sovrasta la frazione. Facciamo una bella passeggiata, anche se improvvisamente arrivano le nuvole e non si capisce se sono quelle del vecchio inverno o del nuovo. Qui piove, nevica, fa freddo per dieci mesi all'anno. Il luogo giustamente ha fame di bellezza, ma la vita quotidiana è assai difficile: troppo spesso si sente il silenzio di chi se n'è andato e di chi non è mai venuto.

Faccio al sindaco qualche domanda intima e parliamo anche dei libri che ha nel cassetto. Lui ha una vena romanzesca, ma io lo invito a raccontare la sua esperienza di sindaco, a partire dalla vicenda di una vecchia centrale a lignite che l'Enel vorrebbe riconvertire per bruciare biomassa. Una di quelle tipiche battaglie in cui i colonizzatori spesso riescono a imporre i loro interessi offrendo il miraggio del lavoro. È assurdo che nel cuore di un parco nazionale si possa installare un'attività inquinante che contrasta palesemente col sogno del turismo. Molti sindaci si lamentano per i vincoli che pone il parco. Forse non è amministrato benissimo, ma è facile immaginare che cosa accadrebbe se i vincoli fossero allentati. La forza del Pollino dev'essere la pazienza. Il capitalismo è la civiltà delle pianure, le sue montagne sono i grattacieli. Il Pollino deve aspettare che arrivi un nuovo umanesimo, l'umanesimo delle montagne. Non sono i paesi che stanno morendo, ma la civiltà urbana. Oggi la forza è nei margini, nei luoghi appartati.

Prima di salutarci il sindaco ci dà una bottiglia di fragolino e una soppressata. La Lucania è una terra generosa. Anche se è sempre difficile misurarla la generosità mi pare che i paesi del Pollino, da questo punto di vista, abbiano un primato. È difficile transitare intorno a un bar senza che qualcuno ti offra qualcosa. Ma non è solo questione di doni materiali, qui le persone sono generose già nello sguardo, nel modo di parlare, di ascoltare.

Domenica pomeriggio, dopo un altro pranzo buonissimo all'agriturismo, è ora di partire. Ho un appuntamento a San Marco di Castellabate, nel Cilento. Invece di scegliere la via più breve, scaliamo ancora il Pollino perché voglio andare a San Severino Lucano. Faccio solo in tempo a notare un po' di staccionate in legno, segno che il paese ha cura di apparire più turistico degli altri.

Salire e poi scendere. E poi scendere ancora verso la valle del Sinni. Quasi nessuno in giro. Per vedere qualche turista devo arrivare al lago Sirino. Farei ancora in tempo a prendere l'autostrada, invece punto su Sapri. Percorso tortuoso passando per Lagonegro, qui c'è un proliferare di monti che partoriscono altri monti. Arrivati a Sapri dobbiamo fare i conti con la sterminata vastità della provincia di Salerno. Per arrivare a San Marco bisogna uscire dalla costa e infilare altre montagne. Intanto abbiamo fatto in tempo a capire che il turismo domenicale è quasi tutto proteso verso il mare. Il sud che vuole abbronzarsi surclassa quello che vuole camminare. Arriviamo sfiniti nella bellissima casa della mia amica Luisa Cavalieri. Siamo nel Cilento, il gemellaggio col Pollino mi sembra naturale. Unire il mediterraneo costiero al Mediterraneo interiore mi sembra un buon compito. La posta in palio non sono i turisti, ma un'altra idea di mondo, un'altra idea della vita. Almeno a casa di Luisa il sogno sembra già realizzato.

Inizia oggi sul manifesto (18 luglio 2013) la pubblicazione di un interessante inserto settimanale proposto e curato da Piero Bevilacqua, dedicato a un'Italia minore che può additare le vie da percorrere per costruire un0Italia migliore perchà diversamente "moderna"cioè all'altezza di una soluzione umana ai problemi di oggi.Anche i frequentatori di eddyburg sono invitati a collaborare

Da Bobbio, in Emilia Romagna, a Pentedattilo in Calabria. Gli italiani riscoprono i paesi spopolati per ritrovare una dimensione antropologica del vivere travolta dalla modernità
L'Italia non è solo - in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa - terra di città. È anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati lungo la dorsale appenninica e preappeninica e fin sulle Alpi, ma presenti anche, con caratteristiche proprie, nella Pianura padana. E una saliente caratteristica è la loro varia origine storica, che va da epoche remotissime sino all'Otto-Novecento, insieme alla diversità delle genti e delle colonizzazioni che li hanno plasmati. Si pensi a un centro come Bobbio, in Emilia Romagna, abitato in età neolitica, poi colonizzato dai Liguri, dai Celti, dai Romani; oppure Putignano, in Toscana, parimenti attivo nel neolitico, colonizzato dagli Etruschi e successivamente romanizzato. E ancora, sempre per sottolineare l'antichità della fondazione e la varietà delle civilizzazioni - ma per cenni necessariamente avari e sporadici - si può ricordare, scendendo verso Sud, Norcia, in Umbria, centro d'incontro di varie etnie nel mondo antico, poi assoggettata ai Romani; Gerace, in Calabria, colonizzata dai Greci a partire dal VIII-VII secolo e poi divenuta bizantina.

Nel Lazio e in parte dell'Italia meridionale dominano i borghi di origine medievale del cosiddetto incastellamento - studiato dallo storico Pierre Tourbet - risultato dell'aggregarsi degli abitati intorno a un castello feudale, per proteggersi dalla incursioni saracene e poi normanne di quell'età turbolenta. Ma è solo per suggerire una idea della vetustà storica e della multiformità delle culture. Non sorprende, dunque, se un numero grandissimo di questi borghi possiede al suo interno e nei suoi immediati dintorni un patrimonio immenso di resti e di manufatti, che custodiscono la memoria millenaria d'Italia, l'operosità di innumerevoli generazioni di artigiani e artisti. In questi centri sono disseminati santuari, torri, casali, abbazie, chiese, pievi, palazzi signorili, necropoli, ville, mausolei, sepolcri, chiostri, affreschi, statue e dipinti, anfiteatri, aree archeologiche, cinte murarie, strade, porte, vasche termali, cisterne, acquedotti. I resti, insomma, talora ben conservati, di una civiltà impareggiabile. Nel 1980 Federico Zeri curò l'VIII volume della Storia dell'arte italiana per Einaudi, dedicata ai Centri minori dove tanto tesoro è illustrato per ricchissimi esempi. Mentre le benemerite guide rosse del Touring Club, come ricordava Italo Calvino, costituiscono il «catalogo nazionale» dove così innumerevoli beni sono registrati nel loro contesto storico e territoriale.

Ora che cosa accade nella nostra civilissima Italia? Accade che una parte crescente di questi borghi sono a rischio di abbandono, o sono già divenuti dei centri fantasma. Si calcola che siano almeno 5000 in tali condizioni. Naturalmente, la tendenza in atto non è senza contraddizioni. Esistono territori montani, come il Mugello, in Toscana, dove la popolazione tende a crescere. Negli ultimi anni i paesi intorno a Roma si sono gonfiati di popolazione. A causa degli elevati costi dei fitti, molti cittadini che lavorano a Roma sono andati a vivere nei paesi vicini, eleggendoli quali dormitori rurali del loro pendolarismo. Ma la corrente prevalente è l'abbandono, lo svuotamento demografico, soprattutto lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne.

A questa situazione da tempo si vanno opponendo con varie iniziative non pochi enti e gruppi, come l'Associazione Borghi più belli d'Italia, sorto nel 2001 per impulso della Consulta del turismo e dell'Anci, il Gruppo Touring Club, il Paesi Fantasma Gruppo Norman Brian (che si occupa della mappatura dei borghi) e varie altre associazioni a scala locale, come l'Azione Matese, impegnata a favore dei paesi del Massiccio del Matese. Ciò di cui queste associazioni e varie altre hanno bisogno, tra l'altro, è senza dubbio una visione territoriale più ampia delle aree interne italiane e della formazione di una rete veramente attiva di informazione, scambi e cooperazione. Le aree interne fanno oggi parte di un vasto progetto, necessariamente di lunga lena, avviato da Fabrizio Barca all'interno del ministero per la Coesione territoriale. Si tratta di un disegno di riequilibrio demografico, sociale, ambientale che può offrire nel tempo vaste prospettive al lavoro italiano e alla valorizzazione delle immense risorse naturali ospitate in queste terre. L'agricoltura della biodiversità agricola e la sua trasformazione agroindustriale, la selvicoltura, l'allevamento, l'utilizzo delle acque interne, l'escursionismo, il turismo, l'agricoltura sociale, le fattorie didattiche, la produzione di energia su piccola scala, l'artigianato del riciclo costituiscono le leve potenziali della rinascita di queste aree dove è prosperata per secoli la nostra civiltà rurale. A condizione, naturalmente, che i servizi fondamentali (scuole, ospedali, trasporti) riacquistino o conservino il loro ruolo irrinunciabile.

Ma i borghi possono svolgere una specifica funzione attrattiva. Al loro interno si custodiscono non solo i manufatti artistici che abbiamo sommariamente elencato, ma, assai di sovente, essi sono scrigni invisibili che custodiscono antichi saperi, dialetti, culture e letterature popolari, strumenti musicali tradizionali e canti antichi, conoscenze di erbe e piante, forme di preparazione e conservazione dei cibi, cucine multiformi. In questi luoghi si conserva anche altro. In realtà, il nostro immaginario colonizzato dal demone dell'utile ci impedisce di scorgere tanti invisibili tesori immateriali. Si ritrovano infatti in tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare, lentezze e assaporamenti della realtà circostante che nella città sono ormai perduti per sempre. Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che si ritrova ancora conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico.

Perciò occorre stabilire un nuovo rapporto di curiosità e scoperta, creare un nuovo sguardo sul nostro passato - come da tempo va facendo Franco Arminio, anche sulle pagine del manifesto - mescolare l'antico con il presente: ad esempio trasformando vecchi edifici in abbandono, riattivando antiche manifatture con nuove produzioni, o cambiandole in "manifatture delle idee", cioè in sedi di nuovi centri di ricerca. Occorrerà dunque seguire e documentare le iniziative che vanno sorgendo nei borghi, perché essi segnano il sentiero di un nuovo possibile rapporto degli italiani col proprio territorio e con il proprio passato.

A tal fine trovo qui quanto mai opportuno soffermarmi, sia pur per pochi accenni, su una singola esperienza in uno degli angoli più difficili e fisicamente avversi della nostra Penisola. E anche impervi sul piano civile, a causa della criminalità endemica. Mi riferisco alle attività che dal 2010 va svolgendo l'Agenzia dei borghi solidali nei comuni dell'estrema Calabria come Pentedattilo, Roghudi (spezzato in due da una alluvione nel 1971) e Montebello, all'interno del progetto «i luoghi dell'accoglienza solidale nei borghi dell'area grecanica». L'Agenzia, aggregazione di numerose altre associazioni, ha sede a Pentedattilo - pittoresco paese sullo Jonio che scende a cascata da una rupe - in un edificio, Villa Placanica, sottratto alla mafia. Tra le varie iniziative messe in cantiere, organizza campi di lavoro estivo nazionali e internazionali, il che porta centinaia di ragazzi provenienti da ogni dove negli ostelli presi in gestione nei borghi. È un modo per valorizare il patrimonio edilizio pubblico e privato in abbandono, per riportarlo a nuove funzioni e utilità. In questi spazi si vanno aprendo anche le cosiddette Botteghe solidali. Nel frattempo, all'interno dello Spaziofiera di Roghudi nuovo e di Pentedattilo, sono all'opera botteghe artigiane che puntano a riscoprire e dare nuovo valore alle tradizioni manifatturiere grecaniche, offrendo nello stesso tempo lavoro a immigrati e cittadini svantaggiati. Si tratta di una esperienza agli inizi, condotta da giovani molto capaci e legati al proprio territorio per passione e sensibilità storica. Con un tenace sforzo di aggregazione vanno creando e diffondendo culture di solidarietà e di legalità e soprattutto mettono in moto rapporti interculturali e di cooperazione fra le persone: quelle forme di comunicazione e di scambio che erano già vive su queste terre quando nel Mediterraneo fioriva la civiltà greca e il mare era luogo di vicinanza e di dialogo fra popolazioni diverse.

Un'anticipazione di questo articolo è stata pubblicata su eddyburg, nelle "opinioni "dell'autore, col titolo I borghi dell'utopia

Nel disegno di riforma della legge regionale toscana le modifiche all’impianto procedurale sono integrate con una più estesa revisione dell’orientamento culturale, fondate sulla fertile distinzione tra "risorsa" e "patrimonio", cioè tra valora di scambio e valor d'uso. EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013

Il recente articolo di Ferdinando Semboloni, pubblicato sul numero 3 (Vol.3, Maggio 2013) di EyesReg, affronta in maniera molto opportuna uno dei temi destinati ad incidere fortemente sulla pianificazione della Regione Toscana con prevedibili conseguenze anche sul dibattito nazionale: la riforma della Legge Regionale 1/2005 sul Governo del Territorio, recentemente proposta dall’Assessore Anna Marson. Un disegno di legge che, pur essendo ancora in una fase di definizione e modifica, ha visto fin da subito il netto contrapporsi tra Regione e Associazione dei Comuni, in particolar modo sui temi del controllo sugli strumenti operativi comunali e sulla reintroduzione di un sistema istituzionale-amministrativo accusato di essere eccessivamente piramidale (Semboloni, 2013).

Le preoccupazioni dei Comuni, seppur legittime, rischiano però di sviare l’attenzione dei media e degli amministratori stessi dai contenuti di natura culturale e tecnica introdotti e modificati dalla proposta di legge, ponendo al contrario maggiore attenzione sugli aspetti organizzativi e procedurali. Ferma restando l’impostazione originaria della legge oggi vigente, è possibile infatti leggere all’interno del nuovo articolato alcuni aspetti innovativi di ordine generale volti ad adeguare e risolvere problematiche gestionali e concettuali emerse negli otto anni di efficacia della 1/2005.

Già nei primi articoli del disegno di legge, quelli dedicati alla definizione degli obiettivi e delle finalità, è possibile ravvisare alcune modifiche lessicali interessanti per capire la nuova visione strategica e culturale che si pone alla base dell’azione normativa.
La promozione dello “sviluppo sostenibile delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio”, enunciata al primo comma dell’art. 1 e definita appunto quale oggetto e finalità delle successive disposizioni, diventa nella nuova stesura “la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale inteso come bene comune”; un cambiamento – rilevato da Semboloni – solo apparentemente formale, che tuttavia manifesta una profonda revisione dei modelli socio-economici dai quali la legge trae ispirazione.

Il modello dello sviluppo sostenibile – di un processo cioè che, tenendo conto delle capacità di auto-riproduzione dei sistemi di risorse alle quali attinge, è per definizione orientato ad una progressiva dinamica di crescita – è sostituito e mutuato dalla possibilità che il sistema economico-territoriale permanga in una condizione di equilibrio nel quale le azioni umane divengono tese non tanto ed esclusivamente allo sviluppo quanto alla conservazione e alla manutenzione dei territori.
Il nuovo testo normativo sembra assumere la sempre più diffusa perplessità che possa esistere un modello di sviluppo permanente, ancorché sostenibile, e condividere la tesi che un modello di una crescita infinita in un mondo finito sia contrario alle generali leggi della natura. (Georgescu-Roegen, 1994).

Ne deriva una concezione essenzialmente meno dinamica dell’interazione tra azioni umane e ambiente e sicuramente meno antropocentrica. L’obiettivo della pianificazione è quello della salvaguardia e della valorizzazione agenti, continua il nuovo testo, “in funzione di uno sviluppo locale sostenibile e durevole” che tuttavia diventa una possibilità subordinata e non più un obiettivo.
E’ riscontrabile in questa impostazione la sempre maggiore influenza esercitata in ambito economico-sociale, complice forse anche il particolare momento che l’Europa sta attraversando, dalle teorie della decrescita, riproposte e articolate negli ultimi anni da molti autori fra i quali il più noto è Serge Latouche, sostenitore della necessità di nuovo modello sociale post-sviluppo basato appunto sull’assenza di crescita e di sovra consumo (Latouche, 2008).

Una lettura confermata da un’altra proposta di modifica che riguarda sempre il Titolo I della legge: la modifica dell’art. 3 e la sostituzione del termine “risorse essenziali del territorio” in “patrimonio territoriale”. Anche in questo caso il termine risorsa, che induce a una visione del territorio e dell’ambiente in chiave produttiva, come materia prima, è sostituito da un termine, quello di patrimonio, che rimanda ad una stratificazione di lungo periodo non necessariamente finalizzata allo sviluppo e alla trasformazione.

Una distinzione, quella tra risorsa e patrimonio, più volte sostenuta e approfondita anche da Alberto Magnaghi (2000), fautore di una visione nella quale è “utile distinguere il patrimonio (che … è di lunga durata e in essa si costruisce e si accumula) dal suo uso come risorsa (che è contingente e relativa al ruolo che una specifica civiltà gli attribuisce)”. Una visione nella quale, per usare i termini di Semboloni, l’invarianza è preminente rispetto al cambiamento (Semboloni 2013)
Si delinea quindi, seppur nei limiti di un testo normativo ancora fluido e mutevole, un parziale cambio del paradigma culturale che informa la legge e le conseguenti politiche di governo del territorio. Una modifica degli obiettivi alla luce di una visione post-sviluppo destinata giocoforza a prendere corpo nel dibattito urbanistico.

Un’altra linea di azione del processo di revisione è quelle tesa a precisare e definire alcuni strumenti normativi che rendano conseguenti e coerenti le parti statutarie degli strumenti urbanistici con quelle di natura più marcatamente operativa. E’ indubbio d’altronde come alcuni importanti temi della pianificazione abbiano assunto in questi anni una natura puramente dichiarativa, quasi con valenza di manifesto, per poi avere un’influenza minima nella pratica pianificatoria corrente.
Una volontà, quella di legare in modo più efficace gli elementi generali con quelli operativi, che è leggibile nelle modifiche riguardanti lo statuto del territorio, definito come cardine dell’identità dei luoghi e criterio di individuazione dei percorsi di democrazia partecipata dall’art. 5 del testo vigente e che viene rafforzato nella nuova stesura sottolineandone la valenza di “quadro di riferimento conformativo per le previsioni di trasformazione” da redigere attraverso la partecipazione delle comunità interessate.

La specificazione della natura “conformativa” e partecipata assegna così allo statuto del territorio una valenza che va ben oltre l’esposizione di auspici, indirizzi e generiche strategie andando ad interessare direttamente la disciplina d’uso dei suoli. Anche il tema del consumo di suolo agricolo è approfondito e spostato dalla generale enunciazione, finora limitata alla definizione della priorità del recupero e della riutilizzazione rispetto alla nuova edificazione (comma 4 dell’art.3 del testo vigente), alla precisa, e per certi aspetti radicale, individuazione degli ambiti suscettibili ad essere interessati da nuovi impegni di suolo. Nella proposta di legge, non unica ad avere una tale impostazione, (De Lucia 2013; AA.VV Eddyburg 2007) le previsioni di nuova edificazione potranno interessare solo le aree già urbanizzate e prive di caratteri di ruralità, operando così un sostanziale congelamento dei margini urbani esistenti. Le deroghe previste per gli insediamenti commerciali, produttivi e per le opere infrastrutturali vengono subordinate ad una verifica di sostenibilità nei confronti di una, forse poco precisata, area vasta.

Nell’ambito di una nuova articolazione normativa, rilevando alcune carenze emerse nell’attuazione della legge, è introdotta la proposta che forse più di tutte ha destato le opposizioni dei Comuni, ovvero la competenza della Regione ad esprimersi circa la conformità degli strumenti urbanistici, di qualsiasi livello, alla Legge regionale. Un passo indietro secondo i Comuni che leggono questa nuova impostazione come una negazione del principio di sussidiarietà tra i diversi livelli amministrativi introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione, così da prefigurare, secondo l’ANCI, un sostanziale ritorno al sistema normativo del “command and control” . Finora infatti Regione Toscana e Province limitavano il loro ruolo alla verifica di conformità rispetto ai relativi strumenti della pianificazione sovracomunale senza esprimere pareri in merito alla conformità generale nei confronti della legge, e senza esercitare forme di controllo sui contenuti della pianificazione.

Vero è che una tale impostazione ha spesso escluso la verifica dell’attuazione delle politiche strategiche regionali e portato ad una generale disomogeneità di linguaggi e strumenti tra i Comuni toscani. Su questo tema, peraltro, la Regione ha già mostrato una forte attenzione: è in questi giorni al vaglio delle Commissioni del Consiglio un ulteriore disegno di legge, che prevede la modifica dell’articolo 144 della 1/2005 e assegna al legislatore regionale il compito di definire, attraverso uno specifico regolamento, parametri urbanistici e definizioni che siano comuni, omogenei ed uniformi per tutto il territorio regionale.

Nuove procedure interessano anche gli istituti della partecipazione, inseguendo anche in questo caso la necessità di superare procedure formali che poco o nulla incidono sul processo decisionale. L’intenzione appare quella di spostare e garantire l’effettivo coinvolgimento delle comunità nella fase di progetto del piano, in una fase cioè in cui le scelte sono davvero suscettibili di essere modificate e integrate con eventuali soluzioni alternative. A questo scopo è introdotta l’obbligatorietà dell’avvio del procedimento anche per la fase di redazione e di approvazione del piano e il rafforzamento del Garante della Comunicazione come Garante del Partecipazione.

Interessante è infine il ritorno ad alcuni temi della pianificazione intercomunale con l’introduzione della possibilità di redigere un unico Piano Strutturale che interessi più amministrazioni. La pianificazione di area vasta è un tema che, più volte naufragato a livello nazionale, continua ad essere cruciale per la pianificazione strutturale dei comuni toscani, troppo spesso stretti in confini amministrativi che poco rispecchiano le peculiarità dei territori, e che per questo meriterebbe un ben più articolato ed organico momento di riflessione e approfondimento.
Nel disegno di riforma della legge regionale toscana modifiche all’impianto procedurale sembrano quindi convivere, integrate, con una più estesa revisione dell’orientamento culturale. Difficile è oggi stabilire in quale misura questi aggiustamenti normativi possano dare concreta risposta ai complessi problemi emersi negli anni di efficacia della Legge 1/2005; certo rimane indubbia l’opportunità di riaccendere un dibattito e una discussione su tematiche territoriali che vadano oltre la contrapposizione partigiana tra i diversi livelli istituzionali.

Riferimenti bibliografici
AA.VV. Proposta di legge urbanistica, Eddyburg 20/02/2007,
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, Sintesi dei contenuti, ANCI Toscana, Working Paper.
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, I temi principali, ANCI Toscana, Working Paper.
De Lucia V. (2013), Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato, Eddyburg 03/06/2013
Georgescu Rougen N. (1994), La Décroissance. Entropie, écologie, économie, a cura di Jacques Grinevald e Ivo Rens, Parigi, Sang de la terre.
Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino: Bollati Boringhieri.
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Dice il presidente dell'APA:«Non voglio più ascoltare che l'urbanistica non riesce a fare la differenza: dobbiamo tutti tornare a innamorarcene». Su questa sponda dell'Atlantico, dice il giornale, «pare che invece sia diventata una professione depressa e sulla difensiva, di fronte ad attacchi politici tesi a costruire un sistema sempre più debole». The Guardian, 2 luglio 2013 (f.b.)

Titolo originale: Redesigning the way we live - Scelto e tradotto da fabrizio Bottini
A metà del suo mandato di presidentedella American Planning Association (APA), Mitchell Silver con la suacapacità di coinvolgere il pubblico ha affascinato una platea di LosAngeles, con un messaggio che può valere anche qui da noi: “Nonvoglio più ascoltare che l'urbanistica non riesce a fare la differenza: dobbiamo tutti tornare a innamorarcene”. Su questasponda dell'Atlantico, pare che invece una professione depressa siasulla difensiva, di fronte ad attacchi politici tesi a costruire unsistema sempre più debole.

Lo scorso mese qui a Londra, alcongresso del centenario della International Federation of Housingand Planning, Silver ha di nuovo ed efficacemente auspicato unarinascita dell'urbanistica col cittadino al proprio centro, e con laparola d'ordine dell'a giustizia. “Tre parole d'ordine, ambienteeconomia e giustizia, ma l'ultima è anche quella che si usa di meno,sta ai margini, a volte si chiama qualità della vita. Ma non è lastessa cosa”. Il cinquantaduenne Silver sostiene appassionatamentele sue idee, cosa piuttosto rara in una professione di solito assaipoco avventurosa e piatta.
L'urbanistica, ribadisce, mira a costruiregiustizia per tutti in città accoglienti. E del resto – domandaretorica - chi altri ha messo le basi per aspirare a acque pure earia pulita, quartieri sani e sicuri, case, posti di lavoro, economielocali stabili, se non l'urbanistica progressista?

E perché allora oggi l'urbanistica, inGran Bretagna e non solo, si è fatta una tale cattiva nomea? Tutticercano un colpevole, ma “vedo che esistono decine di migliaia diprogetti in attesa di realizzazione. E mi chiedo per prima cosa: comemai sono ancora sulla carta? Colpa dell'urbanistica o delleistituzioni? E, seconda questione, sono gli urbanisti a doverdimostrare quanto valgono, a doversi esprimere in modi diversi sullapropria capacità anche di creare posti di lavoro, di stimolarel'economia, non concentrarsi solo su leggi e norme”.
Comeresponsabile per le politiche urbane di Raleigh, in North Carolina –che gestisce anche lo sviluppo locale, e poi la casa, i quartieri emolto altro – Silver, originario di New York, è convinto che lasua città, 420.000 abitanti, possa indicare la via. Ha avutodall'amministrazione carta bianca – a “pensare in grande”secondo le sue parole – in tutto e per tutto.

Certo aiuta il fatto che Raleigh (53%bianchi, 29% neri, 11% ispanici, il resto di origine asiatica ealtri) sia mediamente abbastanza benestante, con un reddito familiaredi 65.000 dollari. “Non c'è particolare segregazione. C'è laparticolarità di non avere scuole autonome di zona, e cosìcomprando una casa non si sceglie il quartiere esclusivo perché hauna buona scuola per i figli: l'assegnazione dei posti avviene perraggio, il che tende a riequilibrare i quartieri”.
Silver ha appenaterminato il mandato biennale di presidente APA, e ammette che leamministrazioni non consentono spesso agli urbanisti di essereinnovativi. “Ci stanno sempre in testa: faiquello che ti viene detto, stai al tuo posto. E bisogna invecerispondere che volete da noi? Volete darci la possibilità comesettore di avere visioni di largo respiro, innovative, osemplicemente di rilasciare autorizzazioni? Se la risposta è laseconda, vuol dire che si sono create istituzioni chiuse, con limitiinvalicabili che non consentono di fare gran che” Non si puònegare che qui da noi l'urbanistica sia sovraccaricata volente onolente di funzioni legate all'autorizzazione e controllo delletrasformazioni edilizie. E che di conseguenza tutti gli ideali dicostruzione di spazio alla base della legge urbanistica fondamentaledel 1947, Town and Country Planning Act, che ha istituito il sistemamoderno, siano stati accantonati.
Oggi la professione è sulla difensiva,pochi i pensatori innovativi, e certo non aiuta il livellosproporzionato dei tagli subiti, che anche secondo la Commissione dicontrollo governativa sono stati molto superiori a quelli di altrisettori delle amministrazioni. Secondo ricerche effettuate da questo,fra il 2012 e il 2014 i comuni dovrebbero tagliare sino al 58% deibilanci dell'urbanistica. Ed è davvero curioso che Silver abbiatratto ispirazione proprio dagli ideali del movimento inglese dellacittà giardino – fondato dal pioniere delle riforme sociali eterritoriali Ebenezer Howard nel secolo scorso – e dal principiodella fascia verde attorno alle città. Idee che hanno in gran partecontribuito al contenimento dello sprawl che caratterizza molte zonedegli Usa. “Valutiamo molto le vostre idee, la green belt, le cittàgiardino. Che via via abbiamo adottato. Ma la vera sfida resta quelladel vostro sistema di controllo a scala nazionale, che a noi manca.Abbiamo solo quelli statale e locale”.
Prosegue indicando altre importantidifferenze fra sistemi, come la maggiore divisione, in Inghilterra,fra la pianificazione spaziale e gli aspetti sociali: “Negli Usac'è maggiore integrazione, il processo democratico poi consente piùpartecipazione dal basso”. Silver si autodefinisce un “sanguemisto” metà nero e metà bianco, ed è fermamente convinto chel'urbanistica debba guidare non solo quartieri più etnicamenteintegrati, dal punto di vista razziale e di classe, ma rispondereanche ai nuovi problemi dell'invecchiamento e dell'immigrazione. “Incittà come la mia, Raleigh, ci riusciamo abbastanza. C'è unadifferenza fra ciò che a volte percepisce la gente e la realtà. Ecerto non si può impedire di avere particolari convinzioni einclinazioni. Ma l'urbanista sta in prima linea, deve porsi ilproblema e affrontarlo, non è più possibile evitarlo”.

Il Mondo, 24 aprile 1956). Lo ringraziamo. La lotta continua.

Resteranno sempre misteriose le ragioni che hanno spinto l'amministrazione democristiana di Roma a cercare una fine così ingloriosa come quella capitatale venerdì 6 aprile, nell'ultima tempestosa seduta del consiglio comunale. Solo un totale spregio dell'opinione altrui o una rata incoscienza o oscuro desiderio di dissolvimento possono avere indotto la giunta a sollecitare dal consiglio, allo scadere del suo mandato, l'approvazione di un progetto complesso, discusso e delicato, quale il monumentale albergo panoramico che la Società Generale Immobiliare, col contributo dell'americana Hilton Corporation, da qualche anno ha deciso assolutamente di costruire in cima a Monte Mario, superstite scenario verde nel desolato cementizio paesaggio romano.

Da mesi e da anni era nota la presa di posizione contraria di istituti culturali e tecnici, di parte della stampa e di personalità autorevoli; da mesi e da anni continuava la denuncia dell'inettitudine del Comune del salvaguardare il patrimonio artistico e naturale di Roma; da mesi e da anni, dopo le lotte per la Via Appia Antica e le rivelazioni fatte durante la discussione sul piano regolatore, il sottogoverno di Roma, in fatto di urbanistica ed edilizia, era diventato la favola di tutti; da mesi e da anni la Società Generale Immobiliare, per la enormità delle sue pretese e dei suoi profitti, era diventata emblema più adeguato, per l'eterna città, che non la lupa o la cupola di S. Pietro; da mesi "L'Espresso" andava conducendo la sua violenta campagna contro la straordinaria docilità dell'amministrazione verso la Società Generale Immobiliare; da mesi si sapeva che l'opposizione avrebbe dato battaglia. Niente da fare. La dura scorza dei democristiani capitolini è a prova di bomba: essi hanno preteso che il consiglio, in articulo mortis, applaudisse l'albergo panoramico della Società Generale Immobiliare a Monte Mario, come se si trattasse di un provvedimento urgente, necessario, indispensabile e di pubblica utilità. Bene sta, alla maggioranza, l'esito inglorioso dell'ultima seduta consiliare.

"L'Immobiliare paga bene deliberazioni come questa", esclamò a a mezzanotte un consigliere comunista, dopo che da sette ore durava l'efficiente opposizione della minoranza: scoppiava il tumulto, e il sindaco offeso toglieva la seduta, deludendo l'orgogliosa sicurezza della Società Generale Immobiliare. Tuttavia, valendosi di un articolo di legge, la giunta potrebbe ancora approvare il progetto dell'albergo Hilton a Monte Mario ma, a quanto si sente dire, non ne avrà il coraggio. E si spera che il nuovo consiglio comunale di Roma sia diversamente composto da quello appena scaduto.

L'ultima seduta del consiglio è stata interessante per tre motivi. In primo luogo ha mostrato nettamente la vacuità intellettuale della maggioranza democristiana, affatto impreparata a fronteggiare le argomentazioni pertinenti della minoranza, se non con boati e fiacche e approssimative concioni. In secondo luogo ha dimostrato che la maggioranza non può pretendere che la sua volontà sia democraticamente rispettata quando, già debole per il silenzio mantenuto di fronte alle accuse precise della stampa, essa non dà alla minoranza né il tempo né i mezzi per deliberare a ragion veduta, e nemmeno fornisce ad essa i documenti necessari come, nel caso, l'elenco delle proprietà, le relazioni tecniche dettagliate, la piena informazione sui particolari urbanistici della questione: da un anno la giunta conduceva le trattative con l'Immobiliare e improvvisamente ha messo la minoranza di fronte a una proposta eccezionale, alla variante di un piano particolareggiato, cioè alla conversione di un provvedimento di interesse pubblico in strumento di interesse privato. In terzo luogo la seduta è stata importante, perché ha finalmente richiamato l'attenzione generale sui problemi urbanistici di Roma: finalmente, c'è da sperare, i distratti e i profani si saranno accorti che anche la costruzione di un complesso alberghiero in cima a un colle, per i suoi aspetti sociali, economici, politici e giuridici, può portare con sé conseguenze assai gravi per il destino della città.

Si veda: La "Grande Bellezza" romana riunita ieri l'altro per festeggiare le cinquanta candeline dell'Hotel Hilton di Monte Mario (http://www.dagospia.com/rubrica-6/cafonalino/video-cafonalino-lhotel-hilton-compie-50-anni-ieri-fred-astaire-e-julia-roberts-oggi-58063.htm).

Dopo la pubblicazione dellʼarticolo di Salvatore Settis su La Repubblica del 1 giugno e le lettere apparse su La Repubblica di martedì 4 giugno di Ermete Realacci, Ilaria Borletti Buitoni e Andrea Carandini, ho cercato di approfondire i temi posti dal Progetto di legge Realacci sul consumo di suolo, anche alla luce delle note inviate da Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini.

Devo francamente dire che mentre ho apprezzato lʼimpostazione della lettera di Edoardo che si dichiara aperto ad un confronto nel merito per trovare le soluzioni più efficaci, non condivido le argomentazioni di Roberto Della Seta che sembra non ammettere contraddittorio, concludendo che Settis dovrebbe augurarsi che «...la proposta di legge Realacci diventi legge rapidamente e nella sua interezza, senza che ne venga cambiata nemmeno una virgola».

Ma veniamo al merito. Trattandosi di un testo di legge la questione è ovviamente complessa, anche perché ogni termine ed ogni comma dovrebbero essere attentamente analizzati e discussi al fine di valutarne le molteplici implicazioni e connessioni con le leggi oggi vigenti. Mi siano comunque consentite alcune prime, rapide e sommarie, osservazioni volte a motivare la mia richiesta di apertura di un confronto ad ampio raggio per la elaborazione di un diverso e più incisivo disegno di legge.

1. Eʼ ovviamente positiva la proposta di cui allʼart. 1 di istituzione di un Registro nazionale del consumo di suolo e la richiesta che il Ministro delle infrastrutture di concerto con il Ministro dellʼAmbiente presenti annualmente alle Camere un Rapporto sul consumo di suolo «... nellʼambito del quale sono individuati gli obiettivi di contenimento quantitativo da perseguire su scala pluriennale nella pianificazione territoriale ed urbanistica», obiettivi che dovranno essere successivamente articolati per ciascuna Regione in sede di Conferenza Stato - Regioni (osservo che la proposta di legge - contrariamente a quella dellʼallora ministro Catania - non prevede alcuna scadenza certa per molti di questi adempimenti).

Quello che però qui non si evidenza è che già oggi ci troviamo - per quanto concerne il consumo di suolo - in una situazione emergenziale e che nella situazione attuale, al di là degli aspetti programmatori, un progetto di legge deve necessariamente porsi anche lʼobiettivo di porre da subito un freno ad ogni ulteriore distruzione di risorse ambientali e di paesaggio. In attesa della definizione delle metodologie, del Registro, del Rapporto annuale e della Conferenza Stato Regioni occorre richiedere con forza una moratoria edilizia generalizzata. Va a tal proposito ricordato come nel già citato progetto di legge Catania si prevedeva che “per tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge al fine di consentire lʼattuazione di quanto previsto allʼart. 3 (quello che specificava lʼiter per la definizione del limite massimo di superficie consumabile a livello nazionale e locale, ndr) non è consentito il consumo di superficie agricola”.

Aggiungerei una ulteriore osservazione. Eʼ facile immaginare - come già è avvenuto nel passato - che nelle more della discussione parlamentare e dellʼapprovazione della nuova legge si scatenerà la corsa allʼadozione di nuovi piani attuativi, di nuove varianti ed al sovradimensionamento dei piani regolatori da parte dei Comuni meno virtuosi (purtroppo la grande maggioranza!). Ritengo fondamentale dunque che da parte nostra ci si batta per la prioritaria approvazione di un decreto legge che - proprio in vista dellʼavvio del dibattito parlamentare - stabilisca da subito, per almeno un anno e comunque sino allʼapprovazione della legge, detta moratoria edilizia ovvero lʼobbligo di non consumare suolo inedificato ed in particolare superficie agricola (dovendosi intendere per superficie agricola non solo i terreni qualificati tali dagli strumenti urbanistici, bensì anche le aree di fatto utilizzate a scopi agricoli indipendentemente dalla destinazione urbanistica e quelle comunque libere da edificazioni e infrastrutture suscettibili di utilizzazione agricola).

2. Lʼintroduzione di un “contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana” aggiuntivo rispetto ai normali oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione (art.2 della proposta di legge), può effettivamente essere considerato un deterrente nei confronti delle nuove lottizzazioni che prevedono lʼoccupazione di suolo inedificato (ovviamente se connesso al rispetto dei limiti che la legge dovrà imporre al consumo di suolo, al preventivo stralcio delle previsioni edificatorie non giustificate dallʼeffettivo fabbisogno e quindi se non concepito come semplice monetarizzazione di un danno che per altra via si potrebbe evitare). Detto contributo è previsto sia nel caso in cui con lʼintervento edilizio si occupino aree coperte “da superfici agricole in uso o dismesse” (duplicando gli oneri a carico del lottizzante) sia che si tratti di superfici coperte “da superfici naturali o seminaturali” (triplicando gli oneri). Nello stesso articolo si prevede però anche che il contributo non sia dovuto per interventi su aree edificate “o comunque utilizzate ad usi urbani o da riqualificare”. Eʼ una definizione ambigua che, a mio avviso, se non chiarita si presta a diverse interpretazioni. Mi chiedo se, ad esempio, rientrino in questʼultima casistica tutte le aree individuate dagli strumenti urbanistici vigenti come zone territoriali omogenee di cui alle lettere A), B), D),e F), di norma giuridicamente considerate come “aree urbanizzate” anche se di fatto possono comprendere ampi comparti non edificati. Se fosse valida questa interpretazione, se ne dovrebbe dedurre che i limiti al consumo di suolo ed i contributi penalizzanti verranno applicati solo alle nuove aree di espansione previste dai nuovi piani urbanistici.

Riterrei invece fondamentale, per contrastare il consumo di suolo, che la proposta di legge rimetta in discussione le previsioni dei Piani regolatori vigenti e non si accontenti di porre un limite alle ulteriori espansioni introdotte da nuovi piani regolatori o varianti di piano e che anche lʼeventuale edificazione di aree libere interne al “territorio urbanizzato” sia soggetta ad un contributo penalizzante (la cui determinazione richiederebbe un serio approfondimento di tipo economico in relazione alla rendita ed ai costi e benefici per la collettività)!

Il caso del Veneto è esemplificativo. La Regione Veneto, con lʼart. 13 della Legge urbanistica 11 del 2004, ha già previsto un limite alle trasformazioni dʼuso dei suoli agricoli utilizzati (Sau): un limite variabile tra lo 0,65 e lʻ1,3% della Sau esistente, in relazione alle diverse caratteristiche dei Comuni. Nellʼinterpretazione corrente (interpretazione che inutilmente, sino ad oggi, come Legambiente abbiamo tentato di contestare) detto limite viene applicato ai soli fini del dimensionamento delle potenzialità edificatorie aggiuntive previste dai nuovi Piani di Assetto Territoriale (Pat) redatti dai Comuni in attuazione della legge 11/2004. Si calcola che con questa norma di legge i nuovi piani urbanistici comunali approvati o in corso di approvazione non potranno consumare, nel prossimo decennio, più di 9.000 - 9.500 ettari di terreno agricolo. Il problema è che, dalle indagini effettuate dalla stessa Regione in occasione della redazione del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento del 2009, nei PRG vigenti già sono previsti oltre 75.000 ettari (pari ad un incremento del 40% del già urbanizzato) di nuove urbanizzazioni non ancora attuate, che spesso riguardano proprio aree aventi ancora caratteristiche agricole o comunque suscettibili di utilizzazione agricola!
Per detta ragione ritengo che nella legge debba essere previsto lʼobbligo per i Comuni di effettuare il censimento del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato e di quello sotto- utilizzato (inutilmente richiesto nei mesi scorsi da Salviamo il Paesaggio), individuando le aree e gli insediamenti degradati nei quali concentrare prioritariamente gli interventi di trasformazione urbana e di predisporre una Carta del consumo di suolo che evidenzi i terreni ancora utilizzati a fini agricoli, pur avendo altra destinazione di Piano, ed i terreni urbani e periurbani abbandonati ma potenzialmente riconvertibili ad attività agricole o a silvicoltura. Verificati i risultati di detto Censimento i Comuni dovranno procedere alla revisione ed allʼeventuale ridimensionamento delle previsioni dei piani urbanistici vigenti in relazione allʼeffettivo fabbisogno (determinato dalle Regioni e/o dalle Province in ambito sovracomunale, sulla base - per il fabbisogno abitativo - dei nuovi trend demografici e di uno standard volumetrico di non più di 150 mc/abitante) ed alla possibilità di riusare e riorganizzare gli insediamenti e le infrastrutture esistenti. (Eʼ forse a tal proposito opportuno ricordare che, contrariamente a quanto spesso interessatamente si afferma, se non è stato rilasciato il Permesso di costruire o se non è stato formalmente approvato un Piano Urbanistico Attuativo, per i proprietari di terreni che il PRG prevede edificabili non esistono “diritti acquisiti”. Come hanno fatto i Comuni di Udine e Desio, i piani regolatori - con adeguata motivazione - possono essere rivisti riducendo le precedenti previsioni di espansione urbana).

Sino allʼadeguamento degli strumenti urbanistici a quanto sopra previsto, va prescritto che i Comuni siano tenuti a sospendere ogni determinazione sulle domande relative ad interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica che interessino aree libere, siano esse interne od esterne alla perimetrazione del “territorio urbanizzato”.

3. Desta perplessità, in un disegno di legge che si dichiara finalizzato alla riduzione del consumo di suolo, lʼampio spazio dedicato alla proposta dei meccanismi della perequazione e della compensazione urbanistica, quasi fossero considerati essenziali allo scopo dichiarato (artt. 4, 6 e 7). Meccanismi che, peraltro, sono già da tempo normati ed applicati da larga parte delle Regioni ed enti locali con esiti in molti casi tuttʼaltro che entusiasmanti.
Quasi sempre infatti - comʼè avvenuto nel caso di Padova e come il nostro circolo denuncia da anni - la logica di fondo è stata quella di concedere nuove volumetrie edilizie ai proprietari privati di aree, non motivate da alcun reale fabbisogno (703 abitanti in più nel corso dellʼultimo decennio), ma giustificate con la necessità di far fronte alla scadenza dei vincoli sulle aree un tempo preordinate allʼesproprio per pubblica utilità e per acquisire “gratuitamente” aree utilizzabili da parte del Comune per la realizzazione di nuove “dotazioni territoriali” (verde, servizi, edilizia pubblica).
Nel 2004 a Padova, con apposita Variante di PRG (e con la consulenza di Federico Oliva, presidente dellʼINU), 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico sono state trasformate in aree di “perequazione urbanistica”, con un incremento di 2 milioni di mc di volumetrie edificabili. Si affermò allora che - data la scarsità di risorse finanziarie - questa era lʼunica strada per incrementare realmente e non solo sulla carta gli standard di verde urbano, prevedendo lʼobbligo per i privati di cedere al Comune - in cambio della nuova cubatura concessa - il 70 per cento della superficie territoriale. Questa distribuzione indiscriminata della perequazione in larga parte del territorio comunale, senza un chiaro disegno di rete ecologica e del sistema degli spazi aperti (la città pubblica), ha incentivato il brulicare di nuove lottizzazioni (pubblicizzate come “case nel parco”, data lʼampia dotazione di verde circostante, ed ovviamente poste sul mercato a prezzi astronomici) con in generale una frammentazione delle aree destinate a verde, formalmente di uso pubblico, ma spesso di fatto usufruibili solo da parte dei nuovi condomini. Per i non numerosi casi di cessione di aree di maggiori dimensioni, tramontata - per ragioni di bilancio - la possibilità di attrezzarle e gestirle come veri parchi urbani, lʼorientamento attuale dellʼAmministrazione comunale è quello di istituire orti sociali e parchi rurali, assegnandone la gestione ad associazioni e cooperative con finalità sociali. Unʼiniziativa che presenta interessanti aspetti positivi e che tendiamo ad appoggiare, anche se - considerato che quelle aree avevano già nella quasi totalità un utilizzo di tipo agricolo sia pure da parte di operatori privati - sorge inevitabile la domanda su quale fosse la reale necessità di destinarne quota parte allʼedificazione, con tutte le immaginabili, pesanti conseguenze anche in termini di infrastrutturazione e impermeabilizzazione del territorio.
Anche sullʼefficacia della “compensazione urbanistica” ai fini della riduzione del consumo di suolo, non pochi sono i dubbi. Valga anche in questo caso un esempio concreto riferito alla nostra città, dove si sta programmando la realizzazione di un nuovo ospedale su di unʼarea di 600.mila mq di terreni agricoli. Per lʼacquisizione delle aree - in alternativa allʼesproprio, che come sappiamo deve oggi avvenire a prezzi di mercato - vi è chi ha proposto di attribuire ai proprietari privati quote di edificabilità non utilizzabili in loco, bensì da trasferire in altri comparti urbani (di proprietà pubblica? di proprietà privata, aumentandone gli indici di edificabilità?), previo accordo per la cessione al Comune delle aree necessarie per il nuovo complesso ospedaliero.
Esempi di perequazione e di compensazione urbanistica che non riducono certo il consumo di territorio. Di fatto con questi meccanismi il Comune cerca di sopperire alle proprie difficoltà di bilancio sovradimensionando le previsioni di piano ed incentivando lʼattività delle immobiliari private, alle quali viene richiesto un “contributo” corrispondente ad una quota parte delle rendita fondiaria derivante dallʼaver trasformato la destinazione dʼuso delle aree.
Con questo non si vogliono demonizzare in assoluto gli strumenti della perequazione e della compensazione che alcuni Comuni hanno saputo utilizzare in modo più mirato ed intelligente (ad esempio Ravenna, per la formazione di una green belt urbana, paracadutando le quote di edificabilità aggiuntiva attribuita a queste aree nella ristrutturazione della darsena). Mi limito però ad osservare che se si vuole affrontare la questione in termini innovativi ed in connessione al consumo di suolo, occorre predisporre una normativa meno generica, ben più finalizzata e cogente di quella prevista dal progetto di legge.

4. Lʼarticolo 5 affronta il tema del “Comparto edificatorio” finalizzato alla realizzazione degli obiettivi di riqualificazione urbanistica e ambientale individuati dal Piano regolatore. Eʼ senza dubbio una proposta positiva, che riprende e cerca di rendere operativo quanto un tempo previsto dalla Legge urbanistica del 1942. Dalla lettura del primo comma sembra però che lʼiniziativa sia principalmente delegata ai privati (“Su invito del comune o per propria iniziativa, i proprietari di beni immobili compresi in un comparto possono riunirsi in consorzio e presentare al comune il piano urbanistico attuativo riferito allʼintero comparto”). Anche in questo caso riterrei invece importante che il disegno di legge sollecitasse ed incentivasse un ruolo attivo della pubblica amministrazione per la redazione dei relativi piani urbanistici attuativi.

5. Anche il tema della tutela del paesaggio (citato solo di passaggio nel terzo comma dellʼarticolo 1) e delle sue connessioni con il tema del consumo di suolo, e quindi la ricerca di una possibile integrazione tra le nuove norme proposte e quelle previste dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio per i piani paesaggistici richiederebbero un ben più ampio sviluppo... ma è un capitolo troppo vasto, che non oso qui affrontare per non appesantire queste già pesanti note.

Quelle indicate sono evidentemente solo alcune delle problematiche sollevate dal progetto di legge Realacci. Ritengo però che forniscano motivi sufficienti per richiedere un approfondimento del dibattito allʼinterno della nostra associazione e per aprire un confronto aperto con le altre associazioni e forze politiche che stanno cercando di mettere a punto nuove più efficaci norme per ridurre il consumo di suolo e per salvare il paesaggio.

Il manifesto, 6 giugno 2013

La proposta di legge presentata alla Camera dei deputati da Realacci ed altri, in data 15 marzo 2013, si inscrive a buon diritto tra le cosiddette leggi ad personam, con la sola variante che si tratta non di una, ma di più persone: i costruttori edili. Dunque, una legge ad personas. Il metodo seguito è sempre lo stesso: «l'obiettivo dichiarato» è quello di «limitare il consumo del suolo», ma il vero obiettivo che si raggiunge è un «aumento del consumo di suolo ad esclusivo vantaggio dei costruttori».
Il dato saliente di questa proposta, evidentemente diretto a far colpo sull'opinione pubblica, è quello di «imporre» (art. 2) un «contributo» in danaro ai costruttori che consumano suoli non ancora edificati, per costituire un fondo da destinare al risanamento urbano. Sennonché, si stabiliscono subito modalità tali, che questo fine, per così dire scoraggiante, appare immediatamente privo di qualsiasi forza di convincimento. Tanto per cominciare (art. 2, comma 1), il «contributo» che dovrebbe funzionare da remora per il consumo dei suoli «non è definito nel suo ammontare», prevedendosi che esso debba essere stabilito in base alla perdita del valore ecologico, ambientale e paesaggistico delle aree edificate. In sostanza, stante l'inesistenza di criteri di determinazione, l'ammontare in questione è rimesso alla piena discrezionalità degli amministratori comunali, i quali devono semplicemente ispirarsi alle «leggi statali e regionali». Inoltre, si prevede che i costruttori possano anche «sostituire il contributo», «previo accordo con i comuni» (art. 2, comma 3), con la «cessione compensativa» di aree «con il corrispondente vincolo a finalità di uso pubblico», «per la realizzazione di nuovi sistemi naturali permanenti», «nonché percorsi pedonali e ciclabili». Inoltre, sempre a vantaggio dei costruttori, si prevede l'individuazione, da parte dei comuni (art. 3, comma 1), di «ambiti caratterizzati da degrado, da assoggettare ad interventi di rigenerazione urbana», edificati o non, per i quali, in caso di nuove costruzioni su terreni non ancora edificati, si prevede un «regime agevolato» (art. 3, comma 3) consistente nella «riduzione del contributo di costruzione», ed in ogni caso una «riduzione dell'aliquota dell'Imu» e «l'attribuzione di diritti edificatori» sulle «aree immobiliari non ancora edificate», e , per di più «uno strumento finanziario (art. 3, comma 5) da parte della Cassa depositi e prestiti, garantito da beni demaniali», per fornire «condizioni finanziarie e tassi di interesse vantaggiosi per l'investimento dei privati», arrivandosi così all'assurdo di dare in garanzia i «beni demaniali», che, come tutti sanno, sono «inalienabili, inusucapibili ed inespropriabili».

Si prevede ancora una «perequazione urbanistica» (art. 4, comma 1), che consiste nella distribuzione di «diritti edificatori» da parte degli «strumenti urbanistici», nonché dei relativi «oneri», in modo da rendere equa la situazione di «tutti gli immobili che si trovino in analoghe condizioni di fatto e di diritto» e si prevede altresì (art. 5, comma 1), e qui si tocca il culmine, un «comparto edificatorio», il quale «riunisce le proprietà immobiliari per le quali gli strumenti urbanistici prevedono una trasformazione unitaria», e cioè (art. 5, comma 3) «un piano urbanistico attuativo convenzionato», concordato cioè tra comune e costruttori, che può anche prevedere che la trasformazione sia attuata tramite un «permesso di costruire convenzionato». Si prevede infine l'acquisto gratuito da parte dei comuni di immobili privati, dando in cambio «l'attribuzione di quote di edificabilità». Insomma, è chiaro a tutti che questa proposta di legge, anziché limitare il consumo di suolo, fa di tutto per incentivarlo, e per favorire i costruttori. Ci sono ancora altre numerose amenità, ma si è detto abbastanza perché si capisca che si tratta di una proposta di legge «ingannevole», che mira all'emanazione di una vera e propria «legge truffa».
riferimenti.

Vedi in proposito l'articolo di Salvatore Settis, la difesa della "minaccia Realacci Lanzillotta" del presidente dell'INU e la mia postilla che la commenta. Sono depositati in Parlamento altri disegni di legge che esaminerò per i frequentatori di questo sito appena sarà nelle condizioni di farlo. A meno che un improvviso colpo di fortuna (non possiamo affidarci che alla dea bendata) induca gli eletti a tornare al Mattarellum e a sciogliere le camere, restituento per qualche settimana lo scettro al popolo.

eddyburg, dedicati a ricordare una studiosa di problemi ambientali e una comunista, e a imparare ancora da lei. Il convegno, “Per un nuovo ecologismo. Laura Conti vent’anni dopo”, si svolgerà sabato 8 giugno a Mestre, in calce il link al programma


Ci sarà a Venezia sabato prossimo, un convegnodedicato a Laura Conti. Promosso dall’associazione“Gli asini” e la rivista “Lo straniero” con il sostegno e il patrociniodell’Assessorato all’Ambiente del Comune di Venezia. Titolo del convegno è “Perun nuovo ecologismo. Laura Conti vent’anni dopo”, esso si svolgerà sabato 8giugno 2013 dalle 9:00 alle 19:00 presso la Plip Centrale dell’Altraeconomia diMestre. Il dibattito partirà da una serie di relazioni e interventi cheillumineranno vari aspetti dall’esperienza e dall’opera di Laura Conti, medico,partigiana e ambientalista, autrice, tra l’altro, di Checos’è l’ecologia (in ristampa per le Edizioni dell’Asino, con lerevisioni volute dall’autrice) scomparsa nel 1993. Vedendo tra i partecipantil’amico, e “opinionista" di eddyburg, Giorgio Nebbia l’ho pregato di inviare peri nostri frequentatori un suo ricordo di Laura Conti. Non l’ho conosciutapersonalmente ma ricordo con emozione i suoi libri (in particolare Una leprecon la faccia di bambina) e i suoi illuminanti articoli su l’Unità di queglianni. Anni in cui l'ambientalismo, quando c'era, era una cosa seria e non sconfinava nella "green economy" (e.s.)

LauraConti è stata moltissime cose insieme: ci piace ricordarne due aspetti, quellodi studiosa di problemi ambientali e quello di comunista. Ho usato apposta iltermine di "studiosa" piuttosto che quello più comune di"ambientalista", perché alla difesa della natura e dell'ambienteLaura Conti è arrivata con il suo bagaglio di studi e di conoscenze di medico equindi di umanità e di amore per gli esseri viventi.
La suastoria - che spero qualcuno un giorno scriverà compiutamente, anche utilizzandole testimonianze della sua avventura umana che Laura ha lasciato neimolti libri e negli innumerevoli colloqui con innumerevoli persone - l'haportata ad una visione unitaria dei rapporti fra natura e esseri umani: donne euomini lavoratori, inquinati, giovani militanti del cambiamento.
Così èstata in mezzo agli operai nelle lotte per migliori condizioni di lavoro; alcentro di ogni iniziativa ecologica; fra le donne di Seveso (investite da undramma umano senza precedenti, dopo la fuoriuscita della diossina dall'ICMESA,il 10 luglio 1976), a cui ha dedicato "con amore" delle paginebellissime; è stata protagonista di infinite battaglie per una agricolturadiversa, per una caccia diversa .
Lo stessoamore l'aveva animata, giovane partigiana, nella lotta di Liberazione, e l'haportata nelle amministrazioni provinciale di Milano, regionale della Lombardia,nel Parlamento nazionale.
Eppure,per come la ricordo, mai ho pensato di associare a lei nessun appellativo diquelli a cui i miserabili tengono tanto: "onorevole","presidente". Eppure onorevole è stata davvero perché ha fatto onorealla Regione e al Parlamento con la sua passione e il suo rigore, nelleCommissioni e nelle piazze; presidente è stata, fra l'altro, a lungo, delComitato scientifico della Legambiente. Nel suo lavoro, nei dibattiti, era"la Laura", non una donna del palazzo, ma quella che scriveva, chetestimoniava, che dava suggerimenti, che litigava, anche, talvolta anchestizzosa nei confronti delle cose che riteneva che non fossero giuste.
Nonavrebbe, a mio parere, potuto essere quella che è stata se non avesse deciso diessere comunista: una comunista convinta e austera, una delle prime persone cheha riconosciuto nella violenza alla natura uno dei tanti aspetti della lottadel capitale contro la vita, contro gli esseri umani. Quando ancora pochidiscutevano dei rapporti fra capitalismo e distruzione della natura aveva messoin evidenza che il rispetto della natura e della vita sarebbe stato possibilesolo con una dura e continua lotta alla società del profitto.
Ma LauraConti non era soltanto la militante comunista e delle lotte ecologiche: eraanche una donna straordinariamente generosa e disponibile. Era disposta adandare a parlare dovunque, negli affollati congressi, dove era sempre ascoltatacon rispettosa attenzione, e nei piccoli circoli dove la sua presenza erainvocata (mi si passi questo verbo) e dove forse andava ancora più volentieriche altrove.

Eragenerosa con gli amici e con le persone che appena conosceva e con tutte leforme della vita, vegetale e animale, come dimostra il suo amore per i gatti.Molti hanno citato questo aspetto, talvolta con un filo di ironia come puòvenire da chi non ha un rapporto umano con gli altri animali. Ricordo di averlavista piangere per la morte di una sua anziana gatta; le volevo bene ancheper questo.

Qui il programma del convegno

Un pessimo piano urbanistico alla luce di un’ottima proposta di modifica d’una pessima legge regionale. Il tutto nella città di Matteo Renzi. Intervento al convegno organizzato dalla "Lista di cittadinanza perUnaltracittà", 22 aprile 2013 Lo pubblichiamo tardivamente, ma in certi casi è meglio tardi che mai.
Firenze: un piano già vecchio.alla luce delle modifiche proposte per la LR 1/2005.
Intervento al convegno “Per una nuova urbanistica regionale. La riscrittura della legge sul governo del territorio”, Firenze, Palazzo Vecchio, 23 aprile 2013

La legge urbanistica regionale (LR 1/2005) è uno dei frutti più maturi dell’«esasperata concezione del pluralismo istituzionale paritario, derivato dalle infelici modifiche al titolo V della Costituzione». L’attuale proposta di modifica mira a contenere il consumo di suolo, incrementando la pianificazione sovracomunale, e a coordinare e omogeneizzare gli atti di governo del territorio al fine di conferire loro la necessaria trasparenza ed efficacia.

Dare trasparenza ed efficacia al piano strutturale fiorentino, approvato con pompa mediatica nel giugno 2012 a cinquant’anni esatti dal piano Detti, è opera ardua. Del piano strutturale è stata criticata l’assenza di un’idea specifica di città, l’esiguità dell’indagine conoscitiva, la non convincente formulazione delle invarianti strutturali e la mancanza di strumenti di tutela specifica del centro storico. Il piano si presenta come mera sommatoria di slogan, tra i quali i “volumi zero”, smentiti, a pochi mesi dalla sua approvazione, dai grandi volumi edilizi già partiti in variante al vigente PRG – dodici in tutto, tra cui la Manifattura Tabacchi. Nelle righe che seguono vedremo come l’applicazione della proposta nuova legge urbanistica contribuirebbe a dare alla città di Firenze un piano e un regolamento urbanistico di effettiva valenza pianificatoria. Ci concentreremo in particolare sugli aspetti inerenti la parte statutaria del piano, sul riconoscimento, interpretazione e rappresentazione dei fenomeni territoriali di lunga durata, sul possibile rapporto città-campagna.

Le modifiche proposte dall’assessore Anna Marson (che per comodità chiameremo “proposta Marson”) danno qualità culturale alla legge vigente. Fondamentale in tal senso il passaggio dal concetto di “risorsa” e “prestazione” territoriale, a “patrimonio territoriale”, ovvero il passaggio dal valore di scambio (risorse), al valore di esistenza e di uso (patrimonio) insito nel paradigma adottato dalla legge. Per patrimonio territoriale, si legge nel proposto art. 3, c. 1, «si intende l’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future». Si passa così dalla “tutela delle risorse” alla «promozione e garanzia di riproduzione del patrimonio territoriale» attribuendo, positivamente, accezione evolutivo-genetica ai contenuti di legge e dunque ai futuri piani e progetti urbanistico-territoriali.

Gli elementi che costituiscono il patrimonio – «la cui percezione da parte delle popolazioni esprim[e] l’identità paesaggistica della Toscana» (è evidente la citazione della Convenzione europea del paesaggio) – derivano dalla lettura strutturale del territorio e si riferiscono alle quattro voci dei sistemi: idrogeomorfologico; ecosistemico; insediativo; agroforestale. Esse richiamano le invarianti sui cui si fonda il piano paesaggistico, contenuto a sua volta nel piano di indirizzo territoriale e attualmente in fase di revisione.

La proposta Marson rafforza il côté statutario dell’impostazione legislativa che separava, fin dalla sua prima versione (LR 5/1995), il piano urbanistico in: parte statutaria, appunto, e parte operativa. Lo statuto, «atto di riconoscimento identitario mediante il quale la comunità locale riconosce il proprio patrimonio territoriale e ne individua le regole di tutela, riproduzione e trasformazione», sarà costruito con la partecipazione dei cittadini. Le «invarianti strutturali», già previste dalla citata LR 5, vengono ora definite con chiarezza, lasciandosi alle spalle il fumoso articolo 4 della LR1/2005, perla nera di quel pessimo italiano che, lungo tutto l’articolato, si è dimostrato funzionale alla creatività esegetica e, quindi, speculativa (non solo in senso filosofico). Le invarianti strutturali si attengono agli aspetti morfologici del patrimonio territoriale, agli assetti tipologici, alle loro interrelazioni e alle «regole generative, di manutenzione e di trasformazione del patrimonio territoriale che ne assicurano la persistenza» (versione proposta, art. 4, comma 1, lett. c).

Gli atti della pianificazione dovranno adeguarsi al paradigma interpretativo sopra esposto: ne discende che il PS fiorentino, nella sua parte strutturale, sarà totalmente da riscrivere. Basti ricordare in questa sede che le quattro invarianti strutturali riconosciute («nucleo storico»; «tessuti storici e di relazione con il paesaggio aperto»; «i fiumi e le valli»; «il paesaggio aperto» [sic! cfr. la tav. 2 (Invarianti strutturali) facente parte dei documenti del PS] e sommariamente concepite come areali non arrivano a coprire l’intero territorio comunale. La villa medicea di Careggi, la sequenza dei borghi medievali lungo la via Pistoiese, l’area di Castello, Novoli, rientrano senza distinzione nel dominio dell’hic sunt leones. Il travisamento concettuale dello statuto del territorio, strumento fondativo di riconoscimento dei principi della pianificazione comunale, è palesemente dimostrato dall’inserimento dello stesso nelle norme tecniche di attuazione (un po’ come se la carta costituzionale si venisse a trovare inglobata nel novero delle leggi ordinarie).

Per scontentare preventivamente quei comuni che finora hanno flirtato con i poteri forti della speculazione fondiaria, la proposta Marson ristruttura il comma 4 dell’art. 3, attualmente vigente ma mai attuato, il quale sanciva che «nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti» (LR 1/2005). Il comma è approfondito e si trasforma in un articolo autonomo (art. 3 bis, Condizioni per le trasformazioni) che perentoriamente definisce il territorio urbanizzato, tracciando idealmente una linea rossa tra città e campagna. Ne riportiamo la definizione: «Il territorio urbanizzato è costituito da: i centri storici, le aree residenziali edificate con continuità dei lotti, gli insediamenti produttivi, commerciali, direzionali, le attrezzature e i servizi, gli impianti tecnologici, i lotti interclusi dotati di opere di urbanizzazione primaria. Non sono considerate territorio urbanizzato le aree che presentano caratteri riconoscibili di ruralità, ancorché incluse al suo interno, così come i singoli edifici, l’edificato sparso o discontinuo nonchè i borghi presenti nel territorio rurale» (prop. Marson, art. 3 bis, comma 3).

In conformità con il principio espresso al comma 1 del medesimo articolo, per cui «nessun elemento costitutivo del patrimonio territoriale [...] può essere ridotto in modo significativo e irreversibile», fuori dal territorio urbanizzato è impedito qualsiasi nuovo impegno di suolo non edificato. Nel caso in cui invece lo strumento urbanistico comunale proponga nuovo impegno di suolo al di fuori delle aree urbanizzate, «limitatamente a destinazioni produttive, infrastrutturali e di grandi strutture di vendita» (ma non residenziali, che non sono consentite eccetto eventualmente le residenze rurali), le trasformazioni saranno consentite previa verifica di sostenibilità per ambiti di area coincidenti con gli ambiti di paesaggio (ai sensi del CBCP art. 135, c. 2) su cui è impostato l’elaborando piano paesaggistico; procede alla verifica di sostenibilità una “conferenza di pianificazione”, in cui la Regione avrebbe «parere vincolante» (prop. Marson, art. 17 septies).

Torniamo al PS del Comune di Firenze. Malgrado i proclami dei “volumi zero”, affidati dal sindaco all’etere peninsulare, il piano si è guardato dal definire e riconoscere i confini dell’urbanizzato: sappiamo che il PS non è conformativo della proprietà e pertanto siamo in attesa di vedere se un segno di tanto peso sarà tracciato nel regolamento urbanistico. Nelle intenzioni dell’assessorato, per ora, non se ne legge alcun indizio. Come non vi è traccia di una proposta organica a scala urbana del riuso dei contenitori dismessi sui quali dovrebbe concentrarsi il disegno dell’assetto futuro della città che non cresce. Si tratta di un enorme patrimonio pubblico e privato, in dismissione o già vuoto, sul cui destino il documento di avvio del regolamento urbanistico si chiede: «chi è in grado di dire – oggi – quale mix di funzioni potrebbe essere sostenuto da quegli edifici?» Al fine di definire le previsioni del RU, il Comune procede alla consultazione dei proprietari di immobili in trasformazione di superficie maggiore ai 2000 mq, facendo uso del “bando di pubblico avviso” – peraltro emanato dal sindaco con propria “determina”, senza passare dalla discussione in Consiglio. Il “pubblico avviso”, strumento previsto dall’art. 13 del reg. 3/R/2007 alla LR 1/2005 (con criteri più inclusivi rispetto a quelli individuati a Firenze) va nella direzione dell’esproprio della titolarità pubblica della pianificazione: pertanto auspichiamo che, a legge riscritta, si abroghi questo istituto che contribuisce fortemente alla degenerazione in senso privatistico dello strumento urbanistico.

A rafforzare la portata innovativa della linea rossa – invisa all’ANCI, all’INU e all’assessore Meucci di conserva – è la previsione di possibili “ambiti di pertinenza” paesaggistica. Si tratta di una disposizione presente nella letteratura urbanistica: ricordiamo, in Toscana, il PTCP di Siena, arch. Gian Franco Di Pietro (e ora ritoccato dalla matita consenziente di Silvia Viviani), che definiva le aree di pertinenza paesistica di centri urbani, aggregati, ville ed edifici specialistici, eliminate tuttavia in fase di approvazione del piano (che amplificava il malessere dei comuni con la contestuale previsione dell’ “ambito preferenziale di completamento e crescita urbana”). Oppure, nella pianificazione delle regioni a statuto speciale, la cosiddetta Tutela degli insiemi o Ensembleschutz messa in atto dalla legge urbanistica della Provincia di Bolzano che riconosce il valore paesaggistico-memoriale di insiemi formati da manufatti edilizi e rurali, sottoponendoli a specifica normativa relativa alle relazioni intercorrenti tra gli elementi dell’insieme stesso. Anna Marson propone che nei propri piani strutturali i comuni, oltre ad individuare gli ambiti di pertinenza dei centri e nuclei storici, identificandone gli aspetti di valenza paesaggistica da mantenere e riprodurre, definiscano le aree caratterizzate dalla prossimità con il territorio urbanizzato, definite “ambiti periurbani”. In riferimento alle corone dei centri urbani e delle periferie, tema oggi al centro delle riflessioni disciplinari, le proposte per la nuova legge urbanistica raggiungono una lucidità progettuale che chiama in causa l’intersettorialità necessaria alla buona pianificazione territoriale: i piani di settore dovranno promuovere «il sostegno di tutte quelle forme di agricoltura che possano garantire il mantenimento o il recupero delle sistemazioni agrarie tradizionali di valenza anche paesaggistica» (proposta Marson, art. 41, c. 2), nonché, nelle fasce periurbane, «quelle forme di agricoltura utilmente integrabili con gli insediamenti urbani, dagli orti sociali all’agricoltura multifunzionale» (ivi, art. 42, c. 2) salvaguardando gli elementi del paesaggio rurale storico ancora presenti, favorendo il loro incremento, e garantendo le connessione ecologiche e fruitive tra il territorio urbanizzato e quello rurale.

Arriviamo infine alla definizione dei contenuti degli atti di governo del territorio (ivi inclusi anche i piani intercomunali promossi dall’assessorato), limitandoci nella nostra analisi ai piani comunali. La parte statutaria dovrà contenere il quadro conoscitivo redatto ai sensi di quanto già detto sopra in merito a invarianti e riconoscimento del patrimonio territoriale, la perimetrazione dei centri e dei nuclei storici (oltre a quella delle aree di pertinenza) e delle aree urbanizzate, l’individuazione delle invarianti strutturali, nonché le regole di tutela e disciplina del patrimonio territoriale, comprensive dell’adeguamento alla disciplina paesaggistica del PIT (prop. Marson, art. 53). In molti dei passaggi sottolineati in queste pagine, risulta evidente l’interconnessione tra le proposte di legge e la disciplina pasaggistica. Attraverso questi due strumenti, legge regionale riformata e nuovo piano paesaggistico, l’assessorato Marson – senza intaccare l’autonomia – tenta la messa in pratica di politiche locali coordinate e omogenee nel segno dell’innalzamento della qualità degli ambienti di vita, della tutela e della riproducibilità dei paesaggi regionali. Con l’appoggio, per ora, di comitati e movimenti.

Una discussione che riguarda solo la Toscana: vogliamo la sussidierietà alla Jacques Delors o alla Bossi-Bassanini? Un articolo da perunaltracittà, 22 aprile 2013, con postilla

E' interessante il dibattito che si è acceso sulle proposte di revisione della Legge regionale urbanistica presentate dall’assessore Anna Marson. Si tratta di un tentativo di rimettere ordine nei concetti di base del governo del territorio, di sistematizzare definizioni e categorie per meglio individuare le risorse di un territorio di eccezionale valore come quello toscano, ma di cui conosciamo anche la fragilità. Ecco allora i principi di base come riferimento per tutti i livelli della pianificazione: sostenibilità, non riduzione delle risorse, riduzione del consumo di suolo, meglio articolati e definiti rispetto alle precedenti vesti normative. Una operazione culturale prima di tutto, che andrebbe considerata nel suo insieme, prima di vedere le virgole delle procedure.

La proposta ha già sollevato critiche da parte di alcune amministrazioni comunali, tra cui quella fiorentina, per una una presunta perdita di autorità e autonomia del Comune rispetto ad una Regione che tornerebbe ad essere Ente sovraordinato: si è letto di approvazione regionale dei piani, di potere di veto, di modello gerarchico. Eppure se prendiamo il testo della norma si cerca – inutilmente – traccia di tutto questo.

Gli articoli 15 e 17 disciplinano la formazione degli strumenti urbanistici, tutti, da PIT al PTC al Piano strutturale. E per tutti c’è l’adozione e l’approvazione da parte dell’Ente che lo promuove e la presentazione di osservazioni da parte di chiunque. Ma sempre il Comune decide sulle eventuali osservazioni e dà conto delle proprie determinazioni in sede di approvazione.

Quindi nessuna “approvazione“ da parte di un Ente sovraordinato, e nessuna espropriazione delle competenze dei Comuni. Semmai, aggiungiamo, come siano state usate queste competenze e questa libertà da parte di molti comuni dovrebbe essere oggetto di opportune valutazioni. Ma forse quello che suscita scandalo sono i poteri della Commissione paritetica. Vediamo: nel caso la Regione rilevi una violazione delle norme generali, può richiedere la pronuncia della Commissione, che è formata da rappresentanti della Regione, della Provincia e del Comune in pari numero. Qualora la Commissione accerti la sussistenza di tale contrasto, a differenza che nel passato, l’adeguamento è obbligatorio. Ma si tratta, ricordiamolo, di accertati contrasti con norme di legge. Non sarà che una delle critiche mosse (“c’è troppa pianificazione”) rispecchi le opinioni di chi alla chiarezza preferisce la libertà dell’opinabile?

Di tutto questo si parla domani pomeriggio [il 23 aprile]in Palazzo Vecchio alle ore 16.30 (Sala delle Miniature) nell'incontro organizzato da perUnaltracittà “Per una nuova urbanistica regionale”, con interventi di urbanisti, professionisti, docenti universitari e comitati.

Postilla

Non so com'è stato il dibattito né quindi si sia reagito alla preoccupazione dei comuni. La questione sottesa alla citica all'a presunta ingerenza regionale ha una portata vasta. ed è una questione nodale per chiunque creda che la pianificazione del territorio sia necessaria, che essa sia un diritto/dovere delle istituzioni della democrazia e che queste siano oggi ancora quelle stabilite da quel monumento della nostra civiltà che è la Costituzione della Repubblica. La questione è quella del cosiddetto " principio di sussidiarietà. Di questo esistono due versioni: una europea, elaborata da Jaques Delors e iscritta nei codici dell'Unione europea, e una italiota, che è dovuta all'infecondo connubio tra Umberto Bossi e Franco Bassanini: tra laLega Nord el'ex PCI nella fase iniziale del suo disfacimento. Molto sinteticamente (ma rinvio chi voglia comprendere, o ricordare, meglio a un mio scritto nell'archivio di eddyburg (e precisamente qui). Nell'interpretazione italiota la sussidiarietà significa "tutto il potere al basso", secondo quella europea significa invece "ad ogni livello istituzionale del sistema democratica appartenga la responsabilità delle scelte relative agli oggetti e aspetti della vita del territorio che a quel livello si possono governare con migliore efficacia.. Nello scritto cui ho appena rinviato potrete trovare un'argomentazione un po' più ampia e, forse convincente dell'utilità che Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune siano tutti coinvolti nella discussione e valutazione delle opzioni (e magari pure i cittadini), ma che la decisione ultima spetti a chi può farlo meglio. tenendo conto del fatto che, in particolare oggi, se non decidono secondo logiche coerenti i poteri istituzionali della nostra democrazia agiscono altri poteri, mossi da altri interessi e legati tra loro da altre convenienze.



Corriere della Sera, 11 aprile 2013 (f.b.)

Molti di coloro che l'hanno visitata, decidendo di svoltare la macchina da Phoenix sulla route 17 in direzione Sedona — perché lì c'è la città dell'architetto visionario, la Blade Runner hippy — sono rimasti un po' delusi di quanto fosse indietro la costruzione del luogo utopico di Arcosanti. «Ci manteniamo vendendo campane di ceramica», si giustificavano con i 50 mila visitatori all'anno i tanti studenti - stagisti o stanziali (7 mila in tutto) — che spiegavano cosa stesse nascendo lì, tra i cactus del deserto dell'Arizona. «La ricchezza di questo luogo — spiegavano — consiste non nell'avere di più, ma nell'aver bisogno di meno».

Beata gioventù, beat, spirituale, on the road! L'idea che la frontiera americana fosse anche la frontiera ideale per costruire una nuova «città del Sole» venne all'architetto torinese Paolo Soleri, scomparso novantatreenne il 9 aprile (come il suo maestro Frank Lloyd Wright), alla metà degli anni Sessanta. Di città utopiche l'architettura si è sempre nutrita: Tommaso Moro, Giovanni Botero, Tommaso Campanella… e, poi, i grandi architetti rivoluzionari francesi del Settecento come Boullée, Ledoux, Durand, padri ideali del Movimento Moderno secondo lo storico Emil Kaufmann. Solo che quasi tutte queste gigantesche città ideali sono rimaste sulla carta: disegni o parole. Soleri, invece, era partito dal Parco del Valentino (sede del Politecnico di Torino dove si era laureato nel '46) animato dallo spirito del socialismo utopistico ottocentesco di William Morris e di John Ruskin, per fondarne una. Era partito come i pioneri che avevano fondato l'America per declinare questo utopismo «Art and Craft» ai suoi giorni, facendolo incontrare con la beat generation e un po' di New Age, che aveva in Sedona la sua capitale. È vero: erano i tempi di Bob Dylan, Joan Baez, e Arcosanti, la città ispirata a una nuova disciplina ecologica chiamata «arcologia», poteva nascere persino non lontano dalla downtown di Los Angeles con vista sui vizi dello show-biz di Hollywood.

Arcologia, ovvero un misto di angelico, di romano (l'arco) e di utopistico che aveva in sé le stimmate del non-finito: non poteva concludersi quel luogo, solo rimanere un on the road dell'architettura, città nata in «rovina» e, pertanto, come diceva il filosofo Georg Simmel, essenza stessa dell'architettura in quanto rappresentazione dello sforzo spirituale dell'uomo d'innalzare e della Natura di distruggere.

Soleri, nato a Torino il 21 giugno 1919, iniziò a costruire Arcosanti nel 1970, prototipo di città per 5 mila persone i cui primi abitanti furono lui e sua moglie Colly, trasferitisi in Usa nel '47. Lui era andato a lavorare nello studio di Taliesin di Frank Lloyd Wright, il grande maestro di quell'architettura organica che gli servì come approccio per costruire luoghi che sfruttassero il meno possibile risorse e ambiente. Nel '65 annunciò su «L'Architecture d'Aujourd'hui» l'intenzione di realizzare una grande struttura per la Nuova Cosanti su un terreno a 60 miglia a nord di Phoenix. La fondazione messa su da lui riuscì ad acquistare 60 acri di terreno e a ottenere la concessione per lo sfruttamento di altri 800 acri confinanti. Il luogo scelto fu la parte terminale di una gola che si affaccia sulla valle del fiume Agua Fria. Iniziò un rito, una performance: arrivarono gli studenti peace-love-freedom dell'Arizona e si cominciò a costruire, con mattoni realizzati a mano, archi, case e stazioni di osservazione delle costellazione, quasi sul modello dell'osservatorio astronomico di Jaipur. L'idea urbanistica è quella dell'implosione, cioè dell'accorpamento delle varie finalità in un corpo organico collettivo (vedi anche il progetto per Mesa City del '59). Le aeree liberate dai mega accorpamenti dovevano servire per l'agricoltura o il godimento naturale. «Questo forma un ecosistema», diceva Soleri.

A parte i laboratori urbani di Cosanti e Arcosanti, in Arizona, Soleri progettò nel '96 un Hyper Building, una città-satellite autonoma da costruire in pieno deserto Mojavé composta da un edificio-torre alto un chilometro, che doveva ospitare 100 mila abitanti: un mammuth che ricorda Metropolis di Fritz Lang o lo scenario di Il condominio di James Ballard. Riuscì a costruire un ponte a Scottsdale e una fabbrica di Vietri sul Mare. Ascetico e visionario, non si stancò mai di sognare mentre l'architettura era diventava speculazione, esibizione... Venne premiato tardi: nel 2000 Leone d'oro alla Biennale (che ieri lo ha ricordato) e nel 2006 Cooper Hewitt Award. Nel 2005 il Maxxi gli dedicò una mostra, nel 2003 Jaca Book ha pubblicato un suo Itinerario di architettura. Lascia due figlie, Kristine e Daniela, che svolgono ricerche urbane presso la Cosanti Foundation. Il funerale sarà privato ad Arcosanti e il corpo tumulato a fianco di quello della moglie Colly, morta 31 anni fa. Un public memorial sarà celebrato ad Arcosanti.

L'Alto Adige on-line, 10 aprile 2013

Il Comune abbassa l’indice di fabbricabilità e i giudici gli danno ragione. Proprietari contrariati: bloccata la possibilità di edificare 150 mila metri cubi

MERANO. A meno di un mese dall'incarico per la realizzazione del masterplan 2030, il documento di sviluppo urbanistico della città propedeutico al nuovo Puc, il Consiglio di stato allontana definitivamente il rischio di cementificazione di Maia Alta. Non stiamo parlando di briciole di ma 150 mila metri cubi sparsi e compresi tra le zone edificabili sopra Lazago, la via Castel Gatto e la via Winkel, praticamente il polmone verde di Merano. Con una sentenza definitiva l'organismo giuridico con sede a Roma ha sancito la legittimità delle scelte adottate a fine anni Novanta dal Comune contro l'aumento della cubatura nelle zone di completamento inserite nel piano urbanistico con la classificazione B6. Una sorta di difesa d’ufficio di quella serie di fazzoletti verdi che sono inseriti nell’assetto di Maia Alta, la zona più pregiata dal punto di vista edilizio di tutta la città di Merano.

Il Comune, in sede di approvazione di un Puc, che oggi è vicino a dover essere riesaminato per intero, aveva deciso di non allinearsi alle decisioni prese dagli altri Comuni altoatesini e di ridurre a 1 metro cubo per metro quadro la capacità edificatoria delle zone di completamento, contro una cubatura di 1,3 scelta dagli altri sindaci. Un taglio alla possibilità di cementificazione che ha di fatto salvato gran parte dei grandi giardini di Maia Alta e ha anche magari evitato domande di concessione edilizia in sanatoria per piccoli abusi compiuti in questi anni.

La decisione del Comune però non era passata inosservata, al punto che un comitato appositamente costituito - comitato Maia Alta il suo nome ufficiale - aveva deciso di prendere carta e penna, dotarsi di avvocato e ricorrere al Tar contro la riduzione di cubatura. Perso il ricorso al Tar il comitato, composto a differenza di quanto accade normalmente non per tutelare il verde ma per consentire al contrario maggior libertà d’uso del cemento e quindi aumenti di cubature, aveva opposto appello rivolgendosi al Consiglio di stato.

Nelle scorse settimane la sentenza finale che chiude ogni contesa: bocciato l'appello e successo della linea difensiva del Comune portata avanti dagli avvocati Karl Zeller e Luigi Manzi di Roma. La linea del Consiglio di stato difende una volta di più le prerogative del Comune, che per più d'una volta negli ultimi quindici anni si era visto calare provvedimenti dall'alto, con variazioni urbanistiche d'ufficio della giunta provinciale.

Era stato proprio il Comune di Merano, per primo a opporsi a questo modo di fare, portando, sempre con l’avvocato Karl Zeller, la Provincia davanti al Tar e ottenendo in quella sede confermata la propria autonomia decisionale in merito di sviluppo urbanistico della città.

postilla

Daremo più ampie informazioni sulla sentenza di Merano appena saremo in possesso. del testo. Vedi su eddyburg la sentenza del Consiglio di Stato su analoga questione, a proposito del comune di Monteroni (LE)

In alcuni scritti pubblicati su queste pagine abbiamo ripreso il tema del regime degli immobili ("diritti edificatori, rendite immobiliari, perequazione ecc.) Un assiduo frequentatore di queste pagine riprende la questione, che a nostra volta commentiamo con una postilla

Pur non potendo che compiacermi di un consolidamento della Giurisprudenza attorno al problema del rapporto tra pianificazione e diritti edificatori, non posso non sottolineare che si è ben lontani dalla soluzione dell’argomento e che questa stessa situazione non fa in alcun modo scomparire la possibilità di continuare le oscene politiche che cerchiamo di contrastare.

Per rimettere in fila i dati di fatto e per avere ben chiaro il terreno su cui dobbiamo necessariamente operare è necessario fare un passo indietro, e tornare alla sentenza della Corte costituzionale 5/80 in cui si dichiaravano incostituzionali le norme sugli espropri contenute nella Legge 10/77. Dopo un decennio e più di discussioni sul regime dei suoli e di tentativi normativi volti a separare la proprietà dal diritto a costruire si era convinti di esservi riusciti con quello che successivamente la Corte ha giudicato un artificio verbale inefficace dal punto di vista del diritto: l’aver definito concessione il titolo autorizzativo per la edificazione; questo è stato ritenuto palesemente insufficiente allo scopo e la immediata conseguenza è stata la cassazione delle norme in tema di espropri, che da questo presupposto partivano, tornando alla situazione della legge per Napoli, ed attribuendo a TUTTI i terreni una possibile suscettività edificatoria, elemento sostanziale per poter loro attribuire un prezzo di mercato, base anche per la determinazione delle indennità di esproprio.
Quindi il punto di partenza di ogni successivo sviluppo è stato la conferma del regime giuridico dei suoli e la inesistenza di una normativa sugli espropri. Questa dicotomia va sottolineata e tenuta ben presente perché il primo elemento è da allora scomparso dal dibattito ma non dalla realtà legislativa e normativa. Infatti la comparsa ed il primo sviluppo dei concetti di compensazione e perequazione si ha all’interno del dibattito su una possibile proposta di norme sulle espropriazioni, alla ricerca di vie di fuga da una realtà che prometteva, come poi è accaduto, una catastrofe economica per gli enti locali.

Mentre però la legge sugli espropri languiva lasciando il passo alla fantasia giurisprudenziale ed alle pezze normative che, sommati alla lentezza e insipienza degli Enti Locali, hanno portato a condanne inflitte dall’Europa, ad un contenzioso che incute paura e ad un debito potenziale da fallimento, a partire dagli anni novanta qualcuno ha capito che i concetti evocati potevano essere ben diversamente ed ampliamente utilizzati: perché solamente cubature invece di denaro per espropri e non cubature in cambio di qualsiasi cosa? E, come passo successivo, non sono io Amministrazione a dire cosa fare, ma sei tu privato che mi manifesti la tue volontà e quantifichi la contropartita da cedere.

In questa maniera si è passati dalle compensazioni alle deroghe normative, alla urbanistica contrattata, alla legislazione speciale, al pianificar facendo ed alla sussidiarietà programmatoria tra pubblico e privato. In questo lasso di tempo, praticamente tutti gli anni novanta dello scorso secolo, intanto, nella persistente assenza di una normativa organica sugli espropri, la situazione su questo fronte peggiorava per le Amministrazioni che hanno visto, anche al netto della ideologia avanzante, nella creazione e cessione di cubature una via per aggirare la mancanza di una normativa e di una giurisprudenza chiara ed univoca e le difficoltà economiche per la realizzazione degli interventi; questa spirale drogata ha portato al disastro attuale. Solo all’inizio degli anni duemila è stata emanata la legislazione organica in materia espropriativa, ma ormai da più di venti anni il tarlo della compensazione era andato molto avanti, spinto potentemente anche dalle aumentate ristrettezze economiche degli Enti locali.

La situazione in cui ci troviamo oggi conferma che la battaglia è tutta politica: finora nessuno è tornato a mettere in discussione il regime dei suoli, e mentre si capiscono perfettamente le motivazioni dei fautori della deregulation, sfugge il perché dall’altra parte ci si accontenti di vittorie tattiche e locali che non spostano i rapporti di forze stabiliti e consolidati dalla storia che ho cercato di riassumere.

Certo è soddisfacente sapere che ci può essere la possibilità di pianificare senza che il ricatto dei diritti privati sia sempre prevalente e che si può imporre, anche con l’avallo della interpretazione normativa della Magistratura, all’interno di quella pianificazione il rispetto dell’interesse pubblico, ma forse pochi si sono accorti che questo modo di operare continua ad essere svuotato nella pratica, da ultimo nel 2007 dal recepimento della dichiarazione di incostituzionalità delle norme sulla definizione della indennità di espropriazione.

Adottando in pieno lo slogan reaganiano di affamare la bestia, senza che ciò risultasse obbligato dalla sentenza della Corte ne dalla sovrastante decisione della CEDU, si è deciso che gli espropri si eseguono riconoscendo il pieno prezzo di mercato (non ci si lasci ingannare dalla possibilità della decurtazione del 25%) del bene espropriato, facendosi forte della mancata soluzione del regime dei suoli. Questo significa che l’avversario della pianificazione pubblica e delle potestà decisionali delle Amministrazioni è ancora un passo avanti e forse due quando si consideri che come effetto collaterale delle privatizzazioni e della societarizzazione delle municipalizzate, per non parlare delle ferrovie, per arrivare ai decreti sulla destinazione dei beni demaniali ad esempio della difesa, si è sottratto un enorme patrimonio immobiliare alla possibilità di utilizzo a fini di interesse comune, aprendo sempre nuovi varchi al consumo di territorio, al depauperamento delle risorse ed alla privatizzazione della pianificazione.

La conclusione è che bisogna tornare a discutere della separazione tra proprietà ed edificabilità che, checchè se ne dica non è affatto stabilita e per renderlo chiaro basta riflettere che se esistesse renderebbe inspiegabili ed inutili le norme sulla reiterabilita e indennizzabilità dei vincoli, le norme di salvaguardia in pendenza della efficacia della pianificazione e quelle riguardanti le cd zone bianche. Il raggiungimento di questo obiettivo è l’unico che possa salvaguardare il futuro di una urbanistica fatta per perseguire obiettivi condivisi di conservazione del paesaggio e del territorio, di consumo di risorse e suolo tendenzialmente pari a zero, di soddisfacimento dei bisogni dei cittadini in termini di qualità della vita in ogni suo aspetto.

Dalla nostra abbiamo da mostrare il disastro cui le teorizzazioni e le politiche degli ultimi venti anni hanno portato: per non parlare che dell’ultima nefasta vicenda, che come spesso succede da tragedia scivola in farsa, il Comune di Roma ha praticamente abbandonato il programma dei Piani di Edilizia Economica e popolare perché, dopo aver densificato i Piani stessi per poter offrire cubatura invece del denaro che non aveva, dopo aver destinato a tale fine circa il 30% della edificabilità prevista, dopo aver dovuto trovare svariate decine di milioni di euro per pagare l’IVA sulle cessioni, che non poteva rientrare nella compensazione, si è visto tornare indietro le adesioni dei proprietari che, nelle attuale situazione di mercato hanno scoperto di stare per fare un pessimo affare.

Postilla

Ha ragione Stefano Lanza quando attribuisce l’affermarsi «dei concetti di compensazione e perequazione all’interno del dibattito su una possibile proposta di norme sulle espropriazioni, alla ricerca di vie di fuga da una realtà che prometteva, come poi è accaduto, una catastrofe economica per gli enti locali In realtà, l’attribuzione di una sorta di “diritto edificatorio” a tutte le aree, urbane e non urbane, era già stato affacciato nel dibattito sulle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, ma subito respinto dagli urbanisti e dai giuristi di quegli anni. Eravamo ben prima della svolta neoliberista dell’ideologia dominante. Così come è vero che la sentenza costituzionale 5 del 1980, rendendo più costose le indennità espropriative, diede un potente alibi a chi quell’antica tesi (la “spalmatura dell’edificabilità) voleva riprendere e portare al trionfo.


Ma sono convinto che la sentenza 5 debba essere riletta con attenzione. Oggi essa è considerata spesso, da chi difende il carattere pubblico della pianificazione, come un vulnus grave alla tesi del primato degli interesssi collettivi su quelli privati. E così, nei fatti, è stato. Ma le pronunce della Corte possono essere lette in più modi. A me è sempre interessato leggerle come una indicazione dei nodi irrisolti del sistema giuridico italiano, e come una indicazione, più o meno esplicita, della direzione nella quale il legislatore potrebbe (e dovrebbe) muoversi se quei nodi volesse veramente sciogliere. Così è stato per la lettura che feci, nel 1968 delle sentenze 55 e 56/1968 (Dopo la sentenza della Corte Costituzionale – La responsabilità a sciogliere i nodi nella questione del suolo urbano, in “Città e Società”, n.6, nov.- dic. 1968), così credo si possa e debba fare, sia pur tardivamente, con la sentenza 5/1980: per tornare a discutere, come suggerisce Lanza, sulla separazione tra proprietà ed edificabilità per andare al di là dei limiti della legge Bucalossi. (e. s)

Serve a molte cose insieme la pratica illustrata da Sartori e La Cecla: recuperare senza sfigurare patrimoni in degrado, promuovere un turismo di conoscenza e non di cartolina, ridurre i costi della visita, far crescere un'imprenditorialità legata al territorio. La Repubblica, 30 marzo 2013

L’hotel diffuso tra vicoli e piazze
di Leonora Sartori

Il futuro (anche immobiliare) dell’Italia? «Dimenticate il nuovo e guardatevi intorno per ripartire da quello che c’è già». Che la rinascita italiana debba puntare sull’esistente, non lo dicono solo i sindaci del cemento zero come Domenico Finiguerra, ma anche trentenni ecosensibili e esperti di nuove tecnologie come Daniela Galvani e Andrea Sesta, architetto e ingegnere del web. Sono loro gli ideatori della start up Impossible Living (impossibleliving. com), progetto online per “riattivare” gli edifici abbandonati collegando associazioni territoriali, gruppi, amministrazioni e imprenditori attraverso il crowd sourcing.

Il tesoro nascosto dell’Italia secondo alcuni starebbe proprio nella classica provincia italiana, spesso dimenticata, con la sua grande abbondanza di paesi, borghi e campanili. A dimostrare l’interesse per borghi e campagne, il crescente numero di strutture e turisti (soprattutto stranieri, americani e nord europei in primis) degli alberghi diffusi italiani. Poche regole, secondo il fondatore dell’associazione alberghi diffusi Giancarlo dell’Ara (albergodiffuso. com). Un borgo gestito come un albergo, con reception comune e servizi in camera. Si ristruttura, in modo filologico, originale, autentico. Le camere sono disposte in edifici separati e preesistenti, a non più di duecento metri l’uno dall’altro, in un centro storico vivo e abitato.Ottanta le strutture sparse per l’Italia, si va dai piccoli borghi misteriosi della Liguria a Sextantio o alle Grotte di Civita a Matera, progetto con servizi (e prezzi) di altissimo livello che attirano stranieri, vip e star da tutto il mondo, ideati dall’italo svedese Daniele Kihlgren. Innamorato del “patrimonio storico minore” italiano, Kihlgren ha restaurato con attenzione filologica il borgo di Santo Stefano di Sessanio (Aq), creando un fatturato in netta e continua crescita, che non si è interrotto nemmeno dopo il terremoto del 2009.

Il ritorno sentimental-imprenditoriale al borgo è una formula che attira anche giovani, come Eleonora Fioriti, trentenne in controtendenza che ha da poco lasciato un lavoro a tempo indeterminato in banca, per aprire nel suo paese, Gualdo Tadino (Pg), vicino a Gubbio e Assisi, l’albergo diffuso Borgo Sant’Angelo. «I corridoi? Saranno le strade del borgo. La reception? All’ingresso del vecchio convento del XIII secolo, insieme alla sala colazioni e alcune camere, mura spesse, pavimento originale, pochi mobilitipici che ho fatto ridisegnare da un artigiano locale», racconta Fioriti. L’albergo diffuso è una formula made in Italy (ma che stanno copiando nei piccoli paesidel Giappone) di hotel sostenibile e km zero, che non si costruisce, ma semplicemente c’è già e permette non solo di aprire nuove ipotesi di lavoro, di recuperare e valorizzare vecchi immobili in borghi incantati, ma anche di salvare dall’abbandono interi paesi e ridare vita a territori abbandonati senza costruire nulla di nuovo. Nato dopo il terremoto del 1976 in Friuli, l’albergo diffuso è ora previsto da 16 regioni italiane (tra cui Sardegna, Marche, Umbria, Emilia Romagna, Liguria e Puglia).

Solo la bellezza sa sfidare il cemento di Franco La Cecla

Al fondo del concetto dell’Albergo Diffuso stanno due evidenze : la prima è l’abbandono in cui versa buona parte del nostro patrimonio costruito. In un paese in cui la sbornia immobiliare ha cementificato la metà del terreno del paese non deve stupire che buona parte della ricchezza di borghi, edifici pubblici e piazze sia diventato un teatro di ombre morte. Dall’altro c’è la crisi in cui siamo e che ci spinge a pensare che occorra anzitutto ricominciare dalle risorse. E il patrimonio delle culture dell’abitare in Italia fa parte di queste risorse: provate a ricostruire oggi posti come Monteriggioni o Piazza Armerina e vedete quanto vi costerebbe e quanto sarebbe impossibile, visto che non siamo più capaci di costruire in quel modo.

Allora l’Albergo Diffuso serve a ricordare che un centro storico è molto meglio dell’Hilton e che il vero lusso è passeggiare per un borgo costruito dall’intelligenza collettiva e non dalla stupidità di un architetto. Siamo arrivati talmente al fondo del bicchiere che oggi c’è bisogno di una sfida come quella lanciata dal Movimento per la “Custodia gratuita di spazi temporaneamente occupati”,(sembra un titolo di un romanzo di Hrabal) una invenzione di un genio bolognese, Werter Albertazzi che così ha ridato vita attraverso crowd sourcing, uffici e spazi di ospitalità a ben sette enormi contenitori a Bologna. Al di là della retorica delle occupazioni è una iniziativa che serve a ricordarci che dobbiamo servirci della ricchezza che abbiamo già e che ci è stata sottratta da una idea rapinatrice del territorio nazionale.

Nel 1816, nel pieno della rivoluzione industriale inglese, Ugo Foscolo si trasferì in esilio volontario a Londra. Veniva da un agitato e povero soggiorno in Svizzera e non voleva ritornare nella Milano austriaca. E a Londra fu accolto con affetto e onore da politici e letterati cui era giunta la sua fama. Era fuggito dall´Italia lasciando incompiuto il poema Le Grazie dove avrebbe voluto raccontare in versi l´Armonia e «idoleggiare le idee metafisiche del Bello».

A Londra però l´attendevano altri impegni: la ricerca letteraria e critica, un´attività giornalistica come collaboratore di riviste inglesi e le inquietudini di osservatore della realtà sociale del paese che lo aveva accolto. Curioso delle macchine e dei progressi industriali in corso, visitò nel 1822 Manchester e Liverpool, fumanti di ciminiere, tra fragori di officine, soprattutto tessili, e rumorosi cantieri e fu una folgorazione: al poeta della bellezza si apriva lo scenario brutale dell´industrializzazione e del profitto capitalistico. Scrisse a una amica: «I vostri figli, o al più tardi i vostri nipoti si accorgeranno che la vera rivoluzione sarà qui tacitamente prodotta da un lato dalla disperata miseria della moltitudine, e dall´altro dalla potenza economica dei plebei arricchiti». E, alla fine, concludeva, si impianterà «la più terribile delle tirannidi, quella degli Oligarchi padroni delle manifatture che non hanno altra idea, altro sentimento che quello di fare fortuna».

Foscolo anticipava di vent´anni l´ansia di Leopardi per l´incalzare di «macchine al cielo emulatrici»; a cominciare dall´«Anglia tutta con le macchine sue» della Palinodia. I due poeti forse credevano di essere soli o tra pochissimi uomini di cultura a rimanere perplessi e sgomenti di fronte alle contraddizioni del progresso industriale, ma non era così perché proprio in quei vent´anni, anche in piena ideologia del libero mercato, stavano maturando, soprattutto in Inghilterra, riflessioni molto critiche sui limiti e i difetti di quella rivoluzione economica. E non era il lamento di aristocratici conservatori, di proprietari terrieri scalzati dal progresso (in un´inchiesta del 1811 risultava che i lavoratori dell´Inghilterra, della Scozia e del Galles occupati nell´industria e nel commercio superavano ormai di una volta e mezza quelli dell´agricoltura), ma di uomini d´affari e imprenditori intelligenti, non appartenenti ai «plebei arricchiti», e di studiosi attenti della società.

Saranno questi a gettare i primi semi di un mondo nuovo, diverso, progredito ma civile. In particolare uno di loro, Robert Owen, finito stranamente tra gli "utopisti" forse perché verrà accomunato nel Manifesto dei comunisti di Marx e Engels a quei singolari pensatori (ad esempio, Fourier e Saint-Simon) che «emergono nel primo periodo, non sviluppato, della lotta tra proletariato e borghesia». In verità, nella descrizione precisa e nella critica del capitalismo industriale, Marx ed Engels sono arrivati dopo di lui e comunque senza Owen non sarebbe nato il socialismo in Inghilterra e non sarebbero iniziate l´esplorazione e la diagnosi del modo di produzione industriale, delle condizioni di vita e di salute degli uomini, delle donne e dei bambini impegnati nelle officine e nelle miniere, né sarebbe apparsa, nella polemica politica di quegli anni, la possibilità che la società industriale potesse essere più vivibile di quella che si era venuta formando. Non risponde dunque a verità storica il fatto che l´avere Owen creduto in quella "possibilità" ne facesse l´esponente di un sogno utopistico, lontano dalla conoscenza dei rapporti effettivi di produzione e in assenza della lotta di classe dal cui esito vittorioso per il proletariato avrebbe potuto essere rovesciato quel mondo di povertà e di sfruttamento.

Anzi, pensando all´utopia "possibile" del tempo di Owen e del contemporaneo Henri de Saint-Simon (di cui è recente in Francia la riedizione degli scritti dove è limpidamente disegnato un futuro reale, non un sogno) si rimane sgomenti della contraddizione intellettuale e politica in cui si trova l´Europa attuale. Qui sembra perduta per sempre ogni ipotesi di riforma e di cambiamento che guardi oltre il presente, che osi immaginare, come fece Saint-Simon nel 1814 nel volume La riorganizzazione della società europea, un socialismo creativo in una «stretta eguaglianza di ordinamenti, di interessi e di istituzioni». Una Europa dunque senza riferimenti, attraversata e accomunata dalla paura, dal rifiuto per tutto ciò che non sia una razionalizzazione dell´esistente. Eppure nessun futuro sembra dispiegarsi davanti a noi se non riprendendo proprio l´intelligenza delle cose, quel filo che qualcuno aveva cominciato a svolgere proprio ai primi dell´Ottocento.

Infatti, duecento anni or sono, nel 1813, Owen aveva pubblicato un saggio che fece scalpore, Per una concezione nuova della società. Segnava l´inizio di una stagione di idee riformatrici che nel 1815, un anno prima della visita di Foscolo a Manchester, saranno più visibili nel saggio Osservazioni sugli effetti del sistema industriale. I titoli dicono molto perché Owen sapeva benissimo di cosa parlava. A vent´anni, nel 1791, aveva diretto una delle più grandi filande del Lancashire, dove lavoravano cinquecento operai e poco dopo, ormai ricco industriale e membro tra i più autorevoli della Società letteraria e filosofica di Manchester, era divenuto proprietario delle più moderne filande di New Lanarck, in Scozia. La sua azienda era fiorente e per venticinque anni Owen sperimentò un modello di società industriale dove il ruolo dell´imprenditore-capitalista fosse non solo quello di creare oggetti, ma di avere per collaboratori soggetti (i lavoratori e le loro famiglie) sani, ben retribuiti, felici del loro lavoro, partecipi delle sorti del tessuto civile e sociale della comunità. Insomma, l´industria come un servizio sociale e tramite di crescita culturale e morale senza bisogno della «lotta tra proletariato e borghesia» di cui parlerà il Manifesto.

Che il progetto, realizzato, fosse unico, inedito, sorprendente lo prova il fatto che a New Lanarck affluirono visitatori e osservatori da tutto il mondo per vedere come mai gli alti salari, le ore di lavoro ridotte, la protezione delle donne e dei minori impegnati nel lavoro, buone case, cibi e vestiti decenti, fabbriche areate e circondate dal verde, l´educazione scolastica dei bambini ispirata al laicismo, all´ateismo, alla conoscenza e alla solidarietà, producessero così grandi guadagni al proprietario. Tanto più che Owen aveva dato un limite al profitto del suo capitale e aveva deciso che i profitti eccedenti fossero tradotti in servizi sociali a favore dei lavoratori della fabbrica. Ebbene, il saggio Per una concezione nuova della società e lo scritto successivo destinato a correggere «le parti più dannose alla salute e alla morale» dei lavoratori del sistema industriale non erano altro che il risultato dei piani di Owen per le sue fabbriche "umanizzate". Se poteva apparire un´utopia essa era tale che, attuata nella vita sociale, avrebbe, come scrisse lo storico Maurice Dobb, «spazzato via in breve tempo il capitalismo e il sistema concorrenziale».

Il prestigio di cui godeva Owen impedì che la sua visione rivoluzionaria venisse subito spazzata via dai difensori dell´altro capitalismo. Si attese che egli, nella sua intensa attività pubblicistica e di divulgatore delle sue idee a tutti i livelli delle istituzioni politiche, si scontrasse finalmente con le chiusure conservatrici della Chiesa. Allora fu attaccato frontalmente e decise di recarsi negli Stati Uniti dove, nel 1825, fondò la comunità New Harmony (il nome sarebbe piaciuto a Foscolo) e poi organismi sindacali, cooperative, scuole dando un corpo concreto all´owenismo. Furono anni di speranze, di sconfitte, di illusioni perdute contro gli orrori della rivoluzione industriale e nel sogno di una società di persone felici del loro lavoro, non inchiodate dal bisogno e dallo sfruttamento. Ebbe fino all´ultimo (morirà nel 1858) l´intelligenza e la curiosità di forzare l´enigma di un progresso necessario, ma fonte di ingiustizie, di crisi, di inquinamento. Un enigma in attesa, duecento anni dopo, di essere risolto.

il progetto di New Harmony

Lexambiente, ribadisce interpretazioni delle leggi vigenti, ignorando le quali tecnici e amministratori incompetenti, hanno contribuito al pesante e ingiustificato consumo di suolo

In un comune salentino, Monteroni di Lecce, il comune aveva approvato un nuovo Prg che destinava a verde privato un’area destinata dai precedenti strumenti di pianificazione a zona di completamento. Il proprietario ha ricorso al Tar chiedendo l’annullamento degli atti e il ripristino della precedente destinazione. Il Tar ha rigettato il ricorso e il proprietario si è appellato allora al Consiglio di Stato . Quest’ultimo ha confermato la sentenza del Tar con motivazioni interessanti per il loro carattere generale. Abbiamo notizia della sentenza dalla bella rivista online di Luca Ramacci, Lex ambiente, dalla quale riprendiamo di seguito sia il commento (firmato F. Albanese) che il testo integrale della sentenza.

Agli argomenti di valutazione positiva della sentenza espressi da Albanese vogliamo aggiungerne due.

1 - Il Consiglio di stato afferma ( paragrafo 5.1) che la nozione di naturale vocazione edificatoria postula la preesistenza di una edificabilità di fatto, cioè può essere attribuita solo a un terreno già edificato. ed è quindi concetto impiegato propriamente nelle sole vicende espropriative, stante la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell'amministrazione Non ha quindi alcun senso parlare di “vocazione edificatoria” di un suolo riferendosi a precedenti previsioni urbanistiche legittimamente modificate, e nemmeno a situazioni di fatto diverse dalla già avvenuta edificazione.

Possiamo dunque ritenere ulteriormente confermate le conclusioni alle quali eravamo da tempo arrivati sulla base dell’analisi della giurisprudenza: non esiste alcun fondamento giuridico sulla cui base il proprietario di un terreno possa rivendicare un “diritto edificatorio”, o un malaccorto urbanista o amministratore possa motivare la decisione di rendere edificabili aree che attualmente non lo sono.

2 - La sentenza afferma ( paragrafo 2.1) che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima». E’ esattamente il modo di vedere la pianificazione urbanistica che eddyburg sostiene e promuove.

Consiglio di Stato, Sez. IV n. 6656, del 21 dicembre 2012.
Urbanistica. Pianificazione urbanistica e tutela ambientale ed ecologica.


All’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione di futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente sentenza sul ricorso in appello n. 10252 del 2005, proposto da
Corrado Carriero, [...]

FATTO

Con ricorso iscritto al n. 10252 del 2005, Corrado Carriero propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sezione prima, n. 4374 del 28 settembre 2005, con la quale è stato respinto il ricorso proposto contro il Comune di Monteroni di Lecce e la Regione Puglia per l'annullamento di tutti gli atti del procedimento di formazione del PRG del Comune di Monteroni di Lecce ed in particolare: della delibera del C.C.di Monteroni di Lecce n.54 del 13.02.89; della delibera del C.C. di Monteroni di Lecce n.80 del 11.10.1996; della delibera della G.R. Puglia n. 1643 del 7.12.1999 di approvazione del piano con prescrizioni e modifiche; della delibera del C.C. di Monteroni di Lecce n. 51 del 4.8.2000 di recepimento e controdeduzioni in ordine alle prescrizioni e modifiche regionali; della delibera G.R. Pugliese n. 529 del 10.05.2001 di approvazione definitiva del PRG di Monteroni di Lecce; di ogni altro atto comunque presupposto, connesso e consequenziale.

Dinanzi al giudice di prime cure, il ricorrente, proprietario di un terreno nel Comune di Monteroni di Lecce, su cui insiste un fabbricato ad uso residenziale, sito alla Via Isonzo, distinto in catasto al fg. 7/A part. 468-467-1036, esponeva:
- che la suddetta area era tipizzata nel vecchio P.d.F. come zona “B” – I circoscrizione, destinata a edilizia residenziale, con le seguenti prescrizioni: altezza massima degli edifici pari a una volta la larghezza stradale; numero massimo dei piani:2;
- che nel PPA, approvato con delibera C.C. n. 95 del 1.8.1985 e prorogato con delibera C.C. n. 28 del 30.1.1989, l’area veniva definita “Zona di completamento”;
- che il C.C. di Monteroni, con la delibera di intenti del 13.2.1989 n. 54, avviava il procedimento di formazione del PRG, cui seguiva in data 11.10.1996 la delibera di adozione del PRG;
- che la G.R. Puglia con delibera n. 1643 del 7.12.1999 approvava il piano con prescrizioni e modifiche;
- che con delibera n.51 del 4.8.2000 il C.C. di Monteroni recepiva e controdeduceva alle prescrizioni e modifiche regionali;
- che con delibera n. 529 del 10.05.2001 la G.R. Pugliese approvava in via definitiva il PRGPRG di Monteroni;
- che nel nuovo PRG l’area di proprietà del ricorrente risultava classificata come zona a verde privato (VP), disciplinata dall’art 2.15/H della N.T.A., che consente attività primarie di tipo agricolo, la sistemazione di verde attrezzato, interventi manutentivi e di ristrutturazione dell’edificato esistente, di tipo conservativo.

Il ricorrente impugnava gli atti di cui in epigrafe, chiedendone l’annullamento, per i seguenti motivi di diritto:

1) Eccesso di potere, violazione del principio della tendenziale stabilità delle previsioni urbanistiche.Violazione del principio di ponderazione degli interessi privati da sacrificare in relazione all’interesse pubblico perseguito. Carenza motivazionale: la nuova destinazione rende di fatto l’area inedificabile, senza alcuna specifica motivazione sulla scelta così penalizzante per il ricorrente;

2) Eccesso di potere per contraddittorietà. Carenza istruttoria sotto altro profilo, essendo la destinazione definitiva in contrasto con la delibera di intenti, in cui si prevede la conservazione dei contenuti del P.P.A.

3)Violazione dell’art 2 D.M. 1444/68, presentando l’area una vocazione edificatoria.

4) Violazione dell’art 2 D.M. n. 1444/1968 sotto altro profilo. Violazione dei criteri della delibera di G.R. n. 6320 del 13.11.1989. Violazione del principio di tipicità degli atti ammnistrativi: la destinazione impressa non rientra tra le destinazioni previste dal D.M. n. 1444/68;

5) Eccesso di potere per perplessità, irrazionalità ed illogicità. Carenza motivazionale sotto altro profilo. Sviamento dalla causa tipica. l’Amministrazione ha erroneamente inserito una zona agricola all’interno dell’abitato di Monteroni, qualificando senza una adeguata istruttoria l’immobile del ricorrente come “edificio con caratteristiche architettoniche di particolare interesse”.

Costituitosi in giudizio il Comune di Monteroni di Lecce, il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in relazione all’inesistenza di posizioni tutelabili particolarmente qualificate in capo al ricorrente ed alla conseguente correttezza dell’azione amministrativa, in rapporto ai criteri di giudizio concretamente applicabili.

Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto ed in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo in appello le proprie ragioni.

Alla pubblica udienza del 23 ottobre 2012, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione.

DIRITTO

1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.

2. - Con il primo motivo di diritto, rubricato in tre distinti sottopunti, l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza del T.A.R. in relazione: alla mancata pronuncia sulla prima censura nel ricorso introduttivo, dove si è sindacata l’irrazionalità della destinazione impressa alle aree di proprietà dell’appellante, non avendo il TAR valutato come tale imposizione di fatto venisse a precludere qualsiasi utilizzo edificatorio dell’area; all’irragionevolezza ed atipicità della qualificazione come zona destinata “a verde privato” come “sottospecie della zona agricola”, in contrasto con i criteri generali valevoli per la redazione del piano e con la riserva di legge sui limiti apponibili alla proprietà privata; alla non configurabilità di una normale zonizzazione riguardante un’area, stante la carenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di area.

2.1. - Le doglianze non possono essere condivise.

Occorre osservare come il giudice di prime cure abbia fatto precedere la disamina dei singoli punti di doglianza con una premessa teorica di carattere generale.

In particolare, con un esame del tutto in linea con i principi e i criteri seguiti dalla giurisprudenza, ha evidenziato come le scelte urbanistiche costituiscano apprezzamenti di merito, e quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di fatto o da incongruità argomentativa. Sulla scorta di tale premessa, va condivisa l’affermazione per cui le scelte sulla destinazione di singole aree sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai criteri generali seguiti nell'impostazione del piano regolatore, ossia emergenti dalla relazione illustrativa del piano. Al contrario, la necessità di altri e più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti, e che quindi, stante l’esistenza di posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione, debbano ricevere una più compiuta valutazione. Tuttavia, tali situazioni, lungi dall’essere riscontrabili in qualsiasi situazione peggiorativa, hanno il loro referente in situazioni oramai tipizzate dalla interpretazione giurisprudenziale (si pensi al superamento degli standards urbanistici minimi, alla lesione dell'affidamento qualificato del privato in rapporto a precedenti convenzioni di lottizzazione, agli accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, alle conseguenze da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 11 settembre 2012 n. 4806).

Sulla base di tale ricostruzione, e sulla non contestata affermazione che nel caso in esame non ricorre nessuna di tali ipotesi, il T.A.R. ha potuto ravvisare in capo al ricorrente unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in peius, tale da non giustificare né una particolare tutela, né un obbligo di più puntuale motivazione. La conclusione di tale iter argomentativo è stata quindi nel senso di non poter spingere il proprio sindacato fino al merito delle scelte urbanistiche operate, che rientrano nell'ambito della discrezionalità degli organi preposti all'adozione e approvazione del piano.

Deve pertanto evidenziarsi che, al contrario di quanto dedotto in appello, il T.A.R. abbia correttamente spiegato le ragioni per cui non ha valutato i profili d’irrazionalità censurati, atteso che gli stessi o ricadono in un ambito sottratto alla disamina giurisprudenziale oppure, come si vedrà in seguito, ricadono in altri aspetti di doglianza, partitamente esaminati.

Conseguentemente, non può dirsi immotivata la scelta di procedere ad una classificazione dell’area a “verde privato”, stante l’inesistenza di una posizione particolarmente qualificata a non subire destinazioni peggiorative. Deve condividersi l’assunto del primo giudice che, sulla base del principio generale, ha applicato la stessa tecnica di giudizio anche al caso in specie, atteso che il passaggio dalla destinazione edificatoria, prevista dal previgente piano, a quella di tipo agricolo all’interno di una più ampia zona omogenea con carattere edificabile altro non è che un’applicazione in concreto di quanto sopra evidenziato; né la circostanza dedotta è tale da fare mutare la ratio applicativa sottostante.

Anche in questo caso, infatti, la destinazione a verde privato non richiede motivazione specifica. E, infatti, opportunamente deve farsi ricorso a quella giurisprudenza che ha evidenziato come all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l'ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Infatti, l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s'intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710).

Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione abnorme o extra ordinem nella vicenda de qua, atteso che il verde privato viene a svolgere una funzione di riequilibrio del tessuto edificatorio, del tutto compresa nelle potestà pianificatorie dell’ente comunale, come peraltro precisamente motivato nella relazione illustrativa, dove si fa riferimento all’intento di “ritrovare un equilibrio nuovo dotando il centro esistente delle infrastrutture e delle aree per verde e servizi necessari”.

Proprio la funzione svolta rende corretta la risposta data dal giudice di prime cure, il quale ha inquadrato la destinazione a verde privato in un’ottica più comprensiva, utilizzabile anche al fine di salvaguardare precisi equilibri dell'assetto territoriale.

Conseguentemente, va respinto anche il terzo profilo del motivo, stante la rilevanza funzionale della destinazione di zona a verde privato.

3. - Con il secondo motivo di diritto, viene gravata la censura sub B) del primo motivo di diritto, sollevata in tema di carenza motivazionale sulla scelta di tipizzazione peggiorativa nei confronti dell’area, evidenziando come le ragioni addotte mostrino una ostilità verso il ricorrente e una parzialità, non avendo considerato la posizione interclusa del fondo.

3.1. - La doglianza non ha pregio.

Come sopra evidenziato, la situazione del fondo escludeva la necessità di una motivazione di particolare puntualità. Né peraltro pare condivisibile la lettura della detta area come lotto intercluso, attesa la funzione eccezionale di tale concetto (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10 giugno 2010 n. 3699 e tale quindi da escludere l’estensione analogica della sua applicazione) e la tipologia dell’area (che, affacciando su due diverse strade, non pare riconducibile a tale ambito). In ogni caso, va ricordato come la nozione di “lotto intercluso” abbia una sua valenza quando non si rinvenga spazio giuridico per un'ulteriore pianificazione, mentre non è applicabile nei casi, come quello in esame, di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Consiglio di Stato, sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7799).

La particolare posizione, come evidenziata dalla parte appellante, non rientra quindi, come si ripete, tra quelle a cui la giurisprudenza connette una situazione di particolare affidamento, per cui le ragioni sopra esposte e la considerazione di una avvenuta corretta giustificazione delle scelte addotte possono essere pienamente richiamate.

4. - Con il terzo motivo di diritto, si lamenta la mancata considerazione della fissazione dei criteri di formazione e indirizzo del piano, dati con delibera n. 54 del 13 febbraio 1989, con particolare riguardo alla necessità di ricucire il tessuto urbano esistente attraverso il recupero degli spazi destinabili a servizi, criterio leso dalla tipizzazione a verde dell’area. La detta ragione di doglianza trova poi adeguata precisazione nel quarto motivo di ricorso (pag. 11 dell’appello e tuttavia rubricato con il n. 3), dove viene censurata la mancata considerazione della destinazione di area come zona di completamento, secondo quanto previsto nel vecchio PPA del Comune, nonostante che i criteri generali prevedessero la conservazione di tali prescrizioni per il restante periodo di validità.

4.1. - La doglianza non può essere condivisa.

La contraddittorietà evidenziata, in rapporto a due diversi criteri generali, non è evincibile dalla lettura degli atti. Va, infatti, ribadito come la delibera di intenti contenga, tra gli obiettivi generali, proprio quello “di ricucire il tessuto urbano esistente, recuperando tutti i possibili spazi da destinare a servizi, con priorità per il verde”, nonché “di salvaguardare il patrimonio edilizio privato di carattere ambientale e artistico”. La scelta pianificatoria appare quindi del tutto coerente con le priorità fissate.

5. - Con il quinto motivo (pag. 13 dell’appello e tuttavia rubricato con il n. 4) si censura la mancata considerazione della naturale vocazione edificatoria delle aree in questione, in quanto aventi le caratteristiche di cui alle zone B di cui all’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968.

5.1. - La doglianza non ha pregio dogmatico.

In disparte la contestabilità dell’impiego in questa sede della nozione di naturale vocazione edificatoria (che postula la preesistenza di una edificabilità di fatto ed è quindi concetto impiegato propriamente nelle sole vicende espropriative), stante la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione, occorre rilevare come le caratteristiche dell’area risultino del tutto chiare nella relazione illustrativa, dove si evidenziano le caratteristiche dell’area in rapporto alle costruzioni esistenti.

6. - L’appello va quindi respinto. Nulla per le spese.

[…]

Una valutazione attenta, perciò critica, del documento regionale dell’11 febbraio scorso: positivi le intenzioni e i contenuti, ma debole l’efficacia normativa .

Il fotovoltaico è in continua espansione, nel 2012 la Toscana ha visto 7.381 nuovi impianti, in gran parte piccoli e medi (3 - 20 kw), ma l'interesse per i grandi non va trascurato. Necessario, non proprio tempestivo, quindi l'intervento del Consiglio della Regione Toscana, che ha emanato «Criteri e modalità di installazione degli impianti fotovoltaici a terra ed impianti fotovoltaici posti su frangisole», per gli impianti di potenza superiore a 20 kW e tutti quelli posti nelle aree sottoposte a tutela dei beni culturali e/o paesaggistici.

Le criticità degli impianti a carattere industriale sono evidenti, parti del territorio nazionale soffrono coperture impattanti, che invadono anche zone di notevole pregio agronomico. La Coldiretti stima che in Italia il fotovoltaico a terra copra 3.316 ettari, poco meno della metà in Puglia (1.480), ma superfici ragguardevoli si trovano nel Lazio (380) e in Emilia Romagna (340). La situazione toscana non è tra le peggiori ma non mancano situazioni eclatanti come a Roffia, San Miniato, con 60 ettari concentrati nel 3% del territorio comunale, e progetti devastanti come quello per 97 ettari tra Roccastrada e Civitella Marittima, su un'area di evidente pregio. Ci ha evitato il peggio forse una più diffusa sensibilità per il paesaggio, dato che l'intervento normativo è stato tardivo: CIA e Coldiretti chiedevano con forza l'intervento della Regione per salvaguardare i terreni agricoli, intervento che si è concretizzato solo nel marzo 2011. Determinante, nel limitare fortemente la diffusione, è stata l'abolizione degli incentivi per il fotovoltaico a terra in aree agricole da parte del Governo Monti. Questo è il più efficacie indicatore di quanto sia sconsiderata la conversione alla produzione energetica dei terreni agrari, se valutata con un'ottica diversa dalla speculazione corto-termista.

La neonata delibera toscana è frutto di oltre un anno di consultazioni ed è l'ultimo elemento di una sequenza un po' farraginosa (originata con le leggi regionali del 2005, n. 39 e n. 1 'Legge Urbanistica'), entrata nello specifico del fotovoltaico con la L.R. n. 11 del 2011 (prima individuazione delle aree non idonee all'installazione del fotovoltaico a terra, meglio specificate con la delibera n. 68 del 2011) modificata con due successive leggi nel 2011 e nel 2012. Questo ultimo atto copre i temi riguardanti l'inserimento degli impianti sul territorio, con riferimento agli aspetti idrogeologici, bio-ambientali, agronomici e paesaggistici, favorisce l'innovazione sia per l'inserimento paesaggistico sia per l'efficienza, il riutilizzo di aree degradate e il minor consumo di territorio.

È certamente un buon documento, puntiglioso in alcune parti. Proprio questo dettaglio giustifica un dubbio: se - come è evidente - risulta necessario normare ciò che dovrebbe essere il portato di una governance cosciente è sufficiente un atto che normativo non è? Il corpus è infatti costituito da un allegato alla delibera, un feuilleton che ha una cogenza assai dubbia. La nota diramata dalla Regione informa che «secondo l'assessore al governo del territorio, queste indicazioni nel loro insieme forniscono una sorta di “vademecum” sia per i progettisti che per i funzionari pubblici chiamati a valutare i progetti». L'ombra del Titolo V della Costituzione forse porta che la Regione emani indirizzi e le amministrazioni locali traducano in atti, ma questo avverrà, o accadrà come per gli entusiasmanti ma esanimi enunciati della L.R. n. 1/2005 sullo sviluppo sostenibile, la tutela delle risorse essenziali e la partecipazione ?

Inoltre questo “vademecum” si pone nell'asfittico contenitore del Piano Ambientale ed Energetico Regionale. Anche questo denso di aspirazioni, ma vetusto; per esempio, nella fattispecie, si rileva che le esperienze più avanzate mostrano come le energie da fonti rinnovabili – in particolare se prodotte da impianti piccoli e medi – sono davvero utili se integrate in una rete di distribuzione intelligente (smart grids). Per questa nel Piano vi sono solo accenni e non una convinta e vincolante opzione. Non è poi il caso di entrare nel merito dei piani energetici provinciali (quando ci sono), inadeguati, intrisi di una energetica novecentesca, a copertura di richieste non più prevedibili per la riduzione dei consumi che sarebbe opportuno considerare irreversibile, sia per la mutata struttura economica e sociale sia per la indisponibilità delle risorse a livello locale e globale.

Il Decreto regionale (il suo allegato) è certamente apprezzabile nei contenuti, ma è affidato ad un contesto culturale e burocratico che ne rende dubbia l'efficacia: è concreto il rischio che veda un recepimento variegato, con un arco che va dal funzionario borbonico che ne farà un supplizio da aggiungere alla pesante burocrazia prevista dai registri GSE - forche caudine per gran parte degli impianti fotovoltaici a terra – e quello che lo potrà considerare un trascurabile ammenicolo normativo.

Corriere della Sera, 14 febbraio 2013 (f.b.)

Si è spento ieri, dopo un'amara, lunga malattia, Gabriele Basilico, uno dei massimi protagonisti della fotografia europea. Le sue immagini propongono uno sguardo lungo sul mondo delle città, non quelle dei monumenti ma delle periferie, bordi slabbrati e consunti, spazi deserti di figure le cui tracce sono sempre presenti, fili, insegne, cartelli, arredi urbani. Un'invenzione senza confronto, ma che ha una storia.

Nato nel 1944, iscritto al Politecnico, architetto, sceglie subito la fotografia; non dialoga con Henry Cartier-Bresson ma semmai con Ugo Mulas che, fin dai primi anni 60, costruisce i tempi lunghi di uno sguardo sul mondo che tanto peserà sull'esperienza di molti. Basilico sceglie i propri modelli: prima di tutto Walker Evans che fotografa su lastra, condensando in un'immagine, il racconto dei luoghi dell'agricoltura statunitense rovinata dalla crisi del 1929.

Poi Eugène Atget che delle strade vuote, delle vetrine di Parigi, costruisce il mito e la storia. La prima grande ricerca "Milano ritratti di fabbriche" (1978-80) Basilico la racconta così: «Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva in agitazione le strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade... per la prima volta ho visto le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso... anche l'ombra diventava un elemento compositivo».

Una Milano delle fabbriche ai bordi del tessuto urbano, bloccate nello spazio come nelle foto di Bernd e Hilla Becher, ma con una dimensione di racconto diversa, quella di Mario Sironi e delle sue periferie, quella di Giorgio de Chirico e delle sue scene deserte, ma qui senza statue, solo prospettive taglienti, forme bloccate. È degli inizi degli anni '80 l'incontro con Luigi Ghirri e l'adesione a un altro progetto, quello della mostra «Viaggio in Italia» (1984). L'idea è di riprendere non l'Italia dei monumenti ma quella dei luoghi esclusi, ai margini, l'idea è di ritrovare la dimensione di un nuovo e diverso paesaggio, un paesaggio «altro», quello dei romanzi di Italo Calvino e quello, più vicino al gruppo di Ghirri, dei racconti di Gianni Celati che narra le umide mitologie dei pioppeti senza fine delle campagne del nord.

Ecco, in questa dimensione di racconto, sospesa fra pittura, letteratura e sguardo della memoria, si inserisce l'esperienza della «Mission Datar» (1984-1988) dove Basilico viene chiamato in Francia a riprendere le coste della Normandia, porti e strutture urbane, insieme a un gruppo fra i maggiori fotografi europei. Comincia con numerosi sopralluoghi, si devono pensare le foto prima di scattare: sei mesi di lavoro. Basilico riprende su lastra, col cavalletto, concentra l'immagine il più possibile, lascia, come Evans, come Atget, fuori del campo visivo le persone perché la città, il porto, sono esse stesse racconto, storia. «Sono diventato amico dei luoghi... i luoghi mi aspettavano, il porto di Dunkerque o di Le Havre erano pronti, come ad attendermi, a rilanciare il rito dello sguardo che si trasformava in fotografia».

Ma gli spazi dilatati delle immagini dei porti e delle marine hanno una storia, dei modelli che lo stesso Basilico riconosce: Bellotto con le grandi vedute di Dresda, toni bassi, forme taglienti, scandite, dove il racconto sembra dilatarsi oltre il limite del riquadro; oppure le vedute di Van Goyen o di Ruysdael, quelle del grande '600 olandese. Ecco, è questo il «senso dell'infinito come oggetto, come spazio osservato» che Basilico vuole creare.

L'altro grande momento della sua ricerca è Beirut, la città distrutta dalla guerra, un chilometro quadrato di edifici ripresi lentamente, con cavalletto e macchina a lastre, per fotografare lo spazio della memoria. «Il vuoto per me non significa mai vera assenza: si tratta piuttosto di una fase di silenzio che mi permette di instaurare un dialogo, spero autentico, con la realtà». Dopo vengono altre ricerche sulle periferie che si dilatano divorando le campagne, periferie senza centro, e sono quelle di «Appunti di un viaggio» (2006). E poi ancora le grandi ricerche su Istanbul, Shangai, Mosca, dove spesso «gli edifici svelano una forma antropomorfa: nelle architetture sono nascosti occhi, nasi, orecchie, labbra, volti che aspettano la parola».

In fondo, Basilico, come ogni grande artista, ha scattato sempre pensando a una stessa immagine, e lo scrive: (le mie sono) «le stesse fotografie... con gli stessi punti di vista... le stesse variazioni di luce» e questo per ritrovare, nel suo dialogo con l'enorme spazio degli orizzonti urbani, quella lunga durata che resta il segno più evidente del suo civile, umanissimo racconto.

Finalmente una legge per lo sviluppo degli spazi verdi urbani. Si tratta della Legge 14 gennaio 2013, n. 10, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” (GU n.27 del 1-2-2013), anche se manca ancora il decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare per definire la composizione e le modalità di funzionamento del "Comitato per lo sviluppo del verde pubblico". Sarà questo Comitato a monitorare l'attuazione della disattesa legge 29 gennaio 1992, n. 113 che impone l'obbligo ai comuni con più di 15mila abitanti di porre a dimora un albero per ogni neonato, a seguito della registrazione anagrafica. Se è vero che la messa a dimora può essere differita in caso di avversità stagionali o per gravi ragioni di ordine tecnico, di fatto nessuno sa dire dove sono stati piantati tutti questi alberi e se sì difficilmente è in grado di dire se sono ancora vivi e vegeti.

Con l'entrata in vigore del provvedimento il 16/02/2013 saranno i Sindaci a dover render noto il bilancio arboreo del proprio Comune, indicando il rapporto fra il numero degli alberi piantati in aree urbane di proprietà pubblica rispettivamente all'inizio e al termine del mandato stesso. A prescindere dalle ravvicinate scadenze di mandato, come nel caso di Roma, di fatto i Sindaci delle grandi città italiane difficilmente forniranno questi dati. I motivi principali? Rendita fondiaria, moneta urbanistica, consumo del territorio e soprattutto malgoverno, tanto che da anni sono saltate tutte le misure per la salvaguardia e la gestione delle dotazioni territoriali di standard previste nell'ambito degli strumenti urbanistici attuativi dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444. La dotazione di verde pubblico per ogni abitante, così come previsto per legge, infatti non c’è. Dunque, se non ci sono le aree verdi, dove si potranno piantare i nuovi alberi? Forse nelle rotatorie o nelle fasce intermedie o nelle superfici inaccessibili che indegnamente si fanno rientrare negli standard di verde pubblico? Il verde pubblico deve essere fruibile e non essere semplicemente un'area di colore verde non fruibile.

La nuova legge (che prende spunto dal riconoscimento del 21 novembre quale «Giornata nazionale degli alberi», con l’obiettivo di perseguire il rispetto del protocollo di Kyoto, la valorizzazione del patrimonio arboreo e boschivo, la riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico, il miglioramento della qualità dell'aria e la valorizzazione delle tradizioni legate all'albero), interviene in realtà su un aspetto del tutto dimenticato da parte delle amministrazioni italiane: la vivibilità degli insediamenti urbani. Come possiamo vivere in agglomerati di cemento e ferro senza pubblici spazi verdi di 'natura'? Vediamo come l'articolo 4 di questa legge protegge il decreto del Ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968, n. 1444,

- rapporto annuale del Comitato sull'applicazione nei comuni italiani delle disposizioni del decreto ministeriale 1444

- obbligo per i comuni di approvare le necessarie varianti urbanistiche per il verde e i servizi entro il 31 dicembre di ogni anno

- destinazione delle maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50 per cento del totale annuo.

E' finita dunque l'era di amministrazioni che mistificano i parcheggi pubblici con le aree verdi per raggiungere gli standard? E' finita l'era in cui le varianti urbanistiche servono solo per consumare territorio? E' finita l'era in cui le amministrazioni battono moneta urbanistica per concedere cemento ai costruttori solo per pagare i consulenti del Sindaco, lasciando città senza opere di urbanizzazione? Sembrerebbe di sì, ma solo a patto che venga istituito il Comitato di vigilanza (e bisognerà vedere come sarà composto, perché nulla si dice a riguardo) libero da influenze politiche, altrimenti la Legge non trova di fatto applicabilità, venendo a mancare l’organo essenziale, quello di controllo, cosa che accade sovente nel nostro Paese.

Lo strumento di legge ora c’è e sicuramente può consentire comportamenti meno discrezionali da parte dei Sindaci. Addirittura con la nuova legge i Sindaci possono incentivare iniziative finalizzate a favorire l'assorbimento delle emissioni di anidride carbonica (Co2) dall'atmosfera tramite l'incremento e la valorizzazione del patrimonio arboreo delle aree urbane, senza contare le nuove disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali o la promozione di iniziative locali per lo sviluppo degli spazi verdi urbani per consentire l'assorbimento delle polveri sottili e per ridurre l'effetto «isola di calore estiva», favorendo al contempo una regolare raccolta delle acque piovane. Il prossimo 21 novembre è ancora lontano, ma non troppo. E’ necessario però fare pressione perché almeno per quella data il “Comitato per lo sviluppo del verde pubblico" sia già stato istituito e sia soprattutto libero da influenze politiche, altrimenti avremo in Italia l'ennesima bella legge non attuabile.

Qui il teso completo della Legge sulla Gazzetta Ufficiale

Dall'epoca degli sventramenti ottocenteschi e dei boulevards al posto dei baluardi a terrapieno, trasformazione urbana ed evoluzione del concetto di difesa (e attacco) vanno di pari passo. E oggi? Alcune tendenze e strategie internazionali emergenti, ricomposte in una tesi che riguarda anche i territori italiani. Articolo ripreso da Mall, 4 febbraio 2013

Che ci sia una correlazione fra l'idea di città e l'idea di conquista, non è certo una grande e innovativa intuizione del sottoscritto. Solo per restare a tempi abbastanza vicini ai nostri, mi piace ricordare l'enfasi con cui il nostro giovane e (anche un po' troppo) entusiasta Bruno Zevi proponeva nell'immediato dopoguerra all'American Planning Association di sfruttare l'abbrivio della immagine vincente degli Usa nel mondo, dopo la sconfitta dell'Asse e l'avvio del processo di ricostruzione soprattutto in Europa, come vero e proprio arnese di politica estera. Cosa c'è di più propagandistico, per quello che si propone come modello universale di way of life consumi lavoro relazioni, argomentava Zevi, che mettre in vetrina addirittura il know-how che sta alla base degli spazi fisici entro cui poi quelle relazioni di sviluppano? Naturalmente sappiamo poi come è andata a finire: del vero e proprio sistema di valori ai vincitori della guerra importava abbastanza poco, valeva di più il famoso binomio militar-industriale, e a cascata l'imposizione di una serie di prodotti e sistemi in punta di baionetta, poi di informatica-finanza, sino ai nostri giorni. Ma l'intuizione non ha per questo smesso di essere del tutto valida e fondata.

Del resto, anche se in forma un po' caricaturale e a volte perniciosa, è proprio simbolicamente quello il processo in cui combattono a colpi di rendering gli studi delle archistar internazionali. Prendiamo il caso più recente e pubblicizzato, l'inaugurazione del grattacielo Shard progettato dallo studio di Renzo Piano in centro a Londra, in un'area di grande interesse nella fascia a sud del fiume. Si è parlato molto di quell'edificio, dal solito folkloristico “torre più alta d'Europa” o punto di osservazione inusitato del panorama metropolitano, alle innovazioni urbanistiche introdotte, prima fra tutte l'eliminazione del traffico automobilistico aggiunto, cancellando ogni previsione di parcheggio: i visitatori allo Shard ci devono andare a piedi, o coi mezzi pubblici, o in taxi, o farsi accompagnare in macchina dalla zia che poi al volo si allontana, perché lì non troverà mai, nemmeno pagando oro, una piazzola di sosta. Ma un commentatore più attento ci ha visto dell'altro, in quella grossa scheggia emergente sullo skyline della capitale finanziaria mondiale, e cioè la punta di un iceberg per nulla subacqueo: l'avanzata di una nuova forma di politica estera dei potentati mediorientali, sotto forma di investimenti immobiliari sparpagliati ovunque sul globo.
Secondo Peter Beaumont, esperto di politica estera dell'Observer, gli emiri del Qatar si stanno impossessando del mondo a modo loro, usando intelligentemente i soldi del petrolio e del gas, reinvestendoli in attività varie, di cui quel pur vistoso enorme grattacielo rappresenta la forma tangibile, ma i cui effetti e reti scorrono sotterranei, subliminali a volte, a permeare di sé vari scenari, urbani e non. Illuminato in questa luce di stravagante nuova conquista delle anime, che dire ad esempio del Master Plan appena presentato da un altro braccio armato urbanistico del Qatar per la nostra Costa Smeralda in Sardegna? Gli amministratori locali, come già avevano fatto prima con l'Aga Kahn, poi con Berlusconi, si precipitano a mendicare qualunque forma di investimento nel solito turismo suburbano a colpi di sprawl costiero, con complemento di un terminal riservato aeroportuale, in cui pare (dai pettegolezzi della sorveglianza) sfilino a decine le misteriose mogli velate dei nuovi padroni. Ma anche il nuovo e inopinato consumo di suolo e impatto ambientale assume tinte addirittura più fosche, se inizia a configurarsi come conquista militare di nuovi territori a colpi di progetti urbanistici, in cui una norma tecnica equivale a un trattato di pace e concessione politica internazionale. Ci si può chiedere se non si stia avverando perversamente la profezia di Zevi, ma invece degli hamburger della villetta e dell'utilitaria per tutti, il messaggio pare più sottile: non sarà mica una specie di jihad virtuale?
E allora si illumina di luce diversa anche il bell'articolo proposto domenica 3 febbraio da Richard Florida sul newyorkese Daily News, apparentemente di puro sostegno ad una specie di promozione politica del sindaco Micheal Bloomberg a Washington, alla fine del mandato che scade tra non molto. La riflessione di Florida parte da alcune considerazioni non molto esplicitate qui in Europa, ovvero che gran parte del sostegno politico alle due elezioni di Barack Obama si poggia non solo sulle fasce emergenti di giovani multietnici e immigrati non-bianchi, ma che si tratta principalmente di ceti urbani. Molto schematicamente, se l'elettore tipo della destra Repubblicana lo possiamo virtualmente dipingere come il classico maschio bianco col Suv che si sposta fra svincoli centri commerciali nella villettopoli dispersa, il sostenitore/sostenitrice di Obama prende l'ascensore, va in metro, magari inforca la bici nell'androne di un condominio di dieci piani in un quartiere popolare centrale.
Una divisione strumentale e tagliata con l'accetta, ma che fa il paio con tantissimi altri ragionamenti, per esempio gli infiniti rapporti della Brookings Institution sul ruolo centrale economico, anche mondiale, dei nodi metropolitani, o le scelte dell'amministrazione federale per il sostegno all'occupazione durante la crisi, che avevano quantomeno provato a uscire dalla logica dell'equazione automatica opere pubbliche = infrastrutture che promuovono urbanizzazioni disperse.
A questo, Richard Florida aggiunge la prospettiva vetusta dell'attuale struttura federale per lo sviluppo urbano, tutt'ora strascico dell'antico Housing and Urban Development nato a cavallo tra le due guerre, in piena epoca di suburbanizzazione da un lato, e urban renewal sventratore alla Robert Moses dall'altro. La domanda è: non avrebbe molto, ma molto più senso, sostituire al glorioso ente per l'erogazione di fondi ai quartieri popolari di palazzoni (o a quelli a cul-de-sac automobilistici) una nuova entità più dinamica, aperta ai temi dello sviluppo economico, a quelli emergenti climatici ed energetici, e affidarne la struttura a uno che con tutti questi temi ha ampiamente dimostrato di saperci fare alla grande, come il sindaco di New York, Bloomberg?
Perché la Grande Mela, oltre ad essere da sempre uno dei poli della globalizzazione finanziaria, nei due mandati del sindaco ha dimostrato di essere all'avanguardia anche in altri aspetti un po' meno viziosi della globalizzazione, come i progetti di sostenibilità energetica, l'agricoltura urbana, e last but not least l'esemplare gestione di un caso da manuale di emergenza climatica come la potenziale catastrofe dell'uragano Sandy, dagli interventi di emergenza al Piano Strategico 2030 per il Waterfront appena pubblicato dal Planning Department della signora Burdett.
Insomma, come ci dicono di solito senza tante mezze parole studi e convegni dell'ONU sul tema dell'urbanizzazione del pianeta, la malattia contiene anche al suo interno il siero in grado di curarla. Se gli stati nazionali, a partire da quelli più grandi e potenti, cominciano davvero a investire in modo progressivo e progressista sulle concentrazioni urbane, per renderle ancora più concentrate e ancora più urbane in senso lato, l'antidoto ai grandi mali ambientali sociali ed energetici della Terra forse si avvicina.
E fare un passo del genere in una logica democratica, trasparente, che rende conto agli elettori delle proprie scelte, significa anche contrastare le politiche estere striscianti, magari favorite da altri governi nazionali e locali meno lungimiranti, di chi si infiltra nei territori con le proprie, di politiche urbane. Se si vuole distinguere fra destra e sinistra, nell'epoca della globalizzazione, pare davvero che si possa ancora tornare al vecchio adagio: il quartiere urbano è progressista, le villette con giardino nascoste da alte siepi sono reazionarie. Anche quando la guerra non si combatte nelle trincee con la baionetta innestata, ma discutendo di politiche urbanistiche.
Per chi volesse dare un'occhiata ai tre testi che ho direttamente citato per nome e cognome: prima di tutti il nostro Bruno Zevi, con la sua conferenza L'urbanistica come strumento di politica estera che ho tradotto tempo fa su Mall dal Journal of the American Institute of Planners, inverno 1946; poi la tesi dell'esperto di politica estera dell'Observer, Peter Beaumont, secondo cui Il Qatar si sta impossessando del mondo pubblicata lo scorso luglio; infine l'appello di Richard Florida perchè Obama ci lasci una duratura eredità urbana magari promuovendo a Washington il sindaco Micheal Bloomberg, proposto domenica 3 febbraio sul sito del New York Daily News.
A proposito del citato Piano Strategico per il Waterfront ci vorrà un po' più di pazienza, il mio articolo è in fase arretrata di redazione. Ma i veri appassionati e ammiratori internazionali della mitica Amanda Burden (da Oscar la sua interpretazione in Urbanized) possono scaricarselo direttamente - intero o a fettine, attenzione, è pesantissimo - dalla pagina Vision 2020 del sito comunale

Imparando dalla storia e dalla natura più che dalla modernizzazione tecnologica e dai modelli omologati si possono fare cose che sembrano miracoli. Non qui da noi: altrove, per esempio nel Burkina Faso. La Repubblica, 31 gennaio 2013

L’uomo che fermò il deserto non è né uno scienziato né un facitore di miracoli, ma un contadino del Burkina Faso che grazie al suo exploit continua a suscitare invidia e ammirazione presso i più illustri agronomi del pianeta. La sua battaglia per salvare le colture di miglio e di sorgo dall’avanzare delle sabbie, Yacouba Sawadogo l’iniziò più di un quarto di secolo fa. Negli anni Ottanta, la sua terra era già afflitta da una terribile siccità che da allora non ha fatto che peggiorare. Stiamo parlando del Sahel,sovrastato dal più grande e più vorace deserto del mondo, il Sahara, che diventa sempre più vasto, mangiando giorno dopo giorno savane e terre agricole, con un appetito aguzzato dal clima impazzito per via dell’effetto serra.

Come ha agito Yacouba? Il contadino è ricorso a una ricetta antica o forse preistorica poiché lo “zaï ”, che in lingua mossi vuol dire “fossa”, è una pratica agricola usata a quelle latitudini dalla notte dei tempi. Lo “zaï” deve avere inizio a primavera, che nel Burkina Faso coincide con la stagione secca, e consiste nello scavare buche profonde 30 centimetri e larghe circa 20. Una volta che l’area in questione èstata lavorata con una quantità adeguata di fosse, queste saranno prima riempite di sterco di capra misto a cenere e foglie secche, poi seminate. Tutto qui? No, perché dopo la semina è importante che la gente del villaggio vada ad ammirare il lavoro eseguito, e aspetti la pioggia. Anzi, la poca pioggia che cadrà durante i brevi monsoni subdesertici,ma che le fosse raccoglieranno senza sprecarne una sola

goccia. All’inizio della sua avventura, nemo profeta in patria, Yacouba era considerato un pazzo dalla sua gente. Una volta fu perfino denunciato e quando giunse una camionetta di gendarmi per dargli una lezione, lui fu costretto a nascondersi nel bush. Poi, però, con il passare degli anni e con l’aggravarsi della siccità, dal suo villaggio, così come da altre centinaia di piccoli centri contadini, la popolazione cominciò a fuggire andando a ingrossare quelle legioni di miserabili che ancora affollano i campi profughi o gli slum delle città africane.

Nel frattempo, con l’ostinazione di un ricercatore, o di un santo, Yacouba continuava a mettere in pratica lo “zaï” per riesumare poco per volta i segreti ormai dimenticati dei suoi avi. Fino a quando, una decina di anni fa, le gemme di sorgo cominciarono a spuntare sempre più forti e più numerose, mentre nei fazzoletti di terra lasciati a maggese crescevano acacie e arbusti rimboscando ciò che l’aridità aveva bruciato. Grazie alla sua tenacia, vaste porzioni di deserto sono oggi terre fertili che forniscono ricchezza(lo “zaï” ha consentito ai contadini di raddoppiare o anche triplicare i loro raccolti) e chi era fuggito altrove ha cominciato a tornare per ripopolare quelle lande riportate alla vita.

Tre anni fa, una casa di produzione statunitense, la 1080 films, girò un documentario su questo pioniere della lotta contro l’inarrestabile avanzata delle sabbie. Dopo aver vinto una decina di premi, il film è stato trasmesso dalle tv di mezzo mondo e Yacouba invitato a parlare in diverse conferenze internazionali. Dove il contadino taumaturgo è sempre stato accolto con meritatissime standing ovation.

Quando le buone pratiche nascono dal "basso": l'esempio della valutazione sul piano di assetto territoriale di Treviso. Scritto per eddyburg, 27 gennaio 2013 (m.p.g.)

La sezione Italia Nostra di Treviso, come contributo al processo di pianificazione comunale e a fronte di un PAT (piano di assetto territoriale) presentato dall’amministrazione decisamente sovradimensionato, ha sperimentato un semplice processo di valutazione del patrimonio edilizio non utilizzato qui descritto. Da una analisi pur non esaustiva sono emerse moltissime aree (circa 70) passibili di riutilizzo / riqualificazione, denominate “buchi neri”.
In allegato trovate sia l’elenco che la legenda, così come la planimetria di queste aree che interessano tutte le zone della città ed hanno una superficie notevole: le sole tre caserme segnalate ( Piave, Salsa, De Dominicis) delle quali una abbandonata e le altre due acquisite dal comune, hanno una superficie complessiva di circa 150.000 mq, mentre per rimanere al solo centro storico i tre maggiori complessi hanno una superficie di oltre 30.000 mq con una volumetria che raggiunge i 60.000 mc.
A partire da questa base conoscitiva Associazioni e cittadini affronteranno nelle prossime settimane un processo partecipativo alla redazione del PAT su di un piano meno superficiale e sbilanciato di quello previsto dagli attuali strumenti amministrativi.
Ci sembra un esempio di grande utilità che segnaliamo per la sua efficacia e sul quale vi terremo informati (m.p.g.)


Premessa conoscitivaIl Comune di Treviso ha sempre avuto (fin dal 1945: progetto adottato ma mai perfezionato) Piani Regolatori con una eccessiva capacità insediativa, soprattutto residenziale. Le previsione del PRG adottato nel 1967 ed approvato nel 1974 erano di circa 140.000 abitanti a fronte degli 90.446 esistenti al Censimento 1971 (massimo storico raggiunto). Nel 2001, nel nuovo PRG adottato, a fronte degli 80.144 abitanti censiti la capacità insediativa era di circa 135.000 unità.
Questo progetto di PRG è stato definitivamente approvato nel 2004: anno di entrata in vigore della nuova Legge Regionale sulla gestione del Territorio (L.R. n.11/2004); su questa contemporaneità il Comune di Treviso ha tentato per 8 anni di iniziare le procedure per redigere un PRG fondato sulle prescrizioni della nuova legge regionale. Solamente alla fine del 2011 ha dovuto arrendersi emanando il bando di appalto per l’aggiudicazione dei lavori di redazione del PAT (Piano di Assetto del Territorio)

Iniziative 2201-2005La sezione di Treviso di Italia Nostra ha promosso e sostenuto critiche alle previsione del PRG adottato riguardanti soprattutto la previsione di una tangenziale Est prevista su territorio particolarmente fragile (risorgive e corsi d’acqua) concretata con oltre 8.000 osservazioni e contro il cambio di destinazione d’uso dell’Ospedale Psichiatrico di S.Artemio, ormai praticamente dismesso, da zona per servizi a residenza (con previsione di vendita a privati= cordata d’acquisto già individuata).
La tangenziale Est è stata cancellata e l’area dell’Ospedale Psichiatrico è rimasta di proprietà pubblica (attuale sede dell’Amm.ne Provinciale).
La debolezza dell’Associazione non ha permesso, in quel momento, di affrontare il tema della eccessiva previsione insediativa e del conseguente consumo del suolo.

L’attualitàAlla fine del 2011 si è venuti a conoscenza che la Regione voleva che anche il Comune di Treviso adeguasse il PRG alla L.R. n. 11/2004: era giunto il momento di iniziare a studiare alcune scelte prevedibili: primo fra tutte l’incremento della capacità insediativa ed il conseguente uso/consumo di territorio agricolo.
La presenza nel territorio di alcune Caserme dismesse o in via di dismissione ci ha convinto ad iniziare una verifica di tutti gli edifici e di tutte le aree non più utilizzate al fine di individuare quelli che abbiamo chiamato “buchi neri”. La scelta del “nome” non è casuale e si è verificata di grande impatta mediatico: quelli esistenti nelle galassie “mangiano” la materia; i nostri “mangiano” la città.
L’indagine si è svolta sulla base delle nostre conoscenze, prima a tavolino ed in seguito con verifiche puntuali; prima redigendo un elenco impegnando due persone e successivamente interessando alla ricerca altre associazione o gruppi (i contributi non sono stati molti ma hanno permesso coinvolgimento e conferme).
Contemporaneamente abbiamo iniziato a chiedere che il Comune fornisse il dato di tutti gli alloggi risultati liberi/non occupati sulla base del Censimento della popolazione: soltanto da poco abbiamo ricevuto il dato di 4.800 alloggi non occupati pari a circa il 12% del totale, ben oltre alla percentuale “fisiologica” del 5-6%. Si deve inoltre tener presente che non sono compresi gli alloggi previsti negli S.U.A già convenzionati ma non ancora realizzati a causa della crisi.

Ci siamo posti infine il problema della comunicazione dell’indagine sui “buchi neri” che abbiamo volutamente (ma questo non è stato detto) tenuta incompleta partendo dalla considerazione che era preferibile non indicare tutto quanto avevamo individuato al fine di poter sostenere che la situazione era ancora peggiore.
Per avere un elemento di forte ed immediato impatto abbiamo messo in una planimetria del territorio comunale in scala 1.10.000 come premessa per una individuazione fotografica (da Google Map) di ogni sito individuato.

La prima presentazione pubblica del lavoro (elenco e planimetria) è avvenuta nel giugno 2012, in anticipo di quasi un mese rispetto alla prima convocazione indetta dal Comune per il cosidetto “coinvolgimento” previsto dall’art.2 comma c) della L.R. n. 11/2004.
In questo modo abbiamo immediatamente spostato l’attenzione sulla necessità di bloccare ogni ulteriore espansione: l’Amministrazione Comunale ha dovuto immediatamente recepire il messaggio. Ma abbiamo anche ottenuto la possibilità di coinvolgere i cittadini: con una serie di incontri è stato presentato alla Amministrazione e ai progettisti un documento di sintesi di richieste firmato da 26 associazioni e gru ppi: Oltre a questo abbiamo presentato 5 contributi su temi specifici da noi redatti ed altri 18 contributi presentati da associazioni e gruppi non individuati dall’art. 13 della L. 349/1986, che il Comune non voleva né invitare al dibattito, né ascoltare.
Nei prossimi giorni il progetto di PAT sarà presentato e discusso il Consiglio Comunale; sulla base dei ”contributi” presentati sarà possibile verificare quanto essi siano stati presi in considerazione e, quindi, predisporre una campagna di osservazioni specifiche e puntuali.
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Documenti allegati
Legenda buchi neri
Elenco buchi neri
Planimetria buchi neri

«Più scuole e meno chiese, trasporti pubblici, illuminazione nelle periferie e consultazioni pubbliche. Cento anni dopo, l'insegnamento per Roma di un sindaco ebreo, laico, repubblicano è ancora valido» Il manifesto, 15 gennaio 2013
A mali capitali, antichi rimedi

di Maria Immacolata Macioti


Ha senso parlare oggi di Ernesto Nathan, sindaco di Roma ai primi del Novecento? Credo proprio di sì. Anzi, forse oggi il suo esempio sarebbe da riprendere più di ieri. Ci troviamo infatti, nella città di Roma, di fronte a una situazione per più versi preoccupante: in primo luogo, un forte deficit economico, il che renderà la vita difficile a chiunque farà il sindaco a Roma, a qualunque giunta. Ma Nathan si era trovato in condizioni non dissimili, a Roma, nel 1907: e si era impegnato nel risanamento del bilancio. Tagliando tutte le spese superflue, certamente. Ma anche investendo, al contrario, nella cultura. Non ci saranno mai abbastanza scuole, aveva dichiarato. Lo testimonia Gustavo Canti: «Quegli che rimarrà esempio non superato di rigido e parsimonioso amministratore, quegli che non si peritò di affrontare ire e impopolarità per difendere il pareggio del bilancio... quando si trattò delle scuole non lesinò mai, anzi diede liberamente». L'istruzione e la preparazione professionale sono state al primo posto nella programmazione: «Il bilancio, il suo pareggio sono la legittima preoccupazione di ogni prudente amministratore - dichiara Nathan nel discorso programmatico - ma sino a quando vi sia un solo scolaro entro la nostra cerchia amministrativa, il quale non possa ricevere istruzione ed educazione civile, in ambiente sano ed adatto, le considerazioni del bilancio finanziario devono cedere il passo alle imperative esigenze del bilancio morale ed intellettuale. Le scuole devono moltiplicarsi, allargarsi, migliorarsi; rapidamente, energicamente, insieme col personale scolastico». Oggi invece si tende a mortificare, a depauperare l'università. Le scuole pubbliche, in Italia in genere e anche a Roma, sono fortemente in difficoltà, tanto che a necessità di base provvedono spesso i genitori degli alunni. Gli insegnanti sono mortificati da annose attese per l'entrata in ruolo, dalla precarietà protratta. Si tende ad addossare loro compiti sempre più gravosi, senza corrispettivi positivi: eppure sono gli insegnanti che nelle scuole provvedono alla socializzazione delle nuove generazioni, un compito sempre importante ma mai come oggi, vista la presenza di tanti bambini figli di migranti. Non solo: va ricordato che a Roma si è perseguita per anni la politica dell'abbattimento di campi rom, con il risultato di buttare cifre consistenti che avrebbero potuto essere impiegate più utilmente per una politica di integrazione e di rendere impossibile ai bambini rom il frequentare le scuole dove erano inizialmente iscritti.

Pareggio del bilancio sì, quindi. Con rigore. Ma anche, insieme, investimenti per le scuole, per l'istruzione. Più scuole e meno chiese, dice Nathan. «Nella Roma di un tempo non bastavano mai le chiese per pregare, mentre invano si chiedevano le scuole; oggi le chiese sovrabbondano, esuberano; le scuole non bastano mai!» chiarisce Nathan in un celebre discorso tenuto il 20 settembre 1910 alla breccia di Porta Pia, discorso che provocherà furiose polemiche. Roma usciva appena da secoli di dominio papale, era una città dove il lavoro produttivo era scarso e le condizioni sanitarie pessime: tutto intorno alla città, l'Agro romano era fonte di febbri malariche. L'analfabetismo dominante si accompagnava a povertà e a miseria. Sono dei primi del Novecento, nate per iniziativa di poeti e scrittori, di vari intellettuali, le Scuole per i contadini nell'Agro romano. Vengono aperte nelle aree più povere e degradate, sono scuole rivolte ad adulti analfabeti: incoraggiate e concretamente aiutate da Nathan. Che cerca altresì di dare spazio alle scuole professionali - scuole commerciali, per operai addetti al gas, elettricisti, oltre che per assistenti edilizi, magistrali per muratori e operai meccanici - che cerca di abbinare scuole e industrie private, di mettere in collegamento questi due ambiti: eppure la Gelmini nella sua cosiddetta riforma presentava questa esigenza come una grande novità.

Roma oggi è di nuovo una città fortemente degradata. Strade dissestate e sporche, macchine parcheggiate in doppia fila, che rendono difficile lo scorrimento del traffico, lavori annosi che non appena terminati devono essere ripresi perché mal fatti o perché si sono usati materiali non adatti o di scarto, alberi che avrebbero bisogno di cure, parchi abbandonati, servizi che lasciano a desiderare, come ben sa chiunque si sposti o cerchi di spostarsi con mezzi pubblici: i servizi invece erano stati una priorità, per il blocco Nathan. Che, con Montemartini, ha dato un forte impulso in merito: il comune si è occupato dell'igiene della città, dell'assistenza sanitaria. Sono state istituite guardie ostetriche per partorienti, profilassi di malattie infettive, presidi per medici in zone in difficoltà come Porta Metronia, Ferratella, in vari luoghi dell'Agro romano: e si richiede ai medici di risiedervi. Oggi il welfare è uno dei nodi problematici più rilevanti, un tema con cui si dovrà confrontare chiunque lavorerà in Campidoglio.

Hanno luogo in quegli anni le prime consultazioni popolari: per la mobilità, da cui poi l'Atac. Per l'illuminazione, da cui l'impianto idrotermoelettrico per la produzione e distribuzione dell'energia elettrica, sia per la forza motrice che per l'illuminazione; da cui l'Acea (si può ancora ammirare la centrale Montemartini al Testaccio, oggi un museo). Non senza critiche e irrisioni da parte di una stampa non abituata all'esercizio della democrazia nell'Urbe, in testa il noto «Il Travaso» che pubblica tredici derisorie quartine contro l'idea stessa del referendum («Ben è ver che se Dio non provvede/ a dar Egli la luce ... al cervello, / faccia il Blocco o non faccia l'appello,/ a che serve un miliardo di sì?»), laddove Nathan ha chiaro che l'illuminazione è una misura minima basilare, come ben sanno molte donne che negli ultimi tempi hanno subito aggressioni in zone periferiche, abbandonate e scarsamente illuminate di Roma. E non solo.

Ci si propone la moltiplicazione dei mercati, la guerra al bagarinaggio: e il fastidio per il mercato del pesce dal sindaco voluto e fatto aprire si riflette in una canzonetta di Giggi Pea, pubblicata da G. Micheli: «Er mercato der pesce è 'na risorsa,/questi so' fatti, mica so' parole,/de scuali, de merluzzi e de ciriole/ a Roma ce ne so' na quantità.// Poi sta' sicuro e si ne voi 'na prova/ar sinnico tu chiedi un baccalà/nemmeno volta l'occhi e te lo trova/ e nun lo paghi manco la metà...»

C'è bisogno di case, di case popolari: troppe le persone costrette a vivere in baracche, in alloggi impropri, con danno della salute. Si avrà un moderno piano regolatore, quello di Saint Just di Teulada, che prevedere diversi tipi edilizi, case popolari. Zone di Roma come Prati, S. Saba, Testaccio sono ancora lì a testimoniare l'importanza di quest'opera. E si cercherà di perseguire una rigida applicazione del sistema di tassazione sulle aree fabbricabili previsto su piano nazionale, basato sull'autodichiarazione del valore del terreno, che potrà però anche essere espropriato sulla base del prezzo dichiarato. Naturalmente la speculazione edilizia non gradisce. E sarà proprio sull'edilizia che la giunta incontrerà le maggiori difficoltà e resistenze, che cadrà.

Promettere poco e mantenere molto, diceva Ernesto Nathan. Proprio il contrario di quanto si fa oggi, quando eventuali candidati promettono mari e monti, da drastici sgravi fiscali a rosei, vicinissimi futuri. E si sa già che non manterranno nulla di quanto proclamato.

È stato, Ernesto Nathan, un riformista autentico. Ci sarebbe bisogno, oggi, di persone come lui, attente ai problemi degli strati sociali maggiormente in difficoltà, pronte a spendersi in prima persona.

IERI E OGGI

Malgoverno e Vaticano, un secolo di analogie
di Enrico Pugliese

Le analogie tra la Roma del 1906 e la Roma di oggi sono notevoli: la situazione economica e sociale della città e quella finanziaria del Comune che Nathan ereditò dalla precedente amministrazione di Prospero Colonna non sono diverse da quella che Alemanno lascia in eredità al futuro sindaco di Roma-Capitale. Oltre al malgoverno del Comune - con un dissesto finanziario che richiese una svolta decisiva, c'è un'analogia significativa che riguarda l'invadenza del Vaticano e degli ambienti della destra cattolica nella vita della città. Non meno importanti sono le analogie che riguardano la situazione dei lavoratori, sia per quel che riguarda i livelli occupazionali e le condizioni di lavoro - con la disoccupazione strutturale, la precarietà occupazionale e i bassi salari - sia per quanto riguarda le condizioni di vita, in particolare le condizioni igienico-sanitarie degli alloggi e dei ricoveri dei lavoratori più precari. I bassi salari e la difficoltà di trovar casa a condizioni accessibili - nella Roma che in trent'anni dopo l'Unità aveva più che raddoppiato la sua popolazione - riguardavano tutti, non solo la classe operaia e gli strati più bassi dei lavoratori dei servizi ma anche vasti settori dell'impiego pubblico. Con la differenza che all'epoca, dopo il decennio della febbre edilizia e quello della crisi, le case semplicemente non bastavano; ora ci sono ma ne sono esclusi quelli che non possono pagare.

Chi stava peggio erano gli immigrati, dall'entroterra laziale e abruzzese. Erano i lavoratori agricoli, braccianti alla giornata, che con lo sviluppo dell'edilizia si trasformarono sempre di più in lavoratori edili talché al mercato delle braccia per la mietitura e le altre attività agricole stagionali si andò sempre più sostituendo il mercato delle braccia per l'attività edilizia. Ora vengono da più lontano: sono gli immigrati dal Terzo Mondo e dai paesi dell'Est. Il mercato delle braccia ora si svolge in prossimità degli "smorzi" (i magazzini-deposito di materiale edile) ed essi dormono dove possono. Prima i "cafoni" o i "burini", non potendo permettersi un alloggio, passavano le notti sotto i portici di piazza Vittorio.

Nei decenni precedenti l'esperienza di Nathan la struttura sociale della città era cambiata significativamente. Roma non aveva avuto lo sviluppo industriale delle altre capitali europee: non si può dire che si fosse consolidata una classe operaia industriale (come lamentavano studiosi, sindacalisti e settori del partito socialista) ma è altrettanto vero che gli addetti all'industria erano significativamente aumentati, anche se dominava l'occupazione nei servizi e la componente più evidente del proletariato era rappresentata dagli edili, spesso collocati all'esterno o al margine delle organizzazioni sindacali o aggregati in organizzazioni con posizione critica, come la Lega generale del lavoro, frutto di una scissione della Camera del lavoro, nella quale la componente anarchica era particolarmente significativa.

Dall'altra parte c'era una aristocrazia terriera collegata al Vaticano alla quale erano aggregati settori di borghesia reazionaria anch'essi interessati alla speculazione edilizia e alla rendita e coinvolti anch'essi negli scandali che a fine '800 avevano riguardato il paese e Roma in particolare. È a questo blocco che si opporrà Nathan. Ma già prima di lui l'indebolimento del fronte reazionario, e un primo blocco popolare che comprendeva anche rappresentanze del movimento operaio, aveva permesso la formazione di una giunta progressista (con sindaco Armellini), ancorché di breve durata, che mostrò l'esistenza di un'alternativa.

Questa si concretizzerà e lascerà un segno indelebile nella storia di Roma con l'elezione a sindaco di Ernesto Nathan. Dal punto di vista del lavoro, disoccupazione e bassi salari si presentavano in maniera drammatica. E su questo la possibilità di intervento dell'amministrazione comunale è molto modesta. Ma le condizioni dei lavoratori possono essere alleviate subito e migliorate in prospettiva con un intervento massiccio nel campo delle politiche sociali. Ad esempio con una politica abitativa per cui coloro che costruiscono le case per la gente non siano costretti a dormire all'addiaccio. Ma anche con lo sviluppo dei servizi e le municipalizzazioni operate da Nathan che ne resero più efficiente la gestione e meno onerosa la fruizione. La lotta contro l'analfabetismo e la politica scolastica i furono cardini fondamentali dell'impegno di Nathan. Le politiche sociali - si sa - costano. Ma fanno anche risparmiare consentendo sviluppo economico e sociale. E poi i costi sono resi affrontabili da un recupero delle risorse attraverso una tassazione giusta (come allora quella sui suoli o, come potrebbe essere ora, una patrimoniale) e attraverso la gestione di un bilancio pubblico e trasparente.

UN CONVEGNO E UN APPELLO
Una nuova rivoluzione nel segno di Nathan

Nel 1913 terminò la l'esperienza del sindaco più straordinario che Roma abbia avuto: Ernesto Nathan. Nel 2013 a Roma si vota per un nuovo sindaco. Nathan, tanto laico da proporre una legge sul divorzio nella città dei papi, mazziniano, ebreo, alleato dei socialisti, ha rappresentato una significativa frattura nella compatta storia della capitale: prima e dopo, e per un intero secolo, a dominare e plasmare la città sono stati - salvo brevi intervalli, in particolare l'esperienza di Petroselli - gli interessi della speculazione fondiaria ed edilizia. Quella di Nathan fu una rivoluzione interrotta. La sua amministrazione agì soprattutto su quattro ambiti, secondo la sintesi di Italo Insolera nel suo "Roma moderna": la tutela dell'igiene pubblica, l'incremento dell'istruzione elementare, una politica volta a limitare la speculazione fondiaria, la partecipazione della cittadinanza all'amministrazione. In quei pochi anni, non più di sette, fu varato il primo Piano regolatore di Roma, furono costruite decine di scuole elementari e rurali, fu costruita una rete tramviaria moderna che, grazie al solo referendum cittadino che si sia mai tenuto in città, divenne un'azienda municipale, così come Acea - acqua ed energia - azienda che Alemanno ha cercato di privatizzare del tutto: la pubblicizzazione dei servizi pubblici è un'indicazione più che mai attuale, dopo gli anni delle privatizzazioni forzate, che proseguono. (...) A noi pare che - se si vuole ridare un futuro a Roma - è da lì che si deve ricominciare. I quattro punti di quel programma sono, visti con gli occhi di oggi e guardando alle più innovative proposte sulla vita delle metropoli, i punti di partenza di una nuova rivoluzione romana. (...) Tutto questo noi vorremmo fosse l'oggetto di un convegno, da tenersi il 19 gennaio, presso la sala dell'Acquario (piazza Manfredo Fanti 47, a Roma), in cui intelligenze ed esperienze romane, docenti e giovani ricercatori, organizzazioni sociali e movimenti per la casa abbiano l'opportunità di studiare e dibattere quel che accadde un secolo fa per ricavarne l'ispirazione, l'energia necessaria ad avviare le grandi trasformazioni indispensabili per ridare a una città umiliata e impoverita, incollerita e frantumata, una speranza di futuro.

Maria Delfina Bonada, Maria Rosa Cutrufelli, Tommaso Di Francesco, Maria Immacolata Macioti, Riccardo Magi, Rossella Marchini, Angelo Mastrandrea, Sandro Medici, Sandro Morelli, Roberto Musacchio, Vincenzo Naso, Anna Pizzo, Valentino Parlato, Bianca Pomeranzi, Clotilde Pontecorvo, Alessandro Portelli, Enrico Pugliese, Patrizia Sentinelli, Antonello Sotgia, Pierluigi Sullo

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The Nation, dicembre 2012, postilla (f.b.)

È quello di Jane Jacobs il nome che più spesso emerge nelle discussioni sulla qualità dell’abitare urbano contemporaneo. Ed è comprensibile, visto che il suo La Vita e la Morte delle Grandi Città ha avuto un’influenza sulle discussioni urbanistiche superiore a quella di qualunque altra opera. Però c’è anche un’altra Jane, Holtz Kay, il cui nome emerge forse un po’ più in sordina, ma di sicuro fra chi conta in questo campo. Una Jane che ha combattuto instancabilmente per decenni nelle trincee della critica di architettura e urbanistica, della conservazione storica, dell’attivismo politico e del giornalismo ambientale, e che fra gli altri prestigiosi ruoli ha ricoperto a lungo anche quello di critico di architettura per The Nation.

È stata probabilmente la sua ammirazione per Lewis Mumford, a partire dalla tesi specialistica del 1960 all’università Radcliffe con la prima intervista con lui, ad averla spinta a spaziare così tanto, senza però perdere il contatto coi più minuti particolari della vita quotidiana. A Mumford ha sempre fatto riferimento, direttamente e in quanto ha scritto, tante volte nei decenni. Nell’intervista pubblicata nel 1977 dalla rivista dell’American Institute of Architects, ci guida attraverso l’opera di Mumford, la sua eredità, la vita familiare di ogni giorno. Sa far rivivere il respiro della sua intelligenza, lo stile di lavoro, l’ambiente di cultura armena che lo circonda, e a dar voce anche a Sophia: “moglie, compagna intellettuale, amica per la vita, … sostegno materiale negli anni della gioventù, amanuense nella vecchiaia”.

Ma non si trattava certo di devozione cieca, come conferma questo splendido breve paragrafo della recensione all’autobiografia pubblicata nel 1982 sul Christian Science Monitor: “Nella sua autobiografia, così come nella vita, i lungimiranti obiettivi intellettuali di Mumford, il suo sguardo pessimista e morale, lo portano al tempo stesso verso il successo e il fallimento: fallimento perché sono i nostri Giosuè, non i Geremia, a far crollare le mura della società; successo perché le sue argomentazioni etiche lo proiettano nei secoli”. Jane Holtz Kay ha pubblicato una grande quantità di articoli; idee, revisioni, interviste, opinioni, critiche, dal campo dell’architettura, alle trasformazioni urbane, al “suburbio dell’auto”, a Olmsted, alla progettazione e pianificazione della città, a tante altre cose parallele e correlate.

Basta fare un elenco in ordine alfabetico delle pubblicazioni su cui ha scritto: da AIA, a Alternet, Appalachia, Sierra, Smithsonian, Technology and Urban Ecology; o contributi a The Chronicle of Higher Education, Columbia Journalism Review, Harvard Business Review, Ms., Orion, Preservation, The Progressive, Grist,e tante altre testate. L’elenco dei pezzi per il New York Times occupa quattro pagine web, e lo stesso vale per The Nation. Ha scritto Lost Boston (1980), notevole storia sociale e dell’architettura che attraversa secoli di patrimonio culturale distrutto, e pure con la speranza nell’impegno per la conservazione. Tra le centinaia di evocative illustrazioni un manifesto politico affisso alla fermata di Park Street della linea “T” della metropolitana, omaggio alla mancata elezione di suo padre, candidato liberal al Congresso negli anni ’50. C’è poi Preserving New England (del 1986 scritto insieme a Pauline Chase Harrell), percorso fra paesaggi urbani e rurali, e soprattutto il suo lavoro più importante Asphalt Nation(1997), che esplora la frontiera della mobilità, dalle distruzioni ambientali in nome della nostra dipendenza dalle automobili, ai tanti promettenti tentativi di riforme in corso negli anni ‘90.

Seguiva l’evoluzione dell’architettura per il Boston Globe, The Christian Science Monitor, e naturalmente per The Nation, dove ha recensito edifici, piani, mostre, e tanti libri a partire dal 1973. Era una voce nota ed esplicita nelle conferenze, nei circuiti culturali, a volte universitari. Il suo stile di scrittura era straordinariamente raffinato, paragrafi magistralmente costruiti, pagine che seguivano titoli intelligenti, articolate in termini anche gergali ma sempre coinvolgenti. Nel 1990 aveva collaborato con Dorothea Hass al varo di WalkBoston restando poi in stretto contatto col gruppo di lavoro, da sempre interessata alla causa dei pedoni. Pioniera dell’impegno urbano, fu un modello per la costituzione di associazioni del genere in tutti gli Stati Uniti per vent’anni.

Sono tante le cose indotte dall’automobile e dallo sprawl raccontate dalla Holtz Kay, che ancora oggi ci giocano contro; le emissioni dei motori in crescita, o una recente legge sui trasporti ad annullare i progressi fatti sinora, o una politica che in sostanza continua a non agire contro il cambiamento climatico. Però tante fra le iniziative più promettenti che aveva notato e poi sostenuto stanno maturando; c’è nuovo interesse per la smart growth, rinascono i trasporti pubblici, specie su rotaia, e poi il car-sharing, il ciclismo urbano, la pedonalità.

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente entrambe le due Jane, a partire dai primi anni ’90, traendo grande giovamento dalla loro compagnia e dalle discussioni passeggiando nei loro amati quartieri. Le due Jane si sono anche incrociate fra loro almeno una volta, un buon incontro, quando la Jacobs ha scritto una brillante fascetta per l’edizione di Asphalt Nation. Condividevano una specie di solidarietà femminile, di sorellanza in un mondo dominato da maschi, che solo iniziava ad aprirsi a punti di vista e partecipazione femminile. Fisico sottile ma voce decisa, la Holtz Kay era tutt’altro che stridula, modello di tatto nelle relazioni intellettuali come nel conflitto politico. Se aveva qualche genere di propensione nel caso della nota polemica Mumford-Jacobs sui modi di affrontare l’urbanistica, di cui si fa allusione indiretta nell’intervista del 1977 a Mumford, è stata adeguatamente rintuzzata e messa in riga, impedendole di sbracare.

La Holtz Kay dava molta importanza ai particolari, specie umani, anche se qualche volta noi suoi amici “tossici dei trasporti” avremmo voluto vedere qualche suo paragrafo magari prima che andasse in stampa. Ma Martha Bianco, dopo aver criticato alcuni passaggi “scientificamente traballanti” di Asphalt Nation notava acutamente nella sua revisione del 1998 per H-Net :“Vuole spingere il lettore all’azione, contribuire ad accendere il fuoco di un attivismo anti-automobilistico .… bisogna ascoltare voci così, e non sedersi nell’accettazione che ci ha ridotto a questo stato di auto-dipendenza”. Viviamo in un grande universo costantemente, in cui come ci spiegano i fisici teorici tutto è possibile, e io mi immagino un bar in un angolo senza automobili, coi tavolini all’aperto, dove stanno seduti Mumford e le due Jane, la Holtz Kay in mezzo tra gli altri due per cercare di fargli far pace. I passanti rallentano per ascoltare quella accesa discussione, su come si dovrebbe riprogettare …. la sublime gated community dove abitano adesso.

Postilla
Al bellissimo ricordo personale di Preston Schiller vorrei brevemente aggiungere una nota che forse aiuta a capire il valore anche non specificamente “americano” della critica di Jane Holtz Kay. Per puro caso stavo leggendo Asphalt Nation proprio durante le periodiche trasferte lungo le grandi arterie interregionali ovest-est dal Piemonte al Veneto, a studiare i paesaggi suburbani per il saggio sulla dispersione a nastro produttiva e commerciale nella “megalopoli padana”, che sarebbe finito nei testi introduttivi della nota raccolta NO SPRAWL (a cura di M.C. Gibelli e E. Salzano). Sono state proprio le prospettive illuminanti di quel libro, la capacità di farci guardare oltre l’ovvio, a mostrare la strada, ad aprire la finestra su un panorama piuttosto inquietante, che un paio di generazioni di conformismo ci hanno costruito attorno. Uno dei lati positivi della globalizzazione è che, oltre ai flussi di capitali, anche le idee girano più vorticosamente, e magari aiutano un po’ a ristabilire equilibrio (f.b.)

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