Inviato a eddyburg il 20 gennaio 2014
La recente approvazione alla Camera del disegno di legge 1542 del 20/08/2013 in materia di Città Metropolitane, Province, Unioni e Fusioni dei Comuni è il quarto tentativo in tre anni volto a riformare il sistema degli enti locali. Il dibattito attorno alla nuova legge è purtroppo stato monopolizzato dal tema della spending review, che ha messo in secondo piano la necessità, non più eludibile, di attuare una seria revisione dell’intera architettura istituzionale italiana, nella quale funzioni e competenze spesso si sovrappongono. Si è enfatizzato il tema mediatico del risparmio di risorse pubbliche e di poltrone politiche, sorvolando invece sulla redistribuzione delle funzioni che si potrebbe realizzare con il nuovo assetto istituzionale.
La proposta legislativa si basa, essenzialmente, su tre pilastri:
- istituzione delle Città Metropolitane;
- ridefinizione delle Province, trasformate in enti di secondo livello con progressivo svuotamento di funzioni a favore delle Città Metropolitane o dei Consorzi di Comuni;
- disciplina in materia di unioni e fusioni per i piccoli Comuni.
La somma di queste azioni produrrebbe, secondo le stime effettuate dal ministero, risparmi da uno a due miliardi di euro e la cancellazione di oltre 5.000 cariche politiche.
Ma vi è un altro aspetto davvero criticabile: per chi si occupa di pianificazione territoriale il disegno di Delrio appare, per ora, come una grande occasione mancata. Infatti, è proprio nel campo della pianificazione territoriale e urbanistica che i problemi generati da sovrapposizioni e conflitti di competenza tra diversi livelli amministrativi sono più evidenti.
Da tempo è necessaria una revisione dell’intero sistema di pianificazione, che è ancora ispirato alla legge fondamentale del 1942.
Con la riforma del titolo V della Costituzione le principali competenze urbanistiche sono in capo ai Sindaci secondo il principio di sussidiarietà, il quale, nella prassi, si è trasformato in un eccesso di municipalismo egoistico dagli esiti deludenti: a nostro avviso il concetto di sussidiarietà è stato interpretato più come un processo di decentramento funzionale e decisionale che non come l’occasione per sperimentare forme innovative e più efficienti di governo del territorio alla scala pertinente.
Da qui la necessità di un ente intermedio, che sia in grado di governare le tematiche dell’area vasta quali trasporti, ambiente, pianificazione territoriale, recependo così un altro principio fondamentale come quello dell’adeguatezza.
Purtroppo la nuova legge non affronta in modo convincente queste problematiche.
Le città metropolitane saranno istituzioni che manterranno tutte le competenze delle Province alle quali subentreranno e a cui andranno ad aggiungersi le seguenti funzioni:
- elaborazione e aggiornamento annuale di un piano strategico del territorio metropolitano, quale strumento di indirizzo;
- pianificazione territoriale generale, comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture di scala metropolitana;
- promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale;
- promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e digitalizzazione.
Le restanti Province, che dal giugno 2014 si trasformeranno in enti di secondo livello, diventeranno strutture leggere, i cui organismi (Presidente e Consiglio Provinciale) saranno eletti dai Sindaci e dai Consiglieri Comunali dei comuni ricadenti nel territorio provinciale, fino alla loro definitiva abolizione che dovrà avvenire con legge costituzionale. Il disegno di legge attribuisce alle Province le seguenti funzioni fondamentali:
- pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché valorizzazione dell’ambiente;
- pianificazione dei servizi di trasporto;
- programmazione della rete scolastica;
- assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali.
La disciplina sulle unioni e fusione dei comuni non si discosta molto da quella introdotta dal precedente governo Monti e prevede due tipologie di intercomunalità. La prima, rivolta a tutti i comuni, consiste nell’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni. La seconda, rivolta ai comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se montani), consiste nell’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, attraverso Unioni o Convenzioni con un limite demografico di almeno 10.000 abitanti. La legge ha previsto la proroga al 31/12/2014 per consentire gli adempimenti ai piccoli comuni che dovranno consorziare le funzioni fondamentali, ma non prevede particolari o innovative forme di incentivi per spingere verso processi di cooperazione intercomunale che superino la dimensione strettamente gestionale per una valenza di natura maggiormente strategica.
Il nuovo assetto istituzionale attribuisce quindi tutte le competenze di area vasta a enti di secondo livello. Ma con quale legittimità e autorevolezza?
La funzione di coordinamento territoriale, fino ad oggi esercitata da un ente amministrativo superiore secondo un approccio sovracomunale, passerà ad essere di competenza di un ente non elettivo, nel quale le scelte di area vasta saranno oggetto di una contrattazione tra i Sindaci.
Un’ulteriore indicazione dell’Unione Europea per rilanciare e riqualificare le regioni urbane ricorrendo a strategie di pianificazione integrata alla scala sovracomunale e metropolitana, è contenuta nella Carta di Lipsia del 2007[1], che indica, tra gli obiettivi dell’attività di pianificazione:
- la definizione di obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’area urbana e lo sviluppo di una visione per la città;
- il coordinamento di piani e politiche locali e settoriali e la definizione di criteri per l’utilizzazione dei fondi pubblici e privati nella loro allocazione spaziale;
- la cooperazione fra settore pubblico e privato nell’utilizzo dei Fondi Strutturali;
- la sinergia a livello locale ma anche a livello della città-regione e il coinvolgimento dei cittadini e degli attori che possono contribuire a dar forma alla qualità futura economica, sociale e ambientale dei territori;
- la lotta alla “speculazione” edilizio-immobiliare e al consumo di suolo.
Non trovano un riscontro convincente nel testo di legge di Delrio molti di questi obiettivi, come:
- l’esigenza di formulare nuove forme di governance multilivello;
- l’importanza dei processi negoziali pubblico e privato nel perseguire forme di coordinamento per il governo locale;
- l’importanza dei processi partecipativi per il rilancio dell’attività pianificatoria
Contenimento del consumo di suolo, rigenerazione urbana, valorizzazione ambientale, infrastrutturazione, edilizia sociale sono temi che richiedono una nuova stagione di politiche pubbliche di scala necessariamente territoriale e sovralocale.
Eppure sarebbe bastato osservare con più attenzione l’esperienza di altri paesi europei, come la Francia, che proprio in questi mesi sta approvando una legge sull’istituzione dei governi metropolitani (Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles), dopo oltre quarant’anni di serio dibattito nazionale e di politiche che hanno favorito la cooperazione intercomunale.
La tradizione alla volontarietà intercomunale, nell’esperienza francese, ha reso possibile correggere una gerarchia urbana fortemente squilibrata, garantendo efficienza territoriale alle politiche statali.
In questo modo si sono individuate forme associative diverse, di natura metropolitana o di medi e piccoli comuni, che rappresentano gli ambiti di governo pertinenti e davvero sovracomunali, particolarmente efficienti nel governo dei processi spaziali e sociali (per esempio nei progetti e nella messa in comune di una parte cospicua delle entrate fiscali).
Inoltre, la legislazione francese ha sempre richiesto inderogabilmente prove di effettiva volontà di superamento dell’egoismo municipale e del saper operare attraverso visioni e strategie.
In Francia, nel 2014, si dovrebbero votare per la prima volta a suffragio universale i rappresentanti delle associazioni volontarie intercomunali, le Communautés (enti intercomunali ai quali sono stati attribuiti anche funzioni di coordinamento), realizzando finalmente il sogno di Jacques Delors per introdurre partecipazione, e quindi democrazia, nei processi decisionali, secondo il principio per cui una corretta sussidiarietà garantisce gli interessi della collettività di scala vasta che altrimenti rischiano di essere trascurati dagli eccessi di localismo.
In Italia, purtroppo, si punta invece alla rinuncia di quote di rappresentanza democratica in nome di un presunto risparmio economico che non solo rischia di non risolvere i problemi degli enti locali ma reitererà il sistema di relazioni centro/periferia che è alla base della frammentazione, anche territoriale, di gran parte del nostro Paese.
Questo in netto contrasto non solo con le direttive che provengono dall’Europa ma anche con la tradizione italiana, la quale insegna che anche i contesti periferici e periurbani non sono subalterni alle realtà metropolitane (basti pensare alla tradizione dei distretti industriali).
Per superare le attuali Province, delle quali non si negano i confini spesso asfittici e incoerenti, sarebbe stato forse più opportuno e lungimirante guardare alle esperienze estere per realizzare un disegno di legge più ambizioso sull’intercomunalità, incentivando la cooperazione tra i comuni e permettendo geometrie variabili che ben si adattano a territori coerenti ed effettivi, individuando la scala di governo pertinente per ambiti metropolitani o periferici.
Sul modello francese, si potrebbero delineare quattro tipologie di associazioni intercomunali:
1. Unioni Metropolitane, per le maggiori aree metropolitane italiane;
2. Unioni Urbane, per le aree urbane di medie dimensioni;
3. Unioni Territoriali, per ambiti di comuni medio-piccoli e piccoli distanti dalle realtà precedenti;
4. Unioni Montane, per gli ambiti più periferici.
Un esempio: nelle Comunità di Valle della Provincia di Trento, il Presidente è eletto a suffragio universale, affiancato da un Consiglio dell’Unione in cui vi è una quota di consiglieri eletti direttamente e una quota in rappresentanza dei Comuni che costituiscono la Comunità.
Un’altra materia che potrebbe trovare nuove evoluzioni in questo quadro è quella fiscale, immaginando di trasformare una quota dell’IMU e degli oneri di urbanizzazione in una tassa intercomunale. In tal modo si realizzerebbe una innovativa forma di perequazione territoriale capace di orientare coerentemente le scelte di governo del territorio.
Si raggiungerebbe in questo modo un migliore equilibrio fra i poteri dei Comuni, che restano la cellula fondamentale del nostro ordinamento e primo luogo in cui si esercita la rappresentanza democratica, e l’ente competente per la pianificazione di area vasta, coniugando efficacemente i principi strettamente legati di sussidiarietà e di adeguatezza.
eddyburg il 13 ottobre 2008
Carla Ravaioli, Ambiente e pace una sola rivoluzione. Disarmare l’Europa per salvare il futuro. Edizioni Punto Rosso, Milano 2008, p. 192, € 12
Forse è il momento, questo il titolo di un capitolo nell’ultima parte (la quinta) del libro (pp.170-172). Che è uscito a maggio, dunque è stato scritto nei mesi precedenti l’incontenibile crisi strutturale e non solo finanziaria in cui sarebbe precipitato il “sistema mondiale dell’economia moderna” (per dirla col titolo di un famoso testo di Immanuel Wallerstein di oltre trent’anni fa), ossia il capitalismo liberistico duro e irragionevole, il whirl capitalismstrangolatore del mondo. Sembrava già allora il momento “più propizio a un mutamento della politica mondiale” quando “a parlare di crisi… sono oramai i giornali di tutto il mondo” (p. 170).
La premonizione era presente da molti anni nel pensiero e nell’attività di Carla Ravaioli e degli studiosi che con lei guidano scientificamente e politicamente l’analisi critica del capitalismo individuando i punti d’attacco per ragionare di avvio a un possibile cambiamento. In un articolo dell’aprile 2005, Il giocattolo rotto (denominazione anche di un capitolo del saggio) Ravaioli smuoveva l’aria ferma e inquinata della politica riproponendo il wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale. Non ci si può accontentare di aggiustare il giocattolo, invece si può credere, con Walden Bello, che una nuova economia mondiale deglobalizzata possa costituire il punto di partenza verso una trasformazione del mondo, una – pensavo e penso dinnanzi alla continuità della crisi e al fallimento del libero mercato – pura e semplice rivoluzione. Addirittura del 1966 è questa stupefacente intuizione di Kenneth Boulding (altro riferimento costante di Carla): “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”. C’è come un filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo, una concezione cui soggiace anche il centrosinistra in Italia condividendo lo stupido ossimoro sviluppo sostenibile. Il biologo fisiologo biogeografo Jared Diamond avvisava che il nostro habitat è minacciato di distruzione ravvicinata, che stiamo perdendo irreversibilmente le nostre limitate risorse, che noi abitanti dei paesi ricchi siamo diventati sconsiderati e ignoranti consumatori, devastatori di beni. Nel suo libro dal titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (orig. 2004), mostrava che è la decrescita a essere sostenibile, non lo sviluppo economico capitalistico visto in chiave di Pil, prodotto interno lordo onnicomprensivo, tra l’altro pena di morte per i popoli vittime dello scambio ineguale. E in un’intervista Diamond, al consueto avvertimento di economisti e politici d’ogni specie di non cadere nell’effetto Cassandra rivolgendosi alla gente, sbottava “ma vedete, in primo luogo Cassandra aveva ragione…”.
Il famoso rapporto di trentasei anni fa del System Dynamic Group MIT per il Club di Roma, ci ricorda Carla Ravaioli, con la titolazione italiana “I limiti dello sviluppo”, infedele traduzione probabilmente in… buona fede di “Limits to Growth” (crescita), avrebbe generato nel corso del tempo l’identificazione del termine “sviluppo”, originariamente pensato di certo come rafforzativo, con “crescita” e la “naturale interscambiabilità dei due vocaboli” (p.116). “Crescita” riguarda merci e reddito, “sviluppo” invece deve concernere beni sociali, diritti civili, alta scolarità e buona salute, libera informazione, parità dei sessi, rispetto e conservazione dell’ambiente naturale e antropico storico, insomma tutto quanto provvede a una vita personale e sociale volta alla umanizzazione delle risorse e, perché non dirlo, alla felicità. Nel lontano 1996 l’Onu stessa, attraverso l’Human Development Report si scagliava contro l’aberrazione del Pil calcolato mediante la crescita di prodotti insensati come l’inquinamento e i congegni per mitigarlo, la criminalità e la polizia per combatterla, gli incidenti d’auto e le relative riparazioni e nuovi acquisti, gli armamenti e, aggiungo con Carla, le relative guerre, lo scambio ineguale e la ricchezza come reddito dei già ricchi (cfr. p.117). Di qui la rivendicazione della decrescita da parte di numerosi studiosi fra i quali Ravaioli è protagonista della lotta culturale guidata da Serge Latouche, l’economista filosofo antropologo francese avversario dell’occidentalizzazione del pianeta e fautore della “decrescita conviviale”, che, non coincidente semplicemente con crescita negativa, vorrebbe chiamarsi a-crescita, anzi acrescita, ugualmente a come si definisce ateismo la scelta di chi è libero totalmente da fedi religiose. Così, diciamo, è vero e proprio teismo oscurantista il culto del dio Pil intriso di fanatismo, il calcolo falsificato del prodotto da accrescere ad ogni costo oltre i limiti della sopportabilità per la terra, la natura e noi stessi che apparteniamo a due storie interrelate, storia naturale e storia sociale.
Ecco, tutto il libro è percorso da una straordinaria tensione politica e morale che da una parte rende assai efficace il sentimento di “ rifiuto della società così come l’abbiamo fabbricata” (p.13), da un’altra parte, proponendo fonti cristalline anche da altri autori oltre quelli citati (Karl Polanyi, Marcel Maus, Ivan Illich…) costruisce una potente macchina da battaglia contro il neoliberismo e i suoi feticci, vorrei dire tout court contro il modello capitalistico mondiale, storico e attuale, distruttore della natura e dell’uomo stesso in mille maniere, per prima quella di promuovere ad arte contrapposizioni insanabili e infine le guerre come folle metodo risolutore. Di qui l’”idea shock”, enunciata all’inizio del libro e argomentata a fondo nell’ultima parte: collegare la necessità di fermare la crescita, di cominciare a ridurre il Pil mondiale (giacché “sviluppo” è da convertire in esclusivi termini sociali) alla smilitarizzazione unilaterale dell’Unione europea siccome la produzione di armi è una componente rilevante del prodotto.
Per rispondere alla domanda “da dove cominciare” per istituire un nuovo modello economico sociale pacifista e, dinnanzi alla rovina naturale e artificiale della terra, ambientalista, all’idea della smilitarizzazione si deve associare l’affermazione di una politica ecologica effettiva. Bisogna, per Carla Ravaioli, riconoscere due verità: la prima, la crisi ecologica è connessa alla forma-capitale, la seconda, la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva. Lo “sviluppo sostenibile” è fallito, idem il preteso ordine mondiale fondato sulla diseguaglianza e sulla guerra. In definitiva, “fallimento del capitalismo tutto intero, macchine e idee”.
Ambiente e pace una sola rivoluzione, non poteva essere più chiaro il titolo. Un futuro felice dell’uomo nega la forma capitalistica perché responsabile della devastazione del pianeta e della violenza che lo sovrasta. Allora, “la dimensione potenzialmente eversiva della crisi ecologica non potrebbe non emergere e farsi attiva quando fosse avviata, mediante una scelta di disarmo, un’opzione di non violenza: a indicare la necessità non solo di un diverso ordine economico-sociale, ma di un ethos culturale e morale diverso” (cfr. pp. 179-171).
manifesto del 4 febbraio 2007 e ivi ripubblicato il 18 gennaio 2014. con postilla
Carla e Valentino, un’ecologista e un economista, hanno disputato per anni sui problemi centrali della vita. Discutendo anche molto animatamente, come dimostra anche questo articolo. Dal quale emerge che è possibile agire, evitando di produrre merci inutili, tanto per cominciare. Poi scegliendo un piano che sappia unire gli sforzi di economia ed ecologia salvando forse così l’ambiente.
[..]Valentino.. D’accordo, avete ragione. Però tra voi ambientalisti c’è una componente di fondamentalismo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta succedendo, ti sembra il caso di parlare di fondamentalismo?
V. Mi riferisco a quelli che mi annunciano di continuo la fine del mondo. E se domando quando accadrà, mi rispondono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nessuno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha parlato del 2050, data da cui cominceremo a consumare il Pianeta, non più i suoi frutti. La Commissione Europea pone i prossimi cinquant’anni come lo spazio entro cui dovremo darci molto da fare per contenere l’effetto serra, se no saranno guai tremendi…
V. Ma voglio insistere sui lati deboli dell’ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mercificazione dell’ecologia, attraverso la pubblicità o che altro…
C. Ma non vedo come questo possa apparire un lato debole dell’ecologismo. E’ invece la denuncia di un fenomeno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e moltiplicandone all’infinito la produzione, crea lo squilibrio ecologico.
V. Cioè, l’economia capitalistica riesce a integrare, a trasformare in merce anche le vostre posizioni?
C. Accade, sì. Pensa al business verde che oggi tutti inseguono furiosamente… ti pare un fatto positivo? Che riduca il rischio ambientale?
V. No.
C. Appunto. Io cito questo fatto per sottolineare la pervasività, l’onnipresenza, la capacità di raggiungere ogni espressione della realtà che sono tipiche del neoliberismo. Il consumismo, una delle cause prime della crisi ecologica, nasce così, con una manipolazione continua dei cervelli.
V. Avete un atteggiamento strano. Lo trovo anche scorrendo i tuoi scritti… L’economia, che era la radice del progresso e del benessere, è diventata cattiva.
C. L’economia capitalistica…
V. Voi enfatizzate in modo fondamentalistico l’ idea che la distruzione dell’ambiente dipende dal capitalismo, dai meccanismi di accumulazione.
C. Non c’è proprio bisogno di enfatizzare. E’ l’accumulazione in sé che contraddice la realtà naturale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi ribadire i punti fondamentali del problema. 1) Il nostro pianeta è una quantità finita e non dilatabile, incapace quindi di alimentare un’economia in continua crescita (ricordando che tutto quanto si produce è «fatto» di natura, minerale, vegetale, animale); 2) Analogamente, il pianeta non è in grado di assorbire, metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, derivanti da ogni tipo di produzione. I quali inquinano terra, acque, aria, causando lo squilibrio dell’ecosfera.
V. Rifiuti che diventano un’altra base di speculazione capitalistica…
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno collaterale».
V. Sei tu che ne parli.
C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, neanche tanto piccolo. A me pare che tu, da sempre notoriamente in posizione di drastico rifiuto verso l’ambientalismo, oggi che è ormai impossibile negare l’esistenza del problema, tendi a cogliere gli aspetti più discutibili della militanza verde. Che esistono, come no, ma che inseriti innanzitutto nel discorso generale acquistano un altro valore… Non è così che potrai negare o sminuire la gravità della crisi ecologica.
V. Secondo me l’ambientalismo attuale è romantico. Se dite che i guasti dell’ambiente sono causati dal capitalismo, dovete dire di conseguenza: il nemico principale da abbattere è il capitalismo.
C. Io lo dico. Anche in questi pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qualificati che si occupano della materia, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Giovenale, a Passet, a Foster, a Beck, a Cini, (per limitarmi a pochi nomi) accusano il capitalismo. Ma anche chi non lo nomina direttamente, lo dice quando indica la crescita illimitata come responsabile del dissesto ecologico. Certo, c’è anche un bel po’ di ambientalisti che evitano con cura di accusare il capitalismo.
V. Io sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole un potere.
C. Faccio fatica a seguirti su questa strada…
V. Insomma come lo blocchi il disastro del mondo?
C. Io credo che occorra una rottura culturale, una discontinuità storica. Il mondo cambia senza sosta. Le vecchie rivoluzioni non servono più. Oggi bisognerebbe liberare i cervelli: il consumismo è una delle peggiori forme di corruzione mentale, anzi esistenziale, oltre che una delle prime cause del guasto ecologico.
V. Il consumismo non è colpa dei consumatori, ma dei produttori che spingono i consumatori a consumare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.
V. Allora, siccome i produttori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le risposte (che io ovviamente non ho, che credo nessuno oggi abbia) forse si dovrebbe cercare di porre le domande giuste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa riferimento ai modelli storici delle sinistre, che non servono più. La storia è una lunga serie di fatti che prima non c’erano stati. La Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Sovietica, sono stati eventi mai accaduti prima. E se oggi l’intera comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione.
V. Allora anche Kyoto è stata una rivoluzione …
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timidezza delle proposte, e soprattutto l’ostilità dei grandi potentati economici, e la mancata firma di numerosi stati, Usa in testa, l’hanno di fatto vanificata. E’ rimasta però un preciso antefatto per tutte le direttive a seguire. Ma, permettimi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attaccheresti? Dato e non concesso che in difesa dell’ambiente tu voglia abbattere questo potere, da dove cominceresti?
V. Comincerei dagli oppressi. Un’organizzazione forte e anche violenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Perché combattere il consumismo, significa fronteggiare interessi fortissimi, e ci vuole un forza enorme per vincerli.
C. Quali oppressi? Ce n’è di tanti tipi… Io proverei a fare un altro discorso. Tra le sinistre e l’ambientalismo, non’ c’è mai stato un feeling positivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sinistre innanzitutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peggio di sé. L’errore delle sinistre è innanzitutto aver trascurato il fatto che a pagare più pesantemente i danni ambientali sono sempre i poveri. Sono gli operai che lavorano su processi tossici e cancerogeni. I morti della Montedison, di Seveso, di Bohpal, te li ricordi? Sono quelli che non riescono a salvarsi dalle alluvioni, i ricchi se le cavano sempre in qualche modo… E i profughi da terre desertificate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi sommersi nella costruzione di centrali idroelettriche… Oggi si calcolano sui 50 milioni i profughi ambientali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti questi?
V. Ma voi questo aspetto sociale lo mettete poco in rilievo…
C. Io l’ho sempre detto. E scritto, anche sul manifesto. Ma le sinistre sono rimaste ferme a una miope difesa della fabbrica, anche inquinante, in nome dell’occupazione. Che è un problema reale, chi lo nega, ma non cancella la gravità del problema ecologico, anche in rapporto al benessere dei lavoratori.
V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scempiaggini di un antindustrialismo indiscriminato. Gli ambientalisti seri devono darsi da fare per superare queste posizioni.
C. E le sinistre devono capire che la crescita da loro invocata ogni tre parole non solo distrugge l’ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il prodotto ha continuato a salire, ma sono aumentate, e fortemente, anche le disuguaglianze. Lo dicono tutti, persone al di là di ogni sospetto di estremismo, come Stiglitz, Fitoussi, e Soros, perfino Lutwak… Allora perché proprio le sinistre debbono intestardirsi su questa strada?
V. Ma insomma per i poveri Cristi, che si fa? Chávez, ad esempio, è socialista, per prima cosa vuol dar da mangiare agli affamati, e che fa, aumenta lo sfruttamento del petrolio, cerca di venderlo bene… E’ un circolo vizioso.
C. Usa gli strumenti disponbili. Che altro può fare? Oggi tutti i massimi problemi hanno assunto una dimensione sovranazionale, che però condiziona anche i singoli paesi. Sono problemi che soltanto a livello sovranazionale si potranno risolvere, forse. E non dimentichiamo un altro fatto: La Fao, che non è un organismo antisistema, afferma che la produzione mondiale di cibo basterebbe a sfamare tutti. Ma circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difendere varie categorie di produttori, ecc. Non si tratta dunque di produrre di più, ma di distribuire in modo meno iniquo.
V. I verdi di distribuzione non parlano. Inoltre la distribuzione avviene in questo modo perché ci sono poteri forti interessati a questo. come fare senza abbattere quei poteri? Tra voi ambientalisti, l’idea di abbattere un potere non c’è. Vogliamo costruire un potere contrapposto, vogliamo che insieme al problema dello sfruttamento proletario, tema fondamentale di tutti i vecchi socialismi, anche la distruzione dell’ambiente diventi fondamentale per le sinistre d’oggi. Quello che ci vorrebbe è un nuovo comunismo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stantibus, riduciamo la produzione, noi facciamo solo disoccupazione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi progressi, scientifici e tecnologici, oggi saremmo in condizione di sconfiggere la povertà, di dare benessere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di persone affamate, mentre in Occidente l’obesità da sovralimentazione è diventata una malattia sociale: una sorta di tremenda metafora della società attuale. Saremmo in grado di produrre il necessario e anche non poco superfluo per l’intera popolazione del globo, lavorando tutti un tempo molto limitato. E invece abbiamo masse di disoccupati e di precari, gente soggetta a sfruttamenti da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati. Il tutto per produrre quantitativi crescenti di merci inutili, di durata sempre più breve, per lo più destinate nel giro di poche settimane a finire in discarica. E si torna all’inquinamento del mondo: tutto si tiene. Queste sono le tue res. Per esempio, riprendere l’idea della riduzione degli orari di lavoro, riprenderla seriamente, non sarebbe un buon inizio per smuoverle?
V. La riduzione degli orari non mi pare al centro del discorso ecologista…
C. Certo che no. Ma in fondo l’ambientalismo è un movimento, compito dei movimenti è porre una questione. La sintesi politica è compito delle forze politiche. E d’altronde l’ambientalismo indica soluzioni…
V. Sì, la decrescita. La decrescita, scusami, è una scemenza totale.
C. Non sono d’accordo. Certo, la decrescita non è un programma. Però indica inequivocabilmente quella che è la causa principale della crisi ecologica, cioè l’accumulazione capitalistica. E in un mondo che sa dire solo crescita crescita, gridare decrescita significa mettere la crescita, il Pil, la produttività, la competitività, tutti i totem dell’economia neoliberista, in rapporto con il disagio e le paure che lo squilibrio ecologico ha ormai creato tra la gente. Il movimento della decrescita riflette su un tipo di vita che non continui a mettere a rischio l’ecosistema e la nostra stessa sopravvivenza. Perché questo bisogna fare: ripensare radicalmente il nostro vivere.
V. No, contro tutto questo o il movimento ecologista diventa comunista o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sinistre che debbono diventare ambientaliste, facendo proprio tutto il positivo che l’ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una politica completamente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella storica, che pur combattendo e spesso vincendo grosse battaglie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discussione l’ordine dato. Tu vorresti che i verdi diventassero comunisti… Ma quanti sono i comunisti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.
C. Tu prima avevi ragione parlando di un nuovo comunismo. Ma le sinistre, nel loro non facile rapporto con i Verdi, non si sono accorte della dimensione eversiva che l’ambientalismo contiene. Che consiste appunto nella critica dell’accumulazione, che nessun comunismo, da Lenin a D’Alema, ha mai messo in discussione. Ma, il mondo è cambiato e diventa sempre più piccolo. Come dice Wallerstein, non ci sono nuovi spazi da occupare e utilizzare per la produzione di plusvalore, mentre la crescita, oltre ad essere ecologicamente distruttiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risultati apprezzabili. Sarebbe necessario rileggere in questa chiave i problemi del mondo per tentare di mettere a fuoco un nuovo comunismo.
V. Fino a che voi Verdi non vi metterete in testa che occorre qualcuno che comandi, sarete solo dei predicatori inutili. Non basta dire cose giuste. Attorno agli obiettivi giusti bisogna organizzare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivoluzione armata, insomma…
V. Non penso alle armi, ma a un partito, a una forza sociale e anche politica e di cultura.
C. Io alla necessità della forza non ci credo, non ci voglio credere. La forza, anche usata per i fini migliori, finisce per imporre all’operazione un’impronta negativa, un’ipoteca che la snatura. E però, sono d’accordo, sarebbe necessario un soggetto forte che si facesse carico del problema. Io da tempo penso all’Europa. L’Europa con la sua storia, la sua cultura… L’Europa certo colpevole di orrendi misfatti, dal colonialismo alla shoah, ma anche patria dell’illuminismo, del socialismo, dei diritti del cittadino, dello stato sociale… potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orientare il mondo, o quanto meno di sollecitarlo a farsi carico di un problema sempre più urgente. Certo, con questi industriali che non capiscono che stanno distruggendo la base stessa della loro attività.…Se il mare cresce, il deserti avanzano, i cicloni si moltiplicano…
V. Tra quanti anni questo accadrà?
C. Sta già accadendo. E un domani che pareva lontano è ormai qui.
V. Ma anche le energie rinnovabili… Se fai andare lo stesso meccanismo col sole o col vento invece che col petrolio, le cose non cambiano. E i Verdi puntano solo su questo…
C. Con energie rinnovabili attive su vasta scala i gas serra diminuirebbero, e questo non è trascurabile. Ma, sono d’accordo, è necessaria una strategia molto più complessa. I Verdi propongono anche molte altre cose, ma un compito di questa portata, come arrestare la catastrofe ecologica, cioè necessariamente cambiare il modello di produzione, distribuzione e consumo, non è cosa che possano fare i Verdi. Questo è un compito che tocca alle sinistre.
V. Sono d’accordo. Il difficile è il come…
C. Se ci fosse una precisa, consapevole, volontà politica delle sinistre, sarebbe una buona base di partenza. E ci sono anche cose che si potrebbero fare subito. Ad esempio, riscaldamento e refrigerazione: invece di soffrire il caldo d’inverno e il freddo d’estate, come accade oggi, regolare le temperature sui 20–21° d’inverno e 28–29° d’estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un risparmio energetico niente male, eh?
V. Hai detto che si possono fare più cose…
C. Sì. Fabbricare merci destinate a durare di più, come accadeva una volta, e non programmare automobili, frigoriferi, lavatrici, da sostituire nel giro di quattro-cinque anni. E’ una cosa che non richiederebbe riconversioni industriali, solo volontà politica.
V. Con caduta dei consumi…
C. Appunto. Si parlava di rivoluzione, no? Ma si potrebbe pensare a una cosa che proponevo nel mio ultimo libro. Oggi le amministrazioni di sinistra, centrali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse confrontasse le proprie scelte economiche con una serie di norme da osservare, domandandosi ogni volta se si tratti di cosa necessaria, se non esistano più urgenti priorità, quali siano le ricadute dell’opera sul piano ambientale, sociale, sanitario, ecc. In Sicilia, ad esempio, non sarebbe il caso di risanare ferrovie vetuste o addirittura abbandonate, di riparare acquedotti che perdono quantitativi enormi di un liquido sempre più prezioso, o magari di fornire cancelleria ai tribunali, lenzuola agli ospedali, ecc. prima di ostinarsi sul ponte di Messina? Certo, se le sinistre fossero vere sinistre… O ancora: se il mondo decidesse di non fabbricare più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni pacifiste o semplicemente umane. Pensiamo solo a quanto inquina la produzione di quantitativi sempre crescenti di armi, il loro trasporto, e il loro «consumo». Ma, se mi consenti, vorrei finire con un’altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il manifesto in tutto ciò potrebbe avere una funzione non trascurabile. Perché il manifesto è un giornale, ma è anche un soggetto politico. Ecco, perché il manifesto non fa propria la battaglia ambientalista, con dibattiti anche duri, magari con sedute di autocoscienza, ma anche con pubblici confronti con le sinistre istituzionali? Sono convinta che la cosa potrebbe risultare utile. Anche alla diffusione del giornale. Perché no?
Postilla
Singolare come non si accorgano che fanno lo stesso ragionamento. Non si modifica il rapporto tra produzione e consumo, se non si abbatte la preminenza del valore di scambio sul valore d'uso, la riduzione del lavorio a merce, se cioè non si supera il sistema economico capitalistico, se non esiste una blocco sociale capace di esercitare il potere, con il dominio o con l'egemonia. Ma ciò è impossibile finchè non si costituisce un blocco sociale alternativo a quello oggi egemone. D'altra parte questo non è possibile se nn si fa maturare nelle coscienze la consapevolezza dei problemi reali di oggi, tra i quali quello del disastro ecologico (e del disagio provocato dal paradigma della crescita indefinita della produzione di merci) non è certo irrilevante. Assumere come direzione di marcia l'uscita dal capitalismo (sia esso di Stato o privato) è la base di ogni politica capace di condurre l'umanità attuale e futura (anche il futuro dell'umanità deve preoccuparci) è inbdispensabile (e.s.)
L’Unità, 17 gennaio 2013
L’altro ieri eravamo insieme con Carla a una riunione della associazione che abbiamo fondato insieme con lei. E come al solito si vantava d’esser più vecchia di me e io le dicevo che era una ragazza. Ed era vero. Nella sua battaglia per far capire alla sinistra tutta – e a noi – che non c’è sinistra senza la capacità di capire che lo sviluppo che si sta seguendo è insensato e inumano c’era una passione giovanile, il fervore di un convincimento sincero e profondo. Ed era piena di progetti e di volontà.
Sentiva che c’era tanto da fare per affermare una cultura economica e politica diversa, come quando, in anni lontani, a Milano, era stata tra le più combattive a spendersi, come giornalista e scrittrice, nell’azione per coinvolgere la sinistra di allora, a partire dal Pci, nelle lotte del primo femminismo. La sua forza stava nel fatto che la passione era nutrita di rigore e di capacità critica.
Di qui veniva l’acutezza di una instancabile e competente contestazione dei luoghi comuni di una cultura economica e politica incapace di vedere i nessi tra produzione e ambiente, tra mercato e qualità delle nostre vite, tra vacuità delle spinte al consumo e gravità di un disastro annunciato. Il suo insegnamento è prezioso per costruire una nuova sinistra politica e sindacale, in grado di superare le durissime sconfitte passate e recenti. Un insegnamento che raccogliamo e vogliamo continuare a coltivare con lo spirito combattivo del suo carattere.
Qui le opinioni di Carla Ravaioli per eddyburg. E qui la notizia della sua morte, con il video di un suo recente intervento
La Repubblica, 6 gennaio 2014
Il carisma che ha esercitato su un’ ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo.
La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse.
1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.
2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano in altre parti del mondo; prima ancora di criticare il Welfare State, sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.
3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.
Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni. No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.
Una proposta di legge “centralistica e inutilmente complicata”. Così, gli Ordini professionali della Toscana definiscono la riforma della legge urbanistica regionale. Con un documento unitario sottoscritto dai rappresentanti di oltre 40 mila professionisti, gli Ordini degli Architetti, Ingegneri, Geometri, Agronomi e forestali, Periti agrari e Periti industriali e della Toscana hanno duramente criticato la proposta di legge 282/2013 che sostituirà la LR 1/2005 sul governo del territorio. A detta dei tecnici, si tratta di uno strumento non adeguato a sostenere la riqualificazione delle città, la tutela delle aree di pregio paesaggistico, il rafforzamento delle funzioni agricole e la prevenzione dei rischi naturali.
Uno degli obiettivi della legge riguarda il contenimento del consumo di suolo attraverso la riqualificazione delle aree dismesse e il divieto assoluto di nuova edificazione residenziale fuori dai territori urbanizzati (zone agricole).
I tecnici approvano il freno al consumo di suolo, ma sottolineano come occorra evitare di definire il confine tra zone urbanizzate e territorio perché “una legge di sistema non può essere confusa con un piano urbanistico”.
A parere degli Ordini professionali, dividendo esclusivamente l’esistente tra zone urbane e zone agricole la proposta di legge dà un’indicazione semplicistica del territorio che non considera le miriadi di situazioni differenziate come, ad esempio, lo sprawl, la cosiddetta città diffusa, per le quali non vengono messe in campo efficaci strategie di riqualificazione. Secondo i professionisti, l’intero quadro procedimentale è estremamente macchinoso e può creare un’imponente e costosa struttura burocratica penalizzante per i settori imprenditoriali, l’edilizia e l’agricoltura
Oltre a nuovi strumenti di pianificazione più snelli, infatti, i tecnici suggeriscono il ricorso alla rigenerazione urbana attraverso l’abbattimento degli ingenti oneri di urbanizzazione e meccanismi di premialità nei casi di riqualificazione energetica e di adeguamento sismico. Si denota, inoltre, come nella proposta di legge sono poco considerati gli aspetti relativi alla sicurezza statica degli edifici, quelli energetici e di sostenibilità, oltre alla pianificazione di interventi sul patrimonio in ambito di rischio idrogeologico. Ricordiamo che la proposta di riforma della legge urbanistica è già approvata della Giunta e ora all’esame della Commissione consiliare Territorio e Ambiente
Postilla
Da decenni è aperto un dibattito sulla neutralità o meno della scienza e della tecnica rispetto agli interessi economici. La mia posizione è che lascienza debba essere libera di contribuire alla ricerca della verità, e che latecnica, costituendo sostanzialmente un “servizio”, debba, appunto, essere“serva”. Il problema è: serva di chi, di quali interessi? Nel caso degli ordini professionali che si sonoespressi con quel documento (sul quale non so quanti degli «oltre 40mila» abbia partecipato all’analisidella legge e al giudizio su di essa: certamente, a conclusione di un ampiodibattito, ci sarà stato un referendum di cui siamo all’oscuro) non mi pare checi siano dubbi. La morale della favola si comprende a partire dall’invocazione della “premialità”(cioè dellapossibilità di regalare metri cubi indipendentemente dal calcolo dei fabbisognieffettivi), e di alleggerire gli oneri di urbanizzazione (cioè ad accollare alla collettività le spese per l'aumento degli insediamenti) fino alla critica aberrante della definizione di un «confine tra zone urbanizzate e territorio perché «una legge di sistema non può essere confusa con un piano urbanistico».Già, deve spettare a noi “liberi professionisti", nell’interesse dei nostricommittenti, decidere dove si mura e dove non si mura, e quanto, e come. Perché mica siamo al serviziodel popolo e dei suoi rappresentanti
Chi critica giustamente questa legge bestiale dovrebbe ricordare che essa ha la sua radice nell’ideologia della crescita e dello “sviluppo”, che ha nel Pil la sua cifra e nel mercato il suo totem e che domina nella maggioranza delle teste dei governanti e dei governati. Corriere della Sera, 2 dicembre 2013.
Perfino i sindaci leghisti: perfino loro sono saltati su contro il nuovo«Piano Casa» della «loro» Regione Veneto. Che razza di federalismo è se toglie ai sindaci la possibilità di opporsi a eventuali nefandezze e consente a chi vuole non solo di aumentare liberamente la cubatura in deroga ai piani regolatori ma anche di trasferirla, udite udite, in un raggio di 200 metri? Che la crisi pesi sul mattone, per carità, è ovvio. Ma può essere il «vecchio» cemento la soluzione? Per cominciare, un dossier dell’urbanista Tiziano Tempesta dimostra che l’edilizia occupa ancora oggi (dati 2011) l’8,2% degli occupati veneti e cioè un puntoe mezzo più che nell’«Età dell’Oro» degli anni Novanta. Non basta: già oggi il 59,6% dei veneti vivono in ville o villini uni o plurifamiliari contro una media italiana 16 punti più bassa: 42,9%. E abitano per il 64,9% (dati Istat) in case sottoutilizzate: gli altri italiani stanno dieci punti sotto. Di più, dopo la Lombardia il Veneto è la regione più cementificata con l’11,3% del territorio urbanizzato: il triplo della media europea, pari al 4,3%.
Non basta ancora. Quella di Zaia è la prima regione turistica nostrana. E anche nel 2012 ha registrato 15.818.525 arrivi per un totale di 62.351.657 presenze, per quasi il 65% di stranieri. Di fatto, ogni sei pernottamenti in Italia, uno è nel Veneto. Dove i soli stranieri hanno speso l’anno scorso 5 miliardi di euro. Più che in tutto il Sud messo insieme. Vale la pena di mettere a rischio questo patrimonio aggiungendo mattoni, mattoni, mattoni?
No, rispose qualche anno fa l’allora governatore berlusconiano Giancarlo Galan: «Basta col cemento». No, aveva ripetuto un anno fa Luca Zaia: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarci. Questo vale per i capannoni industriali, ma a maggior ragione per le abitazioni. È assurdo continuare ad approvare nuove lottizzazioni quando esistono già abbastanza case per tutti».
L’altra sera la maggioranza di destra ha fatto il contrario. Nonostante gli appelli preoccupatissimi dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e delle associazioni ambientaliste. Nonostante la contrarietà dei sindaci (destrorsi, leghisti e sinistrorsi) di tutti e sette i capoluoghi, dal veronese Flavio Tosi al padovano Ivo Rossi: «Una cosa da pazzi. Anche nei centri storici magari resta tutelato quello specifico palazzo ma accanto si potrà fare qualunque schifezza. Fatte le somme (un tot per l’adeguamento energetico, un tot per il fotovoltaico, un tot per l’antisismico e così via…) saranno permessi ampliamenti del 140%. Un mucchio di soldi ed energie per fare piani regolatori seri ed ecco una leggina che dice: fate come vi pare».
«Ma non è vero! Al massimo l’ampliamento potrà essere del 80%. Qui si è fatta troppa demagogia — ribatte Zaia —. È una legge che va di pari passo con quella sulla cubatura zero. E non esautora affatto i sindaci. Pone fine a un eccesso di discrezionalità. Quanto allo spostamento di 200 metri, mi dicono fosse un emendamento della sinistra…».
Colpisce, però, che la maggioranza abbia tirato dritto nonostante la rivolta, come dicevamo, di moltissimi sindaci leghisti. «È chiaro l’intento degli alleati di forzare la mano per estromettere dal controllo del territorio i sindaci, da sempre baluardo della politica nazionale della Lega», aveva tuonato giorni fa Ivano Faoro, Responsabile Nazionale Enti Locali. E aveva chiuso invitando i consiglieri regionali leghisti a «votare secondo il chiaro indirizzo espresso dal partito». Macché. Contro il piano ha votato solo Matteo Toscani: «Mi ha convinto l’ostinazione dei miei colleghi nel voler esautorare i Comuni da ogni possibilità di intervento. Il piano casa viene imposto ai 581 comuni veneti d’imperio, senza alcuna possibilità di aggiustamenti locali». Un delitto: «Le amministrazioni comunali avranno buttato alle ortiche milioni di euro di risorse utilizzate per redigere i vari Prg, Pat e Pi. Ora si potrà edificare quasi ovunque cancellando decenni di pianificazione urbanistica».
Ma cosa prevede, questo piano, accolto con entusiasmo dall’Ance che pure ai convegni sostiene la necessità di riconvertire ciò che c’è? Prevede fino al maggio 2017, per tradurlo dal burocratese con le parole del Sole 24 Ore , una «norma che toglie ai Comuni la possibilità di limitare o escludere l’applicazione del piano casa nei centri storici» e «permette di operare in deroga alle norme urbanistiche ordinarie» e «in deroga ai piani urbanistici e ai piani ambientali dei parchi regionali anche se in questo caso», grazie a Dio, «è necessario il parere vincolante della Soprintendenza».
Ma ecco, abracadabra, la regola più stupefacente: «Gli ampliamenti potranno essere realizzati anche su un lotto adiacente, sino a 200 metri di distanza dall’edificio principale e su un diverso corpo di fabbrica». Come cantava Patty Pravo: «Oggi qui, domani là…». Più molti altri incentivi (basterà portare la residenza sul posto per 42 mesi: sai che fatica…) da far accapponare la pelle ai sindaci dei Comuni turistici più esposti. Come quello di Cortina Andrea Franceschi e di Asiago Andrea Gios, che pur essendo di destra avevano già dato battaglia contro il piano precedente portando il caso, ad esempio, di paesi come Roana (79% di seconde case), Gallio (82%) o Tonezza, dove le case abitate tutto l’anno sono solo il 13%. Con enormi problemi di gestione del territorio.
«È una pazzia: il nostro municipio per tagliare dieci metri quadrati di pino mugo deve presentare uno studio di impatto ambientale e invece ora per fare un ampliamento in zona agricola non serve niente di niente — attacca Gios —. È un intervento barbaro di deregulation che va contro ogni strategia organica di sviluppo e che sembra finalizzato solo a spronare meri interventi speculativi. Quella facoltà di spostare la cubatura supplementare nel raggio di 200 metri, poi! Abbiamo fatto una simulazione: ad Asiago potremmo ritrovarci dei villini a ridosso dell’Ossario. Un insulto, alla vigilia del centenario della prima guerra mondiale».
«Non ci volevo credere», confessa Tiziano Tempesta, che già aveva dimostrato come nei dintorni immediati delle meravigliose ville venete sia stato costruito il triplo della media, «è un ulteriore incentivo a favorire l’insediamento sparso». Cioè la sprawltown , quella poltiglia di case, campi, capannoni, sottopassi, villette, condomini che ha assassinato la campagna veneta.
«Non è un piano casa: è un “piano scempi”», accusa Stefano Deliperi, l’anima del Gruppo di intervento giuridico che si è fatto spazio facendo guerra ai nemici dell’ambiente non con gli striscioni ma con le carte da bollo, «un minuto dopo la pubblicazione, impugneremo tutto: qui rischiamo un Far West urbanistico». E se qualcuno esagerasse andando oltre perfino alle già generose concessioni? «Sarà costretto a pagare il 200% degli oneri di urbanizzazione che però non esistono», ride amaro Tempesta. Cioè, secondo gli ambientalisti, il doppio dello zero…
Il contrasto al consumo di suolo, il risparmio energetico, la qualità ambientale e l’edilizia sostenibile diventano alibi per derogare agli standard urbanistici e alle tutele della natura e provocare città invivibili. Il grimaldello del decreto Fare.
Avevamo quasi dimenticato il passato nefasto del “piano casa” di Berlusconi. Più precisamente, del progetto di Berlusconi attuato dalle regioni di destra e di sinistra senza che governo e Parlamento deliberassero in materia. Un “piano” che voleva consentire ai piccoli, poveri proprietari di piccole, povere case e villette di ampliarle.
Adesso, grazie al famigerato decreto del Fare - frutto velenoso dell’inquinante albero delle Grandi intese - numerose regioni si stanno muovendo per trasformare le possibilità di deroga consentite dal governo Letta-Alfano, anche al di là delle plateali forzature operate con la legge Polverini nel Lazio e Cappellacci in Sardegna. L’art. 30 della legge 98/2013, “norme sulle semplificazioni in materia edilizia" stabilisce che : «le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Si autorizzano insomma le regioni a cancellare gli standard urbanistici ed edilizi, cioè tutte le prescrizioni riguardanti i rapporti tra spazi pubblici e spazi privati, tra volumi edilizi e spazi aperti. Si dimentica il principio elementare dell’urbanistica secondo il quale ogni metro cubo destinato ad alloggi o a uffici, a fabbriche o a commercio, deve essere accompagnato da un determinato numero di metri quadrati di terreno aperto e destinato all’uso pubblico, e collocato dentro la città, immediatamente e agevolmente accessibile da chi in quella parte di città abita o lavora.
Alla distruzione delle buone regole (quelle che si seguono da decenni negli paesi europei) se ne impone una nuova, riassumibile in uno slogan: “lotta dura per una maggiore cubatura”. Ogni occasione è buona per aumentare la massa di volume edilizio commerciabile. Così, col pretesto della riduzione del consumo di suolo si promuovono i grattacieli, con quello del risparmio energetico si promuove la moltiplicazione dei volumi già costruiti. In tutti i casi in deroga (ecco una parola chiave della malurbanistica italiana) a qualsiasi interesse generale: da quello della tutela del paesaggio a quello della difesa della salute dei cittadini.
Il primato della devastazione del territorio urbano e del suo ordinato funzionamento, una volta vanto del partito di Berlusconi, vuole raggiungerlo ora la Lega Nord. Che giustamente comincia dal Veneto: la regione nella quale decenni di governi DC, PdL e leghisti hanno prodotto il maggiore consumo di suolo. Si leggano le nuove norme, approvate il 18 novembre scorso dalla commissione consiliare della Regione Veneto, (col voto contrario del Pd e SEL).
«Gli interventi di cui al comma 1 finalizzati al perseguimento degli attuali standard qualitativi architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza sono consentiti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, ivi compresi i piani ambientali dei parchi regionali».
«La demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie:
a) fino al 70 per cento, qualora per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che portino la prestazione energetica dell'edificio. come definita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 "Attuazione della direttiva 2002/9 IICE relativa al rendimento energetico nell'edilizia" e dal decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009. n. 59 "Regolamento di attuazione dell 'articolo 4 comma l. lettere a) e h). del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91 ICE sul rendimento energetico in edilizia, e successive modificazioni. alla corrispondente classe A:
b) fìno all’80 per cento. qualora l'intervento comporti l 'utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007. n. 4 "Iniziative ed interventi regionali a favore dell'edilizia sostenibile»
Naturalmente, norme analoghe valgono per i territori agricoli. Ma si vada a vedere la legge che il Consiglio regionale approverà fra breve e che, c'è da credere, diventerà un modello per molte altre, che stanno affilando le loro armi.
Più che una legge, quella che la maggioranza dei consiglieri della Regione Veneto sta approvando è un manganello contro la “città dei cittadini”, contro il presente e il futuro di chi abita e lavora nel territorio veneto, in nome del risparmio energetico e della qualità ambientale.
"Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale sul governo del territorio", organizzato dalla Regione Toscana, Firenze, 20 novembre 2023. Il sindacato di lavoratori dell'edilizia chiede lo stop al consumo di suolo, la decementificazione, la rigenerazione delle città e la manutenzione del territorio
Negli anni sessanta del secolo scorso, era il 1966, Adriano Celentano cantava a San Remo “il ragazzo della via Cluck” e negli stessi anni, era il 1963, Francesco Rosi ci regalava il film “Mani sulla città”, Leonardo Sciascia, era il 1961, ci incantava con il libro “Il giorno della civetta”, e Tonino Guerra ci diceva che: “Il nostro petrolio è la bellezza. La bellezza ci fa pensare alto e noi la buttiamo via come se fosse danaro dentro tasche vuote”
Ovviamente non sono i materiali a essere nemici del suolo, dell’ambiente e dell’Italia (nessuno pensa a un luddismo del terzo millennio) ma i forti interessi di pochi – palazzinari, speculatori fondiari, cattivi e famelici amministratori e burocrati, imprenditori senza scrupoli, mafiosi, ‘ndraghisti e camorristi – che hanno determinato la realtà che abbiamo di fronte ai nostri occhi.
L’ISPRA ci dice che si consumano in Italia circa 80 ettari di suolo al giorno e dagli anni ’50 ad oggi è stata cementificata una superficie equivalente a quella di una regione come la Calabria, pari a 1,5 milioni di ettari. Continuando questo trend, si prevede che tra cinquant’anni scomparirà una superficie pari a quella del Veneto.
Il nostro pensiero va ai cittadini della Sardegna. Oggi “La Repubblica” ci informa che in questa regione dagli anni ’50 al 2001 la popolazione è aumentata del +25%, il territorio urbanizzato del +1.154% e l’urbanizzazione pro-capite del +900%. La stessa cosa, anche se con percentuali leggermente diverse, succede ogni due/tre mesi in tutto il territorio italiano. E’ successo recentemente anche in Toscana.
I contenuti di questo convegno e le notizie della cronaca, mi pongono nella condizione di dire, sempre con maggiore convinzione e forza, “zero consumo di suolo”.
Questa nostra convinzione, frutto di come la filiera delle costruzioni è cresciuta senza sviluppo, l’abbiamo ufficializzata assieme con il nostro Osservatorio Territorio e Aree Urbane, nel convegno nazionale che abbiamo tenuto a Torino il 22 marzo 2013, dove senza tentennamenti abbiamo sintetizzato la nostra posizione con lo slogan “La FILLEA per zero consumo di suolo”
Se la Fillea, malgrado gli oltre 400.000 posti di lavoro persi, ha posto l’asticella della filiera delle costruzioni a un livello alto di tutela e conservazione del “Bel paese”, perché in tanti e attraverso articoli, atti, disegni di legge, etc.... continuano a giocare con le parole, sostanzialmente per dire che con una pennellata di verde, di ecologia e di sostenibilità si può continuare ad impermeabilizzare il suolo?
Essendo questo un dramma mondiale, pari al cambiamento climatico di cui il consumo di suolo è certamente una componente decisiva, e in attesa che ci sia una Kyoto anche per il consumo di suolo, il Parlamento europeo e la Commissione Europea si sono già fatti sentire fin dal 2004 con la Direttiva n. 35. Non è stata ancora varata una nuova direttiva, ma i recenti “Orientamenti della Commissione Europea in Materia di Buone Pratiche per Limitare, Mitigare e Compensare l'Impermeabilizzazione del Suolo” rappresentano un punto di riferimento chiaro e corretto al quale tutti dobbiamo agganciarci. Spero che tanti dei presenti a questa iniziativa li abbiamo letti. Questi Orientamenti sono un punto di riferimento per tutto il continente europeo e ci danno le giuste coordinate per non giocare con le parole e per assumere provvedimenti legislativi o amministrativi in grado di non continuare a impermeabilizzare il suolo, neanche se questa impermeabilizzazione viene fatta con le parole dell’ambientalismo e con gli obiettivi di una economia verde che di verde ha solo il colore dei dollari (gli euro hanno tanti colori).
Le proposte della Fillea, pertanto, partono dalla condivisione degli orientamenti e dalla chiarezza dei contenuti che abbiamo definito a Torino lo scorso 22 marzo, nel già richiamato Convegno nazionale, e cioè:
1°) Consumo di suolo:
è l’attività umana che “separa il suolo dall’atmosfera, impedendo l’infiltrazione
della pioggia e lo scambio di gas tra suolo e aria”.
Il confronto di queste definizioni, presenti negli Orientamenti della Commissione Europea, con il contenuto dei tanti disegni di legge presentati in Parlamento, rafforza la nostra convinzione che corriamo il rischio di una nuova colata di cemento e di un ingrossarsi dei portafogli di speculatori e mafiosi. Ovviamente il tutto condito come ha scritto Salvatore Settis il 1° giugno u.s. su “La Repubblica”: “La strana alleanza in salsa verde”.
A queste cinque azioni né aggiungo una sesta: la decementificazione . In essa si identifica la volontà di chi amministra per togliere il cemento da dove non doveva essere posto dai precedenti amministratori.
Detto ciò, la Fillea ritiene che esistano due livelli di azione: una da sviluppare sul territorio e l’altra da sviluppare nazionalmente. La prima, nelle mani degli amministratori del territorio, e la seconda, nelle mani dei parlamentari e del governo. Chiaramente, in entrambi i livelli, un ruolo importante è svolto dai cittadini, dalle associazioni, dal sindacato, dai partiti, etc...
Non esiste solo il livello nazionale, sarebbe un grave errore pensarlo. Gli articoli 9, 41, 44, e 137 della Costituzione ci danno il perimetro entro il quale i soggetti del governo e della gestione del territorio si devono muovere. Al parlamento spetta il compito di salvaguardare il “Bel Paese” e alle istituzioni locali spetta il compito di far convivere il “Bel Paese” con le necessità economiche, civili e di convivenza dei cittadini.
Pertanto, anche senza una legge nazionale sulla riduzione o azzeramento del consumo di suolo, gli amministratori locali possono assumere decisioni per limitare, mitigare e compensare il consumo di suolo. Basta fare le opportune scelte politiche e amministrative. Per questo ritengo che sia importante il fermento culturale e amministrativo sulla riduzione del consumo di suolo che sta attraversando gran parte delle regioni e dei comuni, e prima tra tutte la regione Toscana.
Noi ci aspettiamo che i prossimi giorni servano a diradare le tante nebbie ancora presenti sull’argomento. Chi può decidere senza una legge nazionale lo faccia senza aspettarla, chi deve fare una legge nazionale la faccia per la riduzione del consumo del suolo e non per salvaguardare interessi “presumibilmente” eterni o per proteggere, direttamente o indirettamente, gli interessi dei personaggi di Sciascia o Rosi.
Evitiamo di prestare tanta attenzione ai diritti di edificazione (ma perché sono eterni o non annullabili?) e poniamo l’attenzione sulla creazione di spazi non impermeabilizzabili, per avere la certezza che gli interessi saranno riversati sull’impermeabilizzato.Bisogna vietare l’impermeabilizzazione per rigenerare i quartieri e i comuni e per ricostruire e valorizzare i luoghi già edificati.
Questa nuova edilizia richiede lavoratori, tecnici e imprese che abbiamo professionalità e competenze oggi poco presenti sul mercato. Per questo pensiamo che un ruolo possa e debba essere svolto dalla contrattazione sindacale, dalla bilateralità e dalla formazione.
Le imprese che finalizzano il proprio interesse nell’avere “lavoretti” semplici, con lavoratori poco qualificati e professionalizzati, con conoscenzesufficienti a realizzare una soletta a cottimo, non hanno un futuro e spesso sono strumenti di illegalità anche mafiosa.
0. Voglio dirlo subito, senza problemi. Sono convinto che siamo di fronte a una svolta storica: a 50 anni dalla drammatica sconfessione di Fiorentino Sullo e a 35 anni dall’illusione della legge Bucalossi, la Toscana riprende l’iniziativa della riforma, e stavolta ci sono le condizioni per cogliere l’obiettivo.
1. L’innovazione fondamentale della proposta di riforma urbanistica che stiamo discutendo risiede nel procedimento pianificatorio volto a porre un freno al consumo del suolo. A tal fine è prevista, com’è noto, la rigorosa perimetrazione del territorio urbanizzato. In breve, ogni comune provvede a dividere in due parti il proprio territorio: quella urbanizzata e quella rurale. All’interno del territorio urbanizzato deve essere concentrato ogni intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica. All’esterno, non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali. Sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di ambiti di area vasta [(art. 4 c. 6), ovvero ambiti sovracomunali (art. 27)], cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti.
Finisce così, ha dichiarato il presidente Rossi, la stagione degli ecomostri e delle villette a schiera. Una dichiarazione da non dimenticare.
Il pregio della proposta toscana si coglie appieno confrontandola con le proposte di legge per il contenimento del consumo di suolo che sono finora 13 (8 alla Camera e 5 al Senato), presentate da quasi tutte le forze politiche e dal governo. I dispositivi previsti sono in genere molto complicati, certe volte bizzarri, o addirittura controproducenti.
2. A questa prima e prioritaria innovazione è strettamente connessa quella che riguarda il superamento del cosiddetto pluralismo istituzionale paritario, cioè la presunzione di assoluta equivalenza fra la Regione e gli altri poteri locali, stoltamente perseguita dalla Toscana negli anni passati. Una concezione esasperata e perversa dell’autonomia istituzionale, figlia delle modifiche alla Costituzione del 2001, con il solo e inutile intento di captatio benevolentiae nei confronti di Bossi, dei leghisti e della mitologia federalista allora dilagante, e senza uno straccio di valutazione critica. In Toscana, in conseguenza del pluralismo istituzionale paritario, è stato di fatto impedito alla Regione di operare interventi sulle proposte di trasformazione del territorio decise dai Comuni, anche se in contrasto con gli strumenti di pianificazione disposti dalla stessa Regione.
Nella nuova legge, per superare il malinteso pluralismo paritario, i provvedimenti adottati sono:
In primo luogo, la già citata conferenza di copianificazione (art. 24) d’area vasta [o sovracomunale] cui spetta di decidere intorno all’impegno di suolo all’esterno del territorio non urbanizzato. Alla conferenza partecipano la Regione, la Provincia, il Comune proponente e gli altri comuni ricadenti negli ambiti sovraccomunali che saranno individuati dal Consiglio regionale;
In secondo luogo, il rafforzamento dei poteri della conferenza paritetica interistituzionale (artt. 45 sgg.), organo destinato a comporre i conflitti tra i soggetti che operano in materia di governo del territorio. La conferenza era già prevista dalla precedente legge 1/2005 ma, incredibilmente, proprio in ragione della presunta assoluta parità fra i livelli istituzionali, non aveva il potere di rendere cogenti le decisioni assunte. La rinnovata conferenza interistituzionale è invece dotata dei poteri necessari ad assicurare il recepimento delle proprie conclusioni. E il parere negativo della Regione è vincolante.
3. Altre importanti innovazioni della riforma urbanistica toscana, che è impossibile approfondire in quest’occasione, sono:
È una lista che prefigura una qualità senza confronti dell’azione regionale.
Qui apro una parentesi ricordando che nel Lazio, Regione pure governata, dal marzo scorso, da un’amministrazione di centrosinistra, la politica urbanistica continua a essere incentrata sul famigerato «piano casa» ereditato dalla precedente giunta Polverini. Un provvedimento al quale si cerca, assai stentatamente, di apportare modifiche migliorative, che continua però a essere caratterizzato dalle deroghe agli strumenti urbanistici, deroghe tanto pervicacemente diffuse da configurare un vero e proprio ordinamento alternativo a quello della pianificazione ordinaria. [Qualunque precedente destinazione può essere trasformata in alloggi: come nel caso, in Comune di Roma, dell’ex Consorzio Agrario al quartiere Marconi (che oggi ospita la Città del Gusto e un cinema multisala) e dell’ex fabbrica Buffetti alla Magliana (un quartiere mostruoso dove si raggiungono densità di mille abitanti/ettaro)].
4. Torno alla proposta di cui discutiamo affrontando un argomento che, secondo me, merita di essere approfondito, quello della pianificazione territoriale di livello intermedio, fra Regione e Comuni. Cominciando del piano territoriale di coordinamento di competenza provinciale, uno strumento tra l’altro in Toscana mai amato (la legge 142/1990 che lo istituisce fu anche oggetto di ricorso della Regione alla Corte costituzionale), privo di effettiva cogenza, una sorta di piano paesistico attenuato (con elementi del piano di bacino), nella migliore delle ipotesi un repertorio di buone intenzioni. Mi pare che la discussione sulla proposta di riforma urbanistica non possa ignorare questo nodo, anche se l’incertezza circa il destino delle Province – intorno al quale si susseguono confuse proposte governative – probabilmente non consente soluzioni definitive.
Comunque, un ragionevole punto di partenza per avviare una riflessione potrebbe essere quello degli ambiti di area vasta (art.4, c. 6; art. 27) per ora un mero e generico riferimento territoriale (indispensabile per decidere in ordine alle eventuali edificazioni nello spazio aperto). In effetti, la proposta di riforma urbanistica non ne definisce in alcun modo né la natura né le dimensioni né altro, limitandosi a fissare per la loro individuazione la scadenza di 180 giorni dall’approvazione della legge. Un po’ poco per una questione di grandissima importanza ai fini del buongoverno del territorio.
Vale la pena allora di chiedersi se non sia conveniente cogliere quest’occasione per attribuire agli ambiti di area vasta anche una qualità istituzionale, riconoscendo cioè a essi la titolarità di poteri pianificatori, trasformandoli insomma in attori della pianificazione intercomunale (artt. 22 sgg.). Almeno in via sperimentale. In tal modo contribuendo, tra l’altro, al superamento del piano strutturale comunale che troppo spesso appare inadeguato (comuni conurbati, di ridotta superficie territoriale, con problemi di infrastrutturazione irrisolvibili a scala locale).
«La crisi economica, e più nello specifico la crisi finanziaria degli enti locali e la riduzione dei posti di lavoro e delle retribuzioni, comporta oggi il rischio di un «prevalere» delle scelte di investimento, di qualunque natura esse siano, rispetto a una valutazione ponderata dei pro e contro le diverse ipotesi di trasformazione e messa in valore dei territori in un’ottica di sostenibilità di lungo periodo e di prospettiva territoriale più ampia. Questa situazione espone i territori locali all’elevata volatilità degli investimenti, con il conseguente rischio del mancato prodursi di effetti positivi sull’economia reale, e al prodursi di crisi più profonde e ricorrenti.
«A fronte di tale scenario l’esercizio del potere decisionale da parte di un solo attore istituzionale, espone al rischio della «cattura del regolatore», ovvero della subordinazione di chi è tenuto a rappresentare gli interessi collettivi a interessi di parte. La cosiddetta «filiera della pianificazione» è stata dunque resa più trasparente e coerente, affinché soggetti istituzionali, cittadini e attori economici possano partecipare, ognuno per le proprie funzioni, alla costruzione e gestione di decisioni nelle quali rappresentanza formale e rappresentanza sostanziale degli interessi collettivi coincidano il più possibile».
Che io sappia, è la prima volta che un provvedimento di legge dichiaratamente si sottrae al «ricatto della congiuntura», il machiavello che da mezzo secolo si utilizza per dirottare su un binario morto qualsivoglia proposta davvero innovativa. Il pretesto è che in tempo di crisi economica (ma è sempre tempo di crisi) non è possibile mettere mano ad autentiche riforme]. E con chiarezza denuncia il rischio di opacità che si corre quando a decidere è un solo soggetto (la cattura del regolatore).
Meglio di così mi pare impossibile.
Il manifesto, 9 novembre 2013
Sala del Teatro de' Servi, via del Tritone a Roma, affollata per il convegno dal titolo «Togliatti e la Costituzione» promosso dall'Associazione Futura Umanità.
Corriere della Sera, 31 ottobre 2013, con postilla e barzelletta
La colonia di scrittori, intellettuali e uomini di scienza che animavano la Olivetti era una fabbrica nella fabbrica. Di cui però nella fiction La forza di un sogno , trasmessa lunedì e martedì da «RaiUno», non c’è traccia. «Non dico che sia calata una saracinesca, ma è una diminutio eccessiva» sostiene Franco Ferrarotti, tra i collaboratori stretti di Adriano Olivetti. «Una storia della Olivetti senza gli intellettuali è impossibile - dice Luciano Gallino, che non ha visto la fiction e fa un ragionamento per assurdo - perché non sarebbe la storia della Olivetti».
Al Corriere della Sera, Ferrarotti (classe 1926) parla con schiettezza: «La fiction racconta benissimo Olivetti uomo, interpretato magistralmente da Zingaretti: Adriano era così, volitivo e trattenuto, razionale e intuivo». Bene anche la regia di Michele Soavi. Ma l’ipotesi del complotto della Cia, adombrata, per Ferrarotti è errata: «Si drammatizza troppo il contrasto con gli americani, con l’agente americana infiltrata e alcune allusioni; in realtà la fortuna Olivetti deriva anche dai contatti con gli americani, in Svizzera, dove conosce Allen Dulles, poi direttore della Cia, grazie al quale riuscirà a non far bombardare Ivrea durante la guerra».
Ferrarotti non contesta le licenze di finzione, ma il fatto che il peso dato al complotto, e al romanzo familiare, metta in subordine il ruolo degli intellettuali: «Senza di loro non ci sarebbe il mito Olivetti. Non sarebbe arrivato al Museum di modern art a New York. Perché Ivrea, in quegli anni, era una piccola Atene industrializzata. C’erano Geno Pampaloni, scrittore e critico letterario, che faceva il segretario personale di Adriano, poi Renzo Zorzi, che veniva dal Partito d’azione, e Paolo Volponi, che non si limitò a dirigere le risorse umane, ma ricavò dall’esperienza dell’Olivetti i suoi libri Il memoriale e Corporale ». E ancora, Ottiero Ottieri, mandato da Olivetti come psicologo alla fabbrica di Pozzuoli «perché lì, in una fabbrica nuova in una zona non industrializzata — sottolinea Ferrarotti — i neo operai avrebbero avuto problemi particolari». Almeno il critico Franco Fortini, dice Ferrarotti, si poteva citare: «Fu lui a regalare lo slogan di grande successo per la prima macchina Lexicon 80, che diceva “Scriverà le parole del vostro avvenire”».
Ma attenzione. Olivetti non era un mecenate. «Era un capitalista che andava oltre il capitalismo — sostiene Ferrarotti —, un imprenditore che intuiva, per vie misteriose e a lui naturali, l’enorme importanza e il riverbero intellettuale e propagandistico dei suoi prodotti. Era una strana figura di ingegnere, umanista e post-rinascimentale, mezzo ebreo e mezzo protestante, meticcio come Obama, diciamo, sovversivo come Jobs... Un vero imprenditore perché non si limitava a gestire l’esistente».
Il sociologo Luciano Gallino (1927), collaboratore di Olivetti per l’Istituito di relazioni sociali, ricorda che a Ivrea il ruolo degli intellettuali era duplice: «Alcuni continuavano a fare quello che facevano prima, e si occupavano delle attività culturali dell’azienda, come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Mostre, esposizioni, spettacoli a ciclo continuo. Altri svolgevano compiti manageriali, come Volponi, che era un dirigente anche severo, oltre che un vero romanziere. Ma non dimenticava mai di essere un intellettuale». Cosa vuol dire? «Non dimenticarsi mai — risponde Gallino — di avere davanti persone, la cui componente umana è inseparabile da quella economica, produttiva, come credevano i capitalisti che pensavano solo alla prestazione. E che oggi, purtroppo, hanno vinto. Olivetti diceva che la fabbrica, l’azienda, che molto prende e chiede in termini di sacrifici fisici, psicologici, familiari, ha il dovere di restituire. Oggi che il lavoro è presentato come un regalo fatto al lavoratore, suona assurdo».
Dopo otto anni di legge urbanistica regionale, con luci ombre e aggiustamenti parziali, finalmente la Regione Toscana si appresta ad approvarne una riforma, promossa con grande impegno dall'assessore Anna Marson. Pubblichiamo per ora il suo comunicato stampa e il link al testo della legge(m.b.)
A più di otto anni dall'entrata in vigore della legge 1/2005 la riforma approvata lunedì scorso dalla Giunta Regionale, dopo oltre due anni di lavoro e diversi mesi di concertazione istituzionale, interviene a modificarne i contenuti alla luce dell'esperienza applicativa, con la finalità di valorizzare il patrimonio territoriale e paesaggistico per uno sviluppo regionale sostenibile e durevole, contrastare il consumo di suolo promuovendo il ruolo multifunzionale del territorio rurale, sviluppare la partecipazione come componente ordinaria delle procedure di formazione dei piani.
Nell'insieme tale riforma è diretta a migliorare l'efficacia della governance interistituzionale in base ai principi della sussidiarietà, e a rendere più chiare e rapide le procedure graduando la complessità degli adempimenti in relazione alla rilevanza delle trasformazioni.
La proposta di modifica ha trattato molteplici aspetti procedurali e sostantivi, e potrà essere apprezzata soltanto attraverso una lettura compiuta dell'articolato di legge, disponibile sul sito della Regione Toscana da lunedì prossimo, quando l'atto sarà trasmesso al Consiglio Regionale per gli adempimenti di competenza. Le principali innovazioni introdotte sono sintetizzate a seguire, in ordine alfabetico, anteponendo una breve descrizione della situazione in essere che ci ha indotto a introdurre le relative modifiche.
Consumo di suolo. Nonostante la legge vigente dichiari che "nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti", dal 2005 a oggi il consumo di suolo è proseguito non solo per effetto delle previsioni già vigenti ma anche in conseguenza dei nuovi impegni di suoli agricoli a fini edificatori, in assenza di verifiche effettive sulla sussistenza di possibili alternative interne alle aree già urbanizzate.
Al fine di contrastare e ridurre al minimo strettamente necessario il consumo di suolo ciò che nel testo vigente e' soltanto un enunciato di principio viene pertanto tradotto in una serie di dispositivi operativi concreti:
- si definisce in modo puntuale il territorio urbanizzato, differenziando le procedure per intervenire all'interno dello stesso da quelle per la trasformazione in aree esterne, con particolare riferimento alla salvaguardia del territorio rurale e al fine di promuovere il riuso e la riqualificazione delle aree urbane degradate o dismesse;
- in aree esterne al territorio urbanizzato non sono consentite nuove edificazioni residenziali. Limitati impegni di suolo per destinazioni diverse da quella residenziale sono in ogni caso assoggettati al parere obbligatorio della conferenza di copianificazione d'area vasta, chiamata a verificare puntualmente, oltre alla conformità al PIT, che non sussistano alternative di riutilizzazione o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti;
- nel territorio urbanizzato, per promuoverne il riuso e la riqualificazione, ferme restando una serie di condizioni generali sono introdotte alcune semplificazioni.
Correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge. La forte autonomia assegnata dalla legge vigente a ciascun ente territoriale nel procedimento di formazione degli strumenti della pianificazione ha comportato in questi anni interpretazioni anche piuttosto ampie e divergenti delle norme di riferimento. La conferenza paritetica interistituzionale, unico strumento di trattazione dei conflitti previsto, per riconoscimento unanime di tutte le sue componenti ha funzionato in modo apprezzabile, senza avere tuttavia il potere di rendere cogenti le proprie decisioni e mettendo così a rischio la stessa credibilità dello strumento. In seguito alla valutazione positiva del suo funzionamento si è scelto di mantenere la conferenza paritetica interistituzionale come strumento di riferimento per la regolazione dei conflitti, dotandola tuttavia dei poteri necessari ad assicurare il recepimento delle proprie conclusioni, e richiamando il ruolo di tutti i soggetti istituzionali nel far rispettare le norme di riferimento:
- i soggetti istituzionali possono adire la conferenza paritetica qualora ravvisino contrasti non solo tra gli strumenti della pianificazione ma anche rispetto alle disposizioni della presente legge;
- la conferenza paritetica valuta gli adeguamenti prodotti a seguito delle proprie conclusioni e relative richieste;
- se gli adeguamenti sono valutati negativamente, l'atto, o la parte di esso in questione, non assume efficacia.
Informazione e partecipazione. Nonostante la legge vigente preveda la costruzione partecipata dello statuto dei piani, l'attivazione di processi partecipativi strutturati è stata quasi esclusivamente limitata alle iniziative finanziate dalla legge 69/2007, che peraltro quando non inserite nel procedimento di formazione del piano hanno evidenziato problemi di relazione rispetto al piano stesso. L'accesso all'informazione è inoltre in troppi casi tuttora difficoltoso. In coerenza con la rinnovata legge regionale sulla partecipazione, 46/2013, è previsto che le attività di partecipazione siano inserite a tutti gli effetti nella procedura di formazione degli atti di governo del territorio. Gli articoli dedicati alla partecipazione degli abitanti nei procedimenti di governo del territorio sono stati riordinati, prevedendo linee guida comuni a livello regionale per garantire prestazioni omogenee, tecnicamente adeguate alle diverse tipologie di atti. E' previsto il diritto d'accesso agli atti amministrativi relativi ai procedimenti del governo del territorio senza obbligo di specifica motivazione.
Monitoraggio dell'esperienza applicativa delle legge e valutazione della sua efficacia. Attualmente non è previsto alcun tipo di monitoraggio dell'esperienza applicativa della legge che ne evidenzi eventuali problematiche operative, né di valutazione dell'efficacia della stessa nel raggiungere le finalità enunciate. Si ritiene invece fondamentale che la legge definisca le modalità per poter proporre le correzioni eventualmente necessarie alla luce di evidenze motivate derivanti dalla sua applicazione.
La conferenza paritetica interistituzionale, avvalendosi anche del monitoraggio svolto dalle strutture tecniche, formula annualmente eventuali proposte e rilievi alla Giunta in merito al funzionamento della pianificazione. La Regione al fine di valutare l'efficacia della legge e lo stato della pianificazione promuove il confronto con le rappresentanze istituzionali, le parti sociali, le associazioni ambientaliste, il mondo della cultura e dell'Università.
Patrimonio territoriale. In assenza di una definizione chiara di "statuto" del territorio e delle sue "invarianti strutturali", gran parte dei piani redatti ai sensi della legge 5/95 e 1/05 hanno interpretato lo statuto come elencazione di beni culturali e aree protette, dunque come vincoli anziché regole di corretta trasformazione dell'intero territorio, rendendo inefficace la relazione tra componente statutaria e componente strategica dei piani. L'introduzione del concetto di patrimonio territoriale, quale bene comune costitutivo dell'identità collettiva regionale, costituisce riferimento per contestualizzare le "invarianti strutturali" nello Statuto del territorio, e promuovere una più efficace relazione tra statuto e strategia dei piani. Analogamente a quanto avvenuto con il passaggio dal riconoscimento di singoli edifici di valore al riconoscimento dei centri storici quali organismi complessi caratterizzati dalle relazioni tra edilizia monumentale ed edilizia minore, e tra edifici e abitanti, compiuto tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, con il concetto di patrimonio territoriale esteso all'intero territorio regionale si realizza un avanzamento culturale che sottolinea il passaggio, per la Toscana, da una concezione vincolistica per aree specifiche alla messa in valore progettuale del territorio e del paesaggio nel suo insieme.
Pianificazione d'area vasta. Stante l'attuale frammentazione delle pianificazioni, e la necessità di una scala adeguata ad affrontare le scelte progettuali e pianificatorie che producono effetti al di là dei singoli confini comunali, per ambiti territoriali significativi anche dal punto di vista del raccordo con gli ambiti di paesaggio previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, si è ritenuto necessario riconoscere formalmente e promuovere forme di pianificazione intercomunali. E' stato introdotto e valorizzato il piano strutturale intercomunale, che insieme alla conferenza di copianificazione diventa riferimento qualificante per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a livello d'area vasta.
Politiche per la casa. Considerata la difficoltà degli enti locali, a fronte di una domanda sociale crescente, a dare attuazione ad adeguate politiche per la casa, anche in conseguenza della difficoltà di ottenere finanziamenti dedicati e ancor più di accedere alla disponibilità di aree a costi sostenibili, ci si è posti il problema di contribuire con le disposizioni della presente legge, per quanto possibile, a sostenere tali politiche. Si dispone che la pianificazione territoriale e urbanistica concorra alla formazione delle politiche per la casa riconoscendo gli alloggi sociali come standard urbanistico, da assicurare mediante cessione di aree, di unità immobiliari o di oneri aggiuntivi a destinazione vincolata.
Prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. I recenti e ripetuti eventi alluvionali e sismici che hanno interessato la regione hanno evidenziato l'importanza strategica di inserire nella pianificazione territoriale e urbanistica regole precauzionali chiare per la prevenzione e mitigazione dei rischi. Viene introdotta una serie di indicazioni specifiche rivolte alla formazione dei piani strutturali e dei piani operativi. Si prevede inoltre che il piano di protezione civile costituisca parte integrante del piano operativo comunale.
Qualità del territorio rurale. Il territorio rurale è tuttora considerato, in troppi casi, come un territorio privo di valore che richiede di essere 'sviluppato' attraverso previsioni di nuova urbanizzazione. Va invece emergendo con sempre maggior evidenza come il mantenimento del territorio rurale e delle sue multifunzionalità sia fondamentale per uno sviluppo sostenibile e durevole, garantendo la qualità alimentare e dell'ambiente, la riproduzione del paesaggio, l'equilibrio idrogeologico, il benessere anche economico della regione. La legge riconosce l'attività agricola come attività economico-produttiva, nel rispetto della valorizzazione dell‘ambiente e del paesaggio cui la stessa attività agricola può contribuire attraverso il suo ruolo multifunzionale, segnando con ciò una importante svolta culturale. Tale riconoscimento porta a individuare innanzitutto il principio di limitare il più possibile la frammentazione del territorio agricolo a opera di interventi non agricoli. Nel territorio rurale si prevede che gli strumenti della pianificazione individuino i "nuclei rurali", le cui trasformazioni devono garantire la coerenza con i caratteri propri degli insediamenti, gli "ambiti di pertinenza di centri e nuclei storici" di cui tutelare la valenza paesaggistica, e gli "ambiti periurbani" in cui promuovere forme di agricoltura utilmente integrabili con gli insediamenti urbani e che ne contribuiscano al miglioramento.Per quanto attiene le trasformazioni richieste dall'imprenditore agricolo vengono semplificate le procedure per una serie di interventi temporanei o di minore entità, specificate le trasformazioni aziendali che comportano la necessità di un piano attuativo, e rafforzati i vincoli e le sanzioni in caso di perdita della destinazione d'uso agricola
Riordino lessicale. Diversi contenuti della legge vigente sono di difficile lettura, né i contenuti presentano sempre una diretta correlazione logica con i titoli. In generale le norme sono state oggetto di una riscrittura attenta a promuoverne la facilità di lettura anche ai non addetti ai lavori, e a chiarire le relazioni fra i diversi dispositivi procedurali e di contenuto. Il vigente "Regolamento urbanistico" è stato ridenominato "Piano operativo" per eliminare la frequente confusione fra regolamento urbanistico e regolamento edilizio.
Tempi della pianificazione. I tempi medi di formazione degli strumenti di pianificazione dei Comuni toscani, come rilevato da una indagine Irpet del 2012, sono di circa sei anni. Tempi così lunghi comportano chiaramente un deficit di efficacia della pianificazione nel trattare le questioni rilevanti che si pongono relativamente alla gestione e trasformazione del territorio, nonché alla possibilità per i diversi soggetti potenzialmente interessati di aver contezza del procedimento e della sua evoluzione. Si è ritenuto di poter individuare in due anni il tempo massimo necessario per la formazione di uno strumento di pianificazione dall'avvio del procedimento all'approvazione. Al fine di scoraggiare tempi che superino questo termine sono state introdotte restrizioni per gli interventi urbanistici ed edilizi nei Comuni che, dall'avvio del procedimento di formazione del piano strutturale o operativo alla sua approvazione, superano i due anni. Laddove vi sia un doppio procedimento, ai fini VAS e ai fini della presente legge, è prevista la non duplicazione degli adempimenti.Sono stati specificati in maniera univoca i contenuti propri di ciascuno strumento della pianificazione, al fine di eliminare ambiguità e duplicazioni.
Tutela paesaggistica. Relativamente alla tutela paesaggistica la legge risente di una stesura precedente il Codice dei beni culturali e del paesaggio attualmente vigente, e dunque non adeguata ai contenuti dello stesso. Sono stati perfezionati i riferimenti alla normativa nazionale vigente in materia di tutela del paesaggio, specificando le valenze del PIT come piano paesaggistico ai sensi del Codice per i Beni culturali e il paesaggio (Piano paesaggistico la cui redazione è attualmente in corso di completamento, e che prevede azioni non solo di tutela ma anche di valorizzazione e riqualificazione dei paesaggi regionali). Sono stati inoltre specificati i compiti dell'osservatorio regionale del paesaggio, che avrà il ruolo, tra l'altro, di promuovere in attuazione della Convenzione europea sul paesaggio la partecipazione delle popolazioni alla tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico regionale.
Anna Marson è Assessore all'Urbanistica, pianificazione del territorio e paesaggio
eddyburg sapevano da un pezzo, ma che i cattivi urbanisti e gli accecati amministratori continuano a praticare.
1. La pianificazione urbanistica è un diritto delle pubbliche amministrazioni
In primo luogo la sentenza rigetta ancora una volta la censura del proponente (una società immobiliare proprietaria di un vasto compendio immobiliare destinato ad espansione urbanistica nel quadrante sud est di Roma) tesa a mettere in dubbio il diritto di ogni amministrazione comunale a delineare il futuro delle città. In tal senso la sentenza ribadisce ancora una volta –se ce ne fosse ancora bisogno - l’inesistenza di cosiddetti diritti edificatori acquisiti così cari alla sedicente urbanistica riformista romana. Afferma infatti la sentenza che: «Con ogni evidenza, una siffatta situazione non è rinvenibile in capo all’odierna appellante, non potendo certo un’aspettativa giuridicamente tutelabile discendere dalla pregressa destinazione del suolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 dicembre 2009, nr. 9006), e nemmeno dalla mera circostanza che nella specie la società istante avesse presentato una proposta di lottizzazione, mai esaminata dal Comune (e ciò in disparte quanto appresso si dirà con riguardo al diverso “trattamento” riservato ad altra proposta formulata in relazione a un suolo limitrofo). Per queste ragioni, non possono essere accolte le doglianze (pagg. 48-55 e 61-69 dell’appello) con le quali si tende a sollecitare un non consentito sindacato nel merito delle scelte pianificatorie assunte dall’Amministrazioni, ancorché penalizzanti dei suoli della società esponente, attraverso l’evocazione di insussistenti e improbabili carenze motivazionali».
2. L’ invenzione della compensazione urbanistica
La sentenza del Consiglio di Stato demolisce poi il principale strumento dell’urbanistica romana, e cioè quella della più assoluta discrezionalità utilizzata nella cancellazione o nella compensazione in altri luoghi delle volumetrie che si intendeva sulla base di motivazioni paesaggistiche ed ambientali, cancellare. A questo punto dobbiamo ripercorre brevemente la vicenda pianificatoria romana in modo da comprendere appieno la sconsiderata scelta della compensazione urbanistica.
Quando l’amministrazione guidata da Francesco Rutelli prese in mano l’urbanistica romana, erano in itinere la Variante per la conferma dei vincoli scaduti a verde e servizi e la Variante di salvaguardia entrambe ottenute con una forte iniziativa del mondo ambientalista e dell’urbanistica democratica. La seconda, in particolare, applicava in pieno il principio confermato dalla sentenza che stiamo commentando: essa infatti cancellava milioni di metri cubi di espansioni urbanistiche sulla base di “oggettive esigenze” ambientali.
Inopinatamente il comune di Roma, invece di sollecitare la regione Lazio ad approvare quella variante di salvaguardia e chiudere così il processo di tutela paesaggistica, avviò la redazione del cosiddetto “Piano delle certezze” che pose a proprio fondamento che la cancellazione delle volumetrie previste dal piano previgente non potessero essere effettuate se non attraverso una sorta di “indennizzo”, e cioè la compensazione urbanistica di quelle volumetrie in altre aree urbane (questa fase dell’urbanistica romana è ricostruito in dettaglio nella nuova edizione di Roma moderna di Italo Insolera aggiornata con la collaborazione di Paolo Berdini. Einaudi 2011).
Il caso di maggiore evidenza mediatica è stato quello relativo al comprensorio di Tor Marancia, comprensorio che la Soprintendenza archeologica vincolò all’inedificabilità per la sua adiacenza al Parco dell’Appia Antica e che proprio sulla base del vincolo imposto non doveva in alcun modo essere “compensata”. Nel caso di Tormarancia, la compensazione urbanistica ha dimostrato di essere un micidiale fattore di moltiplicazione delle volumetrie da realizzare: è noto infatti che dagli iniziali 1,8 milioni di metri cubi si è passati ad un totale di 5,2 milioni, con un aumento del 200% circa.
3. La sentenza del Consiglio di Stato
La cultura urbanistica che si riconosce in Eddyburg affermò immediatamente la pericolosità di quell’atto che oltre a limitare la potestà pianificatoria comunale poneva in esplicita contraddizione due proprietà limitrofe con identiche caratteristiche paesaggistiche ed ambientali che venivano trattate in modo differente poiché alla prima (inserita nella variante delle certezze) si garantiva la compensazione delle volumetrie previgenti, mente alla seconda (esclusa dalla variante delle certezze) venivano cancellate le volumetrie previgenti.
Torniamo come si vede ai principi basilari dell’urbanistica, a quelli cioè di aver il dovere di trattare in modo identico le proprietà caratterizzate da identiche caratteristiche: quello che l’urbanistica romana ha accuratamente evitato di fare facendo invece della discrezionalità il principale strumento. Atteggiamento solennemente censurato dalla sentenza 119 laddove si afferma che «lo stesso Consiglio di Stato, preso atto che il Comune di Roma ha inteso introdurre con propria scelta di insindacabile discrezionalità urbanistica l’istituto della compensazione, ha espressamente sancito il principio della necessaria applicazione dell’istituto compensativo per tutte le aree che hanno subito la medesima privazione della capacità edificatoria indipendentemente dal momento e dall’atto con cui questa è stata realizzata».
Continua ancora il Consiglio di Stato: «In altri termini, altra è la situazione di chi, ferma restando la capacità edificatoria pregressa del proprio suolo, intenda acquisire ulteriore volumetria edificabile (ed a cui, come detto, si riferiscono le previsioni perequative de quibus); ben diversa è invece la situazione di chi abbia subito sic et simpliciter una decurtazione rispetto al passato dell’edificabilità attribuita al proprio suolo: per queste ultime fattispecie l’Amministrazione ha introdotto l’istituto della compensazione urbanistica il quale, per le ragioni sopra esposte, deve trovare applicazione a tutte le aree soggette a tale deminutio di edificabilità, indipendentemente dal momento e dall’atto con cui questa sia stata realizzata. Ne discende anche che del tutto irrilevante è ogni approfondimento in ordine alla piena identità o meno fra la situazione dell’odierna appellante e quella di altri soggetti, ai quali risulta invece spontaneamente riconosciuta dal Comune la compensazione, dovendo ritenersi acclarata in ogni caso l’applicabilità dell’istituto anche alla prima».
La sentenza ha due tipi di conseguenze, una specifica immediata ed altre di più lunghe e profonde implicazioni. Quella immediata riguarda la Società ricorrente e la necessità di reperire le aree per la realizzazione delle volumetrie a lei attribuite, con il danno ulteriore che emerge dalla lettura della sentenza, che tale cubatura in conseguenza della approssimazione con cui la amministrazione si è mossa, è aggiuntiva rispetto alle previsioni edificatorie: stiamo parlando di due milioni di metri cubi da scaricare sul territorio con ulteriore enorme del consumo di suolo. Se le conseguenze non fossero drammatiche per la capitale, verrebbe da sottolineare che i teorici della “nuova urbanistica romana” escono dalla ventennale vicenda con le ossa rotte, facendo la figura degli apprendisti stregoni inconsapevoli delle forze che hanno scatenato, sopravvalutando le loro capacità di controllarle.
4. La nuova amministrazione di Ignazio Marino e il caso della compensazione di Casal Giudeo
Ma gli ostacoli all’apertura di una nuova fase dell’urbanistica romana hanno incontrato proprio in questi giorni un’ulteriore ostacolo rappresentato dalla deriva della cultura politica del centro sinistra capitolino. Il 17 settembre scorso, infatti, il voto compatto del Pd e del Pdl e l’unico voto contrario del consigliere 5stelle Daniele Frongia (Sel era inspiegabilmente assente) ha dato il via libera ad una contestatissima deliberazione che autorizza la “compensazione urbanistica” nel comprensorio di Casal Giudeo per una cubatura totale di 1,3 milioni di metri cubi.
La nuova amministrazione guidata da Ignazio Marino aveva impostato la campagna elettorale promettendo una netta discontinuità verso la precedente amministrazione. E’ dunque grave che alla prima concreta occasione il “partito del cemento” abbia trovato un accordo trasversale tanto disinvolto: va infatti sottolineato che la deliberazione di Casal Giudeo era andata alla discussione delle commissioni consiliari con il parere contrario del Segretario generale del comune di Roma e dello stesso assessore Caudo. La politica si è dimostrata sorda ai richiami alla legittimità degli atti e intende evidentemente perpetuare la cultura dell’urbanistica derogatoria, dei diritti edificatori e della compensazione urbanistica. Quell’urbanistica che la sentenza 119 del Consiglio di Stato ha giudicato fallimentare sotto ogni punto di vista.
Vedi su eddyburg gli scritti di Edoardo Salzano e di Vincenzo Cerulli Irelli,
La Repubblica, 14 settembre 2013, postilla (f.b.)
NEW YORK - Nelle più diffuse traduzioni italiane, la frase è fin troppo esplicitata: «Tutto ciò che era stabilito e rispondente alla situazione sociale svanisce», oppure «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi». Nella versione originale delManifesto comunista di Karl Marx e Friederich Engels l’immagine è più astratta, misteriosa. Citata da sola richiama un trattato di fisica. «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria». Significa che il potere rivoluzionario del capitalismo non risparmia nulla: ha travolto società feudali scaraventandole nella modernizzazione, e prima o poi la sua furia distruttiva dissolverà la stessa borghesia. È quella frase che Marshall Berman scelse come titolo del suo libro più bello e più fortunato, pubblicato in Italia dal Mulino. Fu una fatica durata dieci anni, cominciò a scrivere nel 1971 e finì nel 1981. Ne valeva la pena: fu all’origine di un revival d’interesse americano per il marxismo, capace di sopravvivere alla caduta del Muro di Berlino.
Trent’anni prima della grande crisi del 2008 o di Occupy Wall Street, Berman aveva riscoperto una lettura marxista del suo tempo, rifiutandosi di abbandonare quei testi alla critica dei roditori. Edmondo Berselli in Adulti con riserva lo ricordò come «una specie di elefante barbuto, nello stesso tempo goffo ed agile, divertentissimo da osservare mentre in un bar veneziano mangiava la pizza con le mani impiastricciandosi le dita, se la ficcava in bocca sporcandosi la barba»...
È morto come lo ricordava Berselli: stroncato da un infarto l’11 settembre, a settantatre anni, mentre mangiava in uno dei suoi “diner” preferiti, il Metro dell’Upper West Side. Newyorchese fino al midollo, nato nel South Bronx, laureato alla Columbia, docente al City College, Berman negli ultimi anni si era dedicato proprio alla storia della sua città, curando un’opera collettiva sulla Grande Mela “dal blackout a Bloomberg”.
Teorico della modernità, la studiava nei grandi fenomeni sociali così come nella vita personale. Pubblico e privato facevano tutt’uno per lui, questo contribuiva al fascino dei suoi scritti: «Essere moderno, vuol dire sperimentare la propria vita personale e sociale come un vortice, trovarsi in una perpetua disintegrazione e trasformazione, fra turbamento e angoscia, ambiguità e contraddizione ». Cioè, appunto, essere parte di un universo in cui tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. Berman era capace di scrivere con la stessa prosa seducente sul Faust di Goethe, su Dostoevskij, o sull’architettura di Manhattan. Al centro del suo pensiero c’è la potenza creatrice e devastante della modernità. Non lo convinceva il pensiero “leggero” dei post-moderni.
Anche in questo incrociava la sua filosofia con la sua esperienza di vita, segnata da tragedie come il suicidio della prima moglie. Da Dissent a The Nation alla New York Review of Books,la sua firma è stata su tutte le riviste più radicali e impegnate, dove l’intellighenzia newyorchese non rinuncia a esercitare la critica del presente. Era convinto, con Marx, che non basti interpretare la storia, occorre cambiarla.
postilla
Un ruolo particolare Marshall Berman avrebbe potuto avere, e magari avrà in futuro, chissà, per gli studi urbani in Italia, ben oltre la vaga eco del suo L'Esperienza della Modernità, praticamente noto soprattutto per lo svarione del traduttore sottopagato, autore dell'improbabile neologismo “scure di carne” attribuito al modernizzatore autoritario per eccellenza, Robert Moses. Il rimescolare personale e politico di Berman, ricordato da Rampini, nel caso di Moses cascava benissimo ricordando l'infanzia a West Tremont, nel Bronx ancora sereno quartiere popolare e di ceto medio nell'anteguerra, trasformato nell'anticamera dell'inferno dagli sventramenti voluti dallo zar delle opere pubbliche Moses per una autostrada urbana. Vicenda replicata in migliaia di altre città del mondo, più o meno identica anche se non nelle dimensioni, ma che Marshall Berman ci propone secondo una prospettiva diciamo difficile da digerire per la critica italiana: è l'accettazione acriticamente tecnocratica dell'urbanistica razionalista, del ruolo indiscutibile della pubblica amministrazione dotata del diritto di esproprio per pubblica utilità, a produrre danni e cicatrici difficili da rimarginare nel tessuto urbano e sociale, replicando le fratture dell'industrializzazione ottocentesca nel segno della città-macchina corbusieriana che ruota attorno all'automobile. E che fa passare in secondo piano anche l'autoritarismo militaresco degli sventratori classici, da Haussmann (a cui pure Moses diceva di ispirarsi) al nostro Mussolini stigmatizzato da Cederna. Perché la distruzione di questi sventramenti non riguarda semplicemente le sedimentazioni del passato, spesso del tutto inesistenti nelle città del mondo prive di storia degna di questo nome. Il solidificarsi di ciò che era sospeso nell'aria è invece un esercizio spietato di potere nel segno di una razionalità astratta, di cui la cultura razionalista non ha saputo davvero liberarsi, e che non è assente neppure in certe culture urbane contemporanee, pur frammentate tra lobbies settoriali. Così l'Esperienza della Modernità di Marshall Berman ci resta a efficace testimonianza e monito: non solo diffidate dei falsi profeti, ma badate bene a come interpretare quelli autentici! (f.b.)
Su Mall la versione italiana di alcune considerazioni di Berman a proposito dell'immaginario urbano a Times Square, vetrina delle merci e della società, aggiungono molto al profilo oggi santificato dell'amministrazione Bloomberg
Qui un breve filmato sull'autostrada del Bronx raccontata da Berman
L'articolo di Giuseppe Pullara sul PRG di Roma del 1962, progettato da un'équipe coordinata da Luigi Piccinato, mi suscita alcune considerazioni che non trovano spazio adeguato in una postilla. Eccole qui.
IIl PRG del 1962, come Pullara ricorda, aveva introdotto alcune innovazioni sostanziali, sia nel progetto della Roma futura che nelle regole generali della pianificazione urbanistica in Italia. Il governo del territorio esercitato nella Capitale ha sempre avuto effetti rilevanti a livello nazionale. Voglio ricordare, a quest’ultimo proposito, gli standard urbanistici, elemento essenziale per una città organizzata in funzione dei cittadini e non della rendita, prescritti nelle norme del PRG romano e nei piani urbanistici dell’Emilia rossa in quegli (stessi anni), che furono generalizzati con i decreti Mancini del 1968, e la programmazione pluriennale delle previsioni del PRG, introdotta nella legislazione nazionale con la legge Bucalossi del 1977, e poi subito abbandonata nei terribili anni 80).
Per il progetto della nuova Roma è utile precisare che l’Asse attrezzato non era solo né tanto un’arteria stradale, ma l’elemento di connessione multivettoriale tra tre nuovi centri direzionali, dove avrebbero dovuto essere spostati i grandi uffici pubblici e privati (a cominciare dai Ministeri) liberando così il centro storico dalla congestione e dal traffico.
In realtà le previsioni migliori del PRG del 1962 furono abbandonate e rinnegate, a partire dall'idea base:n che «il Comune deve decidere dove e come va la città» (un'idea cara non solo al socialista Piccinato, come afferma Pullara, ma a tutto il pensiero urbanistico italiano ed europeo dell’epoca). Ciò che i successori di Luigi Piccinato hanno conservato accuratamente negli ultimi lustri (gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno), e anzi ampliato è stato invece l'errore principale del PRG del 1962 : il pesante sovradimensionamento, giustificato all’inizio degli anni ‘6o dai trend demografici, motivato negli anni successivi solo dalla perversa volontà di estendere, con lo sviluppo delle capacità edificatorie, il valore della rendita fondiaria. Hanno accresciuto e consolidato la capacità edificatoria del piano proprio in una fase in cui le ragioni della crescita quantitativa stavano scomparendo; e l'invenzione e l'introduzione nel pensiero corrente dei "diritti edificatori" ha costituito per l'urbanistica italiana l'equivalente negativo di quelle della dimensione temporale, e non solo spaziale, della pianificazione urbanistica e degli spazi pubblici come diritti per tutti gli abitanti.
Di Luigi Piccinato voglio ricordare en passant (sperando che qualcuno ne scriva più ampiamente) tre contributi che ha dato alla mia formazione, e forse a quella di molti urbanisti italiani.
Il primo, e il più leggero, è l’humour con il quale sapeva concentrare in fulminanti battute il suo spirito critico (esprimeva ad esempio la sua rabbia per il delitto urbanistico col quale gli ingegneri dell’ANAS avevano deciso e progettato il Grande raccordo anulare di Roma definendoli “gli ingegneri anali”). La sua capacità di criticare frustando era un risvolto utile della sua capacità di comunicare l'urbanistica a un mondo più vasto di quello degli specialisti.
Il secondo contributo è il suo libro, Urbanistica, Sandron, Roma 1947, col quale fornì, a una generazione di urbanisti quella che, «nell’immediato dopoguerra, si poneva come la più avanzata “filosofia”generale dell’urbanistica nel nostro paese», come scrisse Giovanni Astengo nella sua introduzione alla ristampa del libro (con il nuovo titolo La Progettazione urbanistica, Marsilio editori, Venezia 1987). Una "filosofia generale" (una ideologia e un mestiere) che aveva al suo centro una duplice consapevolezza: il futuro della città nasce da un sentimento profonda della sua storia e del suo presente; ela pianificazione urbanistica, se vuole migliorare le condizioni della città territorio, deve riuscire a contrastare la rendita fondiaria mediante l'arma di un sistema di regole chiaramente definite dal potere pubblico come espressione di una volontà collettiva.
Infine, voglio ricordare l’impegno con il quale contribuì, unico dei "padri anziani"dell’Istituto, alla ricostruzione dell’INU da parte del gruppo costituito da Detti, Tutino, Cabianca, Romano,De Lucia, dopo che la contestazione studentesca aveva spazzato via il gruppo dirigente dell’istituto, considerato dagli studenti colluso con l’establishment conservatore dell’Italia del centro destra a egemonia democristiana. Come accade ai nostri giorni, nel quadro delle "larghe intese", queata volta nella disattenzione degli studenti.
«È stata dura per me - dice Giorgio Piccinato, 77 anni, urbanista, docente a Roma Tre - appena laureato lavoravo a studio da zio Luigi a piazza Jacini. Lui giocava un ruolo da divo, aveva sempre una risposta a tutto. Era un tipo gioviale, dalla battuta facile». In famiglia si ricordano in questi giorni i trent'anni dalla scomparsa del più celebre dei congiunti: Luigi Piccinato, uno degli urbanisti più importanti del secondo dopoguerra, soprattutto il capofila degli autori del Piano regolatore di Roma del 1962, il primo dopo quello fascista del 1931. All'inizio degli anni Cinquanta il Comune mise mano ad un nuovo progetto di sviluppo della città: anni ruggenti, demografia impazzita (+50/60 mila abitanti all'anno!) ed enormi speculazioni. Nel '57 un Comitato tecnico (con Piccinato) presentò una proposta che fu malamente trasformata dalla giunta democristiana e che venne in parte ripristinata da una speciale Commissione di Cinque saggi di nomina ministeriale (guidata da Piccinato, con Vincenzo Passarelli, Michele Valori, Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino). Il Piano fu infine adottato nel 1962 e approvato dal Quirinale tre anni dopo. Dieci anni fa è stato sostituito dal Prg firmato Veltroni.
Il «Piano Piccinato» ha operato per quarant'anni, infarcito di «varianti» e correzioni di ogni genere. A lui si deve grosso modo l'aspetto attuale della città, nel (poco) bene e nel (tanto) male. Il Piano successivo in buona parte ha sviluppato anche se corretto le linee già stabilite lasciando ufficialmente aperta ogni possibilità di trasformazione urbana con gli «accordi di programma», le «varianti» e soprattutto la logica che sostiene l'intero progetto: «Pianificar facendo». Nato a sinistra, l'attuale Prg è andato proprio per questo quasi bene anche alla destra di Alemanno.
«La tutela del centro storico comincia dalla periferia» diceva Piccinato. E così nacque l'idea di un Asse Attrezzato da piazzare tra Est e Sud per portare il direzionale fuori dal centro, liberando la parte più prestigiosa della città. Un progetto basato sul trasporto su gomma e non sul ferro (metrò), cosa che ancora pesa su Roma. L'espansione urbana doveva avvenire con nuovi quartieri autosufficienti (restati scollegati tra loro e col centro) in grado di soddisfare un incremento di popolazione fino a 5 milioni (un errore, ma la previsione serviva per garantire lo sviluppo controllato del territorio). Il verde pubblico sarebbe stato abbondante e pianificato. Tutto il tema delle immense periferie, che sarebbe esploso nei primi anni di attuazione del Piano, fu trascurato. Scrive Italo Insolera (Roma moderna, ed.'93, pag.263): «Non è dato vedere una politica delle periferie intesa come rottura della tradizionale indifferenza dei Pr romani verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato si accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è stato dato di partecipare all'evoluzione di quella civile comunità di persone che dovrebbe essere una città».
il Piano di Piccinato negava l'«urbanistica contrattata» venuta poi, anche se «teneva conto con intelligenza delle forze in campo» come annota il nipote Giorgio. Tentò di coniugare spinte conservatrici con propositi riformisti. Scelse lo sviluppo direzionale a Est con un aeroporto internazionale nell'estremo Ovest negando (forse perché d'ispirazione fascista) l'opzione «a mare» che si è realizzata fuori controllo in seguito. Nonostante il Piano, il «sacco di Roma» denunciato anni prima da Aldo Natoli in consiglio comunale, procedette inesorabile. «Noi urbanisti - commenta amaro Giorgio Piccinato - abbiamo il compito di capire come funziona una città. Come vanno poi le cose dipende dai tanti protagonisti in campo: politici, amministratori, categorie, forze sociali, finanza, cittadini».
I progettisti del PRG; da sinistra: Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino, Michele Valori, Luigi Piccinato, Vincenzo Passarelli |
A 50 anni da "Le mani sulla città", la speculazione edilizia è favorita per legge.
Un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo del "Decreto del Fare" consente a regioni e province autonome di approvare disposizioni derogatorie agli standard urbanistici: un provvedimento della fine degli anni Sessanta, d’importanza vitale, che fissa le quantità minime di spazi pubblici di cui ha diritto ogni cittadino italiano. Non sorprende che a condurre l'attacco sia l'attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che, da assessore al comune di Milano e poi da parlamentare FI e Pdl, aveva portato avanti terrificanti proposte di privatizzazione dell'urbanistica. Grave è che stavolta sia riuscito a ottenere l'assenso del centro sinistra, accampando pubblicamente l'intesa raggiunta con il Pd Roberto Morassut.
Questo è uno degli effetti del governo delle larghe intese.
Alberto Asor Rosa, Paolo Berdini, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia
Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari, Salvatore Settis.
Per tutelare i centri storici ed altre zone importanti della città non basta quindi individuare della aree in cui non si applica la Scia, bisogna anche cambiare il Piano Regolatore in modo da non consentire il cambiamento di sagoma sugli edifici compresi in queste zone. Altrimenti il Permesso di costruire dovrà comunque autorizzare l’intervento. Rimarrebbe solo la possibilità di opposizione della Commissione Edilizia per motivi estetici, ma di fronte a un ricorso al Tar del proprietario questi motivi potrebbero essere molto deboli. Il PGT di Milano ha previsto che nel centro storico solo gli edifici di valore senza valore culturale, ambientale, estetico e storico-testimoniale possano essere sottoposti a ristrutturazione edilizia con modifica di sagoma, ma questo perché la Legge urbanistica della Regione Lombardia già consente il cambiamento di sagoma nelle ristrutturazioni e il PGT ne ha tenuto conto. A Milano per fortuna la norma sui cortili del nuovo PGT che fissa l’altezza massima uguale a quella preesistente resta salva perché prescinde dal fatto che si tratti di una ristrutturazione o di una nuova costruzione. Ma nelle altre Regioni qual’è la situazione ?». Resta il fatto che anche fuori dal centro storico il cambiamento di sagoma potrà portare a situazioni paradossali come quella mostrata dalle foto pubblicate, che riguarda un intervento a Milano nell’isolato di Via Zambeletti/Via Maiocchi, dove il nuovo fabbricato arriva fino a 4,80 metri dalle abitazioni adiacenti .
E non è molto rassicurante la risposta inviata da Silvia Paparo, Direttore Ufficio per la Semplificazione Amministrativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roberto Barabino, Presidente della Rete dei Comitati per la Qualità Urbanistica di Milano:
«Gentile Dr. Barabino,nella predisposizione della nuova disciplina in materia edilizia si è operato nella consapevolezza che la semplificazione non potesse in nessun modo abbassare i livelli di tutela del patrimonio culturale e paesaggistico. In particolare, la disposizione che assoggetta gli interventi di alterazione della sagoma alla segnalazione certificata di inizio attività non introduce modifiche in senso peggiorativo all’ambiente e al paesaggio. Al contrario, è volta a dare nuovo impulso alle politiche di rigenerazione urbana, a permettere un miglioramento ed una riqualificazione fisica del territorio e ad affrontare la grave crisi del settore, contribuendo all’avvio di investimenti privati.La norma non legittima speculazioni edilizie, né la costruzione di “ecomostri”. Difatti, pur venendo meno il vincolo di sagoma, gli interventi di ricostruzione e di ripristino degli edifici rimangono soggetti al vincolo di volumetria. Ne consegue che è sempre vietato costruire edifici di dimensioni maggiori rispetto a quelli preesistenti e che tutti gli interventi sono, in ogni caso, realizzati nel pieno rispetto del contesto urbanistico in cui si inseriscono. Preme inoltre sottolineare che la semplificazione riguarda unicamente gli interventi di ricostruzione e ripristino di edifici preesistenti e non le nuove costruzioni, le quali, potendo potenzialmente ledere l’aspetto del paesaggio e del contesto urbanistico, sono in ogni caso soggette al rilascio del permesso di costruire. Infine, in sede di conversione del decreto, si è operato in senso maggiormente garantista, ampliando la tutela del paesaggio e del patrimonio storico, artistico e architettonico ed escludendo dall’applicazione della nuova disposizione, oltre agli immobili soggetti a vincoli paesaggistici o culturali, anche aree site in centri storici di particolare pregio, espressamente individuate dai Comuni, con propria deliberazione.Cordiali saluti Cons. Silvia Paparo
Post scriptum: anche se non c’entrano con l’edilizia, in questo decreto diventato legge continuano le scoperte. Segnala l’amico Peppe commentando un articolo su Repubblica di Genova (Re_Ge_22_8_13_decretofare_nautica): »Siccome il settore della nautica (come tutto il resto) è in crisi, si cerca di sostenerlo, quasi avesse un suo speciale valore sociale. Come? Si esenta da ogni tassa il proprietario di barca fino a 14 metri (quattordici!) e si dimezzano le tasse ai proprietari di barche fino a 20 metri (venti!), cioè di yacht. Costoro non pagano niente o pagano la metà, mentre mettiamo chi ha un trabiccolo per vendere ortaggi, con cui lavora, paga al posto suo. E questo nel momento in cui per recuperare i mancati introiti di una tassa se pur rozzamente progressiva (Imu), si aumentano le marche da bollo, le accise, le tasse sui fiammiferi, sulla spazzatura, e altre imposte indirette, fregando i poveracci. E nessuno parla» FORSE CONVERREBBE RIBATTEZZARLO IL DECRETO DEL FARE…FAVORI
La Repubblica, 20 agosto 2013, con postilla
MENTRE la crisi avanza, crescono disoccupazione e allarme sociale, ma a certe cose non si rinuncia: tatuaggi, cibi esotici, yacht, porti turistici e altri generi di prima necessità. E se qualcosa non funziona nel Bel Paese, non può che essere una fatalità. Che cosa di più “fatale” dell’erosione delle coste?
Tout se tient, tutto si tiene insieme Varrebbe la pena di valutare corrispondenze ancora più dirette da quelle evocate dall’articolo di Settis tra l’erosione delle spiagge e lo “sviluppo” basato sulla continua espansione delle costruzioni e delle infrastrutture. In molte zone dell’Italia l’erosione è direttamente correlata all’asporto dei materiali inerti dai corsi d’acqua, necessaria per la formazione del cemento armato. Le cause del degrado del Belpaese sono certamente molte. Esse hanno un’ampia radice comune; vorrei sottolineare che tra i suoi rami c’è anche l’abbandono del metodo e degli strumenti della pianificazione, sia di quella “generale” (piani urbanistici comunali e piani territoriali regionali e provinciali) sia “specialistica” (piani di bacino e piani paesaggistici ( di competenza regionale e statale)
A proposito di tutela del paesaggio e dell’ambiente voglio sottolineare infine come l’opinione pubblica sia tenuta all’oscuro di un’azione che si sta perpetrando per il degrado di una costa (quella della Sardegna) fino a oggi ancora tutelata dalla saggia ed efficace pianificazione paesaggistica attuata dalla giunta di Renato Soru in accordo con gli organi satali competenti, che l’attuale giunta regionale, con la complicità di altre forze politiche, sta tentando fin dal suo insediamento. Nel silenzio non solo dei media ma, finora, perfino dal competenti organi dello Stato. (si veda in proposito, tra i numerosi materiali pubblicati su eddyburg, il recente intervento di Elio Garzillo, già direttore regionale del Mibac per la Sardegna).
Ė invece passato quasi inosservato un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo che consente a Regioni e province autonome di approvare con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/68, dettando "disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivitá collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali."
Nonostante la forma circonvoluta e imprecisa, ė tuttavia molto chiaro l'obiettivo perseguito: si tratta dell'ennesimo e forse definitivo tentativo di sopprimere le conquiste ottenute alla fine degli anni Sessanta in tema di spazi pubblici minimi e distanze tra gli edifici (18 mq/abitante, distanza pari all'altezza degli edifici, con un minimo di 10 metri tra pareti finestrate), dopo i guasti della stagione liberista degli anni Cinquanta conclusasi con il massacro di molte delle nostre città da parte della speculazione edilizia e infine con il tragico episodio della frana di Agrigento.
Con la pretesa delle incombenti difficoltà economiche del settore edilizio, vedremo così vanificarsi non solo la stagione che tra il 1975 e il 1990 aveva visto molte Regioni rafforzare quelle conquiste, con la prescrizione di dotazioni pubbliche superiori a quelle minime nazionali, attestate attorno a 24-28 mq/abitante in sintonia con le tendenze europee, ma verrà meno anche il plafond minimo garantito dalle norme nazionali, che nemmeno regioni così selvaggiamente deregolatrici come la Lombardia erano sinora riuscite a sfondare completamente.
Non sorprende che a condurre questo attacco sia stato l'attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che come assessore al Comune di Milano prima e parlamentare FI e PdL poi - spesso in combutta con il parlamentare milanese Pierluigi Mantini della Margherita, in una sorta di premonizione delle larghe intese - nelle scorse legislature aveva portato avanti proposte di impronta filo-liberista che equiparavano interessi pubblici e privati, fortunatamente mai giunte a definitiva approvazione.
Grave é che Lupi sia riuscito oggi ad ottenere nuovamente l'assenso del centro-sinistra a questa sua furia demolitrice delle conquiste urbanistiche degli anni Sessanta-Settanta, nonostante le perplessitá diffuse nell'aula del Senato, accampando pubblicamente un'intesa raggiunta con il deputato Morassutt.
Si tratta, infatti, non di modifiche puntuali di questa o quella singola norma specifica a scopo di semplificazione attuativa, ma di una vero e proprio cambiamento di sistema della materia urbanistica, paragonabile alle riforme istituzionali, alla cui definizione non appare titolata una maggioranza di emergenza quale quella che attualmente sostiene il governo Letta, e che richiederebbe comunque un dibattito approfondito non solo nelle commissioni parlamentari (dove peraltro non c'é stato), ma tra le forze sociali ed intellettuali dell'intero Paese.
A nulla sono valsi gli emendamenti soppressivi e gli ordini del giorno (n. 9/1248 AR/160 Basilio - M5S) tutti inesorabilmente respinti.Ora il provvedimento è al Senato fino alla fine di questa settimana e speriamo che sia corretto eliminando questa dannosa disposizione, è l'ultima occasione per evitare l'ennesimo sfregio al territorio del Paese e la fine di quella che viene definita "la filosofia del campeggio", almeno in Italia.
Gli articoli d'apertura di Angelo Mastrandrea e Alessandro Portelli al secondo numero dell'inserto "L'Italia che va"curato da Piero Bevilacqua per il manifesto, 25 luglio 2013. Nell'inserto del giornale altri articoli di Giuseppe De Marzo, Giuseppe Trimarchi, Eleonora Martini, Luca Fazio
Il «quadrilatero del gusto» nella capitale, il Quarto Stato con le buste della spesa a Eataly, gli orti urbani attorno ai casali occupati nell'agro romano, il recupero delle vecchie cascine lombarde, i «nuovi contadini» e il boom del biologico. La vera alternativa italiana si chiama «food economy»
Il Campo Boario era l'antico mercato di Roma in cui venivano commerciati i prodotti che sbarcavano al vicino Porto Fluviale. Poi - nella seconda metà dell'800 - fu trasformato in Mattatoio. Oggi, analogamente a quanto avvenuto al Meatpacking district di Manhattan o alla Villette di Parigi, è stato riconvertito alla cultura e alla gastronomia e ospita un museo di arte contemporanea, un pezzo della Facoltà di Architettura, un centro sociale occupato da trent'anni - lo storico Villaggio Globale - sul cui pennone sventola come uno straccio pasoliniano una bandiera rossa usurata dal tempo, i "cavallari" che trasportano i turisti per le vie del centro, un centro culturale kurdo. Fino a pochi mesi fa un farmer market , ora trasferito nel vicino quartiere della Garbatella, contendeva i clienti gastronomicamente corretti alla Città dell'Altra Economia, un ambizioso progetto figlio del connubio tra l'amministrazione veltroniana e i movimenti altermondialisti che intendeva raccogliere, in un unico spazio pubblico, i sostenitori di un altro modo di produrre, eticamente ed ecologicamente sostenibile. Dopo la traversata nel deserto dell'epoca Alemanno e non pochi dissidi interni, la Città è ripartita da qualche mese con una nuova gestione, alcune defezioni e nuovi ingressi. Oggi ospita una ciclofficina, un negozio di articoli riciclati, una sartoria che utilizza gli scarti di lavorazione, un'erboristeria, alcune cooperative di fattorie sociali, un bar, un ristorante, un mercato settimanale di cibo biologico e un supermercato rigorosamente bio e con prodotti del commercio equo e solidale. Giusto di fronte all'ex Mattatoio, in corrispondenza del museo Macro, ha da poco aperto i battenti il nuovo mercato di Testaccio. La struttura è nuovissima, aperta su quattro lati e polifunzionale: nelle sue sale si è svolto, lo scorso anno, il Salone dell'editoria sociale. Somiglia più a un mercato del nord Europa - o semmai alla mitica Boqueria di Barcellona - che a uno dei tanti agglomerati di bancarelle rionali. A pochi passi, al di là del Tevere, una ex fabbrica ristrutturata ospita la sede del Gambero Rosso, l'università del cucinare e mangiare bene. Ascensori e scale mobili portano alle sale in cui si tengono i corsi per aspiranti cuochi e alla tv satellitare. Il ristorante è all'ultimo piano. All'ingresso, una rivista celebra il primo numero della rivista da cui è nato tutto. Titolo: «Sua eccellenza Italia». Data: 16 dicembre 1986. In prima pagina un articolo di Carlo Petrini, futuro fondatore di Slow Food, e il richiamo a un reportage di Loris Campetti «a pranzo nella mensa di Mirafiori». La grafica appare familiare: è quella del manifesto , di cui il primo Gambero Rosso era una costola. O meglio, un inserto, editorialmente parlando. Sulla rive gauche del Tevere, nell'Air terminal costruito per i Mondiali di calcio del '90 e rimasto abbandonato per vent'anni, Eataly, il tempio dello slow food , ha festeggiato da poco il cinquemilionesimo visitatore in appena un anno. Dal balcone dell'ultimo piano giganteggia un'immagine del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, in marcia con le buste della spesa. Il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, ha vinto la scommessa di rendere di massa una cultura gastronomica finora ritenuta di nicchia.
La Città dell'Altra Economia, il Gambero Rosso, Eataly, i mercatini a chilometro zero di Testaccio compongono un vero e proprio quadrilatero del made in Italy gastronomico che pare non avvertire la crisi. A osservare da qui, si capisce perché, nell'Italia della Grande Recessione, l'unico settore in controtendenza è quello legato al cibo: le assunzioni in agricoltura - certifica l'Istat - sono cresciute del 3,8 per cento rispetto allo scorso anno, e mentre il Pil italiano sprofondava, la food economy andava in controtendenza, facendo registrare un balzo dell'1,1 per cento. «Sono dati che, sommati all'andamento in crescita sia dell'occupazione sia delle nuove aziende agricole iscritte negli elenchi delle Camere di commercio, dimostrano la vitalità di un settore che continua a muoversi con una tendenza anticiclica rispetto al resto dell'economia», commenta Gino Rotella, segretario nazionale della FlaiCgil. In particolare, a trainare il boom della food economy sono le produzioni biologiche, che fanno segnare un +10 per cento e inondano i mercati e i negozi di mezza Europa, specie al Nord, dove i prodotti bio hanno una diffusione non più di nicchia. Vale la pena chiedersi le ragioni di questo boom e se si può parlare di ritorno alla terra in un Paese come l'Italia che, all'indomani dell'Unità, viveva al 90 per cento di agricoltura e che dal dopoguerra ha trasformato radicalmente il suo modello produttivo. «Certo, c'è il calo dei consumi, magari si spende un po' meno. Ma chi acquista il biologico ha fatto una scelta di vita e cerca di mantenerla», mi spiega il nuovo presidente della Città dell'Altra Economia Enrico Erba. Dietro la decisione di acquistare il biologico c'è l'adesione a un diverso modello di consumo, «per questo, nonostante la crisi, le persone cercano di mantenerla», conferma il presidente dell'Aiab Lazio Adolfo Renzi. L'Associazione italiana del biologico (Aiab) può contare su circa seimila soci tra consumatori, produttori e agricoltori. Renzi proviene da una famiglia di contadini del viterbese, è agricoltore a sua volta e conosce bene le durezze e le difficoltà di un mestiere per sua natura stagionale e legato alle oscillazioni meteorologiche. Sa bene che, dell'ondata di "nuovi contadini" - giovani in cerca di lavoro o che ritornano alla terra per scelta di vita - una buona parte si perderà per strada. «Da contadino, comprendo quanto sia forte l'immaginario bucolico. Però so che si tratta di un lavoro precario e pesante». Su un milione e centomila addetti al settore agricolo in Italia, circa un milione sono stagionali. E manca un luogo in cui si incrocino la domanda e l'offerta di lavoro: non esiste un ufficio di collocamento e l'unica via d'accesso è quella informale, spesso attraverso la mediazione dei caporali, che «hanno inventato il lavoro interinale prima dei nostri governi», ironizza Davide Fiatti della Flai Cgil. In ogni modo, il sindacato di Corso d'Italia stima che solo a Roma, la terza città agricola d'Europa nonostante gli scempi edilizi, l'agricoltura potrebbe dare lavoro a 35 mila persone. Una cifra che, per la Confederazione italiana agricoltura (Cia), aumenterebbe a 150 mila in tutta Italia. Secondo la Coldiretti, il 42 per cento dei giovani, se avesse accesso alla terra, sarebbe disposto a darsi all'agricoltura.
Desertificato, urbanizzato, scempiato, industrializzato e ricoperto di capannoni, il territorio italiano non si presenta più come lo videro i bombardieri della Raf che lo sorvolarono nel '43. Quel che rimane è in mani pubbliche, abbandonato e improduttivo, o è accaparrato da privati, per mire essenzialmente edilizie. Nella capitale, le "compensazioni" previste dal piano regolatore ne fanno merce preziosa nelle mani dei costruttori, nonostante la crisi economica abbia lasciato sul groppone dei palazzinari qualche decina di nuovi quartieri rimasti semideserti: l'equivalente di una città di 350 mila abitanti, come hanno stimato gli urbanisti Rossella Marchini e Antonello Sotgia. E i giovani che vorrebbero inventarsi un'attività agricola? Molti si organizzano in cooperative e provano a occupare le terre, come nel dopoguerra dei braccianti calabresi di Melissa e di quelli siciliani guidati da Placido Rizzotto. Il difetto, come al solito, sta nel manico: il settore delle costruzioni ha trainato il boom economico degli anni '60, l'Italia è diventata un paese di proprietari di case - l'80 per cento ne possiede almeno una - ed è sempre arrivata, prima o poi, una modifica dei piani regolatori a consentire di edificare o un condono a sistemare gli abusi. Sulla base di queste premesse, chi può pensare a un uso della terra diverso? In Francia il problema è stato affrontato dando in comodato d'uso gratuito per due anni le terre incolte nelle mani dello Stato, e altrettanto si potrebbe fare in Italia. Poi bisognerebbe garantire l'accesso al credito: il 65 per cento dei giovani - stando a un sondaggio Swg/Coldiretti - lamenta difficoltà a ottenere prestiti dalle banche, mentre il 67 per cento ritiene necessari strumenti di finanziamento agevolato.
Occhio al prezzo
L'Expo in cascina
Gabriele Corti si definisce un «hippie evoluto». È un figlio del post-68 milanese e racconta come la cultura ecolibertaria degli anni '70 abbia generato, sul finire degli anni '70, «un bel movimento di idee». La facoltà di Agraria di Milano, dove lui era iscritto, era legata a doppio filo all'agricoltura industrializzata, ma al suo interno si era creata una nicchia "alternativa" di grande effervescenza. «C'era non solo la voglia di tornare all'agricoltura come lavoro, bensì come comunità di vita», racconta. Il testo di riferimento era Piccolo è bello di Ernst Friedrich Schumacher. Non siamo molto lontani dalla molla etica che motiva i "nuovi contadini" del 2013. Corti ha ristrutturato una bella cascina nel Parco del Ticino - il più grande parco agricolo d'Europa - dove ha messo in pratica quel che teorizzava. Oggi la cascina Caremma ha un livello di autosufficienza doppio rispetto a quanto prevede la legge, coltiva riso e produce un vino che qui non si faceva da due secoli e la prima birra a chilometro zero della Lombardia. La sua, dice, è una «agricoltura periurbana, di frontiera». Basta fare un paio di chilometri, infatti, ed è tutta una teoria di paesini e cittadine che senza soluzione di continuità si congiungono con la metropoli. I tempi della via Gluk di Adriano Celentano sono passati da un pezzo e oggi molte cascine che punteggiavano la campagna sono inglobate nella città. L'Expo del 2015 sarà dedicato all'alimentazione e qualche spicciolo è destinato alla ristrutturazione delle abitazioni contadine ormai urbanizzate. In una di queste, la Cascina Cuccagna, alla fine di maggio l'ambientalista indiana Vandana Shiva ha firmato la Carta dei diritti della terra coltivata. Poi, davanti agli studenti della Bicocca, ha fornito la sua ricetta anti-recessione: «Per uscire dalla crisi e per dare un nuovo futuro alle giovani generazioni è necessario un cambiamento di paradigma: dobbiamo abbandonare l'austerità per tornare alla semplicità. L'allontanamento dalla Terra è ciò che causa la crisi, solo il ritorno alla terra madre, organismo vivente che interconnette tutti noi, può quindi accordarsi con un modello di sviluppo alternativo, al cui centro si trova il benessere dell'umanità e dal quale nascono prodotti di qualità e nuovi posti di lavoro. Insomma, il futuro della Terra è la terra stessa».
I neoterritorialisti
Si intitolava "Ritorno alla terra" anche l'annuale raduno della Società dei territorialisti, un rassemblement di architetti, architetti, ingegneri, docenti universitari, attivisti neoruralisti. Un po' seguaci del filosofo della "decrescita felice" Serge Latouche, un altro po' teorici dell'alleanza tra produttori e consumatori, tutti proiettati verso un modello di sviluppo eco-compatibile, i territorialisti si definiscono «entomologi del territorio», visto che ne conoscono ogni anfratto. Politicamente e culturalmente, si pongono agli antipodi della globalizzazione spersonalizzante e della «modernità liquida» baumaniana. Il luogo del raduno era la Cascina Caremma dell'ex hippie Corti. Tra i partecipanti, vecchi e nuovi contadini, professori e ricercatori universitari. Diversi tra i partecipanti appartenevano a Gruppi di acquisto solidale (Gas), che da queste parti sono più strutturati che altrove. Silvia Salvi, dell'osservatorio Cores di Bergamo, ha condotto una ricerca sul fenomeno dei Gas in Lombardia: «Ne fanno parte soprattutto famiglie con alto titolo di studio e impiegati. Molti hanno alle spalle esperienze di partecipazione attiva. Entrano nei Gas per la qualità dei prodotti e per sostenere i produttori, hanno un'organizzazione orizzontale, si distribuiscono compiti e ruoli e cercano di ripensare la logistica della distribuzione». L'evoluzione di questo percorso si chiama Des, un acronimo che sta per Distretti di economia solidale. Mettono insieme Gruppi di acquisto, produttori biologici e alcune amministrazioni comunali sensibili al tema, promuovendo uno stile di vita sostenibile. «I Des danno consistenza fisica allo spazio pubblico che esiste tra Stato e mercato», spiega Giuseppe de Santis, della rete Gas della Brianza. Una "terza via" che «crea i presupposti per un nuovo modello di società e cura del territorio, poiché insegna a diventare cooperativi in una società competitiva e liberista». In questo modo, si accorcia drasticamente la filiera produttiva e si sperimenta un modello mutualistico, la distanza tra produttori e consumatori si riduce sensibilmente, fino a configurare una vera e propria consonanza di interessi, e la food economy si trova a rappresentare non solo un volano per riportare in alto il Prodotto interno lordo, ma si propone come un vero e proprio modello alternativo. Economico e sociale.
Saremo stati qualche decina nella simbolica occupazione del Borghetto San Carlo, ventidue ettari di terreno agricolo di proprietà comunale sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana a Roma, abbandonato dall’istituzione e rivendicato all’uso pubblico da un gruppo di cooperative di giovani agricoltori. Ma eravamo virtualmente almeno diecimila, tante quante le firme che le coop Terra!, da Sud e Coraggio (Cooperativa Romana Giovani Agricoltori) hanno consegnato al sindaco Marino e agli assessori all’urbanistica e al patrimonio del Comune di Roma.
Gli interventi che si sono susseguiti nel piccolo spazio di terreno liberato oltre il filo spinato e dietro il cancello ostinatamente chiuso e arrugginito, hanno sottolineato la disponibilità espressa dai nuovi rappresentanti delle istituzioni (municipi, comune e regione sono adesso su una stessa lunghezza d’onda, il clima può cambiare), il collegamento con altre esperienze vicine (per restare a Roma Nord, quella di Volusia o quella ormai radicata di Cobragor), e soprattutto l’idea che riprendere in mano il grande patrimonio delle terre liberi comunale non è solo un’occasione produttiva, occupazionale e di servizi, ma configura anche una diversa prospettiva sulla città. Roma, il terzo comune agricolo d’Europa, l’agricoltura ce l’ha dentro e – come tante metropoli in crisi in tutto l’occidente – può farne un elemento di ripresa non solo economica ma anche, forse soprattutto, culturale e ambientale. Se per generazioni i contadini sono stati i custodi della terra e i creatori e portatori di preziosi saperi (troppo spesso disprezzati: c’è anche il disprezzo di classe verso i contadini e la loro fatica fra le ragioni dell’abbandono dell’agricoltura), gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione.
Non a caso, come mostrano le inchieste recenti anche della Coldiretti, l’agricoltura è uno dei
pochissimi comparti economici in cui l’occupazione aumenta, anche fra i giovani. Anche per questo, le cooperative che rivendicano il Borghetto San Carlo progettano un’agricoltura moderna, multifunzionale, sinergica – da un lato, un’agricoltura capace di integrare tecnologie e conoscenze avanzate e di creare occupazione (parlano di almeno quaranta posti di lavoro); dall’altro, che non sia solo (preziosa) produzione di cibo ma anche cura dell’ambiente, bellezza, servizi al territorio, ricettività, progetti terapeutici e didattici – dagli asili nido all’ippoterapia – riconoscimento del valore del lavoro materiale e rinnovamento del contatto con la materia vivente, smarrito nell’invasione del cemento.
Tutto questo, naturalmente, ha bisogno anche della politica. L’irresponsabile abbandono di tante preziose risorse di proprietà pubblica è anche la conseguenza dell’inerzia delle istituzioni. Il Borghetto San Carlo era di proprietà di uno dei grandi costruttori romani, Mezzaroma, che lo ha ceduto al comune in cambio di permessi di edificabilità in altre zone della città, obbligandosi a restaurare, al costo di tre milioni di euro, il meraviglioso e vastissimo casale che sta in cima alla collinetta del borghetto (e da cui fa l’altro si gode una straordinaria vista sulla campagna romana). Il termine in cui il manufatto restaurato doveva essere consegnato al comune è scaduto da mesi, ma non è stato fatto niente e l’amministrazione Alemanno non ha ritenuto suo dovere obbligare il costruttore al rispetto degli impegni contrattuali. La disponibilità dichiarata da Marino e dai suoi assessori è senz’altro sincera; ma per smuovere la macchina comunale e passare dalle parole ai fatti è necessaria la pressione, contestativa e collaborativa, di un movimento di massa sostenuto dal consenso dei cittadini. L’esperienza di Borghetto San Carlo è un segnale incoraggiante in questa direzione.
«La rivitalizzazione dei borghi promossa dell'Agenzia dei Borghi Solidali, si fonda, a partire dalla vocazione dei luoghi, su modelli di sviluppo innovativi e sostenibili». Il manifesto, 18 luglio 2013
Quanti lettori conoscono l'area grecanica calabrese e quanti di loro sanno che essa racchiude un immenso patrimonio culturale, naturalistico e storico, reso ancor più suggestivo dai Greci che - nel VIII secolo - vi sbarcarono lasciando un segno indelebile del loro passaggio? Forse pochi o pochissimi. Eppure, esistono numerose realtà, straordinari borghi antichi fatti di viuzze, casette in pietra auto-costruite e adornate dai caratteristici fichi d'india bruciati dal sole, dove il tempo sembra essersi fermato agli antichi valori, alle piccole e semplici quotidianità, dove tuttora la lingua parlata è il grecanico (minoranza linguistica, dialetto greco-calabro). Alcune di queste, erano zone che stavano morendo arrendendosi irrimediabilmente all'emigrazione e allo spopolamento, ma sono state riportate in vita grazie alle azioni del progetto "I luoghi dell'accoglienza solidale dell'Area Grecanica", che dal 2010 ha cercato di rimediare, ricreando motivi di permanenza e costruendo i presupposti per migliori condizioni di vita. Grazie all'impulso e al contributo di Fondazione con il Sud è stato possibile da un lato, costruire una rete di oltre 70 partner tra associazioni, cooperative ed enti locali, con soggetto capofila l'Associazione onlus Pro-Pentedattilo, dall'altro creare un'Agenzia di sviluppo locale per una gestione strutturata del progetto Borghi Solidali.
Tra i territori dell'Area Grecanica interessati ci sono Bagaladi, Melito Porto Salvo, Montebello Jonico, Roccaforte del Greco, Roghudi e San Lorenzo. Tutti luoghi che hanno scelto di tutelare le proprie peculiarità culturali, di valorizzare le minoranze, le persone svantaggiate e gli immigrati, in cui si intrecciano multiculturalità, artigianato locale, enogastronomia e bellezze architettoniche.
I borghi, scenari suggestivi del versante jonico calabrese caratterizzato da un paesaggio aspro e rurale, sembrano oggi tanti tasselli di un mosaico: diversi per storie e leggende ma, simili per tessuto sociale e dinamiche culturali. E Borghi Solidali, in questi primi tre anni, si è proposta da un lato, di ricostruire l'aspetto identitario delle comunità locali, dall'altro di attivare percorsi di integrazione riportando soprattutto i giovani in quelli che si erano trasformati in non-luoghi per eccellenza. Citiamo, un esempio su tutti, Pentedattilo, straordinario borgo che prende il nome dalla forma della rocca su cui giace, simile ad una gigante mano di pietra (penta e daktylos cioè cinque dita). Il suo fascino è raccontato direttamente dalle parole scritte dall'inglese Edward Lear che, nel 1847, viaggiò per la provincia reggina. «La visione - scriveva in Diario di un viaggio a piedi - è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell'aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo (...) mentre l'oscurità e il terrore gravano su tutto l'abisso circostante». Il borgo abbandonato dai suoi abitanti per effetto di fenomeni migratori oltre che per le continue minacce naturali, terremoti e alluvioni, è stato per tanto tempo conosciuto come «il paese fantasma più suggestivo della costa calabrese». Oggi, grazie a tanta progettualità messa in campo dall'associazione Pro-Pentedattilo, che ha utilizzato opportunamente risorse pubbliche e regionali e quelle della Comunità Europea, grazie ad associazioni di volontariato provenienti da tutto il mondo, Pentedattilo è diventato un crocevia di principi e valori etici e di legalità, un villaggio diffuso del turismo responsabile, che si rafforza e si struttura grazie a Borghi Solidali. Nell'immaginario palcoscenico legato alla leggendaria strage degli Alberti, le casette del paese si sono trasformate in luoghi in cui arte e artigianato si confrontano con la tradizione, ci sono infatti le botteghe tipiche: quella del legno, della ceramica e del vetro artistico, della natura e delle tradizioni popolari, e ancora la Biblioteca della Donne e della Legalità, la Casa della Pace e quella delle Minoranze.
Ciò a dimostrazione che obiettivo di Borghi Solidali non è solo la rinascita dei borghi, ma la creazione di un percorso d'inserimento sociale e lavorativo dei soggetti più deboli. A sostegno c'è poi un'intensa animazione territoriale fatta di teatro, musica, cinema, arte, che riversa volti, parole e suoni tra le viuzze in pietra. Parliamo, per esempio, di due appuntamenti particolarmente cari al pubblico: quello del Pentedattilo Film Festival, rassegna di cinema breve giunta all'ottava edizione, che lo scorso anno ha registrato oltre 5 mila visitatori in soli tre giorni e quello di Oxygen, il concerto rock che vuole essere di monito e contrasto all'incombente progetto di costruzione della Centrale a Carbone a Saline Joniche. Ed ancora, delle visite guidate, delle escursioni naturalistiche, dei seminari tematici, dei campi nazionali ed internazionali di volontariato, dei Sabati Letterari itineranti e dei Laboratori di Teatro condotti da due diverse compagnie professioniste che coinvolgono tantissimi giovani.
«La rivitalizzazione dei borghi - spiega Piero Polimeni, direttore dell'Agenzia dei Borghi Solidali - si fonda, a partire dalla vocazione dei luoghi, su modelli di sviluppo innovativi e sostenibili. Tra le parole chiave mi piace parlare dell'ospitalità. Valorizzando l'attitudine della popolazione all'accoglienza e riutilizzando il patrimonio immobiliare dismesso, acquisito in comodato d'uso dal progetto come ostelli, foresterie e abitazioni tipiche, Borghi Solidali permette un modello di ospitalità diffusa». Accanto a ciò, virtuoso il percorso legato alla mobilità sostenibile. «Stiamo cercando di sperimentare - conclude Polimeni - un sistema integrato che coniughi il trasporto pubblico e collettivo con mezzi ecologici e di condivisione: veicoli elettrici, carpooling e carsharing. È importante infatti facilitare l'accessibilità e gli spostamenti ma anche avere la responsabilità civica di preservare il territorio e l'ambiente».