«Al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni». 15 luglio 2015
Salvo minori aggiustamenti e test di affidabilità, la Regione del Veneto ha concluso l’aggiornamento della Banca Dati della Copertura del Suolo regionale al 2012 (CCS_2012). E’ significativamente migliorato il dispositivo geometrico e tematico della versione del 2007, ma sono soprattutto aumentate le possibilità di aggiornamento ‘aperto’ e a costi unitari inferiori. Non va sottovalutata la possibilità d’uso di dati ancillari in grado di qualificare i ‘poligoni di copertura’ e la prevedibile stesura di regole tecniche utili anche per altre Amministrazioni Regionali. CCS opera alla scala 1:10.000 con classificazione del territorio in 174 classi, in linea con la nomenclatura del progetto europeo ‘Land Cover’ (CORINE). Alla legenda di Classe 1 (urbanizzato) sono state aggiunte ulteriori 27 classi con miglioramento del dettaglio tematico, mentre le classi relative all’uso del suolo agricolo non registrano novità significative. Questo divario fra classificazione dell’urbanizzato e del non urbanizzato viene considerato un limite dagli stessi responsabili regionali, limite che dovrebbe essere superato in futuro acquisendo informazioni sulle modalità di copertura e sugli usi del suolo agricolo. L’aggiornamento è avvenuto con approfondimento tematico della CCS_2007 in riferimento ai ‘territori modellati artificialmente’ e con l’interpretazione a video delle ortofoto digitali a colori AGEA (2012). Si tratta di una risorsa preziosa e bisogna riconoscere il lavoro svolto negli ultimi 2 anni dalla Direzione della Sezione Pianificazione Territoriale Strategica e Cartografia. Ma al di là della meritoria fornitura di dati e servizi, quale sarà l’utilizzo politico-amministrativo che la Regione e gli istituti correlati intenderanno fare di questa risorsa? Il quesito è d’obbligo per diverse ragioni. Ne commentiamo alcune.
La prima riguarda le trasformazioni dello spazio fisico monitorabili a partire dalla copertura. Una serie temporale consente l’aggiornamento del quadro conoscitivo sulle morfologie di copertura urbane, rurali e miste tenendo conto della geografia regionale. Questo aggiornamento può aiutare a capire come i pattern di copertura derivino da diversi modelli di consumo di suolo e come questi reagiscano a fenomeni congiunturali e strutturali. Sono queste reazioni che determinano i cosiddetti ‘cicli territoriali’ utili per la pianificazione d’area vasta (come il Ptrc e sue varianti), ma anche a fini di programmazione della spesa regionale, nazionale e comunitaria. Uno stesso pattern di copertura può ‘nascondere’ infatti diversi modelli di uso del suolo, orientati alla integrazione di funzioni, alla riqualificazione del dismesso in zone ‘urbanizzate’ oppure alla ‘dismissione’ agricola mediante colture specializzate ed ‘energivore’, che trasformano la campagna in ‘residuo’ o in una vera e propria pattumiera. Com’è noto, questi modelli sono influenzati da comportamenti finanziari, economici, sociali e amministrativi di tipo locale e non locale che condizionano le analisi a loro favore. Se così non fosse, le inefficaci rappresentazioni degli ambienti insediativi o della SAU verrebbero abbandonate, così come l’utilizzo di termini come gerarchia urbana, policentrismo, gradiente fra compatto e diffuso e così via. La strumentalizzazione delle analisi condiziona il quadro di riferimento non solo della pianificazione d’area vasta, ma anche di quella locale. Il tema può essere approfondito spostandosi verso il consumo di suolo.
Se la copertura va interpretata tenendo conto della affidabilità ‘statistica’ dei poligoni di copertura (ovvero sulla base della loro capacità di ‘avvicinarsi’ ad una realtà percepibile, accogliendo anche informazioni spaziali ancillari, fornite da altre fonti), il passo successivo non può che riguardare la configurazione dei modelli di uso del suolo. Sono questi che danno senso alle analisi sul consumo di suolo, altrimenti prive di riferimento e vittime designate di indicatori semplicistici e fuorvianti tipo ‘ettari di SAU consumata pro-capite’ o ‘variazione in ettari di superficie ad urbanizzazione diffusa pro-capite’. Molti indicatori rappresentano ‘relazioni spurie’, ovvero attribuiscono un effetto parzialmente attribuibile (al numeratore) ad una causa (non esclusiva) al denominatore. Indicatori di questo tipo, oltre ad essere parzialmente consistenti, nascondono con la loro formulazione aggregata responsabilità, diseguaglianze e ingiustizie distributive. Non solo. I dati consentono di testare ipotesi più impegnative e raccogliere evidenze. Ne basti una in proposito.
Qualche anno fa, in una ricerca affidata dalla Regione del Veneto all’Università Iuav di Venezia, si è cercato di verificare se, quanto e dove la pianificazione urbanistica, quindi i piani approvati dai Comuni, contribuissero all’edificazione del suolo e al suo consumo irreversibile. I risultati furono sconfortanti, pur essendo agli inizi del regime della Legge 11/2004. Ma se l’indagine venisse riproposta oggi, utilizzando CCS_2012 emergerebbero evidenze e responsabilità ancor più gravi: un consumo di suolo sempre più selettivo (agisce sui terreni di maggior valore) e aggressivo nonostante le dichiarazioni di principio; una sostanziale indipendenza dell’attività edilizia rispetto alle dinamiche demografiche (queste misurate sulle famiglie piuttosto che sugli individui); una sua concentrazione in aree sensibili e un allungamento dei tempi di recovery delle esposizioni finanziarie. Quest’ultimo aspetto ha contribuito a ridurre il ruolo anticiclico del Piano casa nelle sue varie edizioni. Ma l’aspetto più drammatico è dovuto alla separazione fra pianificazione strutturale e operativa, in particolare a quello che potremmo chiamare ‘paradosso valutativo’.
Considerazione a parte merita la mobilità. E’ interessante notare come le variazioni di copertura registrate nel periodo 2007-12 abbiano intensificato il grafo stradale, migliorando l‘accessibilità nelle nuove aree servite, ma scaricando i flussi delle nuove partizioni sul sistema principale. I grandi progetti infrastrutturali (Pedemontana Veneta, prolungamento della PiRuBi verso sud e probabilmente anche verso il Trentino, circonvallazione di Mestre, gasdotti, ecc.) rispondono solo in parte al problema in quanto ostili a queste considerazioni territoriali.
Va detto che un grafo stradale aggiornato, descritto secondo le indicazioni del Codice della Strada e opportunamente caricato con i dati sui flussi ottenuti con le nuove tecnologie di osservazione della terra, consente di valutare le variazioni d’accesso ai luoghi, fenomeni di congestione dovute alle nuove funzioni o ai grandi progetti infrastrutturali, la stessa variazione delle geografie localizzative che tanto interessano il mercato immobiliare. Un esercizio interessante potrebbe riguardare la valutazione di una o più ipotesi ‘logistiche’ in termini di accessibilità ai cluster produttivi, con la creazione di punti di interscambio ferro-gomma di rango variabile.
Gli esempi potrebbero continuare, ma è evidente che la nuova Banca Dati proprio perché aumenta il potenziale conoscitivo e pianificatorio rischia di allargare il divario fra tecnica e politica e rendere più gravi le responsabilità politiche in materia di pianificazione e gestione del territorio.
Il muro di Metropoliz come dispositivo architettonico nel lavoro del Dpu summerLab (University College London (UCL)
Abstract
Nel settembre 2011, la Development Planning Unit di Londra ha tenuto la prima edizione del summerLab programme a Roma: una immersione di sei giorni negli spazi di conflitto della città, particolarmente all’interno dell’universo di Metropoliz, un’occupazione a scopo abitativo i cui meccanismi di inclusione ed esclusione sono stati decostruiti dai partecipanti con la progettazione di dispositivi volti alla loro profanazione.
Roma e la lotta per la casa.
Metropoliz e molte altre occupazioni (oggi se ne possono contare più di trenta sul territorio romano) sono nate in uno scenario decisamente condizionato dalle pressioni della speculazione immobiliare. Le autorità sono state silenziose spettatrici di una situazione continuamente peggiorata negli ultimi venti anni: così, mentre molto famiglie diventavano pendolari potendo trovare affitti sostenibili solo nei comuni e nelle province limitrofe, una risposta alternativa si è materializzata nelle occupazioni a scopo abitativo, che allo stesso tempo hanno contribuito alla de-ghettizzazione delle geografie degli immigrati (altrimenti confinati all’estrema periferia della città in cluster reciprocamente esclusivi).
L’occupazione illegale di edifici abbandonati, frammenti della città dimenticati dallo sviluppo urbano, è stata dunque la strategia principale per la cosiddetta Lotta per la casa, condotta da una serie di associazioni (spesso vicine alla sinistra antagonista) che ricercano una legittimazione via via maggiore tramite la produzione (e ri-produzione) informale di spazio pubblico.
Di recente il loro obiettivo si è spostato dalla Casa all’Abitare, cercando di enfatizzare il ruolo delle occupazioni stesse come pezzi viventi e attivi della città: pezzi che non provvedono solo alla sistemazione di persone in emergenza abitativa ma anche a ricreare quei servizi e spazi pubblici scomparsi con lo stato sociale. In altre parole, ad asserire un pieno diritto alla città per tutti i suoi abitanti, tramite la resistenza giornaliera e la produzione di spazi e conoscenze alternativi.
Questa resistenza è tuttavia giornalmente minacciata dalla possibilità di venire sgomberati, e messi di fronte alla scelta di ricominciare da zero e essere di fatto senza casa o sistemati in centri di accoglienza (gestiti da istituzioni cattoliche) nelle estreme periferie. I rom, che si sono uniti alla lotta di recente, sono coloro che subiscono il trattamento peggiore, finendo in campi (amaramente chiamati Villaggi della solidarietà) che sono ormai la norma per la loro rilocazione.
Metropoliz.
La storia di Metropoliz inizia nel Marzo del 2009 con l’occupazione dell’ex fabbrica Fiorucci a via Prenestina 913 da parte dei Blocchi Precari Metropolitani, alla guida di un gruppo di una novantina di persone da tutto il mondo: italiani, marocchini, etiopi, eritrei, ucraini, peruviani e non solo. Iniziano a occupare gli edifici più piccoli, più facili da trasformare in abitazioni (spesso la loro funzione originaria era quella di uffici), per poi espandere il processo al resto della fabbrica, riutilizzando spesso i materiali già presenti sul sito e finanziando in parte i lavori con la vendita del ferro presente nelle sale di produzione della fabbrica.
Nelle fasi iniziali dell’occupazione il campo rom Casilino 700 viene sgomberato: i BPM offrono ai Rom un posto nell’occupazione, vedendo sicuramente una opportunità politica in questa alleanza, mentre gli altri abitanti – influenzati ovviamente dagli usuali stereotipi sui rom – cominciano a interrogarsi verso l’effettiva convenienza di convivere con un centinaio di persone in più.
Un compromesso viene trovato nella occupazione del lotto adiacente, dove i rom cominciano a costruire il loro nuovo insediamento, prima sfruttando il riparo di un capannone industriale e poi espandendosi nello spazio retrostante.
il muro come dispositivo.
I due siti sono divisi da un lungo muro alto un paio di metri e con una sola apertura. Questo è diventato simbolo della segregazione interna, rappresentando la mutua esclusione fra le due parti e catalizzando allo stesso tempo paure e desideri di sicurezza e controllo da parte degli abitanti stessi.
Il muro è stato il centro di investigazione del Rome summerLab, che ha cercato di de-costruirlo interpretando tracce (e ferite), guardando i suoi usi giornalieri, capendone i gradi di permeablità. In questa operazione il muro è stato visto come dispositivo, ossia come strumento in grado di connettere elementi eterogenei (citando l’originaria definizione di Foucault) in un assemblaggio riconoscibile ed identificabile. Gli interventi di design dovevano essere volti, usando le parole di Giorgio Agamben, a profanare il dispositivo muro, ad immaginare un contro-dispositivo che, pur riconoscendo e accettando l’esistenza e il funzionamento del muro, ne disinnescasse le dinamiche esclusive e aumentasse l’interazione tra le due parti e di entrambe verso la città.
Uno dei progetti ha identificato un punto lungo il muro come il locus della possibile espansione del muro stesso e la sua trasformazione in luogo di mediazione e incontro: provocatoriamente aumentandone lo spessore, paradossalmente privatizzandone uno spazio con la creazione di un possibile “Giardino di Salomone”, identificando uno degli abitanti come possibile mediatore tra le parti e iniziatore di questo processo di profanazione.
Il summerLab, progettando controdispositivi, mira a intervenire sulle relazioni tra elementi eterogenei e diacronici al fine di produrre un terreno fertile per l’interazione e la scrittura di nuove narrative comuni. I prossimi summerLab, sfruttando l’esperienza di Roma come fondamento per l’esplorazione di una progettazione politicamente impegnata e guidata da solide basi filosofiche, si svolgeranno a Bucarest, Sarajevo e Budapest tra aprile e settembre 2012.
Quando il giovane Earle S. Draper arriva nel Sud, dal suo punto di vista quella è davvero una straordinaria nuova frontiera. In Europa impazza ancora la prima guerra mondiale, si prepara a trionfare la cultura delle avanguardie artistiche e degli estremismi politici. Anche dall’altra parte dell’Atlantico, partecipazione alla guerra europea a parte, si prepara l’età del jazz, e cominciano a spuntare numerosi i primi grattacieli, al punto che New York per difendersi (e soprattutto difendere il valore degli immobili) si approva nel 1916 la prima ordinanza moderna di zoning. Nel vecchio Sud, dove ancora di solito si fa rigorosamente il baciamano alle signore, dove non si capisce e non si capirà davvero per generazioni che i neri non sono più schiavi, di tutto questo frastuono arrivano al massimo lontani echi.
Draper si è laureato da pochissimo in landscape architecture all’Università del Massachusetts, e la sua passione per quella che allora non si chiama ancora urbanistica lo ha spinto a cercare e trovare prestissimo un posto nello studio di John Nolen, massimo rappresentante della grande scuola americana di progettazione di quartieri suburbani integrati, che discende direttamente dal primo Frederick Law Olmsted. Proprio in questo periodo lo studio Nolen è impegnato nella realizzazione di un importante progetto a Charlotte, North Carolina, il quartiere suburbano di fascia alta di Myers Park, e il giovane architetto è incaricato di seguirne via via gli sviluppi attuativi, i perfezionamenti richiesti dal mercato ad esempio per l’organizzazione del verde, le sistemazioni stradali secondarie ecc.
È un grande momento di sviluppo economico per il Sud: se le metropoli si caratterizzeranno a cavallo di questi anni per l’età del jazz, o il mito dei solidi facili alla Al Capone, gli ex stati della guerra di secessione stanno vivendo una forse più radicale trasformazione, abbandonando il modello agricolo verso un’economia più industriale. Nel settore tessile, ad esempio, anche sulla spinta delle lotte dei lavoratori si sta abbandonando sia il vecchio modello del decentramento produttivo rurale che quello ottocentesco delle company town originarie, vere e proprie piccole dittature economiche fatte di segregazione sociale e dominio quasi assoluto dell’impresa su qualunque aspetto della vita quotidiana. Anche qui, come in parte già avvenuto in Europa, si ritiene che la realizzazione di borghi modello possa essere una risposta più semplice di quella del riconoscimento di maggiori diritti per i lavoratori.
Si apre in sostanza un ampio mercato per la progettazione urbanistica, specie per quella più attenta a certe qualità che vadano oltre la pura efficienza delle abitazioni, dei servizi tecnici, del rapporto funzionale casa-lavoro. Anche alla realizzazione del primo quartiere borghese modello suburbano di Myers Park (quelli che oggi la critica anche new urbanism definisce virtuosi suburbi tranviari) si potrebbero sommare moltissime nuove imprese del genere, come capisce rapidamente il giovane Draper. Propone allo studio Nolen di rafforzare presenza e disponibilità nella regione, ma gli rispondono picche: la ditta ha altri progetti di sviluppo. Lui però ha già deciso: è questa la sua nuova casa.
Interessato sin da studente all’urbanistica, Draper costruisce la sua cultura di progetto (e di approccio alla committenza) sostanzialmente su due filoni culturali. Il primo è quello della tradizione naturalistica all’americana che discende da Andrew Jackson Downing, e attraverso Olmsted sr. e Nolen consolida il modello del sobborgo a bassa densità otto-novecenteco. Il secondo è quello della città giardino europea, intesa non tanto nelle sue radici riformiste, quanto esclusivamente nel portato formale-funzionale divulgato dai lavori di Unwin e Parker. Per tutti gli anni ’20 lo studio di Draper sviluppa un proprio approccio innovativo al modello della company town “riformata”, che si allontana via via dallo schematismo originario di una specie di villaggio-monastero con al centro la fabbrica, circondata dalle celle-abitazioni (che è sostanzialmente anche quello del nostro decantato Crespi d’Adda).
Si tratta in sostanza, naturalmente al netto della centralità della funzione produttiva, e seguendo un modello suburbano a bassa densità, di una correzione del quartiere industriale verso la neghborhood unit, specie per quanto riguarda l’organizzazione del verde, degli spazi collettivi, di tutto ciò che conferisce identità e appartenenza. Come direbbe forse un progettista di oggi, sense of place. Il modello, specie partendo già dal contesto ex rurale, subisce quanto e più del quasi contemporaneo Radburn l’influenza crescente dell’automobilismo di massa, che proprio nelle zone di campagna e suburbio del Sud ha già nell’era pre-depressione un primo significativo sviluppo. Sviluppo pienamente accettato da Draper (e del resto anche dalla cultura della rooseveltiana Resettlement Administration). Basta guardare per un istante la planimetria dell’insediamento di Norris in Tennessee, firmato già da responsabile per il planning della Tennessee Valley Authority nel 1933, per notare quanto le distanze e l’induzione all’uso dell’auto non sembrino rappresentare affatto un problema, per Draper. Almeno in termini di principio, perché qualcosa è cambiato.
È cambiata forse, soprattutto, la cultura urbanistica, sulla spinta del medesimo riformismo rooseveltiano, così come di singole esperienze come quelle delle ricerche e polemiche sulla regione di New York, o il primo dibattito sul futuro dell’area metropolitana di Washington ecc. Negli anni ’30 si parla molto, moltissimo, di decentramento, addirittura di dispersione urbana. Gli sviluppi delle telecomunicazioni e dei trasporti, una nuova organizzazione del lavoro e della distribuzione commerciale, fanno sì che anche i sogni più sfrenati, come la Broadacre di Frank Lloyd Wright, trovino in qualche modo realizzazione concreta, almeno parziale. Gli studi della sociologia urbana afferenti all’innovativa Scuola di Chicago individuano già anche alla scala regionale, e non più solo cittadina, una nuova identità condivisa, una abitabilità allargata dello spazio, una disponibilità ad esperienze quotidiane in qualche modo più nomadi che stanziali. Tutto questo, Earle Draper lo accetta: non è sempre stato il sogno americano, la mobilità assoluta, la libertà individuale di rapporto col mondo esterno?
Ma proprio questa nuova consapevolezza, l’individuazione della dimensione regionale metropolitana, fanno emergere la necessità di coordinamento, di complementarità. Detto più terra terra: che senso ha muoversi liberamente da un luogo all’altro se tutti i luoghi finiscono per essere identici? Meglio ancora, se la ricchezza della nuova entità è data dalla convivenza di elementi urbani e rurali, compito della pianificazione sarà quello di valorizzare e sviluppare al massimo questa diversità, sottolineando gli aspetti specifici della città densa, del territorio agricolo, insomma di tutte le unità costitutive. E invece, pare non stia affatto andando così. La grande macchina organizzativa, istituzionale, conoscitiva della TVA, istituita proprio per monitorare e promuovere un tipo di integrazione del genere su un enorme territorio, vede l’emergere di qualcosa di vagamente inquietante: la diffusione, la dispersione non consapevolmente programmata, ma lasciata vuoi al caso, vuoi via via ai particolarismi del mercato, diventa qualcosa di nuovo.
Che Draper, ormai gentiluomo del Sud attento a non offendere orecchie sensibili, impiega un po’ a chiamare col suo nome, anche perché quel termine usato così ancora non l‘ha inventato nessuno, salvo le mamme quando sgridano i bambini perché non si sta “stravaccati” sul divano. La dispersione urbana si sta stravaccando sul territorio, è una tendenza facilmente rilevabile già negli anni ’30 ovunque lo sviluppo economico abbia messo a disposizione le risorse necessarie. E la dispersione urbana quelle risorse se le divora, a volte spostando diseconomie su altri territori, a volte obliterando gli stessi luoghi. La parola sprawl, però, che negli stessi anni ’30 si diffonde probabilmente anche in Europa (personalmente ne ho trovate tracce negli atti della britannica Commissione Scott sul paesaggio), sembra restare lì, sospesa nell’allarme lanciato da Draper agli urbanisti americani. E a giudicare da certa pubblicistica dalla coda di paglia, le cose anche oggi non sono cambiate tantissimo: lo “sviluppo” innanzitutto. Per rifletterci su, però forse è meglio ascoltarle tutte, le parole dell’Uomo che Inventò lo Sprawl.
La scelta del tema del workshop
Nel proporre come ipotesi di lavoro il tema dell’”equità”, piuttosto che partire da una definizione univoca del concetto abbiamo preferito affidarci ad un ventaglio di parole chiave, aventi tutte una funzione di richiamo ad alcune questioni cardine e di spunto per la discussione collettiva, nonché come guida per i dottorandi nella scelta del workshop nel quale inserirsi. Le parole che abbiamo proposto sono state le seguenti: bene comune, costruzione sociale, etica, egemonia, identità, ecologia, processi di pianificazione non istituzionali, diseguaglianza urbana, diritto alla città, empowerment, qualità, partecipazione.
Tuttavia, implicitamente, il nostro punto di partenza è stato il concetto di equità inteso, nell’ambito della pianificazione, come la possibilità per tutti gli abitanti di fruire dei beni che costituiscono la città e di partecipare al suo governo, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali e dal potere di ciascuno, ma in base alle differenti esigenze, includendo tutti i soggetti, ivi compresi i gruppi più marginalizzati. Assumere l’equità in questo senso significa attribuire alla pianificazione un obiettivo sociale ed enfatizzare il ruolo politico, prima ancora di quello tecnico.
Alla base del desiderio di affrontare un tema così complesso c’è la volontà di ricostruire dei percorsi di senso in cui l’equità diventi chiave di lettura per molte delle questioni irrisolte dell’attualità, esplicitando il ruolo di quelle disparità e ingiustizie sociali che tendono ad essere attenuate, se non negate, dal paradigma interpretativo dominante.
Le diseguaglianze di reddito, di distribuzione delle risorse e dei benefici, rafforzano gli esistenti spazi di esclusione e ne creano di nuovi, sia a livello globale che locale. Le diseguaglianze aumentano in termini di sfruttamento, marginalizzazione e segregazione su base economica, sociale e razziale, in termini di potere decisionale e di rappresentazione, così come emergono nuove vulnerabilità sociali sotto l’effetto dei problemi del mondo del lavoro, delle metamorfosi della condizione salariale, della riduzione delle garanzie sociali e più generalmente come risultato delle trasformazioni strutturali del sistema socio-economico attuale.
I mutamenti investono l’economia - ora globalizzata, liberalizzata, finanziarizzata - contrassegnata sempre più da uno stile speculativo e predatorio e soggetta a periodiche crisi; investono l’assetto politico-istituzionale, che nella prospettiva di uno stato più snello e più moderno che "regola ma non gestisce" vede la progressiva riduzione dell’intervento statale nella ridistribuzione delle risorse e dei benefici sociali e territoriali, il trasferimento di risorse e beni dal pubblico al privato e il supporto all’accumulazione privata attraverso politiche e interventi a rafforzamento dei diritti individuali (proprietà privata in primis) a discapito della tutela dell’interesse collettivo e di quello dei gruppi deboli.
Nel contesto della società capitalistica del welfare l’obiettivo della giustizia sociale era largamente condiviso tant’è che, a fianco dei diritti individuali di libertà e politici, si sono affermati i diritti sociali che esprimono la maturazione di nuove esigenze e nuovi valori, tra cui quello dell'uguaglianza non solo astratta, ma anche in termini di servizi e benessere. Anche in Italia negli anni Sessanta e Settanta una serie di parole d’ordine e di lotte (e poi di conquiste) miravano a questo obiettivo: “diritto alla città” (PCI, 1969), “casa come servizio sociale” (Indovina, 1972), accesso ai servizi e alle attrezzature collettive utili alla vita quotidiana individuale e sociale (Salzano, 1969, UDI, 1964) e non ultimo la partecipazione dei cittadini al governo della città (Della Pergola 1974) quindi giustizia sociale non solo come una questione di distribuzione di benessere, servizi, opportunità, ma anche in termini di democrazia partecipativa ed eliminazione delle strutture di dominazione e segregazione. Il richiamo all’ecologia è un riferimento sia alle riflessioni di Murray Bookchin (1989) che mirano a unificare le tematiche ambientali, femministe e comunitarie con quelle sociali e a stimolare un approccio antiautoritario, che di Wolfgang Sachs (2002) che si riferisce ad un concetto di giustizia intergenerazionale - proiettando sull’asse temporale il principio dell’equità nel rapporto tra le generazioni presenti e quelle future – oltre che intragenerazionale.
La parola egemonia vuole richiamare sia la questione del potere in generale, che stimolare una riflessione su alcune definizioni dominanti di equità, giustizia sociale, uguaglianza che tendono a circoscrivere la problematica attorno alla ridistribuzione o ancora peggio a identificare nel mercato l’agente supremo predisposto all’allocazione più “equa” delle risorse. In contrapposizione a questa interpretazione si può assumere l’uguaglianza come contrario di privilegio e non come omologazione e massificazione (Zagrebelsky 2007), dal momento che «trattare le persone con giustizia può implicare un trattamento tra loro difforme e, d’altro canto trattarle come se fossero tutte uguali non significa trattarle con giustizia» (Lummis 1998, p.416).
La “voglia di equità” sembra porsi controcorrente rispetto alle principali tendenze che hanno contrassegnato negli ultimi decenni l’urbanistica. Questa ha privilegiato l’obiettivo dell’efficacia della pianificazione rispetto a quello dell’equità (Martinelli 2002), sulla scia di una politica che ha cercato di raggiungere la “governabilità” riducendo lo spazio della democrazia. Infatti la ricerca di accordi con la proprietà immobiliare (che ha caratterizzato la pianificazione a partire dalla spinta esercitata dalle aziende proprietarie di complessi industriali che, per effetto della ristrutturazione dell’industria manifatturiera, divenivano obsoleti e suscettibili di diversa “valorizzazione economica”) è diventata un obiettivo delle politiche urbane che hanno individuato l’efficacia nello stipulare accordi remunerativi per i proprietari, rinunciando di conseguenza ad assegnare priorità alle esigenze dei cittadini in quanto tali e in particolare dei gruppi sociali più deboli.
La presentazione delle ricerche e delle domande dei partecipanti ha stimolato il dibattito della prima giornata e inserito nel ragionamento sull’equità nella pianificazione i primi elementi su cui confrontarci; possiamo ricondurli a tre filoni principali che si intersecano tra di loro: nel primo ci si interroga sull’equità nella costruzione delle scelte che riguardano il territorio attraverso processi partecipativi; nel secondo si indaga il ruolo del planner tra attenzione alle pratiche informali e responsabilità tecnica; nel terzo si affronta il tema della partecipazione e dei beni comuni da una prospettiva territoriale e ambientale.
Dopo il workshop, alcune riflessioni sul tema
I quesiti posti dalle dottorande hanno espresso delle preoccupazioni e degli interessi specifici e di tipo prettamente tecnico-operativo, difficili da affrontare approfonditamente in un contesto eterogeneo come quello creatosi nel workshop. L’apporto dei discussant è stato quello di collocare le domande all’interno del dibattito più generale, riconducendole a problematiche di ampio respiro. Questo ci ha portato a risalire ai concetti di base, alla pluralità e alla conflittualità degli approcci e delle definizioni, per cui la discussione è stata molto ampia, si è ramificata in molte direzioni, ma non si sono formulate delle risposte o delle ricette. Risulta perciò difficile restituire un senso generale e compiuto all’insieme degli spunti che sono emersi; ci proponiamo qui di esprimere una serie di considerazioni che raccolgono parte di quanto si è detto e lo interpretano alla luce delle nostre opinioni e conoscenze.
Abbiamo scelto tre chiavi di lettura per organizzare il nostro discorso: la prima riguarda l’equità rispetto all’oggetto, che abbiamo declinato in termini di beni comuni, la seconda riguarda l’equità rispetto ai soggetti, con riguardo al tema della differenza intesa come pluralità, l’ultima è centrata su alcuni degli strumenti disponibili per una pianificazione equa.
Equità rispetto all’oggetto: beni comuni
I termini “comune” e “individuale” non indicano due condizioni opposte e vicendevolmente escludenti, tra di esse ci dovrebbe essere piuttosto la ricerca di un equilibrio e di una reciproca utilità. Fa parte dell’individualismo pensare di poter vivere ciascuno senza dipendere dagli altri ma questa illusione, come sostenuto da Tocqueville, paradossalmente produce l’atomizzazione della società in individui uniformi, il che non implica (anzi esclude) una tendenza verso l’eguaglianza economica (Lummis 1998). Con l’intenzione di allargare il discorso sulla questione distributiva in una prospettiva di giustizia sociale più strutturale, alcuni degli interventi hanno fatto riferimento alla fruizione dei beni comuni e alla loro individuazione e gestione nella pratica del governo del territorio.
L’attribuzione di determinati beni localmente disponibili ai soggetti che utilizzano un determinato territorio può comportare la privazione di quei beni da parte di soggetti che li utilizzerebbero in un altro spazio o in un altro tempo . La visione di chi sceglie/decide deve perciò tener conto dell’altrove e del futuro. A questo proposito il ruolo della pianificazione territoriale può essere decisivo, e grande è la responsabilità dei pianificatori nel rendere evidenti ai decisori le conseguenze delle loro scelte.
Tra i beni comuni c’è certamente la possibilità di fruire delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita sociale e alle esigenze individuali di approvvigionamento, salute, apprendimento, cultura, ricreazione ecc., la mobilità sul territorio, la partecipazione alle decisioni sull’organizzazione della città, il godimento di un ambiente sano e di un paesaggio di qualità.
Tuttavia, i beni comuni non sono definiti una volta per tutte; essi derivano dalle disponibilità, dai bisogni, dalla cultura, dai risultati dei conflitti.
La novità introdotta nella definizione del bene comune da parte dell’antropologa Mary Douglas (1994) consiste nel sottolineare come un bene pubblico non possa dipendere dal genere di beni scambiati ma dal tipo di comunità in cui avviene lo scambio e come uno stesso bene può essere sentito diversamente a secondo del gruppo che ne fa uso. Riccardo Petrella (2006) elenca una serie di criteri utili alla definizione di beni comuni, tra cui la responsabilità collettiva, in base alla quale un bene è comune in quanto implica un impegno collegiale al proprio mantenimento e la necessità della democrazia come condizione per l’esistenza dei beni stessi.
Perché un bene assuma il carattere di “comune” deve prima essere ritenuto necessario, di “senso comune” (in questo è rilevante la funzione dell’ideologia) e deve venir conquistato collettivamente. Il discorso sui beni comuni e sui diritti ad essi connessi non può che partire da una ridefinizione condivisa delle risorse collettive, che è apertura al progetto con una valenza fortemente politica: nelle questioni della produzione e riproduzione di risorse ambientali, paesaggistiche o di spazio pubblico emerge la partecipazione come chiave di accesso a questa prospettiva creativa che parte proprio “dall’autodefinizione dei bisogni e degli stili di risposta”(Giusti 1995, p.60).
A questo proposito Ignacy Sachs sottolinea l’opportunità di aprire e tenere viva una discussione generalizzata sugli stili di vita (Sachs 1988) e sul progetto di civiltà (Sachs 1978) - e quindi sulla stessa definizione di un orizzonte comune da parte di ogni società (Giusti 1995) - ponendola alla base di una pianificazione che sappia farsi «visionaria e pluridimensionale, […] organizzatrice del processo di apprendimento sociale» (Sachs 1988, p.39-40).
In questa chiave, bene comune è anche, per esempio, l’accessibilità ad un’abitazione adeguata ad un prezzo commisurato alla capacità di spesa, nel senso che è necessario un sistema equo di pianificazione che regoli i meccanismi del mercato della casa. Considerare il problema dell’abitazione in termini di diritto alla casa apre certamente la possibilità di una rivendicazione (individuale) di tale diritto, ma non necessariamente lo rende a tutti gli effetti attualizzabile e non implica una ristrutturazione del sistema socio-economico che regola il mercato della casa. Riconoscere l’accesso alla casa in termini di bene comune potrebbe portare ad un ribaltamento dell’approccio e creare le condizioni per cui questo bene sia fattivamente disponibile.
«Se per ricchezza intendiamo il surplus economico, comunità diverse tra loro possono operare differenti scelte circa la forma che deve assumere quel surplus. Il surplus, ad esempio, può prendere la forma di consumo privato o di lavori pubblici; può assumere la forma della riduzione dell’orario di lavoro per liberare più tempo da dedicare all’arte, all’apprendimento, ai festival o alle cerimonie. Queste non sono ineluttabilità economiche ma scelte politiche, se per politica intendiamo il fondamentale processo decisionale che riguarda la distribuzione di beni entro una comunità. Se la regola di una giusta distribuzione è “sia dato a ciascuno ciò che gli spetta”, occorre comprendere che nel mondo esistono comunità che si sono organizzate per dare il dovuto alla terra, al mare, alla foresta, ai pesci, agli uccelli e agli animali in genere. Le comunità che si sono organizzate in modo tale da dare alla terra ciò che le è dovuto, magari quelle considerate le più povere, hanno effettivamente mantenuto in questo modo un ampio “surplus” ed una ricchezza comunemente condivisa. Dall’unione tra l’idea antica di cosa pubblica e la concezione ora emergente (o riemergente) di ambiente può nascere una nuova, promettente idea di ciò che è reale “ricchezza”» (Lummies 1998, p.419-420).
Equità nelle differenze
Si è discusso sull’equità anche in riferimento ai soggetti. L’equità comprende l’aspirazione alla soddisfazione dei bisogni riconosciuti socialmente come tali, ma i soggetti hanno bisogni differenti che non sono conciliabili con una definizione astratta dell’eguaglianza (la torta divisa in fette uguali). La prima operazione da compiere (se l’equità ha un significato operativo, cioè è un criterio di scelta) è il riconoscimento concreto delle differenze in termini di bisogni, desideri, condizioni, sia che esse derivino da una diversità di carattere culturale, da vincoli e impedimenti di natura patrimoniale, sociale, economica, oppure ancora dalla presenza di ostacoli di tipo discriminatorio. Probabilmente non tutti possono essere rimossi, ma essi possono certamente essere mitigati; Infatti Francesco Indovina da una lettura complessiva della città stessa come un potente (potenziale) strumento di mitigazione. La città, con il suo mettere insieme stranieri, estranei e differenze può portare ad un nuova concezione di pubblico, in grado di postulare tolleranza e impegno civile e il riconoscimento “dell’impossibile assimilazione reciproca”, che diviene così sinonimo di civiltà e di rispetto della diversità degli altri in tutti i loro aspetti (Young 1990).
La partecipazione di ciascun soggetto al processo di decisione (al governo), principio che del resto è alla base della nozione di “diritto alla città”, è condizione necessaria per il riconoscimento delle differenze e per una visione plurale della città, tenendo conto che la partecipazione stessa non avviene su basi di uguaglianza intesa come assenza di disparità. Si apre a questo proposito la questione del potere, dell’egemonia, di chi la esercita, in nome di quali interessi. È evidente che l’attuale distribuzione dei poteri privilegia i pochi (i più dotati, i più ricchi…) rispetto agli altri. Questo pone il problema (l’obiettivo) politico di dar voce e forza ai più deboli; le stesse pratiche dell’empowerment non sono tuttavia prive di ambiguità. Il rischio di un uso strumentale della partecipazione è anch’esso emerso nel corso della discussione, sia nel senso di una falsificazione del consenso, che nasconde un piegarsi agli interessi degli attori forti, sia nel senso di una manipolazione di attori e culture locali.
«Nessuna forma di interazione o partecipazione sociale può caricarsi di significato ed essere liberatoria sino a che i singoli individui coinvolti non agiscano come esseri umani liberi ed equanimi; ed il fatto che tutte le società sino ad oggi hanno sviluppato credenze largamente condivise (religioni, ideologie, tradizioni, ecc.) le quali, a loro volta, condizionano ed aiutano ad originare persone interiormente non-libere e parziali. Il dilemma è di difficilissima soluzione in un momento in cui le antiche modalità di condizionamento socioculturale hanno assunto forme nuove ed inquietanti. L’economicizzazione della vita sotto tutti i suoi aspetti (culturali, politici e sociali) assoggetta chi vi partecipa, in tutto il mondo, a processi di manipolazione addizionale spesso non manifesti e di tipo strutturale, con il risultato di portare le persone a credere che i propri pregiudizi, i propri condizionamenti e la propria mancanza interiore di libertà rappresentino non solo espressioni della propria libertà, ma anche di una libertà ancora più grande e di là da venire» (Rahnema 1998, p.134).
Strumenti per la conquista dell’equità
L’equità non è un dato naturale della società, forse di nessuna società, di certo – come abbiamo già detto – non di quella attuale. Essa va conquistata, non verrà graziosamente concessa da chi esercita il potere e dispone della maggioranza delle risorse disponibili. È quindi essenziale il ruolo del momento pubblico e della politica, intesa non come un’attività specializzata riservata a pochi, ma come una dimensione essenziale dell’uomo e della società, di cui la partecipazione è parte integrante.
«Lo spazio civico - polis, città o quartiere - è la culla in cui l’uomo si civilizza (letteralmente!) al di là del processo di socializzazione in seno alla famiglia. “Civilizzare”, in questo senso, è sinonimo di politicizzare, di trasformare una massa in un corpo politico deliberante, razionale, etico. La realizzazione di questo concetto di civitas presuppone esseri umani che si aggreghino non come monadi isolate, che comunichino, direttamente con modalità espressive che vanno “oltre le parole”, che dibattono razionalmente in maniera diretta, faccia a faccia, e giungano pacificamente ad una comunicanza di opinioni tali da rendere possibili le decisioni e coerente con i principi democratici la loro applicazione. Formando e facendo funzionare tale assemblee, i cittadini formano anche se stessi, perché la politica non è nulla se non è educativa, se la sua apertura innovativa non promuove la formazione del carattere» (Bookchin 1993, p.32).
In questo momento storico la società civile trova espressione attraverso la problematizzazione degli stili di vita e la formazione di comitati che si oppongono anche radicalmente alle posizioni della politica dei partiti, che oggi più che mai non comprende la partecipazione come spazio del conflitto e della contestazione. La teorizzazione della partecipazione come possibilità di «ri-centrare il potere politico nella società civile» (Giusti 1995, p.11) deriva in parte proprio da questa crisi della politica, e in parte dalla parallela crisi della razionalità tecnica.
Quest’ultima è riconducibile alla scoperta della “complessità “ e dell’incertezza che connotano la condizione attuale; quindi crisi del sapere esperto, ma anche cambiamento del concetto di territorio, non più riducibile a spazio delle funzioni, ma luogo complesso, vivente, individuato dall’intreccio di dimensioni fisiche e sociali, dotato di specificità (Magnaghi 1990).
In questo quadro la conoscenza e il progetto non sono più delegate agli esperti, ma devono coinvolgere gli attori che sono radicati nelle famiglie, nelle istituzioni e nei movimenti sociali della società civile (Friedmann 1993).
La partecipazione quindi implicherebbe una rivoluzione nel linguaggio della pianificazione, un allargamento dello spazio della democrazia (ma anche della responsabilità), una maggiore efficacia del piano legata al suo avvicinamento rispetto alla molteplicità delle pratiche che si propone di governare (Giusti 1995).
A questo punto viene spontaneo chiedersi se la “produzione” di città e territori equi o processi trasformativi equi sia un obiettivo raggiungibile. Nel tentare di dare una risposta possiamo partire dal ragionamento di Giovanni Caudo che propone di trattare l’equità come un criterio per orientare l’azione, potremmo dire un principio guida che impronti le singole scelte a prescindere dal risultato finale . A sostegno di questa interpretazione viene citato il teorema dell’impossibilità della scelta collettiva di Kenneth Arrow, secondo il quale è impossibile decidere in maniera universalmente valida quale sia l’interesse collettivo; da qui la necessità di riformulare la domanda sull’equità: in base a quali parametri giudicare l’equità delle scelte?
La proposta emersa è quella di un ritorno alla concretezza dei casi e delle situazioni, raccogliendo l’invito di Albert Hirshmann a collocare la nostra ineludibile condanna all’incertezza in una prospettiva positiva e creativa opposta alla tesi dell’inutilità della pianificazione. Al contrario valutare la complessità del reale diventa uno strumento per «capire e correggere gli errori fatti, per attuare politiche flessibili che pur non pretendendo di predeterminare un preciso risultato, si incamminino però verso una strada, un sentiero di crescita, una possibilità di miglioramento. Tale cammino deve essere tale da lasciare comunque spazio alla variabile “incertezza sociale” pur tentando di indirizzarla verso i criteri o i valori ritenuti più auspicabili» (Poma 1994, p.26).
Un altro elemento su cui abbiamo riflettuto e dibattuto a lungo è il ruolo del planner. Spesso nel corso della discussione ci si è chiesti se nei processi partecipativi il planner non rinunci alla sua “responsabilità tecnica”, una preoccupazione a cui vorremmo però quantomeno affiancare la preoccupazione opposta di chi sostiene che l’intervento del professionista produca un effetto mutilante, si pensi alla demistificazione del ruolo dell’esperto in Ivan Illich (1978).
A questo proposito si può citare la pluralità delle figure ipotizzate per confrontarsi, sia pure con accenti e priorità diversi tra loro, con quello che è stato trattato come un dilemma (nonchè origine di vari paradossi): si pensi al pianificatore critico di Forester, evidenziatore di problemi in un contesto comunicativo, al pianificatore radicale di Friedmann, intento a facilitare l’espressione degli attori sociali e perennemente in bilico tra teoria e pratica radicale, al professionista riflessivo di Shon che costruisce conoscenza nel corso dell’azione in un contesto conflittuale, per cui questa consiste nella difesa del proprio punto di vista da quelli avversari, ma anche in un continuo sforzo di comprensione. Per una trattazione più completa del tema si rimanda al testo di Giusti (1995), nel quale egli stesso propone una propria sintesi critica, in cui si sottolinea la funzione del planner in quanto «costruttore di contesti, scenari, immagini complessive di città capaci di inquadrare in maniera verosimile l’azione locale, volti non a prescrivere comportamenti ma a orientarne l’azione»(Giusti 1995, p.242).
Stando agli autori sopra citati, si potrebbe affermare che più che rinunciare alle proprie responsabilità il planner persegua l’accesso ad una diversa responsabilità, collocata in un’ottica in cui è centrale la problematica del rapporto tra conoscenza e potere. Non esistono questioni esclusivamente tecniche o esclusivamente politiche, non si opera semplicemente in un regime di incertezza in cui sperare di scoprire “soluzioni”, ma piuttosto si fronteggiano “ambiguità strutturali” che richiedono l’espressione di giudizi di valore e la costruzione di “soluzioni” (Giusti 1995).
Questo implica anche un importante componente “creativa” del pianificare, intesa come capacità di immaginare connessioni nuove tra elementi esistenti, di giocare con il quotidiano per ricomporlo in una sintesi non statica, come capacità di applicare le “regole" esistenti in maniere nuove o a campi nuovi e di istituirne di diverse. Una componente che comporta quindi una continua ai cambiamenti della società, per soddisfare in maniera sempre più varia nuovi bisogni, esprimendo una costante ricerca di nuove forme di relazioni, nuove mutevoli modalità del vivere insieme.
Questa prospettiva trova degli interessanti echi nella rivendicazione di David Harvey al diritto alla città (Harvey 2008) come diritto di scegliere di diventare altro da sé, diritto ad una socialità creativa e plurale, il diritto degli abitanti di realizzare (e concepire) forme spaziali e sociali alternative: di fare e rifare le nostre città. Implica la messa in discussione delle strutture fisiche e istituzionali che il mercato ha prodotto e ci ha imposto; un nodo da rilevare è infatti la componente distruttiva della creatività: innovare implica necessariamente sottrarre spazio alla tradizione, e quindi, inevitabilmente, distruggere parte di ciò che è dato per certo.
Il seme della trasformazione dovrebbe emergere dalle contraddizioni dell’organizzazione presente, basarsi sulle possibilità esistenti ed essere capace di puntare verso differenti traiettorie di sviluppo, raccogliendo le manifestazioni di discontento, innovazione sociale e creatività espresse a livello locale, pur nel loro particolarismo e limitata visione globale e complessiva.
Della prospettiva di Harvey (1996, 2003, 2008) ci sono sembrati stimolanti e rilevanti per il discorso che si è svolto nei due giorni del workshop, due aspetti. Innanzitutto il voler porre attenzione alla qualità di tutti gli ambienti – l’ambiente costruito, sociale, politico-economico e naturale – che equivale a porre in relazione dialettica le trasformazioni della natura con i possibili modi di autorealizzazione di una particolare forma di natura umana. In secondo luogo la necessità di atteggiamento rivoluzionario (sia nel pensiero che nella politica) che riparte dall’esplorazione e dalla costruzione di processi sociali e forme spaziali alternative, sia di lungo termine che attraverso movimenti e azioni locali di breve periodo, senza aspettare il compimento di una rivoluzione politica che metta le nostre città nella condizione di consentire a nuove e migliori relazioni sociali e territoriali di fiorire.
Occorre una forte azione di traduzione, da parte dell’architetto insorgente (Harvey 2003): tradurre le aspirazioni politiche nella varietà e eterogeneità delle condizioni socio-ecologiche e politico-economiche, mettendo insieme e relazionando differenti costruzioni discorsive e rappresentative del mondo, confrontandosi continuamente con le condizioni e le tendenze attuali dello sviluppo geografico diseguale, tenendo conto di ciò che abbiamo in comune e registrando le differenze, difendendo i diritti (compreso quello di vivere in un ambiente sano, di controllare collettivamente i beni comuni, di cambiare, di produrre spazio…) riconoscendo che la loro formulazione deriva dalla concretezza della vita sociale e che rimarranno privi di significato se non accompagnati da un processo di individuazione e formazione collettiva, e dal necessario sostegno delle istituzioni.
Per i riferimenti bibliografici si veda il PDF allegato
Questo contributo rappresenta la sintesi di una ricerca volta a sottoporre a sperimentazione la capacità dei metodi configurazionali di fornire interpretazioni convincenti circa la distribuzione dei crimini e a costruire un modello multidimensionale di analisi dei principali fattori di rischio per la sicurezza urbana.
La ricerca è stata finanziata all’interno del programma internazionale “Territoires urbains et sûreté”, promosso dal Programme Urbanisme Construction Architecture (PUCA) del Ministero francese per lo sviluppo sostenibile, ed è stata condotta dal gruppo di ricerca dell’associazione Kallipolis, insieme al Dipartimento di Pianificazione dell’Università IUAV di Venezia e al DIEM dell’Università di Genova.
Il lavoro di ricerca muove dall’ipotesi, ormai largamente condivisa tra gli studiosi della materia, secondo cui è lecito associare lo sguardo e la presenza di persone in uno spazio pubblico a una forma efficace di prevenzione del crimine (Jacobs 1961). In questa ottica, diviene allora di fondamentale importanza studiare il movimento delle persone e comprenderne le dinamiche e il funzionamento, per ricavarne chiavi di lettura degli spazi urbani interessanti ed esplicative anche in riferimento al tema della sicurezza urbana.
Ciò che gli studiosi anglosassoni hanno verificato attraverso le analisi configurazionali, è che i fattori che rendono uno spazio più attraente di un altro, fino ad influenzare il movimento naturale delle persone e la distribuzione delle attività economiche sul territorio, non sono le sue caratteristiche locali e peculiari ma le sue relazioni configurazionali con il resto della struttura urbana (Hillier 1993). Queste relazioni, che rappresentano l’intelligibilità e la permeabilità dei sistemi urbani, sono espresse e sintetizzate da Hillier e dai suoi collaboratori attraverso la teoria dei grafi e sono, quindi, misurabili. La loro misurazione rende possibile una lettura, sotto forma di mappa assiale, del livello di intelligibilità e permeabilità di un tessuto rispetto a un altro e, dunque, della sua propensione a essere attraversato da flussi di movimento.
Lo studio, che è stato applicato a cinque aree nelle città di Torino e Genova, in primo luogo ha verificato la capacità dei metodi configurazionali di predire i movimenti pedonali e di interpretare i fenomeni della sicurezza, applicandoli a strutture urbane e contesti diversi da quelli in cui sono già stati oggetto di sperimentazione. In seguito è stato elaborato un modello di analisi multidimensionale accostando alle caratteristiche socioeconomiche, architettoniche e di percezione della sicurezza delle aree soggette allo studio, i valori configurazionali della maglia urbana, verificando la capacità del modello multidimensionale di interpretare i fenomeni legati al crimine, di indicare cioè le zone più o meno a rischio di vittimizzazione.
L’analisi ha portato alla luce alcuni risultati di rilievo. È stato innanzitutto verificato che esistono effettive corrispondenze tra la configurazione spaziale e i flussi di passaggio pedonale, sebbene con valori variabili tra le aree.
Dall’applicazione del modello di analisi multidimensionale sono emersi tratti comuni tra i diversi casi studio che hanno permesso di trarre conclusioni più generali sui fattori di rischio più rilevanti per la sicurezza urbana. Sono state cioè individuate categorie che esprimono fenomeni urbani correlati a criticità differenti e, di conseguenza, sono state estrapolate le problematicità a partire dalle quali sarebbe possibile formulare politiche per la sicurezza.
Il modello di analisi così costruito ha evidenziato situazioni di maggiore o minore rischio legate a caratteristiche specifiche del contesto. È così emerso che, laddove gli spazi pubblici presentano contemporaneamente fattori configurazionali che favoriscono i flussi di movimento pedonale, e una alta concentrazione di elementi funzionali ed economici che ne incoraggiano la fruizione, si verificano punte di carico che talora sfociano in congestione. I casi studio hanno mostrato che a questa tipologia di spazi corrisponde un numero elevato di episodi di vittimizzazione.
In secondo luogo, risulta che gli spazi caratterizzati da maggiore marginalità configurazionale e segregazione spaziale sono meno colpiti da episodi di vittimizzazione rispetto al primo gruppo. Tuttavia, è evidente che la rinuncia a frequentare un’area a causa della sua marginalità riduce il numero di crimini ma non ne aumenta certamente la sicurezza percepita.
Infine, i luoghi accomunati da una alta qualità urbana, un adeguato mix funzionale e flussi di movimento pedonali sostenuti ma non eccessivi, presentano valori molto bassi di vittimizzazione.
Da una parte la ricerca conferma quanto, in materia di sicurezza urbana, Jane Jacobs ed altri studiosi dopo di lei hanno sostenuto, ovvero che le politiche di prevenzione del crimine dovrebbero mirare innanzitutto ad assicurare la vivibilità delle città e dei quartieri, attraverso la promozione della vitalità dei luoghi pubblici e il miglioramento della loro qualità urbana. Dall’altra, la significativa interconnessione che emerge tra il disegno della maglia urbana, il movimento delle persone e la distribuzione delle funzioni, ci suggerisce la necessità di includere gli aspetti configurazionali nelle fasi di analisi e progettazione di interventi di riqualificazione urbana.
Premessa
I dreamed I saw the silver space-ship flyin’
In the yellow haze of the sun
(Neil Young, After the Gold Rush, 1970)
Nel 1967 si pubblica in Italia, con il suggestivo titolo Le guide del tramonto, la traduzione del racconto Childhood’s end, di Arthur C. Clarke. La storia narra di grandi astronavi d’argento, che scendono sulla terra per guidare l’umanità - come accenna il titolo originale - fuori dall’infanzia, verso una nuova era.
Contemporaneamente, e con scopi più o meno simili, un’altra «astronave» è atterrata, stavolta nella nostrana pianura bergamasca: un monumento di calcestruzzo battezzato Il Missile guida i primi automobilisti di massa italiani verso Zingonia, la città del futuro. E’ una porta aperta su un mondo nuovo, a portata di mano, per pionieri in pantofole che vogliono iniziare una nuova vita all’ombra del missile, tra abitazioni confortevoli, fabbriche avveniristiche, servizi quasi impensabili altrove. Il tutto senza affrontare viaggi pericolosi verso pianeti lontani, ma soltanto spostandosi in uno spazio quasi vuoto della pianura bergamasca. Su una carta dell’epoca, poco a est del fiume Adda e a sud del tracciato autostradale Milano-Venezia, il Missile se ne sta al centro di un territorio diviso tra cinque piccoli comuni rurali, ad aspettare i nuovi arrivi, gli abitanti della nuova città.
A dire il vero l’idea di «città nuova», anche e soprattutto in Italia, ha una lunga e consolidata tradizione, ma stavolta dietro al Missile c’è una inedita forma organizzativa, la crescente potenza della comunicazione pubblicitaria e degli uffici stampa. Last but not least, l’idea allo stesso tempo nuova e tradizionale di «città del futuro» trova un terreno particolarmente fertile nell’ambiente sociale degli anni Sessanta, generalmente sensibile all’innovazione, alla più o meno consapevole rottura con gli schemi tradizionali, alla più o meno superficiale fiducia nelle immagini del «progresso», e allo stesso tempo poverissimo degli «anticorpi» che solo i decenni successivi, di abitudine al bombardamento mediatico, renderanno possibile sviluppare.
Oltre gli elementi di innovazione organizzativa e pubblicitaria, la città nuova di Zingonia usa a man bassa la solida tradizione dell’utopia urbana di epoca industriale: simboli inequivocabili, messaggi semplificati, vari livelli di lettura possibili, da quello dell’uomo comune a quello dell’intellettuale e/o potenziale investitore. Il prototipo di questa forma comunicativa sono i Tre magneti di Ebenezer Howard, che con una serie di diagrammi facilmente leggibili sul finire del secolo scorso delineano una possibile «terza via» tra l’inferno paleotecnico della metropoli industriale e la salubre ma rimbecillente placidità della vita rustica. In anni e luoghi più vicini ai nostri, «irridendo al blasfema della teoria naturalista della origine e dell’autonomia dei comuni, il Regime non attende il formarsi spontaneo degli aggregati, per riconoscerli, ma fonda esso stesso città là dove redime la terra» (Ortolani, 1938, p. 644). Le città nuove dell’Agro Pontino, nel senso strettamente connesso alla costruzione dell’immaginario collettivo, «comunicano» molto più attraverso i filmati Luce sulla trebbiatura, con Mussolini a torso nudo, di quanto non facciano sulle pagine patinate di Architettura le torri littorie piantate al centro della pianura semivuota.
Ovviamente e notevolmente più vicine alla sensibilità contemporanea, le forme di comunicazione del New Deal americano dispiegano in pieno i potenti mezzi della civiltà automobilistica e televisiva: con le distanze accorciate dalle autostrade, la pubblicità dei nuovi insediamenti promossi o sostenuti dalle politiche riformiste sbarca su grandi cartelloni stradali, che indicano luoghi lontani ma a portata di mano, mischiando elementi umani, geografici, architettonici in forme inedite. Zingonia eredita tutto questo, ed insieme introduce, almeno nel nostro paese, un elemento nuovo, che nei decenni successivi diventerà, dai dépliants a colori alle televendite notturne di seconde case, una peculiare forma di ideologia antiurbana: l’invito a lasciarsi alle spalle la metropoli pericolosa e congestionata, per trovare - fatalmente «immerso nel verde» - un nuovo modello di vita fornito «chiavi in mano».
Con una particolarità: le città italiane non sono, e men che mai negli anni Sessanta, i luoghi terribili che alcune forme pubblicitarie, prese forzatamente a prestito da altri contesti culturali, presentano. In più, giudizi qualitativi a parte, l’italica «fuga dalla città», complici anche gli operatori del settore, si traduce il più delle volte in una blanda suburbanizzazione, o in una diffusione insediativa che recupera per molti versi, anche se secondo forme nuove, il recente passato contadino nazionale. Resta, il percorso evolutivo della critica sociale alla città così com’è, di cui le progettualità pubbliche e private si sono storicamente fatte portatrici, e di cui il caso di Zingonia rappresenta una tappa interessante, una questione per molti versi ancora aperta, un aspetto forse meno noto di quanto meriterebbe.
Questo percorso sociale, culturale, tecnologico, economico, non è ovviamente né semplice, né lineare. Le note che seguono intendono restituirne alcuni elementi e spunti di riflessione.
1. Immagini di città
I mass-media tendono a secondare il gusto esistente
senza promuovere rinnovamenti della sensibilità ...
Omologando quanto è stato ormai assimilato
svolgono funzioni di pura conservazione
(Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964)
All’inizio degli anni Cinquanta del nostro secolo, urbanisti e organi di governo italiani si sbilanciano annunciando gli orizzonti futuri della pianificazione regionale. Tecnici, amministratori e politici in un futuro immediato non dovranno più consumarsi gli occhi sulle planimetrie di qualche quartiere, o centro cittadino, ma lavorare direttamente sulle pagine dell’Atlante usato a scuola dai loro figli, per decidere le linee di sviluppo futuro della Lombardia, della Campania, delle Marche ... Naturalmente e come in altri casi, questa è solo un’intenzione, che la realtà dei fatti si incaricherà presto di ricondurre alle sue dimensioni concrete (un volume e una mostra), ma il semplice fatto di sollevare un problema rappresenta per molti versi un enorme passo in avanti, un possibile strumento nuovo di lettura.
Una parte consistente dei giovani convenuti al congresso INU di Venezia del 1952, dedicato appunto alla pianificazione regionale, non poteva certo ricordare quando, verso la metà degli anni Venti, in Italia e nel resto del mondo «occidentale» si discuteva della nuova dimensione dell’impresa industriale, della velocità potenziale dei trasporti e delle comunicazioni, e della corrispondente necessità per gli organi di governo centrali e decentrati di misurarsi alla pari con questa situazione. Le risposte tecniche, culturali e politiche a quel tempo erano state varie ed eterogenee: simili nel loro essere condizionate dalle dimensioni transnazionali della tecnologia e dell’organizzazione di impresa; diverse a seconda dei sistemi sociali in cui si collocavano. Si andava dal volontarismo empirico del piano regionale di New York, alle forme di decentramento burocratico partecipativo dell’area parigina, sino alle forme più tecnocratiche e accentratrici della regione della Ruhr e del Governatorato di Roma (Testa, 1933). Oltre le modalità di declinazione del problema, comunque, i riferimenti progettuali e di politiche di intervento rinviavano più o meno consapevolmente alle forme di insediamento proposte verso la fine del secolo XIX come «terza via» fra grande città compatta e decentramento insediativo puro, ben riassunta dal vincente slogan della Città Giardino.
Carlo Doglio nel suo intervento al dibattito sulla pianificazione regionale osserva che «L’Italia, certo, è un paese eminentemente agricolo: ma ... si va ormai, e giustamente, verso un vero e proprio decentramento delle industrie: certo occorre contrastare una frammentazione antitecnica, risultato di tradizioni soltanto artigianali, ma sta di fatto che .... i cittadini, le donne, e gli uomini, non sono l’ultimo elemento al piano, ma il primo. Non devono essere oggetto, ma soggetto del piano» (Doglio, 1953, p. 453). Se non altro per la contemporaneità della riflessione, è certo che questi giudizi sul decentramento, sul rapporto città/campagna/industria/società si intrecciano con quelli che Doglio ha sviluppato sulla questione specifica della città nuova, nella su più nota forma di Città Giardino: messaggio ecumenico e ambiguo, aperto già all’origine (forse consapevolmente) a distorsioni e fraintendimenti.
E’ del 1953 la pubblicazione del noto saggio di Doglio (riproposto poi in altre versioni) L’equivoco della città giardino, dove in forma documentatamente provocatoria si eviscerano fatti e misfatti del successo di un’idea, e del suo esatto contrario, sotto lo stesso marchio.
Come ha sperimentato qualunque studente di discipline territoriali alle prime armi, la semplice enunciazione del termine città giardino evoca automaticamente le immagini positive che i due termini antitetici compongono, a partire dall’esperienza e dalle reazioni degli ascoltatori. Il successo della denominazione, non significa ovviamente successo dell’idea originaria, e nemmeno successo di una sua evoluzione determinata dall’apporto positivo di contributi culturali accumulati nel tempo. Doglio, sviluppando la sua prospettiva critica all’inizio degli anni Cinquanta, ne conclude che:
l’idea della città giardino è positiva, ma l’impostazione con cui Howard la presenta e sviluppa ne riduce le potenzialità effettive;
la riduzione e semplificazione operata da Howard è il veicolo ideale per operatori senza scrupoli, che intendono usare le suggestioni comunicative dell’utopia per fini assolutamente opposti o diversi;
le reazioni degli arguti «specialisti» alle implicite deviazioni del programma originario, mancano sia della potenzialità comunicativa del progetto, sia della sua elasticità antistatalista e antiburocratica.
Conclude il suo impianto comunicativo, Doglio, confermando le potenzialità di fondo dell’idea di città-giardino così come concepita e divulgata agli albori del secolo, purchè l’iniziativa di insieme sia mirata a realizzare «la pianificazione di unità organiche e autosufficienti» (Doglio, 1995, p. 117), dal punto di vista socioeconomico, amministrativo, territoriale e di integrazione, ben oltre la semplice immagine ideologica della città nuova di fondazione, o il quartiere suburbano a bassa densità, o una versione aggiornata della company town, mascherata dalla nuova dimensione territoriale dei processi insediativi. Del resto, Doglio nel suo saggio ricorda che l’apporto effettivo di Ebenezer Howard, per molti versi può essere ricondotto ad un ruolo di amplificatore mediatico e mediatore di interessi scientifici e sociali, come in parte suggerisce la biografia del personaggio.
La seconda metà dell’Ottocento inglese, come puntualmente ma forse meccanicamente ricordano molti altri autori, è costellata di contributi interdisciplinari sul tema della città nuova, ma Doglio non ha esitazioni nel recuperare con particolare evidenza il contributo del geografo anarchico russo Pëtr Kropotkin, che negli stessi anni in cui matura l’idea della città giardino pubblica alcuni pamphlets molto diffusi negli ambienti riformisti anglosassoni, tra cui vale la pena forse ricordare Fields and Factories, in cui l’idea di insediamento diffuso, integrazione agro-industria, autogoverno e partecipazione locale ai processi di modernizzazione assumono forma sicuramente «utopica» se commisurate ai rapporti sociali consolidati, certamente «realistiche» al limite della banalità se l’idea di decentramento produttivo e decisionale viene letta nei termini che ci sono abituali, almeno dagli anni Settanta di questo secolo.
In sintesi, il portato delle riflessioni di Kropotkin, e dell’attualizzazione che ne fa Doglio, è: che senso ha ipotizzare un indeterminato «decentramento», e sostenerlo con ingenti risorse pubbliche, se i termini del nuovo modello insediativo sono modellati sulle esigenze particolari e di breve periodo del capitale privato? E, anche oltre le ipotesi «rivoluzionarie» che un percorso di riflessione di questo tipo in qualche modo evoca, non è forse il caso di pensare ad una lettura meno supina dell’idea di città giardino, così come la pubblicistica più o meno specializzata ce l’ha tramandata da quasi un secolo?
A ben vedere, come ampiamente ha dimostrato l’esperienza italiana e internazionale in materia di «città giardino», gli schemi originari di Ebenezer Howard, indipendentemente dalle intenzioni del loro autore, hanno generato nella maggior parte dei casi idee di insediamento con un basso contenuto sociale, un inesistente contenuto politico, un piccolo contenuto di innovazione tecnica, veicolato e amplificato dal suggestivo slogan. Nelle città italiane del primo sviluppo industriale, in età fascista, la città giardino come vaga categoria dell’immaginario inizia a generare i suoi sottoprodotti in termini di lottizzazioni private, a villini, con qualche vera o presunta pretesa di dignità architettonica, e più raramente con declinazioni locali di progettazione urbanistica a livello di quartiere.
Ma, anche se nascoste tra le pieghe del tecnicismo e della semplificazione, le istanze riformiste profonde della città giardino riescono in qualche modo a fare paura a chi vede come fumo negli occhi la partecipazione sociale attiva ai processi decisionali. Non è un caso se, tra i primi atti del regime fascista nell’area milanese, c’è lo scioglimento della società cooperativa per la città giardino, con le sue pur limitate possibilità di costruire un sistema di autogoverno locale, anche in assenza dei requisiti minimi di sostentamento socioeconomico (insediamento produttivo ecc.).
Come alternativa all’ormai transustanziata e tradita immagine della città giardino, inizia negli anni di esordio dell’economia dei grandi spazi ad imporsi, anche dal punto di vista lessicale, l’idea di «città nuova», probabilmente per una sua vera o presunta maggiore elasticità interpretativa, che soddisfa via via le necessità dell’impresa, quelle del potere accentrato alla ricerca di immagini forti di legittimazione, e infine il dibattito multidisciplinare delle sempre più numerose competenze che sono - o aspirano ad essere - coinvolte nella progettazione dei nuovi simboli di progresso.
Il miracolo comunicativo che gli schemi di Ebenezer Howard avevano realizzato con l’idea di città giardino, si ripete in Italia con le città di fondazione tra gli anni Venti e Trenta, sia negli aspetti positivi, che in quelli negativi e contraddittori. Oltre la rilevanza tecnica e organizzativa della bonifica, della costruzione ex novo e con metodi sbrigativi di una vera e propria società locale, oltre anche i concreti elementi figurativi architettonici dei nuovi spazi, emerge soprattutto l’amplificazione del messaggio, la sua articolazione per competenze e livelli di conoscenza, in cui quella che comunemente viene denominata «retorica fascista» spesso non è altro che il linguaggio corrente radiofonico o da comizio di paese. «in una domenica allietata da un cielo limpido e da un sole veramente primaverile, la campana della torre di Littoria suonando a festa, annunziava che una regione già tristemente nota per il suo squallore e per la sua inospitalità stava per essere interamente risanata e restituita a nuova vita» (Bellandi, 1933, p. 677).
Così, L’Universo, austera rivista dell’Istituto Geografico Militare, apriva un articolo di carattere storico-tecnico sui rilievi topografici connessi alla bonifica. E a ben vedere nell’immaginario dell’epoca l’idea delle città nuove è soprattutto questo, molto oltre il pur ricco e polemico dibattito specialistico che contrappone architetti, economisti agrari, urbanisti e varie lobbies professionali. L’azione pubblica su larga scala, ulteriormente amplificata dalle forme di comunicazione e pubblicità, è stato notato, mirava soprattutto a rassicurare i cittadini, per dar loro modo di guardare al futuro, anche al futuro lontano, «with unbridled confidence and a sure sense of govermental longevity» (Ghirardo, 1989, p. 5). E ciò vale non solo per la più o meno «retorica» Italia fascista, ma per la democraticissima e riformista America di Roosevelt, dove le forme più complesse e avanzate di sviluppo socioeconomico arricchiscono la questione di almeno due elementi chiave: il ruolo dell’apparato produttivo industriale e gli interessi dei privati nelle forme di insediamento.
Uno degli elementi volutamente messi in ombra dalla «retorica fascista», con la sua centralità di intervento statalista, ruralista, è il ruolo (ancora potenzialmente, per l’Italia dell’epoca) cruciale dell’industria nel determinare, dalla scala locale a quella regionale e oltre, modi e forme dell’insediamento. Il dirigismo che almeno superficialmente caratterizza anche il dibattito ufficiale su questi temi non nasconde, almeno agli studiosi più attenti, le tendenze che in Europa e negli Stati Uniti si vanno affermando negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. La company town ottocentesca, con tutte le sue varianti utopistiche o paternalistiche, è un modello abbondantemente tramontato, e ora anche a grande scala i processi di insediamento e reinsediamento sono una complessa forma decisionale, in cui gli interessi dell’impresa devono trovare una sintesi con quelli collettivi, a loro volta articolati orizzontalmente per settori (residenza, servizi, ambiente ecc.), e verticalmente per scale di intervento (governo regionale, locale, associazioni ..). I processi decisionali dell’impresa, quando si tratta della sua collocazione territoriale e del ruolo nella costruzione dello spazio urbanizzato, evidenziano quello che Francesco Mauro nel 1944 definisce «Polimorfismo del soggetto» (Mauro, 1944), ovvero la diversificazione ed elasticità interna dell’impresa industriale, cui deve corrispondere un altrettanto adattabile sistema di governo e contrattazione. L’esatto opposto, pur con qualche sfumatura, di quanto la cultura urbanistica nazionale aveva sino a quel momento modellato e istituzionalizzato, dalla bonifica integrale, alle città di fondazione, e infine alle leggi sul decentramento industriale e urbanistica.
Con la fine della guerra e la caduta del fascismo, le forme complesse della conflittualità che la patina «corporativa» aveva attenuato, iniziano a riemergere. L’idea di città nuova è decisamente offuscata dall’ansia della ricostruzione, anche se molto si dibatte sui modi e le forme di questa ricostruzione: «le nuove prospettive di sviluppo sociale, stimolano una diversa creatività, un diverso rapporto tra urbanistica ed istanze emergenti, un diverso modo di recepire il senso morale, sociale, politico della disciplina» (Ernesti, 1990, p. 83). Un nuovo senso che però non impedisce il permanere di una cultura dirigista del piano, in cui le forme di decentramento o accentramento vengono giudicate soprattutto in base alla loro «organicità», e solo eventualmente e in seconda battuta analizzate nelle tendenze reali e nelle motivazioni.
E’ in questo ambiente che inizia a svilupparsi il dibattito sui modi dello sviluppo, sulla politica industriale e della casa, sui nuovi quartieri e le città satelliti.
2. Fabbrica e società
Si prosegue nella pianura coltivata
sparsa di villaggi dai campanili
sormontati da statue di santi
(l’area che diventerà Zingonia, nella descrizione del Touring Club, 1954)
Quello che abbiamo definito «dirigismo» della cultura urbanistica non è, esclusivamente e necessariamente, retaggio dello stato totalitario, né specificità italica. Lo stesso Francesco Mauro, che studiando la realtà americana di dispersione e concentrazione insediativa aveva presentato un panorama inedito di complessità, centri e forme decisionali, nel suo approccio alla realtà dello sviluppo italiano e della modernizzazione postbellica sembra lasciare qualche spazio in più a un ruolo forte dell’operatore pubblico nelle scelte di programmazione. Riguardo soprattutto alle aree del Mezzogiorno, si individuano come soggetti prioritari per incrementare i ratings di attrattività delle aree i grandi enti dello Stato (ferrovie, banche pubbliche), ma anche nelle aree del futuro Triangolo le proposte di decentramento e rilocalizzazione industriale e residenziale preludono comunque a una notevole (e probabilmente non corrispondente alla realtà) capacità di governo dei vari livelli dell’amministrazione (Mauro, 1948).
Anche nella tradizionalmente democratica Gran Bretagna, culla e patria del moderno planning, alcuni approcci della cultura urbanistica ai temi di rinnovo dell’assetto territoriale sono esplicitamente accusati di dirigismo, megalomania, e visto l’oggetto del contendere di strisciante incompetenza. La stessa idea di decentramento e decongestione, apparentemente consolidato obiettivo di qualunque piano, quando interessa in un breve lasso di tempo vasti territori, popolazioni, settori e destinazioni, perde molto del suo fascino se verificata nell’ambito di una corrente amministrazione, ovvero in un contesto molto diverso da quello emergenziale che all’inizio del secolo aveva generato la città giardino di Howard, la cultura regionalista di Patrick Geddes, la sistematizzazione e divulgazione disciplinare di Raymond Unwin. Ora, con l’avvio della ricostruzione nazionale pianificata, dei programmi di sviluppo territoriale e di costruzione delle new towns, gli urbanisti sono in una posizione di potere, forse troppo accentuata: «Winning a peace can be far more tricky than winning a war» (Sinclair, 1949, p. 233).
La dogmatica, forzata, falsa automatica opposizione dialettica tra accentramento e dispersione insediativa, rischia di vanificare i pur lodevoli sforzi dei planners, che forse investiti di troppo potere mettono in atto con una certa disinvoltura (e con poche forme di negoziazione e controllo sociale) schemi di sviluppo destinati a durare per secoli: «Can the Howard pre-motor-car greenery ... and the Abercrombie “humanised monster town” all fit together in the same world without stultifying one another?» (Sinclair, 1949, p. 235). Come osserva un articolo per il centenario di Ebenezer Howard, la cultura della pianificazione, faticosamente nata e sviluppata in un vigoroso bambino, rischia crescendo di trasformarsi in un orrendo ipertrofico mostro se non si sviluppano alcuni elementi di guida esterni: conflitto interdisciplinare, controllo sociale, partecipazione popolare alle decisioni (Macfayden, 1949).
A differenza di quanto avvenuto in Italia coi primi vagiti di città nuova o di quartiere satellite, la cultura britannica - oltre le inevitabili quanto trasparenti polemiche - sembra aver metabolizzato l‘idea del piano-processo, almeno alla scala decisionale che implica scelte strategiche, con rilevanti investimenti pubblici, e tali da innescare trasformazioni lente, elastiche, e nello stesso tempo contenere le aspettative dei molti soggetti sociali che, a vario titolo, auspicano una più rapida e compiuta tangibilità dei risultati. Osserva Frank Schaffer, Segretario della Commissione per le new towns, che i tempi di interazione, progetto, attuazione, sono certo molto lenti, che la ricerca dei siti basata su dati scientifici, la negoziazione con le autorità locali, la formazione di una development company, per non parlare degli aspetti concernenti la creazione di posti di lavoro, gli incentivi alla allocazione di imprese, gli impatti con gli equilibri precedenti, appaiono per quello che sono: un processo contraddittorio di conflitto sociale, economico, istituzionale.
Ma anche in questo caso«democracy cannot be hurried» (Schaffer,1972, p. 15), e chiunque si metta in testa di costruire una città (non un quartiere dormitorio, o una lottizzazione industriale) deve mettere nel conto un processo lungo e conflittuale, e prevedere anche radicali mutamenti nell’impostazione iniziale. La realizzazione in tutto o in parte delle opere infrastrutturali, degli edifici, dei servizi, in questo senso rappresenta solo un «physical framework» per la vita quotidiana, che dovrà essere riempito dal sistema di interazione sociale che solo il tempo e la capacità adattiva del modello iniziale possono garantire. La particolare delicatezza di ruolo della società locale, e degli strumenti finalizzati a promuoverne lo sviluppo, è ben riassunta da alcune lapidarie precisazioni: «The organization responsible for building a new town is the development corporation. ... The corporation is not a Crown body. ... Nor is the corporation the local authority» (Schaffer, 1972, p. 53). In altre parole, nessuno delega niente, salvo quanto non risponde alle proprie necessità immediate, e anche gli organismi pubblici non sono sufficienti a garantire una evoluzione lineare dei propri progetti, che in qualche modo vengono affidati al sistema complesso dell’interazione conflittuale tra capitale, lavoro, politica ai vari livelli.
Il successo critico italiano delle new towns britanniche, oltre i più evidenti aspetti strettamente architettonici, si allaccia al lungo dibattito sui temi del decentramento produttivo, e della improrogabilità di scelte esplicite di governo, non necessariamente legate ad una impostazione «di sinistra» delle linee di sviluppo. Si sottolinea come, anche dopo la crisi dell’esperienza di governo laburista, il programma generale delle città nuove, inizialmente criticata dalle destre come insostenibile per le finanze pubbliche, sia stato proseguito sia per evitare contraccolpi sociali, sia perché la cultura dei planners britannici era consolidata, istituzionalizzata, ormai lontana mille miglia da qualunque possibilità faziosa: « il fenomeno del sovraffollamento dei grandi centri urbani prendeva proporzioni sempre più grandi, il governo conservatore ha ritenuto di dover riprendere l’attuazione del vecchio programma urbanistico» (Gentileschi, 1965, p. 441).
Ma oltre le difficoltà sociali di adattamento, costruzione di identità, conflitti con le società tradizionali preesistenti, impatto ambientale dei nuovi insediamenti, si iniziano a riconoscere le linee evolutive del processo di integrazione e crescita, il ruolo degli enti di sviluppo pubblici, le iniziative che i gruppi di pressione locali iniziano a mettere in campo. Anche con tutti gli sforzi di pianificazione e animazione articolati tra vari livelli di governo e organizzazioni, il senso comune insegna che «inserirsi in un nuovo ambiente è sempre difficile» (Gentileschi, 1965, p. 456).
Quando l’iniziativa di Zingonia consolida la sua visibilità a livello nazionale (e potenzialmente, come le città pontine, internazionale), c’è chi, più attento agli elementi di percezione sociale che ad una considerazione strettamente disciplinare degli elementi a disposizione, la colloca in una possibile famiglia di «città nuove», che in momenti storici non meglio precisati sarebbero «sorte in altri Stati» (Della Valle, 1967, p. 215).
L’unico esempio citato, comunque, è quello più immediatamente tangibile delle new towns inglesi. Dopo una descrizione della natura prevalentemente pubblica e sociale del programma anglosassone, a cui sin dal titolo Zingonia è accostata, l’autore italiano improvvisamente vira: «qui ci si trova di fronte ad una realizzazione nella quale non ha alcuna parte, per ora almeno, l’iniziativa statale, ma la cui nascita è dovuta unicamente allo spirito creativo di un privato e di un organismo finanziario da lui animato» (Della Valle, 1967, p. 215-216). Comunque si voglia giudicare questo approccio «critico», va sottolineato che il progetto (soprattutto comunicativo, abilmente gestito dagli uffici stampa dell’immobiliare) di una «città nuova» italiana negli anni di consolidamento dello sviluppo economico ha raggiunto il suo scopo: far parlare di sé anche all’interno del dibattito scientifico istituzionalmente legittimato.
Le riviste culturalmente e tecnicamente più autorevoli sul tema della città e del territorio, per tutto il periodo della ricostruzione e della successiva, cosiddetta «ideologia del quartiere», tentano di presentare un panorama verosimile di quanto sta accadendo, in Italia e altrove, nel campo dell’architettura e dell’urbanistica. La verosimiglianza di questo panorama, però, come è ovvio, risente fortemente (e ancor più risentirà negli studi successivi su questo periodo) di alcuni condizionamenti culturali e professionali, legati all’area operativa e di ricerca dei gruppi che direttamente o indirettamente hanno accesso alla pubblicistica specializzata. Acquistano così straordinaria visibilità e automatica legittimazione molti progetti e realizzazioni che a ben vedere hanno in comune molto poco, sul versante del contesto, dei condizionamenti, degli obiettivi. Ad accomunarli secondo linee di lettura omogenee, il più delle volte solo l’area culturale di riferimento dei progettisti.
Come contrappunto a questa estrema visibilità e legittimazione, le trasformazioni del territorio italiano seguono vie diverse, ignote solo a chi fa esclusivo riferimento (e continuerà a farlo per decenni) alle pagine patinate delle riviste cult. Il caso di Zingonia, in modo del tutto autonomo, riesce per un breve periodo ad uscire dal relativo anonimato, che certo non merita.
L’attività della Z.I.F. (Zingone Iniziative Fondiarie), era iniziata con la progettazione e realizzazione, verso la fine degli anni Cinquanta, di un quartiere residenziale nell’immediata periferia milanese, a Trezzano sul Naviglio. Renzo Zingone, proprietario della Banca Generale di Credito e quindi osservatore privilegiato dell’emergere di alcune, particolari esigenze dei piccoli e medi operatori immobiliari, acquisisce un’area agricola di grandi dimensioni, a una distanza relativamente grande da Milano, con problemi relativamente grandi in termini di urbanizzazione, scala del possibile intervento, tempi di recupero degli investimenti.
Questo si traduce, immediatamente, in un basso prezzo dei terreni. In più, l’agricoltore disposto a vendere si ritiene «penalizzato» dall’essere i terreni di sua proprietà interessati da un progetto che renderà difficile la normale gestione dell’azienda: una strada a molte corsie e scorrimento veloce di collegamento tra Milano e Vigevano. Il rapporto con una amministrazione comunale debole, con un apparato tecnico commisurato alla sua natura di centro agricolo, faranno il resto: è l’esordio del progetto urbanistico «chiavi in mano», un enorme salto di qualità rispetto alla lottizzazione che a quel tempo «consisteva nel costruire una strada e nel vendere i terreni prospicienti, previo frazionamento» (Airaldi, 1980, p. 70). In più, l’offerta non riguarda solo spazi residenziali, ma anche insediamenti produttivi artigianali, che indirettamente contribuiscono ad aumentare la domanda insediativa nei terreni non ancora edificati. A modo suo, è un’idea di «quartiere organico» difficilmente contestabile. Così come, a modo suo, il quartiere Zingone è emblematico dell’approccio privatistico alla «ideologia del quartiere», l’iniziativa di Zingonia con un notevole salto di qualità tenta di meritarsi un ruolo di punta nel prefigurare la versione italiana della new town.
Ma là dove la logica del piano-processo anglosassone trovava logico procedere gradualmente, secondo lo slogan democracy cannot be hurried, evidentemente la corsa al futuro dello sviluppo italiano è troppo impetuosa per essere rallentata da questi dettagli.
La nuova città è pensata a cavallo tra i territori di cinque comuni rurali nella pianura tra l’Adda e Bergamo: Osio sotto; Boitiere; Ciserano; Verdellino; Verdello. Nonostante il tipo di insediamento e il contesto socioeconomico «depresso», il comprensorio si colloca lungo un asse di sviluppo privilegiato, da Milano verso Est, servito da autostrada, ferrovia, un probabile prolungamento delle «Linee celeri dell’Adda» (trasporti regionali su rotaia) e una relativamente fitta rete stradale interregionale e di servizio. In più, dal 1962 è approvato e considerato di pubblica utilità (legge 13.10.62, n. 1485) uno dei grandi progetti di navigazione interna padana: l’idrovia Ticino-Milano Nord-Mincio, con le articolazioni di collegamento con i laghi di Como, Iseo e con Verona. Basta guardare la mappa del tracciato previsto per notare come il comprensorio di Zingonia corrisponda quasi esattamente al «nodo» autostradale, ferroviario, e della prevista area portuale Bergamo-Dalmine: nel piano di lottizzazione, defilati a Nord-Ovest rispetto alle zone industriali e residenziali, sono visibili e vistosi i canali e i moli del porto. Anche altri grandi progetti urbanistici, negli anni precedenti, sono stati innestati sull’asse di sviluppo territoriale definito dalle linee di navigazione: dalle «Quattro città satelliti» attorno a Milano del 1938, al più noto Piano A.R. del 1946, firmato tra l’altro - per le questioni di localizzazione industriale - da Francesco Mauro.
Area «depressa» negli anni Sessanta significa almeno due cose: una società locale tendenzialmente debole (dal punto di vista p. es. del mercato del lavoro, ma anche da quello della capacità contrattuale delle istituzioni), e un sistema di agevolazioni ed esenzioni tributarie per l’insediamento produttivo. E’ soprattutto il secondo elemento, il maggior fattore di attrattività per un investimento di queste proporzioni, quello che consente il salto di qualità (o di quantità) rispetto al quartiere Zingone di Trezzano. Riassunto in cifre, il progetto (dati aprile 1965) prevede: 846.000 mq per la grande industria e 1.466.000 per la piccola e media; 780.000 mq destinati al terziario; 1.255.000 mq di residenza semintensiva e 1.467.000 mq a villette; 704.000 mq di verde pubblico e attrezzato (Zingonia, 1966).
Ancora più in sintesi, Zingonia è pensata su circa 800 ettari, per una popolazione di 50.000 abitanti, migliaia di unità locali industriali e terziarie con un numero imprecisato di addetti. In tutto i cinque comuni del comprensorio, al censimento del 1961, contavano una popolazione complessiva inferiore ai 17.000 abitanti, e la maggior parte degli attivi era costretta all’emigrazione. Bastano questi pochi dati, per comprendere lo squilibrio delle forze in campo: da un lato una società contadina tradizionale, localistica, attraversata inconsapevolmente da uno sviluppo che non l’ha ancora toccata; dall’altro l’impresa, con una notevole capacità di pianificare, investire, creare consenso, gestire le relazioni fra gli attori. I paesani e amministratori di Verdello, o di Osio sotto, continuano a sentirsi tali, mentre la Z.I.F. (in modo non dissimile dagli enti di bonifica) opera a livello comprensoriale.
Si badi bene: siamo di fronte a un vero e proprio «comprensorio di pianificazione», che però non ha nulla da spartire con le forme partecipate che negli stessi anni stanno sviluppando le scienze del territorio con il dibattito sui piani intercomunali. L’impresa stipula cinque separate convenzioni con i comuni (solo uno dotato di strumento urbanistico), che per lungo tempo non riusciranno a riunirsi in alcuna forma consorziale. Anche questa, a ben vedere, è l’ennesima riprova di quanto «travestito nelle fogge più varie, spesso mutilato fino alla parodia, il messaggio di Howard continua ad essere produttivo» (Zevi, 1963).
Naturalmente, salvo prova contraria, l’operato dell’impresa è perfettamente legittimo nel suo svolgere a proprio profitto un ruolo di agente di sviluppo, aumentando il valore dei terreni, favorendo la creazione di posti di lavoro ecc., ma quanta distanza, fra questo tutto sommato organico inserimento nel sistema multipolare della città-regione, e i coevi temi del dibattito specializzato: «Progettate per divenire ambienti di vita organicamente stabili le città nuove e le città satelliti rischiano di ridursi a livello di sobborghi ... per la mancata integrazione dell’urbanistica nella coerente previsione dello sviluppo economico» (Sirugo, 1966, p. 102). Un timore che nel caso di Zingonia vede una situazione totalmente ribaltata, già a partire dall’avvio dell’insediamento.
Verso la metà degli anni Sessanta, almeno dal punto di vista simbolico, Zingonia è una realtà tangibile: il Missile, simbolo e porta della città per chi percorre la strada provinciale Milano-Brescia «Francesca», immette al primo lotto residenziale di sei torri; le due arterie principali di Corso Europa e Corso America attraversano con un sistema a «Y» le aree a destinazione produttiva per inserirsi negli altri settori, residenziale e terziario-commerciale. Contemporaneamente un’impresa di prefabbricati (di proprietà della stessa Z.I.F.) produce in loco gli elementi componenti dei capannoni industriali che iniziano a insediarsi, confermando sin nei minimi dettagli che «La grande impresa è ... la prima ad essere sollecitata dalle proposte urbanistiche di un intervento unitario» (Fabbri, 1983, p. 278).
Ma a ben vedere, come pure è stato osservato, questo tipo di intervento capitalistico sul territorio non contiene particolari elementi di innovazione rispetto alle operazioni analoghe dell’Ottocento, pur nell’accresciuta dimensione territoriale e articolazione funzionale consentita dal progresso tecnologico e organizzativo, salvo (e questo è il fatto distintivo) che proprio questa integrazione consente profitti elevatissimi. E’ possibile «rintracciare esempi concreti di queste tipologie in episodi notissimi .... nel nostro paese ... si è raramente andati più in là della fase progettuale: il Centro direzionale di San Donato Milanese dell’ENI: la città satellite di Zingonia» (Romano, 1982, p. 220). Dunque esiste qualcosa di più, nel progetto per Zingonia, del «principio poco razionale della megalomania che sembra aver travolto l’abile speculatore» (Airaldi, 1980, p. 74). Ancora: «ci troviamo ... di fronte a un raro caso di intervento illuminato di un industriale progressista di larghe vedute? La situazione ci sembra in realtà molto diversa» (Un caso..., 1982, p. 14).
Questa «diversità» però, a parere di chi scrive, va cercata soprattutto in positivo, e non certo nella più o meno fulgida «illuminazione» dell’imprenditore, che in un modo o nell’altro ha dimostrato fare il proprio mestiere, sfruttando le precondizioni che il contesto gli metteva a disposizione e costruendosi autonomamente altri elementi di vantaggio. Oltre i possibili giudizi sul «fallimento» o meno nel medio periodo dell’impresa Zingonia (che sul versante dell’insediamento produttivo sembra invece costituire ancor oggi un consolidato riferimento) è da sottolineare quello che si è più volte accennato sopra: la quasi totale assenza di una seria dialettica fra interesse privato e pubblico, con un discutibile risultato: il punto di vista dell’impresa è obbligatoriamente ma impropriamente assurto ad un ruolo di «pensiero unico»ante litteram.
Fa un certo effetto estraniante, con il senno di poi, guardare nel cuore del dibattito sui comprensori, la riforma del sistema amministrativo, la città-regione e i piani intercomunali, e assistere all’atterraggio di questa «astronave» nel vuoto sociale e istituzionale di cinque piccoli comuni a mezz’ora di macchina da Milano, con le loro agevolazioni fiscali per le aree depresse, le loro giunte e uffici tecnici impreparati al confronto con l’impresa moderna e le sue capacità di «governo». Ancora a metà degli anni Ottanta, l’immobiliare che ancora promuove l’insediamento a Zingonia lamentava la difficoltà di interagire con amministrazioni non coordinate, in un a situazione che di fatto vedeva ormai una forte integrazione territoriale, ma nessun passo avanti sul versante di quella amministrativa. E’ almeno curioso, e indicativo, che sia proprio l’impresa a sentire l’esigenza di una controparte, di un interlocutore istituzionale alla pari (Zingonia a 20 anni..., 1986).
I vari articoli dei quotidiani che per un motivo o l’altro di cronaca negli anni recenti si occupano di Zingonia, colorano quasi sempre le descrizioni di ambiente con strade che si interrompono, verde curato fino a un certo punto e poi abbandonato, asfalto nuovo che diventa improvvisamente fondo sterrato o fangoso. E’, vistoso ed esplicito, l’effetto superficiale e forse meno importante di quanto abbiamo ripetuto sino alla noia, e che riassumiamo ancora una volta con le parole del Segretario alle new towns: «democracy cannot be hurried». Nel vuoto lasciato dall’intervento pubblico si inserisce l’impresa, svolgendo surrettiziamente e malamente un ruolo che non le è proprio, ovvero quello di animazione sociale e di «governo».
In questo senso l’esperienza di Zingonia si inserisce, con coerenza e a pieno titolo, nel multiforme filone delle «città nuove», e degli equivoci che il termine ha generato fino a oggi.
Riferimenti bibiografici
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· Giuseppe Caronia, «Costruire città», Civiltà Fascista 1941-42
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· Marcello Fabbri, L’urbanistica in Italia dal dopoguerra a oggi - Storia ideologia immagini, De Donato, Bari 1983
· Maria Luisa Gentileschi, «Cwmbran: una “città nuova” nel Galles meridionale», Bollettino della Società geografica italiana, settembre-ottobre 1965
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· Giovanni Ortolani, «Autonomia e autarchia nello Stato Fascista», Il rinnovamento amministrativo, n. 11, 1938
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· Francesco Sirugo, «Città e regione nello sviluppo storico della società industriale», in AAVV, La città-regione in Italia - Premesse culturali e ipotesi programmatiche, a cura di Franco Archibugi, Quaderni del Centro di studi e piani economici, Boringhieri, Torino 1966
· Virgilio Testa, «Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica», Urbanistica n. 3, 1933
· Un caso di pianificazione urbanistica a scala intercomunale condotta dal capitale privato: “Zingonia", tesi di laurea, Dino Brembilla, Massimo Brembilla, Gian Franco Calabria, Francesco Dondossola, Bernardino Zanchi ; rel. Gian Franco Minucci, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, A.A. 1981/82
· Bruno Zevi, «Sobborghi utopici per ricchi tormentati», L’Espresso 10 marzo 1963; ora in Cronache di Architettura V dal concorso di Tel Aviv al piano regolatore di Roma, Laterza, Bari 1971
· Zingonia ... La nuova città, a cura della Zingone Iniziative Fondiarie S.p.A., Milano s.d. [1966]
· Zingonia Anno 2, a cura della Zingone Iniziative Fondiarie S.p.A., Milano s.d. [1968]
· Zingonia Oggi, a cura della Zingone Iniziative Fondiarie S.p.A., Milano s.d. [1971]
· Zingonia a 20 anni dalla fondazione, a cura della Riunione Immobiliare S.p.A., Milano 1986
· «Zingonia città futura», Il Giorno 21 dicembre 1986
· Zingonia : analisi del sorgere di una città. Realtà territoriali dopo dieci anni, tesi di laurea, Teoccai, P. Raimondi ; rel. Andrea Tosi, Politecnico di Milano, Facolta' di Architettura, A.A. 1977/78
“ Il diritto alla città non è soltanto un diritto all’accesso di quanto già esiste, ma il diritto di cambiarlo. Noi dobbiamo essere certi di poter vivere con le nostre creazioni. Ma il diritto di ri - fare sé stessi attraverso la creazione di tipi qualitativamente differenti di socialità urbana è uno dei più preziosi diritti umani” (Harvey, 2003).
E' sempre più difficile trovare piani urbanistici che si propongano di dare espressione e collaborare a costruire il diritto alla città per tutti i gruppi sociali che ne sono sistematicamente esclusi. Gli obiettivi sembrano essere altrove.
In questo saggio propongo i primi elementi per costruire un piano urbanistico situato “in basso a sinistra” (come dicono gli zapatisti). Si tratta di una traccia e di proposte che sono l'inizio di un percorso da proseguire in modo autogestito e collettivo, un percorso in parte già iniziato da tutti i gruppi e i movimenti urbani che si oppongono alle trasformazioni urbane appiattite su una valorizzazione economica del territorio, a vantaggio di pochi e destinata a pochi.
La città da cui prendo le mosse è Firenze, città affascinante e difficile.
URBANISTICA: VALORE DI SCAMBIO O VALORE D'USO?
“… l’urbanistica degli imprenditori. Essi pensano e realizzano, senza nasconderlo, per il mercato, in vista di un profitto. La novità, il fatto più recente, è che essi non vendono più alloggi o immobili, ma urbanistica. Con o senza ideologia, l’urbanistica diventa valore di scambio” (Lefebvre, 1968)
Nel territorio del Comune di Firenze è in corso un processo di trasformazione, forse, senza precedenti. Dismissioni e riutilizzazioni, de-territorializzazione e ri-territorializzazione si succedono con celerità sempre maggiore. La sommatoria di interventi che saturano lo spazio rimasto libero insieme a quelli di grosse dimensioni, come quello dell’area di Castello o delle aree ferroviarie, ci restituiscono una situazione di grande cambiamento. Guardando dalle colline o arrivando da fuori quello che vediamo sono gru, tante gru Ma quale direzione sta prendendo questa grande trasformazione? Sta risolvendo la questione abitativa, nascosta per tanti anni dall’affermazione “siamo tutti proprietari”, per poi scoprire che sono 5.000 i nuclei abitativi che chiedono una casa di edilizia a prezzi sociali nel Comune di Firenze? E che tanti altri, come i 2.000 residenti nelle case occupate “abusivamente”, mostrano il loro bisogno in un altro modo e altri ancora, come gli studenti o più in generale i giovani, avrebbero di certo diritto ad ottenere una casa in affitto accessibile che consenta una autonomia dalla famiglia di origine.
Le aree urbane non edificate, comprese quelle destinate a servizi pubblici, la promessa non mantenuta, sono trasformate in aree edificabili[1]. E quello che si costruisce è presto detto: case in vendita, alberghi, centri commerciali, uffici e centri direzionali e in generale tutto quello che serve al turismo e che sfrutta la presenza dei nostri beni comuni: un eccezionale patrimonio storico, culturale e artistico. Il turismo è un settore che sta al primo posto in questa appropriazione privata di beni comuni ed è una delle ragioni dei prezzi così elevati di affitti e vendita dello spazio. Un ruolo i cui effetti sono aggravati dalle politiche promosse da tutti i livelli dell’amministrazione pubblica che, con la onnipresente ed onnivora motivazione dello sviluppo economico, si muovono per eliminare il poco redditizio “turismo dei poveri”, e per promuovere solo quello di lusso, senza verificare quale effetto abbiano i gusti dei ricchi sui beni culturali e ambientali da proteggere e senza considerare l’effetto sui prezzi di queste presenze. E dimenticando che la fruizione culturale dei beni comuni va garantita a tutti, è un diritto universale. Il rischio che Firenze si trasformi in una città di lusso, con negozi di lusso e residence di lusso è reale.
La trasformazione degli spazi a servizio pubblico (standard) in aree edificabili, è anche un indicatore del cambiamento di politica: dall’impegno nella predisposizione di elementi di “stato sociale”, seppur minimo in Italia rispetto ad altri paesi europei, alla creazione di nuovi mercati in quelli che erano servizi pubblici: acqua, istruzione, sanità, trasporti. Una classica politica neo-liberista.
Ma per capire cosa fare, vanno interpretati i meccanismi che determinano queste trasformazioni: sono meccanismi macro, la globalizzazione non meglio definita, oppure incontrovertibili meccanismi quasi naturali di “mercato”, contro cui non c’è molto da fare, e che ruolo ha l’amministrazione pubblica e lo stato, sono un osservatore privo di funzione o un attore attivo?
Come mai quel ruolo di promotore di valori d’uso e di risposta ai bisogni sociali, che nel dopoguerra qualche amministrazione pubblica ha assunto, oggi invece lo ricoprono privati cittadini riuniti in comitati oppure movimenti urbani di vario genere?
Il ruolo dello stato e della pubblica amministrazione di garantire servizi sociali ed attutire squilibri territoriali e problemi sociali derivanti dallo sviluppo, noto come “compromesso keynesiano”, ha progressivamente lasciato il posto ad altre politiche. Ora come allora si tratta di politiche molto attive: costruire le condizioni per profitti in cui la componente di rendita è sempre più elevata.
Molta della pianificazione urbanistica a cui ci hanno abituati le giunte di Firenze, si riduce alla registrazione da parte dell’amministrazione pubblica, delle proposte delle imprese immobiliari e di costruzione private: Baldassini - Tognozzi - Pontello, Consorzio Etruria, Spagnoli, Fratini, Margheri, Fondiaria, Astaldi, Giudici Costruzioni per citarne alcune[2]. Ma sarebbe erroneo pensare che manchi un disegno complessivo.
La prima impressione guardando ai vari piani in essere nel Comune di Firenze (innumerevoli varianti al PRG del 1998, Piano strutturale adottato e riadottato, piano strategico) è che ci si trovi di fronte ad un laissez faire unito ad un sostegno attivo ed aperto all’accumulazione da espropriazione, quel tipo di accumulazione del capitale che si ottiene espropriando beni comuni, in questo caso addirittura la città.
Il laissez faire non si muove mai al di fuori di regole, certo quelle di oggi sono molto sbilanciate a favore del diritto di edificare da parte del proprietario delle aree e del promotore immobiliare. Quando si parla di deregolamentazione urbanistica non bisogna dimenticare che bastano il regime dei suoli, cioè le norme che regolano e soprattutto garantiscono il diritto di proprietà, a determinare chi avrà la meglio.
Il regime dei suoli è garantito dalle istituzioni: sulla definizione e sulle prerogative dei diritti della proprietà fondiaria, in Italia pesano e hanno pesato il potere del “blocco edilizio”, la lunga durata dell’accezione di proprietà privata dei suoli assoluta ereditata dal diritto romano, le interpretazioni contro la “riforma urbanistica” di numerose sentenze Corte Costituzionale, l’ambivalenza interpretativa della nostra Costituzione che mentre garantisce il diritto di proprietà ne sancisce la limitazione sulla base dell’interesse generale, le leggi sul governo del territorio, il codice civile.
Stato e mercato sono cresciuti insieme, la forma della regolazione (regolazione = insieme delle leggi e delle norme finalizzate a perpetuare il sistema economico e sociale esistente) cambia, ma non la sua onnipresenza e necessità. La rendita urbana lungi dall’essere un beneficio connaturato al bene, necessario e meccanico, è una costruzione sociale, che è resa possibile in primo luogo attraverso la stipula da parte del governo di accordi riguardanti i diritti ed i privilegi fra i partecipanti al mercato, basti pensare ad esempio alla ratifica di atti, affitti, contratti di vendita e quindi alla garanzia legale ed istituzionale della loro osservanza. Senza la regolazione statale del mercato, non si verificherebbero scambi.
I rapporti di potere fra le classi sono cruciali nel determinare l’entità della rendita (ciò che il proprietario fondiario ottiene per il solo fatto di possedere il terreno) ed il tipo di limitazioni e tassazioni cui è sottoposta.
Non esiste quindi "un effetto univoco e predeterminato del mercato immobiliare sull’organizzazione della città, perché esso dipende in sostanza dal 'potere' che a tale mercato si concede, sapendo che una città che non sia espressione di una intenzionalità pubblica e collettiva finisce con l’essere preda di interessi parziali e particolari depotenziandone qualità fisica, sociale e culturale” (Indovina, 1995).
La terra è un bene che non viene prodotto come le altre merci, ma esiste in natura. I luoghi hanno un contenuto naturale e un contenuto di valore prodotto dal lavoro e dai conflitti sociali nel corso del tempo.
Il sostegno attivo al mercato è fatto di finanziamenti pubblici, sostegno in caso di aumenti dei costi e assunzione del rischio di impresa da parte dello stato, come è avvenuto per l’Alta Velocità o da parte dell’amministrazione come avviene per il project financing.
Le privatizzazioni di beni pubblici, edifici e terreni di stato, regioni, province, comuni, enti, comportano un ampliamento di quanto si muove secondo la logica di mercato. Tra l’altro si tratta di aree che come quelle delle ferrovie erano state assegnate a costo zero o poco più per la realizzazione di infrastrutture pubbliche e ora vengono riversate sul mercato delle aree a prezzi accresciuti dalle destinazioni edificabili.
Ma esiste un disegno, una visione del futuro a cui tendere da parte delle nostra “classe dirigente”?
Nel libro pubblicato nel 1992, La città occasionale, Francesco Indovina sottolinea:
“ A Firenze gli interventi Fiat e Fondiaria (ndr Novoli e Castello), pur ridimensionati (soprattutto quello della Fondiaria), costituiscono il nucleo forte di un ridisegno della città. La rilocalizzazione di funzioni pubbliche (dal tribunale a parti di università) riqualifica (forse), congestiona e valorizza (sicuramente) pezzi di periferia, mentre per il centro della città non resterà che un destino di definitiva specializzazione turistica. La variante, in sostanza si indirizza verso quelle aree e quei progetti che hanno tenuto in scacco la dinamica della città e fornisce un quadro di compromesso tra proprietari e amministratori, o, per meglio dire, tra grandi progetti e l’avversione che essi hanno sollecitato” (Indovina, 1992, pag.28).
Nelle sue considerazioni sul Piano strutturale di Firenze (Coordinamento Comitati Cittadini Area fiorentina, 2008, pag.9) Giorgio Pizziolo parla di
“disegno nascosto”: “l’asse portante di questo disegno è costituito dalla Fortezza da Basso, come baricentro di tutte le iniziative di marketing della speculazione finanziaria del ‘capitale Firenze’, arricchita dalla Stazione di SMN, tendenzialmente appetibile per il capitale immobiliare in vista della realizzazione del Sottoattraversamento e della nuova stazione TAV, oltre a tutte le aree di pregio circostanti. Questo che è il nocciolo duro di tutto lo ‘sviluppo’, prosegue da un lato sull’asse Macelli, Novoli, Castello e dall’altro sul pacchetto del Centro storico, ridotto ad appendice di pregio e ornamentale del baricentro stesso”.
Il più temibile disegno è quello che pone lo sviluppo economico al primo posto, prima della risposta al bisogno di una casa, prima del rispetto della natura e dell’ambiente, prima della nostra felicità. L’aggettivo “sostenibile” è solo fumo negli occhi, il fulcro di tutto è la salvaguardia di rendite e profitti. I posti di lavoro sono una giustificazione che non affronta il tema di cosa, per chi e quanto produrre e quali servizi collettivi predisporre.
IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Gli obiettivi del nostro piano urbanistico: rompere la logica della valorizzazione immobiliare
Nella trasformazione urbana uno dei conflitti più importanti e decisivi è quello tra i valori d’uso del suolo ed i valori di scambio, in altre parole fra chi considera la città un luogo della vita quotidiana, all’interno del quale rispondere ai propri bisogni e desideri, e chi invece la interpreta come una proprietà privata da cui trarre una rendita e un settore di investimento di capitali da cui trarre profitto. I processi di urbanizzazione guidati dalle logiche di valorizzazione immobiliare, sono responsabili della produzione di gran parte dei problemi urbani che ci troviamo ad affrontare: la segregazione funzionale, la perenne questione abitativa, la progressiva scomparsa dello spazio pubblico, la mancanza di luoghi non mercificati per la socializzazione, l’elaborazione culturale e l’espressione artistica. Il mercato produce solo per chi può pagare, gli altri sono esclusi e con loro tutte le attività difficilmente mercificabili. Se la rendita urbana è il fine della trasformazione urbana, non verranno mai costruite case a canoni accessibili o luoghi di socializzazione esterni alla logica di mercato o spazi pubblici per l’incontro e lo scambio sociale. A meno che non sia un periodo di crisi del mercato e allora sono un buon affare anche le case popolari, meglio se ad affitto “calmierato”, pagate dallo stato attraverso finanziamenti o scambi ineguali. La questione abitativa ha un peso cruciale sulla produzione di rendita: il permanere di un bisogno assoluto ed irrinunciabile come quello abitativo determina la possibilità da parte dei proprietari di prelevare da ognuno tutto quanto può dare, non un centesimo di meno (una sorta di odioso ricatto). Il mercato funziona meglio, dal punto di vista dell’offerta, quando c’è scarsità cioè quando vasta parte della domanda resta senza risposta. Questo vantaggio è probabilmente il motivo per cui i fondi Gescal (contributi prelevati fino al 1999 dai redditi da lavoro dipendente per creare offerta di edilizia economica e popolare) non sono stati utilizzati tutti e sono stati spesi per varie altre emergenze.
La pianificazione urbanistica è nata per razionalizzare l’uso dello spazio, prioritariamente dal punto di vista del mercato. Tuttavia i conflitti e le istanze sociali l’hanno influenzata e modificata, basti pensare al periodo della tentata “riforma urbanistica”. Non è nata per costruire la città come luogo collettivo di cui oggi abbiamo bisogno, ma può essere utilizzata per contribuire a realizzarla.
Il piano regolatore ha il potere di influenzare i prezzi del mercato fondiario ed immobiliare attraverso l’attribuzione di diritti edificatori, l’individuazione delle destinazioni, la realizzazione di opere pubbliche, infrastrutture e urbanizzazioni primarie e secondarie, e di modificare le regole in base alle quali il mercato agisce. Tuttavia, parallelamente, mercato e regime dei suoli appaiono come le condizioni all’interno delle quali il piano è costruito e si trova ad agire. Se il piano incide sul regime dei suoli ed il mercato immobiliare (fondiario ed edilizio), è ovviamente vero anche il contrario.
Cosa possiamo fare? L’unica strada è rompere la logica della valorizzazione immobiliare rispondendo a quei bisogni, tantissimi, che non trovano risposta nella città di oggi… ricordando che elementi del futuro sono già negli usi, nelle contraddizioni e nei conflitti di oggi…
Invece di promuovere una (ghettizzante) soluzione per ogni segmento della domanda sociale, se ne deve trovare una capace di liberare spazio per i (differenti) valori d’uso per i (diversi) abitanti.
I problemi e le proposte
I problemi macro da affrontare:
1. la questione dell’accesso alla casa (è legata anche al pendolarismo e alla segregazione spaziale e funzionale);
2. l’inquinamento dell’aria (per il superamento dei limite di legge, gli amministratori dei comuni dell'area metropolitana e della regione sono stati rinviati a giudizio);
3. il traffico e la congestione (i pendolari verso il comune di Firenze sono pari al numero di residenti);
4. rinnovato bisogno di servizi socio culturali e di spazio pubblico e collettivo, di luoghi connettivi e di relazione.
Obiettivi conseguenti, volti a risolvere i problemi suddetti:
a.. ridurre la rendita (e i prezzi di affitto) per liberare spazio ai valori d’uso;
b. rendere più equa possibile la ripartizione della qualità urbana e territoriale in termini di attività, servizi, attrezzature, accessibilità con particolare attenzione ai mezzi pubblici, piste ciclabili e percorsi pedonali;
c. aumento delle aree a bosco, prato, parco, conservazione di tutti gli alberi e le aree verdi presenti nel comune, anche attraverso il riuso di aree dimesse (costruzione di nuove relazioni con la “natura non umana”);
d. sviluppo del trasporto pubblico in sostituzione, efficace ed efficiente, del trasporto privato. Deve quindi essere equamente ripartito sul territorio e non privilegiare pochi assi (come invece fa la tranvia di Firenze). La predisposizione di infrastrutture di trasporto pubblico deve avvenire adattandosi al contesto. E’ necessario garantire percorsi ciclabili e percorsi pedonali (protetti e piacevoli, non accanto ai flussi di auto).
Invariante strutturale: la permanenza di abitanti nel centro storico e in tutte le aree di pregio senza discriminazioni in base al reddito; la popolazione con redditi bassi, redditi intermittenti, senza reddito, con reddito da lavoro dipendente deve poter risiedere nelle aree di pregio della città: centro e colline. Questo è un obiettivo strategico.
Garantire la fruizione pubblica e collettiva dello spazio urbano. Non ridurre lo spazio urbano a luogo della vendita ma ricondurlo a luogo della cultura e dello scambio sociale.
Metodo:
- utilizzo delle conoscenze e delle proposte elaborate da tutti quei gruppi che (a differenza di Confindustria, Confcommercio, Associazione Nazionale Costruttori Edili e loro rappresentanti politici) non sono mossi da interessi di parte ed economici ma da una reale volontà di migliorare la situazione per la collettività. Antesignani del valore d’uso e non di quello di scambio, della razionalità sociale in luogo di quella economica (comitati dei cittadini, movimenti, non associazioni e agenzie che lucrano sui problemi sociali per ottenere il proprio reddito). Sostegno anche delle pratiche che mettono in atto.
- lasciare spazi aperti alle funzioni non predeterminate, spazio alla libertà, alle possibilità e all’autogestione, evitando solo usi impropri: la privatizzazione sia attraverso l’uso commerciale che attraverso l’esclusione di particolari soggetti (deboli? o non prepotenti?).
ridurre la rendita urbana: non abbassando la qualità ma aumentando gli usi e le funzioni sociali.
Più si realizzano edifici con destinazioni che producono rendita, più i prezzi aumentano. Più si nutre il mostro, più il mostro è forte. Basta vedere come si produce la rendita, per sapere come si riduce: non abbassando la qualità ma aumentando gli usi e le funzioni sociali.
La qualità produce rendita solo se il territorio cui si riferisce entra in una logica speculativa. Basti pensare alle aree a parco pubblico o a servizio pubblico dove non è consentita l’edificazione privata o attività finalizzate al profitto: sono “fuori mercato”.
I prezzi spropositati degli immobili e quindi la rendita fondiaria, si combatte realizzando e promuovendo:
1. usi sociali: valore d’uso e non di scambio, razionalità sociale e non di mercato;
2. qualità diffusa (sia in termine ambientali che di servizi ed infrastrutture) anche usando integrazione fra usi del suolo e trasporti;
3. proprietà collettiva e pubblica usata per fini sociali;
4. legge sugli affitti che calcoli i prezzi in base ai caratteri degli alloggi (ai costi di costruzione) e non in base alla localizzazione (affitto come spese di manutenzione o percentuale del reddito, forme di equo canone).
Liberare la trasformazione urbana dalla logica della rendita serve per rendere accessibile la casa ma anche per accrescere quanto è disponibile fuori dal mercato, infatti abitare la città non può significare solo la “funzione abitare” propria dell’alloggio privato, né i servizi possono ridursi a quello che rimane dello stato sociale e a quelli offerti dal mercato. Si tratta di accrescere la disponibilità di quanto esiste oltre e malgrado il mercato, di luoghi e servizi pubblici autogestiti: la città in comune, da costruire insieme.
Per questo la progettazione e la realizzazione collettiva e pubblica riveste un ruolo cruciale. Il piano urbanistico non deve e non può dire tutto, ma può contribuire a liberare spazio.
E’ necessaria una vera pianificazione e progettazione comune, una chiamata di tutti (non proprio tutti, non Confindustria, non ANCE, non le classi dirigenti, quelli hanno inciso e hanno anche troppa voce) per decidere insieme. Non è la partecipazione di facciata, che o avviene su fatti irrilevanti o è solo consultiva, perché poi decide chi è stato eletto, in base ad una visione un po’ riduttiva della democrazia.
Iniziative da prendere subito:
- uso temporaneo di strutture che si sa che saranno vuote per anni e loro assegnazione per usi abitativi o centri di attività socio-culturali autogestiti;
- utilizzo di cinema in dismissione, per scopi culturali (cinema, teatro, musica, feste, autoformazione, lezioni, formazione permanente) , in modo tale da conservare una funziona urbana che caratterizza la città (impedendo i cambi di destinazione).
1. Politiche e norme che hanno effetti diretti sugli usi del suolo e sulle funzioni:
- smettere di finanziare la casa in proprietà e le imprese costruttrici attraverso gli aiuti per pagare prezzi abnormi di vendita e di affitto di mercato e la concessione di volumetrie eccessive e funzioni utili solo per i promotori ma non per la città; bloccare ogni ipotesi di costruzione di case in affitto più o meno calmierato da parte di privati che in cambio ottengono lauti finanziamenti, affitti di poco inferiori a quelli di mercato e altre volumetrie per case in vendita sul mercato (lo scambio ineguale);.
- aumento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria a carico di tutti gli interventi di trasformazione urbana: i parametri sono decisi dalla Regione e possono essere modulati in relazione alla situazione delle diverse aree urbane. I Comuni devono evitare di non farli pagare o di permettere che le imprese gonfino i costi sostenuti per realizzare direttamente le opere;
- gli aumenti di valore immobiliare conseguenti a scelte dell’amministrazione devono essere totalmente prelevati per finanziare servizi e infrastrutture e la loro gestione collettiva: la rendita prodotta da tutti è di tutti e non dei proprietari fondiari (studiare specifiche tasse sui luoghi di lusso esistenti);
- predisporre una regolamentazione degli affitti e farla rispettare (affitto come spese di manutenzione o percentuale del reddito); regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore;
- sanzionare gli affitti al nero fino al sequestro e/o esproprio del bene; tassazione degli alloggi sfitti tale da renderli molto onerosi; le 15.000 case ufficialmente sfitte a Firenze, se effettivamente vuote vanno assegnate in affitto, se sono affittate illegalmente vanno requisite e affittate;
- modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo (quindi non dando priorità solo al numero di figli);
- esproprio di beni immobili in caso di inerzia dei proprietari nel recuperare condizioni di degrado edilizio o urbano (vedi L:457/78) e loro utilizzo pubblico (recupero e affitto).
2. gli usi del suolo consentiti devono garantire la diffusione su tutto il territorio, in modo equo, di qualità ambientale e di sevizi e delle attività culturali.
Funzioni da evitare:
- bloccare qualsiasi variazione di destinazione e nuova previsione che preveda alberghi, abitazioni di lusso o comunque in vendita, centri commerciali, cinema multiplex;
- impedire la variazione di destinazione d’uso dei cinema esistenti (frequente la sostituzione con edifici con abitazioni in vendita o supermercati);
- bloccare cambi di destinazioni di beni pubblici, finalizzati alla vendita sul mercato;
- impedire la realizzazione delle infrastrutture inquinanti e comunque evitare la concentrazione in luoghi già troppo oberati (segregazione funzionale);
- strutture condonate una volta terminato l’uso in essere devono essere abbattute (il degrado viene spesso utilizzato come motivazione per abbatterle e ricostruire la volumetria con altra destinazione).
Funzioni da promuovere: abitazioni accessibili, servizi e spazio pubblico:
- bloccare la vendita di alloggi e locali di proprietà del Comune e della Regione (e di enti pubblici) e loro assegnazione in affitto (canone sociale: prezzi che coprano la sola manutenzione, oppure come percentuale del reddito);
- realizzazione di case in affitto a canoni sociali e che rimangano di proprietà pubblica in quantità sufficiente a risolvere la domanda (sfruttando le aree di proprietà pubblica e destinando a questo uso le aree di privati);
- l’abitare è una attività non riducibile all’alloggio privato e necessita di luoghi intermedi fra pubblico e privato: quelli prevedibili e quelli imprevedibili (organizzazione collettiva degli spazi residenziali);
- negli interventi di recupero e, solo per fare un esempio, nel centro storico, garantire con opportune norme non negoziabili, la permanenza dei residenti a basso reddito (per le eventuali imprese private che propongono i progetti deve essere chiaro: o prendere o lasciare);
- predisposizione e cura dei percorsi pedonali e ciclabili (effettivamente accessibili);
- verifica dell’esistenza reale degli standard: il DM 1444/1968 prevede 18 mq., (ma quasi tutte le regioni prevedono un minimo fra i 25 e i 30 mq.) per abitante per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie. Una volta accertato il rispetto della norma, le quantità vanno maggiorate rispetto ai minimi in modo tale da rispondere anche alla domanda di altri servizi e spazi pubblici come condizione per assentire gli interventi;
- spazi per la creatività collettiva e la socialità collettiva: le nuove cattedrali laiche della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, totalmente pubbliche. Imparare, insegnare, comunicare, discutere, decidere, progettare, assistere a spettacoli e guardare mostre, incontrare gli altri, leggere in luoghi collettivi. Lasciare spazi aperti alle possibilità e all’autogestione;
- le scuole per tutti: le scuole possono essere pluri-funzionali, ed essere utilizzate anche per l’istruzione permanente, e le palestre, e le sale riunioni potrebbero essere utilizzate anche di sera (sta succedendo in questi giorni grazie alla lotta di studenti, genitori ed insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado);
- centri sociali e case delle donne come spazi pubblici gestiti dai fruitori;
- case per anziani con lavoratori contrattualizzati: abitazioni con spazi comuni e servizio sanitario, per fornire un’alternativa all’assistenza nelle case con badanti assunti privatamente: servizio condiviso per gli anziani e quindi accessibile anche a chi non può pagare un badante; per i lavoratori orari di lavoro definiti e con tutti i diritti fondamentali da statuto dei lavoratori. Luoghi di cura e di incontro per gli anziani nel mezzo degli insediamenti urbani per favorire l’incontro con gli altri di tutte le età: mai più soli.
Usi del suolo, alcune idee: area di Castello: parco; Fortezza: una volta svuotata dell’uso commerciale, luogo per cultura, arte, spettacoli, scambio culturale ed artistico; aree verdi urbane rimangono verdi e se sono degradate vanno recuperate; aree dimesse utilizzate per rispondere ai bisogni sociali (casa, servizi, spazio collettivo e pubblico). Fare tesoro delle proposte dei comitati dei cittadini.
Lo scenario a cui tendere è una economia al cui centro si trovino la cura delle persone, della natura “non umana”, i beni culturali, la formazione e la ricerca, i trasporti pubblici e la difesa del suolo. C’è bisogno di lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita.
Il lavoro riproduttivo, di cura delle persone, deve diventare centrale, ma deve essere retribuito in modo diretto o indiretto: reddito di esistenza per tutti, in modo tale da liberare tempo per il lavoro sociale e di cura, ma anche culturale ed artistico senza sottostare alle logiche elitarie e segreganti del mercato capitalistico.
Non solo produzione ma anche riproduzione, non tanto produzione di oggetti ma produzione di relazioni e di cultura, e perché no, di felicità.
3. Riscoprire forme di proprietà della terra pubbliche e collettive, bisogna promuovere forme pubbliche e collettive di proprietà della terra e di gestione della cosa pubblica (la città in comune)….
lo spazio alla creatività sociale
La città è il luogo dove ricostruire le relazioni sociali e le relazioni ambientali che sono state spezzate: che tipo di persone vogliamo essere?
La politica della fiducia (di poter costruire relazioni sociali più giuste) contrapposta alla politica della paura.
Alcuni elementi: i luoghi non hanno un’unica identità; i luoghi non sono fermi nel tempo ma sono dei processi spazio temporali; i luoghi non sono conclusi (chiusi) con un interno ed un esterno.
Praticare il diritto di produrre lo spazio promuovendo la creatività di tutti…
Bibliografia
Coordinamento Comitati Cittadini Area fiorentina, (2008), Attenti al piano strutturale!!!, Quaderno n.5, gennaio.
Harvey, D., (2003), “The right to the city”, International Journal of Urban and Regional Research, Volume 27 Issue 4, pages 930-941.
Indovina, F., (1992), La città occasionale, Milano, Franco Angeli.
Indovina, F., (1995), ”Economia urbana e residenza. Implicazione del negozio fondiario nell’ordinamento urbano”, in Cartas Urbanas, n.4 marzo.
Henri Lefebvre, (1968), Le droit à la ville.
Maggio, M., (2005), “Movimenti urbani e partecipazione”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.82.
Maggio, M., (2005), “Movimenti urbani a Firenze: una mappa sociale dello spazio conteso”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.83, pagg.131-140.
Maggio, M., (2006), “La questione abitativa a Firenze. Case in affitto: a che prezzo? Soggetti deboli e soggetti forti: per quanto ancora?”, http://eddyburg.it/article/articleview/6661/0/204/
Maggio, M., (2008), “Il programma “20.000 case in affitto” come modello? Un rischio da sventare e ben altre politiche urbane da promuovere”, http://eddyburg.it/article/articleview/8058/1/150.
Vedi anche: http://eddyburg.it/article/author/view/1466
[1]Vedi come esempio il caso narrato in Maggio, Marvi, (2006), “La questione abitativa a Firenze. Case in affitto: a che prezzo? Soggetti deboli e soggetti forti: per quanto ancora?”, http://eddyburg.it/article/articleview/6661/0/204/. Vedi anche http://eddyburg.it/article/articleview/8058/1/150.
[2] Questa tendenza era già stata messa in evidenza nel testo: Indovina, F., (1992), La città occasionale, Milano, Franco Angeli.
Si chiamano PRIN, sigla che sta ad indicare: Progetti di Ricerca di interesse nazionali, quell’insieme di progetti, in tutti i campi del sapere, che vengono finanziati (in verità co-finanziati) dal Ministero dell’Università e della Ricerca. I Prin sono organizzati da gruppi coordinati di ricerca che si formano ad hoc, a livello nazionale, per studiare un determinato fenomeno fisico o sociale. Il Miur (altra sigla che sta per: Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica) stabilì, diversi anni fa, che tali finanziamenti avrebbe favorito (o, meglio, costretto) il coordinamento scientifico tra gruppi di ricerca di una sede universitaria e altri gruppi di colleghi ricercatori di altre sedi universitarie italiane. Una volta formatosi, il “gruppone” di ricerca sottopone al Miur il suo progetto. Al Miur c’è una speciale Commissione (i cui membri sono coperti da segreto, tanto che vengono chiamati gli “incappucciati”) che esamina i progetti, assegna loro un punteggio molto articolato basato sul merito scientifico della proposta e del profilo, anch’esso scientifico, del coordinatore della ricerca e di tutti i suoi proponenti e, sulla base della disponibilità finanziaria di quell’anno, stabilisce se esso è meritevole, o no, di finanziamento.
In questo libro c’è il risultato appunto di un Prin che ha visto coinvolti ricercatori-urbanisti delle sedi di Milano, Venezia, Firenze, Roma. L’oggetto di studio era: I territori della città in trasformazione: innovazioni delle descrizioni e nelle politiche. A noi di Roma spettava di tentare di descrivere e rappresentare le trasformazioni che sono avvenute (e tutt’ora avvengono) sul territorio della capitale nello scorcio di questi ultimi trent’anni.
C’è subito da premettere che i titoli delle ricerche presentate al Miur (e spesso oltre ai titoli anche i contenuti) sono piuttosto ostici ai più, un po’ come le descrizioni delle malattie che fanno i medici: leggendole non si capisce mai se uno sta bene o è giunto al termine della sua vita; bisogna chiedere loro spiegazioni come se la scrittura fosse un loro modo segreto per riconoscersi (tra medici) ed evitare che altri, non addetti, capiscano. In questo caso il progetto di ricerca partiva dall’ipotesi che le città di questo XXIesimo secolo hanno subito una gigantesca mutazione (in perfetta sincronia con il cambiamento del mondo che esse in fondo ben rappresentano) rispetto a quelle del precedente XXesimo secolo.
Il gruppo di Roma - l’Autore Collettivo di questo lavoro - ha avuto un inizio piuttosto problematico. Come si fa a studiare le trasformazioni di una città come Roma e in particolare la metamorfosi gigantesca delle sue periferie? Qualcuno, tra noi, ha subito detto: partiamo dal centro della città e muoviamoci lungo una qualsiasi delle “consolari” che arrivano e partono da Roma e lungo questo percorso esaminiamo i diversi “strati” che la compongono. Insomma la proposta era quella di adottare un metodo stratigrafico simile a quello usato dai geologi con il carotaggio (quello di trasferire una metafora da una disciplina all’altra è un metodo spesso utilizzato nelle scienze sociali che attingono spesso, secondo questo procedimento, da quelle fisiche, considerate ben più organizzate). E’ stato però fatto subito notare che questo procedimento avrebbe prodotto risultati pochi efficaci. Negli ultimi trent’anni la città non si è soltanto “allungata”, a partire dal centro verso la periferia. Anche questo era successo, certo, ma i cambiamenti riguardano proprio la composizione di queste nuove periferie, la loro trasformazione in qualcosa d’altro rispetto al passato. E poi forse queste misteriose periferie si erano anche spostate; anzi, forse alcune di esse si erano, per così dire, trasferite nel centro, magari a ridosso di più nobili e antichi quartieri della capitale o, addirittura, sul greto del fiume e sotto i suoi ponti . Insomma lo zelante del gruppo avanzò non pochi dubbi su questo modo di procedere considerato che anche la tradizionale organizzazione gerarchica della città (dal centro verso la periferia) apparteneva a un passato anch’esso profondamente mutato. Non voglio farla troppo lunga; si sa che quando si inizia una ricerca si fanno ipotesi, si tenta una strada, si torna indietro, si disegnano “scalette”, spesso, anzi, dopo tanto parlare che credi di essere giunto ad una prima conclusione ti accorgi che si sta ripetendo la stessa scena di una riunione tenuta tanto tempo prima. Allora ti piglia lo sconforto e c’è sempre qualcuno, in quel momento, che dice una cosa che tu sai ma che non vorresti sentire: ragazzi questo ce lo siamo già detto qualche riunione fa e lo avevamo eliminato; qui non si schioda! Troppe chiacchiere. Quello ti viene allora voglia di ucciderlo perché quella stessa stupida esclamazione l’avresti potuta fare anche tu, ma te ne sei trattenuto per pudore. Ai più giovani venne, dopo varie riunioni, un’idea interessante: anziché muoversi lungo le radiali perché non navighiamo lungo il Tevere che la città l’attraversa tutta da nord a sud? Ora chi non conosce Roma deve sapere che lungo questo fiume si può osservare di tutto: i fasti delle notti bianche (d’estate) della grande amministrazione Rutelli-Veltroni, gli accampamenti nomadi dei Rom, passando per insediamenti abusivi, capanne provvisorie di senza casa e così via. D’altra parte, non si dice forse a chi se la passa maluccio: ma che abiti sotto i ponti?
Insomma se mi dilungo sul metodo col quale si è proceduto in questa ricerca (e come penso, col quale si procede in tutte le ricerche) è per far capire ai lettori che c’è un momento iniziale della ricerca nel quale si fanno scelte tutt’altro che neutrali. Scelte delle quali poco si parla nello svolgimento successivo della ricerca e che, invece, costituiscono l’ideologia (brutta parola lo so, ma vorrei usarla nel senso di “visione del mondo” che in quel momento si afferma come condivisa da tutti) che è alla base del lavoro successivo. Non si tratta – ci tengo a precisarlo – esclusivamente della scelta dell’area fisica o del contesto territoriale, ma quella di trovare il “modo” più appropriato per esprimere una intuizione già presente nelle nostre teste di ricercatori.
Forse ho saltato qualche passaggio: ho infatti il sospetto che qualche lettore stia per storcere un po’ il naso. Lo scettico o il prevenuto lettore inizia a sospettare che allora c’è una sorta di “pre-giudizio” nel lavoro di ricerca che inficia la ricerca stessa; insomma quasi quasi che noi si sia scelto un dato “percorso” di lavoro solo perché più confacente a dimostrare ciò-che-già-sapevamo sin dall’inizio. A questo punto credo di aver aperto una controversia infinita e tutt’altro che facile da dirimere. Proviamo a spiegare: il problema è questo: la realtà è magmatica e di per sé inconoscibile, indicibile se non si possiede una bussola con la quale orientarci. Cosa sia questa bussola è difficile a dirsi: forse esperienza, oppure intuizione (l’intuizione gioca spesso un ruolo determinante nella ricerca, così come i sogni, ovvero l’inconscio… ma a dire queste cose si rischia di essere guardati con sospetto), oppure ci guida una visione del mondo (ideologia, appunto), o una sensazione o, forse e meglio, l’insieme di tutte queste cose. Sospetto che la mia risposta non è sufficiente a rassicurare i lettori scettici (quelli accorti invece non si scandalizzano mai di niente e sono sempre disponibili ad ogni complicità con gli autori) sul fatto che avere un’idea su come sono le cose è non solo non pregiudizievole per il lavoro, ma anzi necessaria per cominciare a ricercare. Tuttavia, bisogna pur ammettere, a beneficio dei lettori, che la loro ostinata diffidenza non è priva di fondamento. Infatti tra i ricercatori è diffusa una storiella che si potrebbe raccontare in tante versioni diverse ma che sta a indicare un modo di procedere diciamo così “tautologico” o più esplicitamente imbroglioncello. La storiella è questa: un signore, di notte, sta cercando in terra qualcosa sotto la luce del lampione. Un secondo signore che in quel momento si trova lì di passaggio si ferma incuriosito a guardare e poi chiede: scusi, sta cercando qualcosa? Il primo signore, senza neppure alzare lo sguardo da terra, risponde: si, le mie chiavi di casa. E, mi perdoni se mi intrometto, dove le ha perse? Allora il primo signore alza finalmente lo sguardo da terra e indica con la mano un punto più lontano: laggiù, dice. Il secondo signore rimane un po’ perplesso da questa risposta ma poi si fa coraggio e fa notare a quello che c’è una palese contraddizione tra ciò che lui afferma (il dove ha perso le chiavi) e ciò che sta facendo (il dove le sta cercando). Mi scusi, sa, forse non ho capito bene, ma perché cerca le chiavi sotto il lampione dal momento che le ha perse in un posto che non è quello? Beh!, Semplice, risponde sconsolato il primo, qui c’è la luce.
Non so se a questo punto state sorridendo o se già conoscevate la storiella del ricercatore tautologico, ma se ho speso qualche parola nel tentativo di rassicurarvi circa l’onesta intellettuale di questa ricerca è perché sono ben cosciente del fatto che molte delle ricerche che si fanno, ancora oggi, tendono a confermare ciò che già si conosceva. Anzi, peggio, ciò che il mondo della comunicazione, il conformismo culturale e scientifico che dilaga nelle università, per non parlare del linguaggio unico dei politici e degli esperti, ci mostra ogni giorno convincendoci che così è il mondo (spesso a questo si aggiunge, in senso peggiorativo, che il nostro è pur sempre il migliore dei mondi possibili). Il che naturalmente serve efficacemente a rassicurare il popolo beone che non c’è alcun motivo di preoccuparsi.
Perché oggi le persone chiedono più sicurezza? Colpa dei diversi: dei Rom, dei barboni, degli immigrati, degli homeless, naturalmente. Una volta stabilito che le persone chiedono maggiore sicurezza (ma chi lo ha mai stabilito?) segue la ricerca del capro espiatorio e una volta stabilito questo seguono le ovvie e necessarie misure di sicurezza. Beh! Se ci pensate bene per un attimo, siamo proprio in quella situazione del signore che cerca le chiavi sotto il lampione. Non ha importanza stabilire veramente se le persone chiedono o no maggiore sicurezza e nemmeno di cosa hanno realmente paura (magari di perdere il posto, oppure di non arrivare alla fine del mese, eccetera). Abbiamo sottomano i Rom (per esempio) che neppure possono protestare se li additiamo come i colpevoli e gli attentatori della sicurezza pubblica perché qualche mascalzonata loro ogni tanto la fanno e dunque tanto vale accollargli tutti i mali del mondo.
Ma torniamo a noi, come si dice. L’urbanistica è una disciplina nata nell’Ottocento insieme ad altre discipline “conseguenze” del mondo moderno che utilizza il metodo di scomporre la realtà per analizzarla e conoscerla. Tant’è che un famoso urbanista diceva che Il metodo di questa disciplina è racchiuso in questa successione (moderna) lineare di operazioni: conoscere, comprendere, giudicare, intervenire, conferendo all’urbanistica, per la prima volta, dignità scientifica. L’origine di questa disciplina è associata alla nascita e al successivo sviluppo della città moderna, o meglio alle conseguenze negative (igieniche, sanitarie, sociali, culturali) prodotte dalle prime città industriali. Se qualcuno avesse mai letto il libricino di Friedrich Engels (lo sponsor di Marx, per intenderci): la questione delle abitazioni (1872), certamente capirà meglio di cosa sto parlando. In quelle città, assai simili ai gironi danteschi dell’inferno, scoppiavano sistematicamente epidemie di colera, infezioni di tifo e quant’altro che facevano rimpiangere la primitiva vita nelle campagne. E infatti alcuni famosi personaggi, chiamati utopisti (Fourier, Saint-Simon, Owen, ecc.) vedevano nelle prime città moderne (leggi anche: industriali) la concentrazione di tutti i mali possibili: commercio blasfemo, corruzione, miseria, violenza, avidità, ingordigia, mercificazione, prostituzione di anime e di corpi. Essi presero allora a progettare idilliache comunità in complessi di geometrica armonia dove ciascuno poteva condurre una vita serena e rispettosa. Furono sbeffeggiati e bollati come anacronistici dal grande Carlo Marx che sosteneva che la solitaria vita nelle campagne era all’origine dell’idiotismo dei villici e che solo nelle città si sarebbe potuta formare la coscienza di classe che avrebbe portato all’emancipazione delle masse idiote (come poi è successo, o avete dei dubbi in proposito?).
Così, in quelle città - le antenate delle attuali nostre città - si cominciarono a prendere provvedimenti per evitare il caos e la barbarie: rispetto delle distanze tra edifici, strade alberate, portici, piazze, giardini, servizi igienici, impianti fognari, ospedali, scuole. Se qualcuno di voi lettori è transitato per Lione forse potrà essergli capitato di vedere un armonioso quartiere di periferia i cui edifici hanno un lato completamente ornamentato dai disegni di un certo Tony Garnier che, proprio lui, ha per primo teorizzato le possibili bellezze e armonie della città moderna. Ecco, Tony Garnier può essere indicato come l’antisigano dei moderni urbanisti che avrebbero dovuto cospargere il mondo di città ideali senza conflitti.
Questa disciplina ebbe il suo grande momento di gloria, e di sviluppo, con i lavori della Parigi moderna realizzati dal barone e prefetto della Senna, Haussmann.
La Parigi di Haussmann ha valore di limite (cito la Choay che, mi spiace ricordarlo agli urbanisti, è una filosofa (che su Haussmann la sa lunga): punto di arrivo di una tradizione e punto di partenza di un’altra, come a dire dalla Parigi (pre-industriale) di Balzac alla metropoli (moderna) di Zola. Anche qui abbiamo a che fare con una gigantesca mutazione dell’urbano riassumibile forfettariamente nella rottura del quadro delle relazioni sociali di prossimità caratteristici della città pre-industriale: rottura dell’isolamento dei vecchi quartieri ancora medievali, rete gerarchizzata di strade, stazioni ferroviarie, nuove porte urbane che collegano la vecchia città (chiusa) al territorio. La vecchia città trasformata da Haussmann ora risponde perfettamente sia alle esigenze della rivoluzione industriale sia a quelle abitative-simboliche della nuova classe al potere: la borghesia urbana. Anche allora non mancavano i nostalgici del .. ai miei tempi.. incapaci di comprendere il senso della storia, tanto che Haussmann dovette difendersi da attacchi feroci. Resta comunque interessante il modo con cui questo singolare personaggio riuscì a far coincidere aspetti estetici (passatemi l’espressione un po’ rozza) e dispositivi di difesa dalle sommosse popolari. La sua fu un’opera di vera regolarizzazione e normalizzazione e in tal senso, in precedenti scritti, ho definito Haussmann come il primo e ultimo vero urbanista (sarebbe troppo lungo spiegare qui un’affermazione che, mi rendo conto, andrebbe ben argomentata).
Parecchi anni dopo di lui il padre di tutti gli urbanisti, Le Corbusier, completerà l’opera: la città moderna diventata nel frattempo la città delle macchine, diventa essa stessa una macchina (per vivere) e così si esaurisce l’opera di tabula rasa del passato: la mutazione ora è completata.
Ma torniamo al nostro discorso. Ero partito dal fatto che le decisioni iniziali con le quali affrontare la ricerca sono tutt’altro che neutre e condizionano molto i risultati successivi. Forse possiamo affermare più esplicitamente questo concetto dicendo che, almeno a parer nostro, per fare ricerca bisogna essere di parte. Immagino che qualcuno comincerà a grattarsi il capo manifestando in questo modo un certo imbarazzo cui, in genere, consegue una manifesta espressione di disapprovazione. Ma come, dirà costui, la ricerca non dovrebbe essere disinteressata e scevra di ideologie? Beh! Non è proprio così, ma la dimostrazione di questo: non è proprio così, richiede ulteriore argomentazione.
A questo punto prendo a prestito da Giorgio Manganelli, scrittore molto abile e raffinato nel demolire e dissacrare quei luoghi comuni che costituiscono il “buon senso” della gente. Il solito zelante obietterà che le cose bisogna dirle con le proprie parole e che le citazioni sono generalmente un modo tirannico di affermare la propria opinione. Per esempio, se mentre sto parlando con qualcuno e ho difficoltà ad imporre il mio punto di vista, cito, in mio soccorso, Derrida o chessò io Foucault, evidentemente lo faccio per mettere in uno stato di evidente soggezione intellettuale il mio incauto avversario, il quale si troverà di fronte non più semplicemente il mio pensiero ma un avversario multiplo sostanzialmente imbattibile. Questo è vero, d’accordo, ma ci sono alcuni momenti in cui ci si può anche esprimere col pensiero di altri, se questo aiuta a sostenere la nostra conversazione polemica. Un po’ come faceva Troisi leggendo le sue poesie a Neruda. Il poeta ad un certo punto esclama: ma queste sono le mie poesie! E Troisi replica: le poesie sono di chi le legge e le fa sue. Ben detto! Anche questo significa fare ricerca ovvero poter aiutare o confortare il proprio pensiero ricorrendo a quello dei grandi pensatori. Ma ora ritorniamo all’essere di parte e a Manganelli.
Non credo, dice lo scrittore, che esistano città che si possono definire belle. Faccio una breve pausa: probabilmente questa affermazione farà letteralmente sobbalzare dalla sedia (ammesso che chi la legga sia in posizione seduta) molti, o quasi tutti, gli urbanisti che magari hanno speso la loro vita a descrivere città belle o la bellezza delle città. Ed ecco la replica di Manganelli: […] una città è un reticolo di luoghi, percorsi, soste, angoli, include edifici ed assenze di edifici (attenzione urbanisti a non farvi prendere dal panico epistemologico e riempire così tutti i vuoti); include tutte le possibili città che sorgono davanti ai nostri occhi (qui Manganelli ci ricorda il Calvino delle città invisibili). E ancora…[…] la città si propone come luogo simbolico, magico, come pagina da interpretare, come tessuto di significati, di allusioni, di fantasie; una città è un luogo occulto, nel quale un muro logorato dalla muffa, un edifico decrepito, una sterminata piazza non pavimentata, ecc. ecc., […] propongono una storia segreta, una favola in cui l’errore e lo splendore ostinatamente coabitano. E a questo punto l’anti-urbanista Manganelli sferra il suo attacco finale: l’estetica è un’astuzia laica per non venire a contatto con la materia mitica e violenta, il luogo dionisiaco, che abita un oggetto. Facciamo un esempio: Firenze, dice Manganelli, è una città totalmente identificabile con la propria vocazione estetica, un luogo che si consuma nella propria bellezza. E allora, aggiungo io, il nostro ricercatore tautologico, dovendo studiare Firenze non potrà che farlo con un atteggiamento dettato da un maniacale concentrato di storia dell’arte. La conclusione della sua ricerca confermerà che Firenze è una bella città. Anzi egli sarà incoraggiato, nella progettazione, poniamo di un nuovo quartiere, a fare riferimento a quel capolavoro di bellezza che nessuno oserebbe mai contestare. Un po’, sapete, come la torta della nonna: avete mai sentito parlare di una torta della nonna che non sia buona? Impossibile! la torta è (per definizione, direi) buona quando è della nonna, ovvero la torta della nonna è sempre indiscutibilmente buona anche quando la nonna non c’è più, essa resta la torta della nonna.
Ora noi ricercatori del sottogruppo Miur pensiamo invece che la città è soprattutto un luogo di conflitti, quegli stessi conflitti che attraversano il mondo contemporaneo: povertà e ricchezza, miseria, violenza, isolamento, fondamentalismo, eccetera. Ed ecco, dice Manganelli, che la città (Roma, in particolare) reclamizzata come luogo perfettamente dilettoso, dimora della assoluta bellezza, diventa il luogo in cui i conflitti perdurano immobili, irrisolti e irrisolvibili, in cui diverse ipotesi del mondo (quelle che abbiamo chiamato ideologie) si lacerano e si compongono. Una città, allora, è sempre tragica, è sempre significante.
Borges descrisse l’impossibilità di rappresentare il mondo così come esso è. Occorrerebbe una carta (o mappa) 1:1 che rappresentasse ogni particolare del mondo così come esso è nella realtà: una mappa uguale al mondo. Ma la mappa, come abbiamo imparato a conoscere, non è il territorio, ma solo la nostra rappresentazione di esso. E’ così, è stato sempre così. Ebbene noi – questo piccolo e modesto gruppo di ricerca – non è interessato a descrivere la città così come essa è: non vogliamo l’immagine esatta (cosa che abbiamo dimostrato essere del tutto impossibile), ma l’immagine partecipe dell’errore.
Capite adesso cosa intendevamo con l’essere di parte?
Ora il problema è questo errore, questo qualcosa di difforme dalla rappresentazione che ci viene dalla cultura dominante; qualcosa cui abbiamo dato il nome scarto. Di che si tratta? Noi vogliamo descrivere la metamorfosi della città in un universo di macchine e di beni di mercato, quell’universo dove le cose sono ridotte alla loro funzione di utilità e dove vivono persone, corpi senza parola, senza rappresenta e senza rappresentazione, esseri invisibili, isolati che quotidianamente incrociamo, sfioriamo ma che scansiamo, non vediamo, non ri-conosciamo. Si tratta, appunto, di scarti. Ma così come le grandi narrazioni hanno prodotto, nell’Ottocento, personaggi e immagini urbane non riconosciute in precedenza, noi pensiamo che alla città contemporanea manchi un nuovo racconto che non potrà mai esaurirsi nella arida ragioneria dello sguardo dell’urbanista. Queste nuove città, le città contemporanee, vengono rappresentate e raccontate per frammenti, per parzialità, occultando quasi sempre l’asprezza dei conflitti, la lotta per la sopravvivenza, la vita quotidiana fatta di privazioni, sofferenze, amori, passioni.
Il calcolo del valore medio è una procedura statistica che, qualche volta, ci aiuta a capire come vanno le cose.. mediamente. Ma se un ingegnere sociale particolarmente zelante e scrupoloso volesse procedere a una descrizione di una città basandosi sui valori medi che so io, dell’altezza delle persone, del numero dei piani degli edifici, del numero di abitanti per quartiere e così via, noi avremmo la descrizione esatta di una città che non esiste. Per riconciliarci con la nostra città reale dovremmo allora procedere analizzando gli scarti dal valore medio, ovvero quanto le cose reali si discostano da quella misura precisa ma completamente astratta.
E procedendo attraverso l’esame degli scarti ecco che apparirebbero figure silenti, luoghi indicibili, vite invisibili che escono dal campo disegnato dalle luci della scena, dal proprio cono d’ombra. Per fare questo bisogna abbandonare lo sguardo scaltro dell’urbanista e assumere uno sguardo strabico, sbieco, prismatico, sempre pronto a cogliere le differenze, gli scarti, appunto.
Al Barone Haussmann questo sguardo non serviva. Lui aveva il compito (tutt’altro che semplice, per carità!) di realizzare la città a misura della classe borghese ora (allora) al potere. Doveva rappresentare quegli interessi, dare loro dignità estetica e simbolica. E in questo fu particolarmente lungimirante tanto che la Parigi dei nostri giorni è ancora esteticamente modellata su quelle esigenze.
Non è così per il nostro urbanista presunto riformatore. Oggi c’è da chiedersi invece quali interessi vogliamo rappresentare e quali persone vogliamo far entrare nella scena di questa città. Vedete (in realtà non c’è nulla da vedere, si tratta solo di un modo affettuoso di rivolgermi ai lettori), in un’epoca come la nostra le città sono profondamente diverse da quelle del secolo scorso e la parola – alquanto nobile in origine – di riformismo non significa quasi o più niente. In realtà questa affermazione richiederebbe un lungo discorso per essere spiegata (o dimostrata, ammesso che ce ne sia ancora bisogno). Più sommariamente possiamo dire che in quest’epoca di capitalismo selvaggio (finanziarizzazione, globalizzazione, ecc.) non c’è più alcun spazio per i signori riformisti, così come quest’epoca vede per la prima volta scomparire il futuro dall’orizzonte degli uomini e delle donne. C’è solo un eterno presente che cambia continuamente ma che poi, lascia tutto, sempre inalterato. Le persone, come nelle prime città industriali, riescono a malapena a pensare a come arrivare alla sera o a come arrivare alla “terza settimana”; insomma a come sopravvivere. L’urbanistica, ovunque, è diventata la tecnica attraverso la quale combinare affari, liquidare i beni comuni, far diventare il territorio una risorsa economica per pochi, sottrarre ai più beni e risorse collettive. Insomma essa ha seguito fedelmente la sorte dell’utopia riformista che oggi è scaduta a pratica del fai-da-te-che-nessuno-ti-aiuta.
Ecco che, un po’ alla volta, vi sto svelando il cammino che, come gruppo di ricerca, abbiamo fatto. Primo: le città del XXI secolo sono cosa completamente diversa da quelle del XX secolo, chiamate moderne. Un po’ come, scusate l’approssimazione, il capitalismo del secolo scorso non somiglia quasi più in nulla a quello attuale. Secondo: i concetti di centro e periferia come li abbiamo conosciuti non esistono più. Terzo, a noi interessano le persone in carne ed ossa e i luoghi dove esse abitano, configgono, amano, odiano, vivono. Persone e luoghi formano un intreccio indistricabile così che non esistono luoghi senza persone né persone senza che esse abbiamo un luogo (che può essere semplicemente quello in cui abitano, o lavorano o dove sono nati, eccetera). E, infine (se siete arrivati fino a questo punto forse non vi sbalordirete più di tanto) ci interessa fare anche politica intesa come (prendo di nuovo a prestito da un recente libro di Einaudi) a un luogo che ci riguarda. Si perché noi urbanisti (romani) non possiamo esimerci dal porci questa domanda: com’è che le periferie romane, un tempo “zoccolo duro” del Partito Comunista hanno così severamente punito, col voto elettorale, l’amministrazione Veltroni-Rutelli?
La domanda non è poi così retorica come sembra se la “città bella”, moderna, all’avanguardia per le sue feste ed eventi, così reclamizzata da urbanisti di grido è stata invece letteralmente bocciata dai suoi abitanti e proprio da quelli che, in passato, sostenevano le amministrazioni rosse. C’è da chiederselo.
Ecco, abbiate un po’ di pazienza, stiamo arrivando alla fine, ovvero all’inizio di quella scelta di cui vi ho raccontato. Come rappresentare questa città?
Non molto tempo fa Niki Vendola scrisse un articolo sul quotidiano Liberazione il cui titolo (dell’articolo) poteva essere inventato solo da chi è poeta: Noi inseguiamo il cambiamento, ma il cambiamento non ci riconosce. Fantastico!! A quel noi si potrebbero associare un’intera pattuglia di urbanisti che si affannano, si ostinano a predicare che occorrono alberetti, panchine, piazzette, arredi e quant’altro per migliorare la vivibilità delle nostre città. A quel noi si potrebbero associare molti e illustri amministratori che hanno pensato di trasformare Roma in una città vetrina col risultato solo di riempire (indirettamente) il portafoglio dei palazzinari e immobiliaristi, faccendieri e maghi della finanza. A quel noi si potrebbero associare molto politici nostrani che, magari anche in buona fede, si sono fatti ammaliare dalle sirene del nuovismo che ha prodotto più danni del conservatorismo. A quel noi si potrebbe associare l’intero manipolo di fanatici di quella pratica democratica che viene chiamata della “partecipazione” e che, almeno a Roma, ha prodotto un corto circuito tra amministrazione e gruppi col risultato di occupazione dell’intera polis. Tutti alla ricerca del cambiamento hanno deragliato su un binario morto: il treno andava da un’altra parte come l’attesa dell’alba sul Tirreno nel film di Nanni Moretti, dove l’alba non sarebbe mai sorta. Tutti sono rimasti a guardare la luna mentre il popolo delle periferie si prendeva la sua rivincita sui comunicatori, imbonitori, maghi, ciarlatani e modernisti. Qualcuno forse ricorderà ancora un vecchio film di Vittorio Gassman.. l’armata Brancaleone diventata sinonimo di un’armata che vaga “a casaccio”. Ad un certo punto il capitano di un drappello di soldati incontra l’armata di Brancaleone e, seduto sul proprio cavallo, chiede a lui: da che parte andate? Non lo sappiamo, risponde Brancaleone, ma sicuramente… da un’altra parte.
Anche noi, in questa ricerca, siamo andati da un’altra parte. A nostra difesa o consolazione, possiamo dire che almeno ci abbiamo provato a non ripercorrere la vicenda del ricercatore tautologico.
Il pane di ieri, dice Enzo Bianchi citando un vecchio proverbio, è buono per domani (forse questa citazione l’avrei dovuta mettere nella prima pagina, dopo il titolo, magari insieme a quest’altra: “il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo nei quali pascolano le greggi sono ricorrenti nella letteratura della decadenza dall’antichità fino ai nostri giorni”. Scusate, questa seconda citazione non è mia ma di Wolfang Schivelbusch che io personalmente non ho mai letto. Ma ad Alessandro Baricco sembrava molto bella!).
Enzo Scandurra
Allo Spazio M.I.L. di via Granelli a Sesto S. Giovanni(Mi) è in corso fino al 4 novembre la mostra dei progetti presentati al Concorso indetto dalla Banca di Credito cooperativo di Sesto S. Giovanni. Il Concorso consente a studenti e neolaureati del Politecnico di Milano di misurarsi pubblicamente con un grande nome dell'architettura contemporanea (Renzo Piano), indicando alternative credibili. Consente soprattutto ai cittadini di valutare alternative possibili al progetto “ufficiale”.
Gran parte dei progetti è stata elaborata nel Laboratorio di Progetto urbano e di paesaggio della facoltà di Architettura civile di Milano-Bovisa, tenuto da Giancarlo Consonni, di cui pubblichiamo un testo di valutazione dell’area e del progetto di Piano.In calce il testo scaricabile in .pdf, con le note a piè di pagina.
Il contesto
Sesto San Giovanni nella seconda metà dell’ottocento è un insieme policentrico di villaggi rurali, piccoli agglomerati di corti coloniche e di ville, interessati, come tutto l’altopiano milanese, dall’insediamento di filande. Ai primi del novecento la svolta: le rilevanti opportunità localizzative (la vicinanza a Milano; la ferrovia; la baricentricità fra due mercati del lavoro, urbano e rurale; la ricca disponibilità di acqua di falda) si traducono in una concentrazione repentina di grandi e medie industrie, fra le più alte d’Europa. Vi concorrono tre processi: il decentramento da Milano, il trasferimento della Falck dal Lecchese e il costituirsi di nuove industrie metalmeccaniche, elettromeccaniche e di altri comparti produttivi che scelgono di insediarsi nel contesto sestese. In brevissimo tempo Sesto passa dalla condizione rurale a quella di area forte della metropoli.
Ma la conquista di una qualità urbana degli insediamenti si presenta subito problematica. Per due ragioni: l’indifferenza al problema degli operatori privati e il corto respiro della cultura degli amministratori e dei tecnici. Solo una solida struttura dell’associazionismo di base, di varia matrice ideologica, ha fatto da contraltare a un forte potere aziendale senza tuttavia incidere in modo sostanziale sulle scelte urbanistiche. Il piano d'ampliamento del 1924 è senza idee: nessuna focalità e trama relazionale: un mero piano di lottizzazione al servizio della speculazione edilizia da cui nasce un tessuto imitativo della peggiore periferia milanese coeva. Si va avanti così fino al piano regolatore dell’ingegner Franco Cambi del 1958 che, se ha il merito di prevedere la formazione di un nuovo centro civico, contempla un’edificazione estesa all’intero territorio comunale.
Bisogna aspettare il 1962, con il lavoro progettuale di Piero Bottoni che si protrarrà continuativamente fino al 1973 (anno della sua morte), perché il problema di fare di Sesto una città venga posto al centro della politica comunale [2]. Due i punti alti del lascito bottoniano: 1) la fondazione di un cuore urbano imperniato sul broletto del nuovo Palazzo comunale, architettura notevole e dalla forte valenza simbolica; 2) l’anello verde con cui vengono recuperati in continuità con il centro civico i giardini di alcune ville storiche. Più contraddittorio è il risultato ottenuto da Bottoni nella costruzione di un quartiere popolare nella zona di cascina Gatti (l’esteso Piano 167 realizzato dopo la sua morte): a fronte di una buona organizzazione degli spazi collettivi e del verde, il punto critico è il mancato raggiungimento dell’obiettivo più ambizioso: la costituzione della strada vitale, elemento urbanistico messo a punto dall'architetto milanese proprio per fare da tramite fra centro e periferia. In quel contesto la proposta finisce per non attecchire per due ragioni: il forte carico di traffico di transito che è andato a gravare sulle arterie stradali e la scarsa presenza di attività che avrebbero dovuto sorreggerne la vitalità, a cominciare da quelle del piccolo commercio.
A partire dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso lo scenario cambia drasticamente. Con la stessa rapidità con cui erano sorte, le industrie sestesi chiudono una dopo l’altra. Un quadro drammatico ma che, grazie alla posizione di Sesto, è in parte controbilanciata dalla trasformazione terziaria. La compensazione si ferma però al terreno economico: debole, se non inesistente, è invece la risposta in termini di qualità urbana. L’ultima preoccupazione di chi si è trovato a governare questo passaggio traumatico è stata quella di raccogliere il testimone lasciato da Bottoni sul terreno di fare città.
Le aree fino a oggi interessate dal rinnovamento sono però solo una parte minima della vastissima porzione del territorio sestese investita dalla dismissione industriale. Grosso modo un quarto del territorio comunale è ancora disponibile per una trasformazione urbanistica che, per quantità e importanza strategica, ha pochi confronti in Europa e nel mondo. Estensione, giacitura e compattezza fanno delle aree un tempo occupate dalla Falck il punto di forza dell’intera operazione. Anche il destino di diversi altri lotti che giacciono inutilizzati dipende da quanto verrà deciso per quelle aree.
Il progetto di Renzo Piano per le aree ex Falck
C'è una differenza fra l'essere grandi architetti e l’essere realizzatori di città. Renzo Piano lo conferma in modo paradigmatico. Il progetto da lui messo a punto per Sesto San Giovanni per conto della proprietà delle aree (Risanamento Spa del Gruppo Zunino) non sembra cogliere appieno le opportunità del contesto. La rigida divisione funzionale e spaziale tra residenza e terziario e il complessivo impianto proposto non sono in grado di promuovere e sostenere relazioni urbane: quelle che affidano alla socialità il compito primario nel qualificare i luoghi in termini di urbanità e sicurezza.
Le matrici. Il progetto ha alla base l’impostazione del peggior Le Corbusier urbanista: quello che va dalla Città contemporanea per tre milioni d’abitanti alla Ville Radieuse (mentre di tutt'altra qualità sono i suoi progetti urbanistici successivi alla guerra). Piano privilegia infatti il binomio natura/tecnica e pensa che in questa combinazione stia la sintesi di una modernità possibile e auspicabile in fatto di insediamenti umani. Si tratta in realtà di un’impostazione antiurbana. È pur vero che l'architetto genovese corregge il tiro ricorrendo all’immagine della Rambla (condita in sala newyorkese). Ma il riferimento non trova riscontro in quanto messo a punto da lui e dai suoi collaboratori. La Rambla di Barcellona è un organismo vitale per almeno due ragioni: è una passeggiata che collega due fulcri urbani di importanza primaria (Plaza Catalunya e Plaza Colón) ed è fiancheggiata da due quartieri storici pieni di vita (condizione che qui Piano si guarda bene dal tentare di riprodurre). Quanto a New York non si capisce perché dovrebbe fare da modello. Su questo ormai si può tirare le somme. Tutte le megalopoli, nello scimmiottare Manhattan, hanno prodotto e vanno producendo mostruosità decontestualizzate e disorientanti. Non è dello smisurato che abbiamo bisogno; tanto meno in Italia e in Europa, dove ha dato frutti straordinari l’opposto: il senso di proporzione, risultato, insieme, della ricerca di una misura fra terra e cielo e dell’intento di offrire ‘teatri’ commisurati al vivere associato. Al contrario, come ha scritto Claude Lévi-Strauss,
“La bellezza di New York non dipende dalla sua natura di città, ma dalla sua trasposizione inevitabile per il nostro occhio se rinunziamo a irrigidirci, dal livello di città a quello di paesaggio artificiale, dove i principi dell’urbanesimo non hanno più ragione di esistere: unici valori significativi, il vellutato della luce, la evanescenza delle lontananze, i precipizi sublimi ai piedi dei grattacieli e le vallate ombrose cosparse di automobili multicolori come fiori”.
Evidentemente Piano fa affidamento sul fatto che una densità molto elevata possa di per sé generare vitalità. In realtà per costituire strade dotate di qualità architettonica e urbana nel disastrato comparto orientale di Sesto San Giovanni occorrerebbe creare insieme perni e tramiti forti, nel senso di strutturati da relazioni intense e complesse. Per essere più espliciti, il recupero delle aree ex Falck avrebbe bisogno di almeno quattro fulcri:
- in prossimità del Villaggio Falck, così da romperne finalmente la segregazione originaria voluta dal paternalismo padronale;
- immediatamente a est della prevista stazione-ponte FS, così da dare forza alla connessione fra le due parti della città separate dalla ferrovia;
- alla convergenza del sistema cardo-decumanico, là dove viale Italia dovrebbe incrociare almeno un paio di trasversali est-ovest, canali relazionali e non di traffico motorizzato: un cuore articolato capace di inglobare le straordinarie testimonianze di archeologia industriale del T3 (ex altoforno) e dell’ Omec (ex officina meccanica), facendone i cardini monumentali della nuova città;
- infine nei pressi del T5 (altro edificio storico, un tempo ospitante il laminatoio): il fulcro più difficile da mettere a punto, ma assolutamente necessario per fare da ponte con il comparto insediativo situato a est di viale Edison.
Nel progetto di Piano il tema dell'intelaiatura della socialità è invece pressoché trascurato. L’unico tramite est-ovest da lui proposto (il ‘decumano’ rispetto al ‘cardo’ di viale Italia) è tutt’altro che una strada vitale: è un canale monofunzionale, tutto fiancheggiato da sordi blocchi di uffici. Quanto al ‘cardo’, esso si distende per due chilometri con una successione parattatica di 34 coloratissime ‘torri’ (19 edifici alti 104 metri, 15 alti 74 metri.). Ma cosa collega? Un inizio e una fine totalmente privi di forza, mentre nel suo interminabile sviluppo, il boulevard non incontra punti intermedi che possano dirsi notevoli per l'architettura dei luoghi e per l'elevata densità relazionale.
Visto l’impianto cardo-decumanico, il minimo che ci si poteva attendere è che venisse dato vita a un 'foro' all’incrocio dei due assi. Rimane la smisurata ‘Rambla’ di due chilometri che non sarà mai una passeggiata. Tanto che lo stesso progettista ha sentito la necessità di ricorrere a una protesi - dei tapis roulant - per portare il più rapidamente possibile gli affannati abitanti dall'alloggio alla prima stazione di metropolitana e viceversa.
La carta neotecnica. L'impiego dei tapis roulant è rivelatore di una debolezza progettuale complessiva. Per non parlare delle difficoltà di gestione (dall’assegnazione delle spese di funzionamento e di manutenzione di simili congegni al loro effettivo mantenimento nel tempo). Questa e altre soluzioni presentate come «neotecniche» (come gli “Elfi”, piccoli veicoli a idrogeno per il trasporto pubblico, del tutto diseconomici) sono più di facciata che sostanziali: funzionali a strategie di marketing invece che atti a offrire risposte strutturali praticabili per la nuova realtà insediativa. Le reti di trasporto e le reti ecologiche vanno sicuramente concepite in chiave neotecnica. Ma vanno definite in modo integrato con il reticolo della socialità: è dalla sintesi fra queste due maglie che può nascere la città del XXI secolo.
Il verde. L’offerta in abbondanza di aree a parco (900.000 mq) sembra il classico specchietto per le allodole (certi ‘ecologisti’ compresi). È anche grazie a questo che alla Risanamento Spa, promotrice del progetto di Piano, è stato consentito di raddoppiare le volumetrie concesse al precedente proprietario. All’estesa area verde non sono però assegnati né una struttura né un disegno significativi, quando invece gli interventi più riusciti - esemplare l’esperienza parigina della Villette - dimostrano che il parco, oggi più che mai, va concepito come una trama relazionale. Il rischio concreto è che la grande area verde diventi uno spazio informe, insicuro e di difficile gestione.
A non convincere è anche il modo in cui vengono trattate le notevoli testimonianze di archeologia industriale: lasciate allo stato di ruderi, mere presenze scenografiche nel verde.
Quantità e qualità. Nell’insieme la soluzione delineata non scommette sulla città. Mentre mette in campo numeri rilevanti - 13.000 nuovi abitanti, 15.000 nuovi posti di lavoro - non sa tradurre la quantità in qualità. E questo perché non ha alla base un progetto di relazioni, di interferenza di flussi relazionali, di rapporti pubblico-privato e, in ultimo, non punta sulla costituzione di luoghi dotati diqualità e continuità urbana. Tanto meno dà vita a un amalgama di nuovo e preesistente in grado di imprimere uno scatto complessivo al quadro insediativo. Per non dire che, a dispetto della sbandierata scelta neotecnica, non si cura di dotare l’area e la città di un sistema dei trasporti in grado di sostenere il nuovo carico insediativo.
Complessità. A completare in senso negativo il quadro c’è la monoliticità dell’offerta residenziale. Si punta in modo esclusivo su una fascia di mercato alta, se non altissima, mentre la cosiddetta edilizia sociale viene relegata in uno scampolo ai margini dell’intervento. Gli edifici di prestigio si ergono su pilotis alti ben 15 metri: le abitazioni non scendono sotto questa quota. Non ci sono gated communities ma un loro surrogato più raffinato: torri che tagliano i ponti con il suolo non meno che un tempo a San Gimignano. In altri termini, il progetto incamera, assecondandola e alimentandola, una richiesta di sicurezza che è nell’aria. Se tutto questo dovesse essere attuato, alla Sesto che conosciamo verrà a giustapporsi una non-città monoclasse arroccata in grattacieli-fortilizio. A dispetto degli slogan sulla leggerezza e sulla trasparenza, il progetto di Renzo Piano per le aree ex Falck esprime una paura del suolo assai indicativa. La possiamo definire sindrome di Blade Runner.
Il controllo e la gestione pubblica del progetto
Ai rilievi critici sul progetto di Renzo Piano si aggiungono interrogativi sul ruolo della Pubblica amministrazione. Li sintetizzo in tre punti:
1. la contrattazione tra pubblico e privato, quantunque condotta dagli amministratori locali con grande dedizione e passione civica, rischia di essere appiattita su necessità e richieste contingenti, e comunque impostate sulla vecchia logica degli standard;
2. è evidente la mancata messa a problema della rilevanza dell’area e delle sue potenzialità sui due versanti, urbano e metropolitano;
3. una volta approvato il progetto, il vasto comparto interessato dalla trasformazione verrà sicuramente frazionato con la rivendita di ciascuna parte a un diverso operatore. Ciò porrà dei problemi in ordine alla realizzazione unitaria e contestuale dell’insieme. Vi è il forte rischio che il controllo sui tempi e il rispetto di quanto concordato con la proprietà e sfugga di mano all'amministrazione comunale.
Nota: sul recupero de lle grandi superfici dismesse a Sesto San Giovanni si vedano dalle pagine di Mall anche La Banlieu Capovolta, da "D" 4 marzo 2006, e l'intervista a Renzo Piano del Corriere/Magazine, 16 marzo 2006 (f.b.)
Nell’epoca post-unitaria il territorio di Monza, come e più di altre città italiane, è fortemente interessato dai processi di trasformazione nel segno dell’industria, della ferrovia, del nuovo consumo quantitativo e qualitativo di suolo indotto dalla modernizzazione. Ma, per usare le parole del primo piano regolatore adottato, «Tranne qualche ritocco all’interno e qualche nuova linea seguita all’esterno dal buon senso dei privati incalzati dalla necessità del bisogno di nuove abitazioni, e nonostante queste siano sorte or qua or là in numero assai rilevante, Monza nulla ha innovato in fatto di edilizia alla sua antica struttura in cui era stata sorpresa dal soffio di civiltà, che, con l’Indipendenza Nazionale, aveva pervaso ogni centro di popolazione in una nobile gara di modernità e di progresso civile». Questo a fronte di un notevolissimo sviluppo economico e demografico: 24.662 abitanti nel 1861; 25.228 nel 1871; 20.012 nel 1881 (+ 11,05%); 33.500 nel 1891 (+ 19,55%); 42.599 nel 1901 (+ 27,18%).
In questo arco di tempo, l’applicazione in città delle possibilità di piano regolatore, offerte dalla legge 2359 del 1865 sull’espropriazione per pubblica utilità, è scarsa, nonostante l’ampiamente riconosciuto bisogno di intervento pubblico in questo senso, testimoniato dall’istituirsi di una apposita Commissione di piano, scaturita da quella Di Ornato, con il compito di stendere un programma di ampio respiro per l’intera città. Dalla Raccolta Leggi e Decreti, si rileva come, nel periodo grosso modo compreso fra i primi piani regolatori postunitari per città italiane, e l’approvazione della Legge di Napoli, che rilancerà l’azione urbanistica ponendo in primo piano l’urgenza sanitaria, Monza sia interessata da soli quattro provvedimenti che hanno ottenuto sanzione dalle autorità centrali: Regio Decreto 30 maggio 1871, Allargamento delle via San Maurizio e Porta di Lecco; Regio Decreto 8 dicembre 1878, Allargamento della via Vittorio Emanuele dalla Chiesa di San Maurizio al Ponte di Lecco; Regio Decreto 2 maggio 1886, Nuova strada fra via Balossa e Terraggio di Porta Milano; Regio Decreto 16 ottobre 1886, Sistemazione di via Borghetto e della Strada per Villa Regia. In più, oltre il carattere puntiforme, questi quattro “piani regolatori” hanno come caratteristica comune quella di essere localizzati internamente al centro antico o immediatamente all’esterno, a ridosso dei principali assi di espansione, e di essere evidentemente destinati a sanare problemi pregressi, anziché prefigurare una qualsivoglia strategia pubblica lungimirante di intervento.
A questo stato di cose, tenterà senza successo di porre rimedio la Commissione per il Piano Regolatore, che presieduta dall’Ingegner Carlo Conti dal 1880 ai primi anni Novanta, proverà sia la strada del piano urbanistico generale vero e proprio, comprendente sia i risanamenti nel centro che i nuovi quartieri di espansione, sia quella della “mosaicatura” dei piani esecutivi puntiformi in un disegno dotato di qualche coerenza.
Compiti della Commissione, come si legge in un ordine del giorno votato dal Consiglio comunale, sono:
a) «di studiare i bisogni della pubblica viabilità nei varii suoi rapporti di comodità e di igiene, tenuto conto dello sviluppo che la Città presenta oggigiorno e che potrà avere in seguito all’esterno degli attuali confini. La detta Commissione di conseguenza proporrà gli allineamenti, le nuove comunicazioni, le fognature ed in genere tutte quelle opere e provvedimenti che stimerà utili di introdurre per la migliore sistemazione dei pubblici servizi. b) Di designare quelle delle opere e dei provvedimenti che reputa più urgenti non che le altre che ponno avere compimento in un tempo più lontano. c) Di presentare alla Giunta la relazione su dette opere e provvedimenti con indicazione della corrispondente spesa presunta e dei termini entro i quali a suo giudizio, dovranno essere effettuate».
I lavori, come già accennato, si concluderanno sul finire del secolo senza aver prodotto risultati pratici, salvo forse la coscienza della necessità di un piano, da cui scaturiranno (anche per sollecitazione delle autorità sanitarie superiori in questo senso) i primi studi comunali per uno schema generale, nel decennio successivo.
1. Piano di ampliamento della zona orientale, [1913]
La documentazione di quello che sembra essere il primo vero e proprio “piano regolatore” per Monza è scarsissima e piuttosto vaga. Non se ne sono trovate tracce nei fondi dell’archivio storico sul tema dei risanamenti, delle strade, dei servizi, ma solo riferimenti in brevi cenni sui periodici locali. La stessa datazione al 1913 si deve a un riferimento dell’Ingegnere capo del Comune, Lino Zanetti, nelle premesse storiche alla relazione del piano adottato nel 1964, che coincide sia con i limiti indicati vagamente sulla stampa, sia con il periodo in cui l’autore del manoscritto/relazione esercita le sue funzioni di tecnico presso l’Ufficio municipale.
Nel primo decennio del Novecento, il territorio di Monza ha già subito rilevanti trasformazioni, sia per il suo organico inserimento nella generale espansione dell’area milanese, sia per gli interventi edilizi nel centro storico. L’unico elemento di gestione pubblica del territorio urbano, è il Regolamento edilizio, approvato dal Consiglio comunale il 28 novembre 1907, ed entrato in vigore il 15 giugno 1908, che sul versante urbanistico prevede controlli sui «piani di allineamento, abbellimento e ingrandimento» della città (artt. 6, 10, 41). In questo contesto si inserisce lo studio firmato dell’ingegner Silvio Landriani, che pur limitando la propria proposta tecnico-economica al settore orientale, ritiene però conseguente «l’allacciamento dello studio di questo piano a quello di risanamento Città ed all’altro d’ampliamento della stessa verso ovest». Anche se questa scelta di basso profilo non aiuterà ad uno sbocco istituzionale del piano (il manoscritto, pur firmato dall’Ingegnere capo, ha la forma della memoria tecnica e nessun numero di protocollo o altre annotazioni), il ragionamento che la sostiene è del tutto ovvio: il «risanamento Città» potrebbe al limite essere attuato con un insieme di piani attuativi simili a quelli già approvati in precedenza, purché coordinati; l’ «ampliamento verso ovest», pur analogo a quello orientale, presenta evidentemente meno urgenza, forse per la maggiore contiguità con il centro storico nell’assenza di elementi forti di cesura come la ferrovia a livello e il corso del fiume.
Anche se non sono state reperite tavole grafiche relative a questo piano, il suo schema di massima si può riassumere come un tentativo di ricucitura, tra di loro e con il centro, degli insediamenti compresi nel grande arco delimitato dalla strada per Lecco, quella per Milano, e con vertice nel nuovo Cimitero urbano. Non è prevista una strada di cintura, né una griglia regolare, ma l’inserimento di snodi, spazi pubblici, completamenti, tali da ricondurre a unità e razionalità gli insediamenti spontanei, storici e in corso di crescita. Il progetto si articola in quattro zone di intervento, da nord a sud, a cui corrispondono quattro gruppi distinti di investimenti in opere ed espropriazioni: «dalla strada Provinciale per Bergamo alla via Bergamo e strada Provinciale per Agrate; dalla Provinciale per Agrate al Canale Villoresi; dal Canale Villoresi al Lambro; dal Lambro alla via Provinciale per Milano e San Rocco».
Le sole tracce di iter istituzionale, relative a questo piano o comunque ad esso complementari, sono desunte dalla stampa, che riferisce come attorno al 1910 l’Ufficio tecnico comunale intenda studiare un piano, e successivamente venga nominata una Commissione a questo scopo, composta da: ingg. Saino, Mina, Osculati, Monti; arch. Canesi; assessori Bellini e Canesi; Ingegnere Capo municipale (presumibilmente lo stesso Landriani). La Commissione si riunisce il 4 aprile 1912 per esaminare il piano e predisporre eventualmente le relative delibere. Ma due anni dopo, alla vigilia dello scoppio della guerra mondiale nel 1914, il programma elettorale pubblicato nel mese di giugno dal locale Partito Radicale, pone ancora in primo piano per la città lo «studio e graduale applicazione del piano di ampliamento», dando così indirettamente notizia del probabile fallimento pratico sia di un piano generale, sia di quello limitato alla zona orientale.
2. Piano regolatore edilizio per il centro, 1926
Dopo la stasi imposta dalla guerra, la ripresa delle attività economiche e dell’edilizia trova, per una volta, il Comune in una posizione propositiva di carattere “strategico”. Evidentemente gli studi degli anni precedenti hanno lasciato qualche traccia, se l’Amministrazione Commissariale decide di affiancare agli studi per la nuova fognatura anche quelli per un piano regolatore, che si vuole articolato in uno schema di massima per l’espansione, e in uno studio particolareggiato per il centro, focalizzato a sua volta sul riordino dell’ultima area disponibile (la futura Piazza Trento e Trieste) e la realizzazione del nuovo Palazzo Municipale. Nel 1924 si costituisce all’interno dell’Ufficio tecnico comunale una speciale sezione per il piano regolatore e la fognatura, dove lavoreranno in stretto coordinamento l’Ingegnere Capo Giulio Redaelli, e gli ingg. Giuseppe Albani e Ruggero Malagoli.
Lo schema generale di massima che sarà adottato dall’Amministrazione l’8 luglio 1925 si deve in massima parte al contributo di Giuseppe Albani, che immediatamente dopo l’incarico aveva presentato una breve memoria che ne preannunciava i contenuti. Si tratta, in sintesi, dello sviluppo di un anello di circonvallazione (proprio quanto era stato escluso da Silvio Landriani forse per motivi di bilancio tre lustri prima) ad una distanza più o meno costante dal centro, misurabile ancora a partire dal nuovo Cimitero, con l’eccezione del tratto lambente il Parco e i Giardini Reali. Completano il disegno una serie di radiali e ricuciture, e soprattutto di sotto e sovrapassaggi ferroviari in corrispondenza dei principali accessi al nucleo storico. Gran parte degli interventi, si intendono in stretta correlazione con l’attività dei privati, e soprattutto lo schema è da considerarsi di larga massima (da qui, forse, il “grande disegno” dell’anello, stavolta senza vincoli di bilancio): «il voler fissare troppo minuti dettagli questa rete esterna parrebbe prematuro e soverchio impaccio che si porterebbe alla privata iniziativa dei proprietari, senza che per ora le non eccessive esuberanze della iniziativa edilizia della città sembrino proclamarne l’impellente necessità».
Una «impellente necessità» e disponibilità all’investimento che invece sembrano caratterizzare quello che è forse il vero cuore di questo progetto, ovvero la risistemazione della zona di fronte al Collegio Arcivescovile e spazi circostanti, con collegamento all’asse di via Cavallotti (che conclude il processo di ampliamento oltre il tracciato della cinta storica iniziato con il taglio tra il Terraggio di Porta Milano e la circonvallazione esterna della Balossa, approvato con Regio Decreto nel 1886), riallineamento delle cortine edilizie, e realizzazione del nuovo Palazzo Municipale, secondo lo schema che verrà attuandosi via via nei decenni successivi. È questo l’oggetto del Piano particolareggiato di esecuzione, adottato insieme allo schema generale l’8 luglio 1925, ma che solo concluderà l’ iter istituzionale con l’approvazione, per Decreto Reale, il 17 giugno 1926.
3. Concorso per il piano regolatore e di ampliamento, 1934
Mentre sul finire degli anni Venti sono avviati i lavori di attuazione, esproprio, demolizione nelle aree centrali interessate dal piano particolareggiato del 1926, la Podesteria retta da Ulisse Cattaneo riprende la questione del piano regolatore e di ampliamento secondo una procedura che si sta affermando in moltissime città italiane: il concorso di idee, a cui invitare singoli o gruppi di ingegneri e architetti, con il duplice scopo di raccogliere progettualità, e insieme aiutare a sottrarre la formazione del piano da pressioni locali. L’unico dubbio sembra quello dell’estensione dell’invito, a scala regionale o nazionale? Verso la fine del 1932 la questione è risolta con un compromesso: saranno invitati i professionisti delle sole regioni settentrionali (Lombardia, Piemonte, Tre Venezie, Liguria), garantendo così una buona copertura mediatica all’evento, e una partecipazione abbastanza vasta. Il bando di concorso del 21 aprile 1933 chiede che i progetti debbano rispondere ai seguenti criteri: evitare sventramenti a danno delle «condizioni di arte e di ambiente della Città»; prevedere comunque diradamenti attorno agli edifici storici per «liberazione degli edifici stessi»; studiare le comunicazioni interne e con i centri limitrofi, con particolare riguardo agli scavalcamenti ferroviari, acquei, e alla realizzazione di un linea metropolitana; prevedere una sistemazione del fiume Lambro; indicare la localizzazione di servizi (verde, mercati, stadio, edifici pubblici). Nell’autunno dello stesso anno vengono presentati quattro progetti, tra i quali la Commissione giudicatrice (che comprende professionisti di ottimo livello nazionale) premia come migliore, nel gennaio del 1934, quello del gruppo milanese coordinato da Aldo Putelli, un ingegnere legato alla cultura razionalista, già affermato in numerosi concorsi,e che nei suoi interventi all’Istituto Nazionale di Urbanistica sostiene la necessità di una stretta collaborazione fra uffici municipali e consulenti esterni nella stesura dei piani regolatori.
Il progetto vincitore, contrassegnato dal motto C.M.N.P.22, riprende molti dei temi razionalisti dell’epoca, a partire dallo sviluppo dell’ampliamento per quartieri omogenei disposti radialmente, separati da zone verdi, raccordati all’esterno da un anello di grande viabilità che riprende nella parte orientale quello già delineato nel 1925, mentre in quella occidentale suggerisce, anche coerentemente con l’intento «di estendere il piano regolatore a una zona maggiore di quella prevista dal Comune», un nuovo asse a ovest della grande strada per Milano, che si raccorda a nord con l’attraversamento principale ovest-est del Parco, ricongiungendosi poi tramite un breve tratto della Statale per Lecco all’arco orientale della circonvallazione. All’interno di questo schema generale, in cui fa il suo ingresso tra l’altro lo zoning, si collocano gli interventi previsti nel centro storico, riassumibili nella arteria di attraversamento nord-sud (via Italia allargata, Piazza Trento e Trieste rettificata anche sul lato orientale, prosecuzione fino a via Appiani «per via San Paolo attraverso la via Scotto risanata e allargata»), e nella copertura del Lambro, la cui zona di pertinenza è destinata a diventare centro terziario e residenziale di alto livello, con fermata della metropolitana a PiazzaGaribaldi, secondo due possibili soluzioni: una giudicata migliore sotto il profilo urbanistico, un’altra di «massimo sfruttamento», che «potrebbe costituire una buona speculazione per il Comune». Completano gli interventi sul centro l’isolamento del Duomo e altre demolizioni verso l’Arengario.
Come accennato, uno degli obiettivi della procedura di concorso, era quello di superare il condizionamento delle contingenze locali nella elaborazione del piano. Una procedura che per Monza in un primo momento sembra fallita, visto che il coinvolgimento del capogruppo vincente Aldo Putelli nella redazione del “vero” piano regolatore si limita alla sua cooptazione nella Commissione consultiva nominata il 27 aprile 1934 con il compito di assistere l’Ufficio tecnico municipale. Nella primavera del 1935, risulta che nessun passo concreto è stato compiuto nella redazione del piano definitivo, e lo stesso Aldo Putelli sollecita il Podestà ad attivare una forma diversa di consulenza per il proprio studio professionale. Così, con un ruolo diverso e con il coinvolgimento del giovane collaboratore Ezio Cerutti, in stretto coordinamento con l’Ingegnere capo Giulio Redaelli, Putelli prepara i piani di ampliamento ovest e est della città, unitamente allo schema di un nuovo regolamento edilizio (quello precedente è del 1928), che vengono presentati e discussi nelle sedute plenarie di Commissione del marzo e aprile 1935.
Altri incarichi per obiettivi particolari (tra cui quello per la realizzazione di un plastico in scala 1:500 per le sistemazione nella zona centrale connesse all’asse nord-sud) proseguono fino al 1938, quando il 23 luglio il piano, per una popolazione stimata di oltre 100.000 abitanti entro il 1968, è adottato dal Consiglio comunale e successivamente inviato a Roma per l’approvazione.
5. Piano regolatore generale, 1949
Come accade, con pochissime eccezioni, ai piani oggetto di concorso e redatti in forma definitiva verso la fine degli anni Trenta, anche quello per Monza inizia a subire rallentamenti nell’iter di approvazione, determinati sia dall’entrata in guerra, sia dall’imminenza della nuova legge urbanistica nazionale, sia infine da questioni di contenuto, e segnatamente dagli interventi sulla zona storica monumentale. Già nel 1941 si segnala uno stop dalla Sovrintendenza ai Monumenti che chiede modifiche (approvate dal Consiglio comunale) per la Piazza del Duomo, e ancora nel 1943 il piano per motivi pure legati alla tutela artistica risulta in esame presso il Ministero dell’Educazione Nazionale, Direzione Generale Belle Arti, in attesa di trasferimento al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Proprio la Direzione Belle Arti, raccomanderà ancora «che la nuova sistemazione antistante il Duomo all’atto della realizzazione non risulti in contrasto con l’ambiente», e soprattutto si opporrà alla copertura del Lambro, chiedendo di «lasciare inalterata l’attuale configurazione del corso d’acqua».
Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Prima Sezione, riunito il 22 gennaio 1949, relatore Cesare Valle, critica quella che giudica la previsione di «uno sviluppo che si presenta indiscriminatamente in ogni direzione», suggerendo di privilegiare il settore ovest dell’abitato, alleggerendo e sfoltendo corrispondentemente quello sud-est, e altre modifiche riguardo al centro sussidiario e agli accessi dalle autostrade, oltre a specificare alcune critiche per l’area centrale e il rapporto coi monumenti storici. La copertura del Lambro in particolare sarebbe da evitare perchè «mentre ragioni di traffico non ne giustificano la necessità, le esigenze igieniche potranno essere soddisfatte [...] in sede di fognatura generale dell’abitato».
Coerentemente con queste premesse, il 20 ottobre 1949 è approvato il Piano regolatore generale di Monza, con le tavole firmate da Aldo Putelli e dall’Ufficio Tecnico comunale, piano che sulle pagine de L’Ingegnere viene salutato come il primo PRG italiano. Dal progetto originale sono stralciate importanti aree: Centro storico negli isolati circostanti Piazza Trento e Trieste e il Duomo, verso il Lambro, e Largo Mazzini; un quadrilatero nell’area di completamento occidentale fra le vie Cavallotti, Sempione, e il Canale Villoresi; un altro grande quadrilatero nell’area di espansione orientale verso il nuovo Cimitero, compreso fra le vie Buonarroti, Rota, Cederna, e il Canale Villoresi. Il più, il piano è approvato senza che tra i documenti inclusi figuri il regolamento di attuazione.
Alle carenze fisiologiche determinate dal lungo iter di approvazione, al piano regolatore di Monza si aggiungono quindi i “vuoti” delle zone stralciate, che richiedono di essere “riempiti”, insieme ad altri aggiornamenti, per costituire un piano soddisfacente e adatto ai tempi. Il dibattito in questo senso inizia immediatamente dopo l’approvazione del piano, con l’adozione nel 1950 da parte del Comune di un regolamento di attuazione che, pur privo dell’approvazione centrale sarà applicato da costruttori r progettisti fino al 1959. Nel 1951 i professionisti locali, Vittorio Bellini, Vittorio Faglia, Gualtiero Galmanini, iniziano a lavorare su questo problema. Le conclusioni sono presentate al Sindaco nell’autunno dell’anno successivo, sintetizzate nella relazione denominata Z.S.52, che si articola in una analisi critica del Decreto Presidenziale di approvazione del PRG, e in una sintetica proposta per le Zone Stralciate. Riguardo alla copertura del Lambro, è accettata la richiesta delle Belle Arti per lasciare intatto il corso urbano del fiume, rinviando a scelte di governo idraulico di grande scala alcune scelte specifiche correlate (il progetto vincente del Concorso aveva fatto riferimento a un piano di deviazione del fiume a monte dell’abitato firmato da Cesare Marescotti). Per il resto della zona centro, si propone di mantenere al minimo le demolizioni evitando sia la rettificazione degli isolati verso Piazza Trento e Trieste, sia il collegamento visivo diretto fra questa e la facciata del Duomo. Anche il collegamento nord-sud ne risulta modificato, «scartata la soluzione di deviare decisamente ad ovest fin dal suo inizio l’asse dell’arteria». Per il quartiere occidentale, premesso che la via Sempione notevolmente ampliata diverrà strada intercomunale, si prevede fra questa e le vie Cavallotti e Berchet un notevole insediamento residenziale/commerciale che qualifichi questa «vera arteria di traffico interurbano Monza-Milano». Per la zona est, Cederna, il progetto Z.S.52 prevede «un centro inteso come zona di coordinamento di quelle manifestazioni, attività ed esigenze di quartiere, quali mercato, negozi, ufficio postale, banca».
Oltre i singoli suggerimenti di intervento edilizio, il Comune sembra comunque sensibile alla proposta di colmare in qualche modo le lacune del PRG vigente tra cui quella di «comprimere in modo eccessivo lo sviluppo edilizio», e nella primavera del 1953 conferisce all’ampio gruppo degli Ingegneri e Architetti di Monza l’incarico di revisione del piano regolatore di Monza, che dovrà costituire la base di lavoro su cui l’Ufficio Tecnico comunale redigerà una proposta di variante generale. Gli studi del Gruppo Ingegneri e Architetti sono consegnati all’inizio del 1957 e il piano dell’Ufficio Tecnico, ampiamente basato su queste proposte, è pronto nella primavera del 1959 e adottato dal Consiglio comunale il 20 luglio.
7. Variante generale al piano regolatore, 1964
Un consigliere di opposizione, nel corso delle discussioni della primavera 1959 sul nuovo piano regolatore, aveva osservato che, a parte singole questioni, il progetto difettava in linea di massima su due fronti: la scarsa chiarezza della proposta generale, che sembrava più un insieme di progetti già in corso che una linea di azione unitaria; l’appiattimento sostanziale sulle proposte dei tecnici locali, e in definitiva sugli interessi di parte che li animavano. Non sarebbe stato il caso, suggeriva l’opposizione, di far studiare il piano a «un architetto urbanista estraneo e di chiara fama»? Le motivazioni con cui la Sezione Urbanistica del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, presieduta da Cesare Valle, suggerisce ulteriori modifiche al piano, sembra sottoscrivere indirettamente questa opzione: uno degli studi respinti è quello sul quartiere occidentale, che tanta parte aveva avuto nelle proposte Z.S.52. Dopo alcuni contatti con il Ministero all’inizio del 1961 il Sindaco annuncia che è stato individuato un «urbanista di sicura fama nazionale» a cui affidare l’incarico di un nuovo studio. Si tratta di Luigi Piccinato, probabilmente il più prestigioso professionista dell’epoca, che proprio insieme a Cesare Valle aveva firmato numerosi progetti urbanistici e di concorso per città italiane, dagli anni Venti in poi. Il lavoro su Monza, che inizialmente prevede solo lo studio delle zone stralciate, si sviluppa ben presto nello studio di un piano regolatore completamente nuovo, redatto da Luigi Piccinato con la collaborazione di Giorgio Piccinato e Marco Majoli. Lo schema generale da cui parte Piccinato è il quadro regionale della viabilità, che delinea come settore strategico per lo sviluppo urbano quello sud-occidentale compreso fra viale Lombardia, viale Campania, Corso Milano: dal rinnovato rapporto fra questo, il centro antico, e il settore orientale. Fulcro di questo sistema, uno strumento tipico dei piani elaborati da Piccinato, la costituzione di un centro terziario alternativo a quello storico, che nel caso di Monza si sostanzia in un Centro Direzionale da realizzarsi nel quadrilatero tra le vie Cavallotti, Europa, Solferino, Arnaldo da Brescia, su aree di dismissione ospedaliera e industriale. Una proposta generale di piano è consegnata nella primavera del 1962.
Il piano regolatore di Monza, nel suo impianto “sovracomunale” individuato da Piccinato, è destinato ad essere subito modificato da questioni di natura pure sovralocale. La prima è l’approvazione a scala nazionale, proprio nel 1962, della legge 167, che istituisce i Piani di Zona per l’edilizia popolare, che il Consiglio Comunale adotterà nel luglio del 1963 per cinque quartieri: via Correggio; Cederna; S. Albino; S. Rocco; Cazzaniga, e che devono essere inseriti nel piano a cui costituiscono variante. Il secondo condizionamento è rappresentato dalle linee in corso di definizione del Piano Intercomunale Milanese, che necessitano adeguamenti riguardo alla grande viabilità. Il piano, con le modifiche inserite, è portato alla discussione in Consiglio nell’autunno del 1963.
Il piano che l’Ufficio Tecnico coordinato da Lino Zanetti presenterà all’inizio del 1964, con questi presupposti, è un progetto «elaborato sulla base di quello del prof. Piccinato e tenuto conto dei Piano originario del 1949, di quella parte accettabile della variante 1959, del Piano delle aree da destinare all’edilizia economico/popolare [...], di alcune situazione e condizioni esistenti [...] e dagli orientamenti del Piano Regionale e di quello Intercomunale». È questo il piano che, illustrato da Luigi Piccinato in giugno, sarà adottato da Consiglio comunale in ottobre.
8. Variante generale al piano regolatore, 1968
Già nelle settimane prima dell’adozione, la Commissione Edilizia aveva evidenziato alcune perplessità sostanziali sullo schema di piano regolatore, criticando anche uno degli elementi portanti, ovvero il Centro Direzionale, il cui ruolo sarebbe stato da chiarire «se prettamente cittadino o a più ampio raggio», lasciando in sospeso «un giudizio sull’ubicazione e dimensione del centro stesso». Nel 1966 Luigi Piccinato accetta l’incarico di consulenza per l’esame delle 560 osservazioni presentate, consigliando di respingerne la stragrande maggioranza, in quanto «mera difesa dell’interesse privato legato alla destinazione del suolo», oggetto se mai di eventuali ricorsi i sede di piani particolareggiati, ma non di osservazioni accoglibili. Anche per le osservazioni di Enti e associazioni, che pongono questioni di tipo generale (le norme sul centro storico, l’anello di circonvallazione occidentale, il Centro direzionale ecc.) Piccinato esprime l’indicazione di non accettabilità. Di diverso avviso, almeno in parte, le indicazioni dell’Ufficio Tecnico, che insieme all’accoglimento di alcune modifiche suggerite dal Ministero dei LL.PP. definiscono la nuova versione del piano, che ottiene l’approvazione di massima ministeriale nel 1968.
9. Variante generale al piano regolatore, 1971
Il decreto 2 aprile 1968 n. 1444, e i relativi standards urbanistici che prevede, comportano ulteriori modifiche al piano regolatore, per adeguare le norme tecniche (piani di lottizzazione, esecuzione tramite semplice licenza edilizia, centro storico). Con queste modifiche, è approvato dopo un iter di oltre vent’anni, il 22 novembre, il nuovo Piano Regolatore Generale di Monza, che nella sintesi proposta dal Ministero dei Lavori Pubblici si articola in:
1. «la creazione di un nuovo centro direzionale nel settore sud-ovest della città, sulla aree attualmente occupate dall’ospedale civico e su quelle adiacenti, attualmente occupate da industrie e dal campo sportivo Singer;
2. la definizione di un sistema di grande viabilità, inteso principalmente ad impedire per quanto possibile l’attraversamento del centro storico;
3. un ridimensionamento della zonizzazione con l’indicazione dei vari tipi edilizi ammessi per ciascuna zona;
4. la salvaguardia del centro storico;
5. la individuazione delle zone destinate ad attrezzature di pubblico interesse, quali scuole, ospedali, mattatoio, impianti sportivi, ecc.».
10. Studi per la Variante generale al piano regolatore, 1985
Il Piano regolatore generale per Monza approvato con decreto ministeriale nel 1971, è l’ultimo piano per una città italiana il cui iter si conclude con un atto delle autorità centrali. Infatti pochi mesi più tardi si concluderà con il Decreto presidenziale di trasferimento dell’urbanistica alle Regioni, il lungo percorso iniziato con i lavori della Costituente. Non è quindi un caso se, a torto o a ragione, questo piano è localmente considerato immediatamente obsoleto e “centralista”: obsoleto perchè nato e cresciuto in un periodo di profonde trasformazioni dell’apparato produttivo, dei rapporti sociali e degli stili di vita, cui le trasformazioni via via apportate al progetto non sembrano essersi sufficientemente adeguate; “centralista” e burocratico perchè l’impianto generale risponderebbe a un criterio di razionalità astratta, con scarsi riscontri sia nella concretezza della realtà locale, sia nelle aspettative della maggioranza dei cittadini, a cui sarebbero stati imposti modelli rigidi come l’Asse attrezzato o il Centro direzionale. Proprio il Centro direzionale, su cui si basava l’impianto generale del progetto, viene rifiutato nel metodo e nel merito dalla stampa periodica più rappresentativa del ceto dirigente, che titola senza mezzi termini a un anno esatto dall’approvazione: «Il Piano Regolatore Generale: un feticcio da abbattere». Strumenti dell’urbanistica rinnovata, più vicina ai bisogni dei cittadini, saranno un nuovo ruolo delle autonomie locali e il rifiuto di decisioni esterne. Nel corso degli anni Settanta alcune parti del piano iniziano comunque ad attuarsi, mentre cambia il contesto esterno, per esempio con l’approvazione a livello regionale della legge urbanistica nel 1975 (anno in cui si delibera per la prima volta l’intenzione di avviare una procedura di variante generale), o a livello nazionale con i piani di recupero della 457/1978, che interesseranno importanti aree del centro storico. Un’altra innovazione, già introdotta nel PRG del ’71, è quella dei programmi pluriennali di attuazione, che dopo un primo tentativo fallito nel 1972 inizieranno ad attivarsi dal 1976, redatti dal pure nuovo Ufficio Programmazione Urbanistica. Del 1976 è, ancora, uno studio di Piano Particolareggiato per il centro storico, che sul modello di altri in Italia come quello di Bologna prevede anche interventi PEEP, in alternativa a quelli in aree periferiche.
Solo nel 1981 su iniziativa dell’Assessore alla Programmazione Urbanistica, Giuseppe Galbiati, si delibera di affidare a un gruppo di consulenti esterni lo studio di un nuovo piano regolatore generale, con l’obiettivo di superare quello che viene definito un prodotto della “urbanistica opulenta”, dove «ad un disegno razionale si accompagna anche una supervalutazione delle risorse economiche ed operative ... mentre il territorio è considerato essenzialmente come bene illimitatamente disponibile», per previsioni insediative che superano i 250.000 abitanti (poco più di 120.00 in diminuzione, al 1980). Dall’obsolescenza di contenuti e fondamenti, scaturirebbe la sostanziale elusione del piano nei suoi aspetti qualificanti: centro direzionale, parchi, servizi, sistema di viabilità principale. Nell’ottobre del 1984 i consulenti incaricati, Federico Confalonieri, Alfio Lorenzetti, Annio Matteini, Achille Sacconi, presentano una relazione illustrativa del lavoro svolto che, nel quadro del sistema metropolitano milanese e dei relativi strumenti di pianificazione sovracomunale vigenti e in corso di definizione, ridefinisca il ruolo di Monza come città-guida «nel processo di rafforzamento ed innovazione strutturale che, dalla Brianza tutta, potrà poi fornire elementi di consolidamento dello sviluppo regionale». La bozza di piano regolatore che scaturisce da queste premesse innanzitutto recepisce integralmente il «Piano dei servizi» redatto nel 1980 da Leonardo Mariani Travi per il recupero degli standards, e nella prospettiva di superamento del fallito modello di Centro direzionale, individua un sistema articolato di aree a vocazione terziaria, in particolare nella zona di confluenza tra la superstrada Monza-Rho e la circonvallazione esterna.
Questo progetto di piano regolatore, per motivi di grave dissenso all’interno della Giunta, non riuscirà ad arrivare all’adozione, rimanendo allo stato di studio. Un dattiloscritto datato giugno 1986, Messa a punto di una programmazione coordinata per la definizione del progetto di piano regolatore generale, giudica ad esempio ancora aperta la questione del ruolo del terziario in città, «un’incognita per le scelte progettuali di piano, in quanto praticamente sconosciuto nelle sue caratterizzazioni e nelle sue tendenze». Ancora aperto, in questo senso, il Documento Direttore. Piano Regolatore Generale, firmato nel febbraio 1987 dal Gruppo di consulenza originario, cui si aggiungono Roberto Biscardini e Gianluigi Sartorio. Si afferma a questo proposito che il piano «non debba vincolare rigidamente grandi aree a destinazione terziaria», per non creare artificiosamente zone «che rischino di rimanere destinate, solo sulla carta, ad interventi di macchinosa attuazione».
11. Variante generale al piano regolatore, 1997
Nel 1993 la nuova giunta, eletta con un programma che annoverava il piano regolatore tra i punti irrinunciabili, a poche settimane dall’insediamento affida l’incarico di redazione del piano ad un professionista di prestigio nazionale: Leonardo Benevolo. Il primo, quasi immediato risultato dell’avvio di un nuovo iter, è l’adozione, già a luglio, della variante parziale denominata «Parco di cintura urbana», che vincola a verde circa 1.000 ettari di territorio comunale, e che comprende come si legge nella relazione illustrativa «gli spazi liberi fra il fronte di crescita ... e i confini comunali, con gli insediamenti non compattati di origine recente, dove occorre realizzare le infrastrutture e i servizi mancanti». Il parco suscita immediatamente aspre polemiche e opposizioni, sotto forma di esposti e ricorsi da parte di privati. Dopo un anno di dibattito, nel luglio 1994 il consiglio comunale approva il progetto preliminare di piano regolatore, articolato secondo quattro zone omogenee di intervento: il centro storico, la periferia consolidata, il parco di cintura urbana, il parco reale.
Per il centro storico si pone l’obiettivo di difesa dei caratteri attraverso la conservazione dei manufatti, la riscoperta e ripristino di quelli occultati o distrutti, sia per gli usi attuali che per quelli futuri ipotizzabili. Tra le zone di maggiore impegno, il corso del fiume Lambro, il perimetro anticamente murato e la piazza del mercato, nel quadro generale di un incremento della residenza e delle attività terziario-commerciali compatibili.
Per la periferia esistente ci si pone il problema della riqualificazione qualitativa, ambientale, di adeguamento dei servizi, nella prospettiva della stabilizzazione anziché della crescita, anche attraverso l’utilizzazione di spazi liberi o liberabili. Per le attività produttive si propone un mantenimento della destinazione d’uso se ci sono prospettive di proseguimento nella funzionalità degli impianti, o in alternativa di attribuzione delle superfici a uso residenziale, secondo piani attuativi di iniziativa privata o pubblica.
Per il parco di cintura si prevede un ruolo di carattere intercomunale, integrato con quello degli spazi liberi dei comuni limitrofi, «oggetto di un proprio piano territoriale.
Per il parco reale a nord del territorio comunale si propone un vero e proprio «restauro» dell’area, ripristinandola via via secondo modalità coerenti col progetto originario sette-ottocentesco, stabilendo quali usi sono compatibili con questo obiettivo e definendo in linea di massima: incompatibile l’ippodromo; compatibile il golf «sebbene privatizzi una vasta superficie», compatibile anche l’autodromo, previa rimozione dell’anello ad alta velocità.
Alcune sistemazioni particolari riguardano infine tra l’altro la zona industriale ai confini con Villasanta e Concorezzo, la sistemazione della Piazza del mercato, l’interramento della superstrada Valassina.
Il piano, oltre le opposizioni di chi si ritiene danneggiato da alcune scelte, suscita anche critiche di altro tipo, riassumibili nel titolo pubblicato da Urbanistica Informazioni nel 1994, «Le proposte per il Prg di Monza: una formula astratta». Nel corso del 1995, più o meno parallelamente, al momento di massima pubblicità e discussione, istituzionale e non, sul piano, entra in crisi l’insieme delle contingenze politiche che ne avevano determinato la vicenda. Il progetto completo ricalca lo schema della bozza preliminare, proponendo alla pubblica discussione anche suggestioni di immediato impatto come la possibilità di integrazione del quadrante orientale con interramento della ferrovia, il ripristino della morfologia storica della zona centrale trasformata dal piano del 1926, la ricostituzione dell’unità della zona verde settentrionale con l’abbassamento di via Boccaccio, l’abbassamento della superstrada Valassina a ovest, con recupero dell’unità dei quartieri di Triante e San Fruttuoso.
Dopo un ulteriore periodo di stasi determinato dalla crisi politica succitata, il piano pur con alcune modifiche (che non ne intaccano lo schema generale) è adottato nel luglio del 1997. Alcune modifiche sono introdotte con la “rettifica” deliberata dal Consiglio comunale nel settembre dello stesso anno.
Nota: oltre alle informazioni ulteriori disponibili nel libro da cui sono tratti questi brani (che comprende in appendice anche le Relazioni), alcuni materiali grafici a bassa risoluzione sui piani regolatori di Monza sono diponibili nel catalogo del sito Rete Archivi dei Piani Urbanistici ; per quanto riguarda il Piano di Governo del Territorio in corso di formazione - e che è oggetto delle polemiche attuali a scala nazionale - si veda il sito del Comune di Monza, pagine Territorio PRG PGT (f.b.)
Le seconde case non danno nessun contributo sostanziale e duraturo all’economia dei luoghi. Anzi, se diventano fenomeno di massa, fagocitano le risorse ambientali e paesaggistiche che ne hanno motivato la costruzione.
A questa conclusione dovrebbero essere arrivati un po’ tutti, anche se non si può ancora parlare di un sentire comune. D’altra parte, il sig. B., in questo come in altri dei settori economici su cui mette le mani, da il suo solito cattivo esempio, con le sue sette ville in Costa Smeralda e con gli illeciti che continua a compiere all’interno delle sue proprietà.
L’irriproducibilità della risorsa suolo non è il solo argomento contro le seconde case. L’analisi delle situazioni ormai consolidate nel nostro Paese, dimostra che obiettivamente le seconde case non alimentano nessuna economia duratura e che, al contrario, nei pochissimi casi in cui il fenomeno viene programmaticamente contenuto, i benefici per l’economia locale sono vistosi.
I dati del censimento 2001, confermano quanto già rilevato dopo il 1991. Basta riguardare in proposito quanto pubblicato nel volume degli Editori Riuniti, a cura di Edoardo Salzano, 1942-1992, Cinquant’anni dalla legge urbanistica italiana, in particolare i saggi di Vezio De Lucia, La legge incompresa, e quello di chi scrive, Gli effetti territoriali della legislazione.
Ho provato ad aggiornare quelle tabelle e i risultati, incrociati con i dati sul reddito, sono stupefacenti. Concentro l’attenzione dei lettori su tre graduatorie compilate sulla base dei dati censuari 2001 e dei dati sul valore aggiunto ai prezzi base per abitante del 2000.
La graduatoria delle regioni con le più alte percentuali di seconde case sul totale del costruito, vede in testa (è un dato stabile da molti anni, la Valle d’Aosta, 46,39% contro il 19,51 della media italiana) e poi, a seguire quasi tutte le regioni meridionali, in testa la Calabria con il 35,74%. Lo stesso dato, disaggregato a livello provinciale, vede dopo Aosta (in questo caso, il dato provinciale e quello regionale ovviamente coincidono), Crotone (42,63%), L’Aquila (41,61%), Savona (41,11%) e poi, con percentuali oltre il 35, Sondrio, Imperia, Cosenza, Rieti, Agrigento, Ragusa, Vibo Valenzia e Grosseto.
Spicca, per austerità, la provincia di Bolzano, che ha il dato più basso fra le province sottoposte a pressione turistica: solo l’11,96% di seconde case. E’ interessante confrontare il dato di Bolzano con quello di Trento, provincia nella quale la percentuale di seconde case è vicina a quella delle aree meridionali del Paese: 32,75%. Tre volte il dato della provincia di lingua tedesca. E’ evidente che il dato ha un riscontro anche percettivo: la differenza quanto a cura del territorio fra le due province è avvertita da qualsiasi viaggiatore.
Ma, ancora più interessante è cercare di comprendere quali siano gli effetti sul reddito di così distanti politiche d’uso del territorio. La graduatoria delle province per valore aggiunto sui prezzi base, che è un indicatore di sanità dell’economia locale, mostra che la provincia di Bolzano è la seconda dopo Milano con quasi 26 mila euro per abitante (la media italiana è quasi 18 mila euro), e precede di poco Bologna e Modena ma di almeno 4 mila euro Torino, Roma e Venezia.
La scelta di privilegiare la ricettività alberghiera rispetto alle seconde case, è sicuramente alla base di questi valori. Anche se la maggiore qualità del paesaggio del Sudtirolo è anche legata ad altri fattori: la pratica del maso chiuso, infatti, impedisce la frammentazione della proprietà agricola ed abbinata alle buone pratiche tradizionali di manutenzione del territorio da parte di famiglie che derivano il loro reddito dall’agricoltura oltre che dal turismo, garantisce, insieme alla piena occupazione, la qualità dei luoghi.
Vi sono, in sostanza, molti elementi di riflessione e di studio che emergono da questa raccolta di dati. E sarebbe bene approfondire i legami fra economie locali, uso del territorio, qualità dei luoghi, turismo.
Se guardiamo, infatti, alle regioni italiane a più elevata vocazione turistica e analizziamo i redditi pro capite, così come leggibili attraverso il dato del valore aggiunto ai prezzi base per abitante, rileviamo che Sardegna, Sicilia e Calabria sono in fondo alla graduatoria: rispetto alla media nazionale di quasi 18 mila euro, in Sardegna per ogni abitante abbiamo 13.333 euro, 11.728 in Sicilia e 11.113 in Calabria.
Inoltre, mettendo in correlazione le 25 province con una percentuale di seconde case superiore al 30%, con il valore aggiunto ai prezzi base per abitante, notiamo che solo 6 province presentano un differenziale positivo rispetto al valore medio nazionale. Tutte le altre hanno valori più bassi della media nazionale e in 11 casi la differenza in negativo, è superiore ai 5 mila euro pro capite.
La diretta dipendenza fra redditi elevati e una robusta struttura alberghiera, è infine rilevabile dall’analisi delle presenze negli esercizi ricettivi per regione e, in particolare, dagli ultimi dati disponibili, relativi al 2004. Il dato di gran lunga più elevato si registra in Trentino Alto Adige, con oltre 31 milioni di presenze. Tali presenze sono concentrate comunque in provincia di Bolzano, per un totale di quasi 21 milioni. Le regioni meridionali, Campania esclusa, si attestano su valori molto modesti: 7,3 milioni la Sardegna, 5,7 Calabria e Puglia. E’ interessante notare che la Valle d’Aosta, che ha il primato nazionale di seconde case, è la diciottesima nella graduatoria fra le regioni misurata sulle presenze alberghiere, con appena 2,4 milioni di presenze.
1. Graduatoria delle regioni con le % più alte di seconde case al 2001
Valle D'Aosta: 46,39
Calabria: 35,74
Molise: 30,55
Sicilia: 29,16
Abruzzo: 28,89
Liguria: 27,65
Sardegna: 25,99
Puglia: 24,99
Trentino Alto Adige: 24,37
Basilicata: 24,01
Media Italia: 19,51
Provincia di Trento: 32,75
Provincia di Bolzano: 11,96
2. Graduatoria delle province con le % più alte di seconde case al 2001
Aosta: 46,39
Crotone: 42,63
L'Aquila: 41,61
Savona: 41,11
Sondrio: 39,96
Imperia: 39,08
Cosenza: 38,51
Rieti: 37,82
Agrigento: 37,81
Ragusa: 36,56
Vibo Valenzia: 36,46
Grosseto: 35,56
Belluno: 34,62
Trapani: 34,31
Verbano - Cusio - Ossola: 34,01
Brindisi: 34,01
Catanzaro: 33,75
Caltanissetta: 33,44
Sassari: 33,22
Trento: 32,75
Nuoro: 32,29
Isernia: 31,21
Lecce: 31,03
Enna: 30,67
Campobasso: 30,28
Media Italia: 19,51
Bolzano: 11,96
3. Graduatoria per valore aggiunto ai prezzi base per abitante al 2000
Milano: 28.026,40
Bolzano : 25.963,40
Bologna: 25.303,30
Modena: 25.127,80
Firenze: 23.088,30
Torino: 21.883,50
Roma: 21.431,60
Venezia: 21.311,10
Media Italia: 17.982,40
Sardegna: 13.331,50
Sicilia: 11.728,60
Calabria: 11.113,00
4. Graduatoria delle province con le % più alte di seconde case al 2001 e confronto fra valore aggiunto ai prezzi base locale e nazionale al 2000
La prima cira indica la % seconde case sul totale abitazioni al 2001: la seconda la differenza fra valore aggiunto ai prezzi base per abitante locale e la media nazionale in € al 2000
Aosta: 46,39 - 4087,3
Crotone: 42,63 - -7901,8
L'Aquila: 41,61 - -3841,5
Savona: 41,11 - 1395,9
Sondrio: 39,96 - 264,9
Imperia: 39,08 - 841,5
Cosenza: 38,51 - -6852,2
Rieti: 37,82 - -3244,8
Agrigento: 37,81 - -8278,4
Ragusa: 36,56 - -5121,6
Vibo Valenzia:36,46 - -7716,6
Grosseto: 35,56 - -1966,2
Belluno: 34,62 - 4157,3
Trapani: 34,31 - -6746,4
Verbano - Cusio - Ossola: 34,01 - -561,7
Brindisi: 34,01 - -5947,1
Catanzaro: 33,75 - -5897,3
Caltanissetta: 33,44 - -7494,4
Sassari: 33,22 - -3826,3
Trento: 32,75 - 4083,8
Nuoro: 32,29 - -4984,6
Isernia: 31,21 - -3176,5
Lecce: 31,03 - -7456,8
Enna: 30,67 - -7576,9
Campobasso: 30,28 - -4371,6
Media Italia: 19,51 -
Bolzano: 11,96 - 7981
5. Graduatoria delle presenze (in milioni di unità) negli esercizi alberghieri per regione, 2004
1. Trentino Alto Adige:31,4
Provincia di Bolzano:20,8
Provincia di Trento:10,6
2. Emilia Romagna:29
3. Veneto:26,3
4. Lazio:23
5. Lombardia:21,2
6. Toscana:20
7. Campania:14,4
8. Sicilia:11,2
9. Liguria:10,3
10. Sardegna:7,3
11. Piemonte:6,3
12. Marche:5,8
13. Calabria:5,7
14. Puglia:5,7
15. Abruzzo:4,9
16. Friuli Venezia Giulia:3,5
17. Umbria:3,2
18. Valle d'Aosta:2,4
19. Basilicata:1,3
20. Molise:0,5
Titolo originale: An Assessment of New Urbanist Elements in “New Suburbanist” Communities of the Twin Cities, Minnesota – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Identificazione del problema
La realizzazione dei nuovi suburbi negli scorsi cinquant’anni ha cambiato il modo di vivere degli americani. Abbiamo case ampie dominate dai garages, che contengono l’automobile o il SUV, e che aggiungono comodità all’esistenza. Nonostante godano di queste ampie abitazioni, molti residenti suburbani sono alla ricerca di un senso comunitario, qualcosa che molti avvertono come carenza dell’ambiente suburbano. I new urbanists sostengono che utilizzando l’ambiente costruito si può realizzare un senso comunitario. I centri realizzati secondo i principi new urbanism stanno diventando sempre più popolari in tutti gli Stati Uniti, in particolare nelle città della Sunbelt. Ma, a causa delle regole di zoning, delle dimensioni minime del lotto richieste, e di numerosi altri ostacoli, spesso è difficile costruire centri autenticamente new urbanist. Ciò ha portato alla diffusione crescente di insediamenti “neo-suburbani”, spesso chiamati cittadine “con veranda” o neoburbs (Mandel, 1997).
Nei centri “neo-suburbani” si applicano alcuni elementi del New Urbanism a un contesto suburbano, senza introdurre quelli che sono difficili da utilizzare, come i vicoli di servizio, i lotti di dimensioni minori, le linee di trasporto pubblico. L’applicazione o meno dei vari elementi dipende dalle norme locali, e questo contribuisce a determinare una confusione poco chiara fra le forme suburbane e il New Urbanism.
L’obiettivo di questo studio è di rispondere alle seguenti questioni: 1) quali sono gli elementi comuni fra New Urbanism e realizzazioni “neo suburbane”? 2) quali sono le caratteristiche New Urbanism che attirano i residenti? Per ottenere le informazioni ho utilizzato sondaggi e interviste. Le conoscenze ricavate dalle risposte a queste domande possono aiutare urbanisti e costruttori a realizzare interventi che gli abitanti possano considerare interessanti e attrattivi. I costruttori potranno anche valutare in che misura i loro obiettivi di realizzare un “senso dei luoghi” interessino gli abitanti. Scopriranno così se sono riusciti a creare una comunità.
Sintesi della ricerca ed esposizione dei risultati
Lo sviluppo suburbano rappresenta sempre di più un problema per la maggior parte delle aree metropolitane, se non per tutte. Le norme stabilite dall’urbanistica e dallo zoning hanno costruito il suburbio contemporaneo a partire dagli anni ‘50 (Cullingworth, 1993). Lo zoning era stato introdotto per tutelare gli abitanti contro usi dello spazio non desiderabili, come attività industriali o discariche, perché non potessero legalmente avvenire all’interno della comunità. Ma creava anche spazi segregati richiedendo che abitazioni o lotti avessero determinate dimensioni, e limitando le case multifamiliari.
Il New Urbanism sostiene di offrire tecniche in grado di cambiare il modo in cui si sviluppano sobborghi e città. Spesso si associa alla smart growth, agli insediamenti basati sul trasporto collettivo, alle comunità neo-tradizionali. Questi tipi di insediamento sono compatti, a funzioni miste, per migliorare o comunque condizionare l’accessibilità, l’aspetto estetico, i valori immobiliari, l’equilibrio sociale fra gli abitanti.
Nonostante i modi di crescita che li hanno caratterizzati tanto a lungo, i suburbi tradizionali sono solidi nel loro modo di suscitare aspettative su forma e modi di progettazione. Gli abitanti sanno cosa troveranno quando si trasferiscono in un’area sottoposta a un rigido zoning di esclusione. Per questo motivo, molte comunità suburbane non consentiranno mai insediamenti mixed-use percepiti come impatto negativo sui valori immobiliari. Oltre le preoccupazioni finanziarie , i residenti semplicemente possono preferire l’insediamento a bassa densità. Se tentano di realizzare qualcosa che non si conforma alle modalità usuali di costruzione, gli imprenditori possono trovare difficili i finanziamanti, per quello che viene considerato un investimento a rischio (Talen, 2002). Il New Urbanism sfida queste regole consolidate, proponendo insediamenti mixed-use ad alta densità.
Anche se non tutti preferirebbero vivere in centri a funzioni miste e densità maggiori, si è comunque evidenziata una domanda di mercato, grazie al numero crescente di comunità tipo New Urbanist realizzate, che contengono alcuni elementi della cultura del nuovo urbanesimo. Sono i complessi “neo suburbani”, via di mezzo per progettisti e costruttori che non vogliono scontrarsi con una pletora di difficoltà normative, ma che offrono al cune delle piacevolezze new urbanism. Chi acquista in queste comunità - New Urbanist o “neo suburbane” – è attento ai contenuti, oltre che all’aspetto esteriore (Farnsworth, 1998). Sempre più, le persone scelgono il proprio quartiere in base ad accessibilità e desiderabilità, facendo dei centri “neo suburbani” alcuni dei modelli più “forti” per abitare (Wolf, 1999).
La forma dell’insediamento suburbano continuerà a dominare l’ambiente delle regioni metropolitane. Il New Urbanism può rappresentare una scelta diffusa in alcune zone, ma le rigidità delle norme urbanistiche ne impediscono un’accettazione integrale. Inserire il New Urbanism nella progettazione di tipo suburbano implica affrontare alcuni problemi del suburbio tradizionale, e insieme alcuni limiti all’applicazione del New Urbanism. Per i costruttori, a causa delle limitazioni dello zoning e delle preferenze dei consumatori, sono i complessi “neo suburbani” a costituire una possibilità attraente.
Alcune Conclusioni
Fra le varie comunità di tipo “neo suburbano”, ne ho individuate quattro da utilizzare per la mia ricerca. Sono tutte entro il perimetro della Twin Cities Metropolitan Urban Services Area (MUSA). Nell’area Twin Cities sono i sobborghi occidentali a sperimentare la crescita più rapida, mentre quelli orientali in genere sono più lenti. Per questo motivo, ho scelto due comunità a est (Stonemill Farms e Liberty on the Lake), e due a ovest (The Reserve e Clover). Le ho scelte anche perché ritenevo si collocassero su gradi differenti nel continuum neo-urbano-suburbano e fosse possibile verificare quali elementi prevalessero e a quali livelli.
Obiettivo 1: Quali sono gli elementi comuni New Urbanism dei centri “neo suburbani”?
Per individuare gli elementi New Urbanism più frequenti nei quattro centri prescelti, ho selezionato ventitre elementi da verificare o quantificare. Sono desunti dalla Charter of the New Urbanism (Lecesse, McCormick, 2000) e rappresentano le linee guida per chi afferma di condividere i principi New Urbanist in termini di strategie e progettazione. Ho lavorato a due livelli. Per prima cosa ho utilizzato i piani di lottizzazione, quelli generali e le carte di azzonamento. Ho osservato la progettazione fisica degli spazi. La seconda fase comporta analisi dirette sul campo, passeggiando per i vari insediamenti. Le informazioni ottenute nelle due fasi sono riportate su un foglio di lavoro. I dati del foglio sono esaminati in vari modi. La maggior parte degli elementi si riconduce a un sistema binario (si/no), come la presenza o meno di negozi, attività economiche, verande sul fronte, alberi. Altri fattori sono quantificati in modo lineare, come larghezza dei marciapiedi, strisce di verde, distanza dal centro ai margini dell’insediamento. Dopo aver raccolto i dati ciascun centro ottiene un punteggio sulla base degli elementi New Urbanist contenuti. Ho ricercato anche schemi o tendenze comuni, per determinare quali elementi sono usati più di frequente.
Fra i vari centri, alcune caratteristiche emergono come più frequenti, il che significa che in ciascun caso esistono almeno delle varianti di quel tipo. Le più comuni sono: alberature stradali, strisce a verde, verande sul fronte, varietà degli stili delle abitazioni, parcheggi a bordo strada, un centro di quartiere, attraversamenti pedonali, scuole entro un raggio di dieci minuti a piedi. Alcune delle altre caratteristiche più comuni, ovvero presenti in almeno tre dei quattro centri, sono: scuole all’interno del complesso, marciapiedi ampi, prati da gioco e village green. Gli elementi che mancano del tutto, o risultano presenti in un solo centro, sono: negozi interni al quartiere, negozi raggiungibili a piedi, piste ciclabili e giardini comuni. In tre dei quattro casi, i negozi sono rinviati a una fase futura, o sono in corso di realizzazione.
Obiettivo 2: Valutare quali elementi New Urbanist attirano i residenti nei centri “neo suburbani”
Il primo passo è stato un sondaggio postale. Come accennato sopra, ho scelto quattro centri interni all’area Twin Cities per la mia ricerca. Ho spedito 200 questionari a famiglie di 3 dei 4 centri, e 155 del quarto, per un totale di 755. Due settimane più tardi, ho inviato una cartolina di sollecito per la risposta a 300 abitanti (Bourque, Fielder, 1995). In due delle comunità ho ricevuto risposte superiori al 30%, mentre per le restanti due circa del 20%. Spero in una percentuale finale generale fra il 20-30%, che è la media per i questionari postali (Fink, 1995).
Questa indagine offre uno sguardo su cosa cerca l’abitante in una comunità “neo suburbana”. Stili tradizionali per le abitazioni (non semplici dadi), abbondanza di spazi a parco, scuole raggiungibili a piedi, sono i tre elementi di attrazione più diffusi fra i residenti delle quattro comunità esaminate. Anche la dimensione delle case e i sistemi di marciapiede-percorso pedonale sono molto apprezzati. Quelli non molto considerati sono: le fermate del trasporto pubblico, la disponibilità di un sistema intranet (per condividere gli avvenimenti locali).
Ad ogni modo, queste informazioni possono essere utili per costruttori e progettisti di un complesso residenziale. Come urbanisti, può essere difficile sostenere un certo stile di abitazione, ma è possibile porre l’enfasi su spazi verdi, marciapiedi, percorsi. Nello stesso modo, per un costruttore, le informazioni dimostrano che una certa qualità complessiva e un complesso che “si presenta bene” attirano residenti. Evidenziano anche che il coordinamento con alcune entità pubbliche locali, come i distretti scolastici, attira abitanti.
Nel progettare quartieri, villaggi e città, è a volte difficile reperire informazioni in grado di dare chiare risposte a cosa cercano gli abitanti in una comunità. Questo studio propone uno sguardo dal punto di vista dei residenti dell’area Twin Cities, una regione che può essere diversa da altre dove si usano New Urbanism o “neo suburbi”. Comunque, può essere utile per qualunque situazione suburbana.
Nota: testo originale e presentazione al sito American Planning Association (f.b.)
Opere Citate
Bourque, Linda B., Eve P. Fielder (2003), How to Conduct Self-Administered and Mail Surveys, Sage Publications, Thousand Oaks.
Cullingworth, J. Barry (1993), The Political Culture of Planning, Routledge, New York.
Farnsworth, Christina (1998), “Building Community”, Professional Builder, 63:14.
Fink, Arlene (1995) The Survey Handbook, Sage Publications, Thousand Oaks.
Leccese, Michael, Kathleen McCormick (2000), The Charter of the New Urbanism, McGraw-Hill, New York.
Mandel, Charles (1997), “It Fakes a Village”, This Magazine, 30:6, 13-16.
Talen, Emily (1999), “Sense of Community and Neighborhood Form: An Assessment of the Social Doctrine of New Urbanism”, Urban Studies, 36:8, 1361-1379.
Wolf, Peter (1999), Hot Towns: the future of the fastest growing communities in America, Rutgers, New Jersey.
1. Un paese urbano-industriale
In Italia la transizione da una società rurale ad una società urbano-industriale è schematicamente descrivibile in tre tappe. La fase originaria, della prima industrializzazione concentrata prevalentemente nelle regioni nord-occidentali e della prima modernizzazione urbana, si colloca tra il 1880 e il 1920. Nella seconda, tra le due guerre mondiali, il sistema urbano e industriale si consolidò, anche grazie alla sua parziale estensione ad altre aree del paese e allo sviluppo di alcuni settori industriali più avanzati (in specie l’industria idroelettrica e chimica). La terza fase, di cui ci occupiamo in questa sede, si colloca tra il 1950 e il 1970, quando una ulteriore e quantomai intensa crescita quantitativa del sistema urbano ed industriale si tradusse nel definitivo mutamento degli assetti complessivi del paese, che da allora furono compiutamente dominati da un’economia industriale e da una società di tipo urbano. Se la ricostruzione postbellica segnò il lento avvio di questa “grande trasformazione”, il cosiddetto «miracolo economico» (gli anni dal 1958 al 1963, caratterizzati da tasso di crescita del GNP particolarmente elevato) ne fu il cuore propulsivo. Il 1970 può considerarsi un punto di svolta, non solo perchè si manifestarono i primi segni di inversione del ciclo economico internazionale, ma perché, sul piano interno, da allora anche in Italia le questioni ambientali assunsero ben maggiore visibilità nell’opinione pubblica e nel dibattito politico e, allo stesso tempo, l’istituzione dei governi regionali segnò una marcata discontinuità nelle politiche economiche e ambientali.
Tra il 1950 e il 1970 si registrò dunque intenso “sviluppo” sociale ed economico. Tra i fenomeni più significativi ricordiamo: i) la grande crescita e diffusione dell’apparato industriale anche in regioni finallora prevalentemente rurali (Toscana, Emilia, Veneto); ii) il formarsi di nuove “aree industriali” in varie regioni del paese (ad es. Mestre-Marghera in Veneto, Massa in Toscana, Augusta-Priolo e Gela in Sicilia); iii) una urbanizzazione massiccia, sia a carattere diffuso (nelle pianure interne e litoranee) sia a carattere accentrato (nelle nuove aree metropolitane attorno a Torino, Milano, Genova, Roma, Napoli); iv) una altrettanto significativa deruralizzazione, che si manifestò nel declino delle attività e degli insediamenti rurali specie in collina e in montagna, l’abbandono delle pratiche di mantenimento del territorio nelle aree più elevate e la ‘industrializzazione’ delle colture in pianura.
2. Mobilitare le risorse
La crescita di tale sistema urbano-industriale si tradusse anzitutto in una mobilitazione estensiva ed intensiva di risorse naturali su numerose e vaste aree territoriali.
In modo sommario, ma eloquente, possiamo ricordare la pressione esercitata sul suolo, attraverso l’estrazione di materiali da costruzione (la produzione delle cave passò da circa 38 milioni di tonnellate nel 1951 a oltre 221 milioni di tonnellate nel 1971); attraverso la sua copertura per realizzare infrastrutture e soprattutto edificare nuove abitazioni (nel periodo considerato i vani passano da 37 a 71 milioni e la superficie urbana aumentò da tre a dieci volte) e attraverso la industrializzazione dell’agricoltura (confermata dal raddoppio della produzione agricola). Quanto all’aria, basta ricordare che il numero degli autoveicoli crebbe da circa 340.000 nel 1950 a oltre 10 milioni nel 1970, mentre nel solo quinquennio 1966-1971 le emissioni di scarico degli autoveicoli aumentarono del 46% e il consumo di combustibili per riscaldamento raddoppiò, per non parlare degli scarichi industriali. Infine, si registrò un massiccio incremento nell’utilizzo delle acque, provocato congiuntamente dalla crescita degli usi domestici (favorito dalla estensione della rete degli acquedotti e delle fognature: dal 1963 al 1974 i comuni dotati di acquedotto passarono dal 69% all’85% del totale), di quelli industriali e di quelli agricoli.
Proprio nel circuito delle acque divenerro presto evidenti le tensioni ambientali indotte da quel massiccio e rapido intensificarsi dello sfruttamento delle risorse naturali. In questo ambito si manifestò una scarsità relativa, se non assoluta, delle risorse: infatti, mentre la domanda cresceva, l’acqua disponibile diminuiva, proprio perché la stessa espansione dei consumi provocava un notevole inquinamento delle acque superficiali. La conseguenza fu un accresciuto ricorso alle acque profonde, ma questo si rivelò un rimedio di scarsa lungimiranza, perché indusse un abbassamento della falda e ne favorì l’inquinamento.
3. Una crisi ambientale?
In realtà, l’affermarsi del sistema urbano-industriale alterò le modalità d’uso delle risorse naturali in misura tale da indurre una vera e propria crisi degli assetti ambientali. Quello delle risorse idriche fu il caso più rilevante, ma certamente non l’unico. In questo ambito, l’espansione del sistema urbano-industriale aveva spezzato di fatto il precedente equilibrio tra la porzione antropica (gli usi domestici ed industriali) e il restante segmento del ciclo delle acque, quello in cui i cosiddetti processi di “autodepurazione” rendevano le acque reflue nuovamente disponibili per gli usi antropici.
Fin dagli anni Cinquanta erano stati segnalati preoccupanti focolai di inquinamento delle acque superficiali. L’allarme riguardava non solo alcune aree di antico insediamento urbano e industriale (specie in Piemonte, Liguria e Lombardia) ma adesso investiva progressivamente anche le regioni di nuova industrializzazione, come il Veneto, l’Emilia-Romagna e la Toscana, per lo meno in quelle zone di pianura divenute sede delle nuove localizzazioni industriali e delle aree urbane in rapida ed incontrollata espansione.
Per quanto non esistessero rilevazioni sistematiche, alcuni tecnici accorti percepivano chiaramente come non si trattasse di singoli episodi localizzati di inquinamento, ma del fatto che porzioni sempre più estese di territorio o di bacini idrici erano sottoposte ad una pressione inquinante crescente e provocata da cause molteplici. Indagini occasionali, ma significative, dimostrarono fin dai primi anni Sessanta, che le industrie scaricavano in modo largamente incontrollato acque reflue notevolmente tossiche – in Lombardia, come in Romagna o in Toscana e perfino in Sardegna – e che, parimenti gli scarichi delle fognature urbane si riversavano senza alcuna depurazione nei corsi d’acqua superficiali o direttamente in mare. Nel giro di pochi anni, risultarono notevolmente inquinati larghi tratti dei maggiori fiumi e talora l’intero corso di fiumi minori, come pure ampie zone delle acque litoranee, non solo in rispondenza dei grandi porti, in Liguria o in Toscana, come nell’Adriatico o attorno alle principali città del Meridione. Il rapido deteriorarsi della situazione fece sì che alla fine degli anni Sessanta la situazione potesse ritenersi "tragica", in quanto almeno la metà dei corpi idrici era da considerarsi in "stato di notevole deterioramento", in alcuni casi a livello irreversibile.
Il diffuso inquinamento chimico e batterico delle acque superficiali provocato dalla crescita del sistema urbano-industriale da un lato danneggiava fortemente attività produttive di importanza declinante, quali la pesca e l’agricoltura, quest’ultima peraltro non priva di responsabilità nell’inquinamento. Dall’altro, esso minacciava le stesse prospettive di crescita delle città e delle industrie, sempre più in competizione tra loro per acquisire risorse – anzitutto acqua e suolo – che autorità governative nazionali e locali, esponenti degli gruppi economici, tecnici di settore e parte almeno dell’opinione pubblica temevano avrebbero potuto scarseggiare in un futuro non lontano.
In realtà, la crisi ambientale aveva una duplice radice. La prima stava nel fatto che sostanzialmente le acque reflue erano scaricate senza alcune preventiva depurazione, oltreché essere adesso gravate da nuove sostanze inquinanti derivanti dai “progressi” dell’industria chimica e metallurgica (ad esempio i detersivi sintetici). La seconda stava nel fatto che lo sviluppo urbano e industriale, polarizzato attorno ai grandi centri urbani o diffuso nelle “campagne urbanizzate” [urban sprawl? o urbanised countryside?], determinava non solo una crescita quantitativa dei reflui, ma un effetto cumulativo largamente inedito. Tale effetto cumulativo si manifestava nella stretta integrazione tra i diversi sistemi di utilizzo delle risorse, per cui ben più di prima sullo stesso corpo idrico gravavano contemporaneamente usi diversi e tra loro concorrenti (industrie di vario tipo, acquedotti comunali, ecc.). Ma si manifestava anche, data l’estensione e la contiguità tra i soggetti concorrenti per le risorse, nella marcata riduzione e, sovente, nell’annullamento della distanza spaziale e temporale tra le diverse modalità di prelievo ed utilizzo delle risorse. L’annullamento di quella distanza impediva i cosiddetti processi di “autodepurazione” (degradazione organica del carico inquinante) che finallora avevano in qualche misura contenuto i fenomeni di inquinamento.
Il drastico aumento dell’impatto ambientale del sistema urbano-industriale era dunque strettamente connesso sia alla sua crescita quantitativa, sia alla forma della sua espansione spaziale. Era l’effetto del venir meno di quella delimitazione, relativa, ma evidente, tra città e campagna che finallora aveva caratterizzato la morfologia del territorio e governato gli scambi – anche di risorse naturali – tra la città e le aree circostanti e dunque tra mondo urbano e mondo rurale o comunque tra le città e il più ampio contesto ambientale.
Lo sviluppo urbano degli anni Sessanta modificò fortemente gli assetti territoriali tradizionali tendenzialmente dualistici e indusse una ben più marcata integrazione tra le aree urbane e i territori su cui esse insistevano. Ne scaturirono sistema territoriali al tempo stesso compositi, plurimi e gerarchizzati, non a caso etichettati dal dibattito coevo con termini allusivi come “aree metropolitane”, “città-regione”, “città-lineari”, ecc., a testimoniare il primato e al tempo stesso la pervasività dell’elemento urbano. Non casualmente, in questi anni l’antica questione del dissesto idro-geologico del paese, tradizionalmente configurata in termini di conservazione idraulico-forestale delle aree montane, assunse nuova drammatica attualità in seguito ai gravi e diffusi eventi alluvionali del 1966 e dovette giocoforza ridefinirsi in termini assai più ampi, perché adesso investiva anche le scelte di utilizzo dei suoli di pianura, i sistemi di approvvigionamenti idrico delle città e delle industrie, ecc.
L’inquinamento diffuso era la spia dell’impatto territoriale e ambientale causato dalla intensità e dalle modalità espansive del sistema urbano-industriale e, proprio per questo, imponeva una riorganizzazione complessiva del governo del territorio e, in specie, delle modalità di sfruttamento delle risorse naturali. Non sorprende che la crisi ambientale alimentasse non solo preoccupazioni per la salute pubblica, ma anche per lo sviluppo delle attività produttive.
Le implicazioni ambientali del nuovo rapporto tra sistema urbano-industriale e territorio trova conferma anche nelle condizioni del suolo e dell’aria. L’espansione urbana, reticolare o lineare che fosse, si coniugò con la modernizzazione delle strutture edilizie (ora sistematicamente dotate di acqua corrente, scarichi, impianti di riscaldamento e energia elettrica) e delle infrastrutture di trasporto indispensabili alla movimentazione di persone e beni, a sua volta sollecitata dalle nuove attività produttive e dalla stessa nuova morfologia urbana. La copertura estensiva dei suoli o comunque la forte riduzione della loro capacità di drenaggio, la riduzione delle aree verdi e la moltiplicazione delle aree di prelievo di materiali e di depositi dei rifiuti solidi si accompagnarono al crescente inquinamento e abbassamento della falda idrica. Ne derivò una drastica semplificazione delle valenze ambientali del suolo, che fu trasformato in supporto apparentemente inerte alle attività antropiche e, in realtà, divenne un elemento particolarmente debole dell’ecosistema.
L’inquinamento aereo, a sua volta, era stato dibattuto fin dagli anni Cinquanta, anche se le varietà e talvolta il favore delle condizioni microclimatiche locali avevano indotto una sottovalutazione del problema. Alla fine del decennio successivo, si dovette prendere atto che il 42% della popolazione viveva in aree “ad alto rischio”. Sotto accusa finirono soprattutto le emissioni solforose prodotte dai veicoli a motore e dagli impianti di riscaldamento, mentre più o meno colpevolmente si accantonò il problema degli scarichi industriali, dei quali restava difficile conoscere non solo i molteplici componenti tossici, ma le stesse dimensioni quantitative.
4. Una politica ambientale debole e tardiva
L’evidenza e la diffusione dei fenomeni di inquinamento fin dai primi anni Sessanta indusse gruppi di tecnici, amministratori locali e popolazioni coinvolte a ricercare soluzioni alla incombente crisi ambientale. Né si mancò di individuare – anche sulla base di una apprezzabile conoscenza delle esperienze straniere – alcuni criteri generali di intervento, orientati ad un controllo integrato delle risorse e ad una pianificazione territoriale ed ambientale in grado di orientare anche lo sviluppo economico e la crescita urbana. Tuttavia, gli atti legislativi e di governo tardarono a venire, nonostante l’urgenza dei problemi e la concomitante nascita degli enti regionali. Pesarono certamente le dimensioni e la complessità delle questioni da affrontare, ma le responsabilità maggiori sono da attribuire per un verso alla forza degli interessi coinvolti, in primo luogo quelli dell’industria e della grande proprietà immobiliare, e, per altri versi, al prevalere di un indirizzo politico preoccupato di garantire la disponibilità delle risorse per lo sviluppo, piuttosto che di tutelare il sistema ambientale nel suo insieme. Si giunse così ad emanare solo due, seppur importanti, leggi generali in materia ambientale. Ma le norme contro l’inquinamento atmosferico approvate nel 1966 di fatto intervennero solo sul riscaldamento domestico, in piena sintonia con gli interessi dell’industria petrolifera e automobilistica, mentre la legge sulla tutela delle acque fu emanata solo nel 1976 e fu applicata con notevolissima gradualità e in larga misura a spese della collettività.
Piani regolatori e ambiente in Italia: visioni del futuro delle città tra sistemi tecnici, organizzazioni burocratiche e percezioni della natura
Questa sessione sul versante urbano della storia ambientale, organizzata da Gabriella Corona e Simone Neri Sernieri, mi sembra molto importante, in un convegno di storia ambientale dove dominano gli approcci legati ad una visione della storia ambientale a mio avviso troppo naturalistica. Questa sessione, quindi, è importante per due ragioni. La prima è la poca importanza data alle città (e all’industria) nelle considerazioni sulla storia ambientale. La seconda ragione tiene nell’importanza di storicizzare la lettura del rapporto fra città e ambiente. Intendo storicizzare non solo nel senso di prendere in considerazione il passato, ma anche di uso del metodo storico, con l’applicazione di questioni specifiche.
Questa relazione viene concepita in quanto primo approccio a un nuovo tema di ricerca. Dopo dieci anni dedicati allo studio della pianificazione urbana a Roma nell’Ottocento, attorno ad un’attenzione alla relazione tra procedure di costruzione di un apparato tecnico-burocratico di pianificazione e trasformazioni dello spazio, si tratta di esplorare il rapporto tra città e natura nel Novecento attraverso le modalità di pianificazione.
Ma quel che c’insegna l’Ottocento è che non basta applicare questioni relative alla concezione della natura. Serve anche chiederci come si costruisce il rapporto fra città e natura attraverso un sistema amministrativo e sociale. Il piano, anche se non copre l’insieme di questo rapporto, e di questo si deve sempre essere coscienti, non va studiato necessariamente in se, ma in quanto espressione manifesta di un certo tipo di rapporto fra città e spazio, espressione anche di una forma di organizzazione burocratica e politica[1].
Si è studiato molto ultimamente il limite del piano in quanto strumento universale di trasformazione dello spazio urbano, poi di spiegazione storica della trasformazione. Non si tratta minimamente qui di tornare ad una visione pianocentrica. Anzi, il fatto di inserire il piano in un sistema più vasto fa parte del movimento di relativizzazione della valenza del piano. Il piano come sistema di norme va anche discusso in questo senso. I recenti dibattiti sulle norme di urbanità, sia di costruzione che di comportamento, devono essere tenuti in mente.
Si può anche pianificare al di fuori del piano, per ragioni politiche, sociali o amministrative.
Detto questo, il piano regolatore all’italiana rimane un oggetto importante per lo studio della relazione fra una società e lo spazio. Tramite la procedura di pianificazione si esprime non solo una visione del futuro, ma anche una concezione del modo di mettere in relazione l’apparato burocratico con lo spazio urbano. Nel caso della natura in città, questa espressione è molto importante.
Dei piani dell’Ottocento, e del rapporto fra burocrazie e verde urbano in generale all’epoca, importa ritenere diverse modalità, di cui i piani del secolo successivo sono doppiamente portatori: nell’inerzia dello spazio costruito, e nell’inerzia delle procedure, delle interpretazioni e delle pratiche.
Il piano regolatore rappresenta, nella tradizione urbana italiana, il nodo burocratico, amministrativo, sociale e politico della previsione del futuro delle città. E anche un indicatore del rapporto tra città e natura al momento della sua redazione. La relazione delle società urbane all’ambiente ne è profondentemente segnata, nelle dimensioni sia affermativa (e non necessariamente positiva), come impatto del piano, che negativa (ma non necessariamente nel senso morale), come non applicazione del piano o costruzione della città al di fuori di esso. Questa relazione, esaminando l’evoluzione del trattamento dell’elemento “natura” nei piani e nei dibattiti ad essi legati sin dai tempi della legge del 1865, propone un tentativo di lettura della complessa relazione fra sistemi burocratici e spazio delle città.
Marcel Roncayolo, con Grammaires d’une ville, proponeva, a partire dal caso di Marsiglia, un’interessante analisi dell’eredità della scuola sociologica di Chicago nel campo dei studi urbani[2]. Per questo ricercatore, che ha a lungo sviluppato studi importanti, ma molto solitari e poco connessi con quelli dei suoi contemporanei, si tratta di uno dei pochi esempi di inserimento delle proprie ricerche in un quadro intellettuale più largo. Invece di ritenere solamente gli aspetti legati alle prime tappe nella costituzione della sociologia urbana e dell’ecologia urbana come discipline accademiche, cercava, nel ricostruire il legame tra personaggi come Burgess, Quinn o Firey e la metodologia delle scienze naturali, o il legame tra scienze sociali ed ecologia botanica, di ricreare il percorso intellettuale di questi ricercatori verso l’interpretazione dell’evoluzione dello spazio urbano. La proposizione, nel senso quasi matematico, “la città e la natura sono in interrazione” costituisce, per l’ecologia urbana un paradigma iniziale e fondatore. Ma per gli ecologi urbani, la natura non era soltanto il quadro d’insieme, ma anche un concetto organico: l’interrazione tra città e natura può essere letta con analogie tratte dalla natura stessa e le scienze naturali forniscono sia i modelli che i concetti per la lettura della relazione tra natura e città. Queste tendenze si verificano nella letteratura contemporanea in tutti e due i campi: studi urbani e storia ambientale. Hanno sicuramente permesso molti passi avanti. La storia urbana stessa si è anche sviluppata a lungo usando anche analogie basate sulla natura e sul corpo umano. Quando le analogie vengono applicate a certi oggetti, possono di sicuro essere molto efficaci. Ma non coprono necessariamente l’insieme del panorama di attitudini nei confronti dell’oggetto, e l’analogia non è l’unico modo d’interpretare la relazione tra città e natura.
La storia ambientale si è poi concentrata sulla relazione tra città e natura dal punto di vista del trattamento dei rifiuti[3]. Fogne, rifiuti, reti tecniche sono stati oggetti di un forte e sostenuto sforzo di ricerca accademica, e degli autori come Dupuy, Tarr, Melosi o, per l’Italia, Sori, hanno promosso un’interpretazione nella quale il legame tra città e natura non si riduce ad una semplice meccanica, ma viene analizzato in quanto relazione sociale costruita ed articolata. Le scienze sociali hanno progressivamente costruito concetti interpretativi propri, prova del fatto che le idee dei fondatori, e in generale l’eredità di quel che si è chiamato l’approccio della scuola di Chicago agli studi urbani e all’ecologia, hanno aiutato la disciplina a crescere. I paradigmi non sono più basati su l’analogia, ma costruiti a partire da un’interpretazione della società stessa. E’ tutto il percorso dell’ecologia, da scienza naturale a scienza sociale, e, nel caso degli studi urbani, dall’analogia con la natura a l’uso di concetti costruiti sulla base delle scienze sociali. Restava poi ad estendere la lettura della relazione tra natura e città ad altri settori degli studi urbani, come l’interpretazione dei processi decisionali, la governance dei sistemi tecnici, il ruolo della natura nelle trasformazione della forma urbana e della società urbana, l’analisi dei sistemi urbani dal punto di vista di un’ecologia urbana rinnovata.
uuforniscono sia i modelli che i concetti per la lettura della relazione tra natura e città.e di questi ricercatori verso l'ione
Il panorama storiografico sulla pianificazione urbana in Italia nel secondo Novecento è ancora dominato dal paradigma delle tre generazioni di piani sperimentati in Italia a partire dalla Liberazione, come teorizzati da Campos Venuti negli anni 1980[4].
La prima generazione copre, per Campos Venuti, i piani del dopoguerra la cui funzione era di ricostruzione senza esplorare nuove vie di pianificazione e di sviluppo della città. Anche se, come si vedrà questa è un’opinione forse eccessiva, la categoria descrive bene la realtà degli anni 1945-1955. La seconda generazione di piani, per Campos Venuti, s’incontra negli anni 1960, quando si tratta di canalizzare, e non di affrontare, gli effetti della speculazione. La terza generazione, invece, si presenta come innovazione sia nel contenuto del piano che nella sua concezione in quanto strumento e processo.
Ma questa tipologia, la cui elaborazione è ovviamente contemporanea della promozione della terza generazione di piani, rinvia ad una lettura centrata più sulla procedura stessa, le sue caratteristiche, che sulle sue interrazioni con lo spazio o la natura.
Se la tipologia rimane largamente pertinente per le questioni sul rapporto al verde e alla natura, conviene esaminare da più vicino la relazione tra procedura e verde urbano tra il 45 e i nostri giorni.
Il fascismo è stato a lungo percepito come antiurbano[5]. Ma si deve andare oltre questo giudizio, ricordando che il rifiuto della pressione delle masse urbane è una costante in Italia sin dai tempi di Quintino Sella. Si deve anche leggere la produzione urbanistica fascista sotto l’aspetto del verde urbano.
Nel piano Piacentini per Roma (1931), va per esempio valutata la svolta nel considerare il verde urbano, in netto contrasto con l’eredità di un verde fatto di soli parchi concepiti come il residuo della lottizzazione delle ville aristocratiche. Con Piacentini, il verde urbano appare più in continuità con il verde articolante della passeggiata archeologica dei decenni precedenti.
Il vero crimine fatto dai fascisti alla passeggiata archeologica di Guido Baccelli non è di averla completata in una maniera contestabile con la via dei fori imperiali, che dopo tutto non era cosi estranea alla cultura urbanistica dell’epoca precedente, ma piuttosto di averla aperta alle macchine automobili.
La legge del 1942, che per molti aspetti fornisce il quadro non solo legislativo, ma anche metodologico agli interventi dei decenni successivi non affronta direttamente il tema del verde urbano[6]. Se gli articoli 5 e 7, in quanto relativi alle zone ed aree a speciali destinazioni e agli spazi per uso pubblico, furono usati a questo scopo, rimane il fatto che la legge non crea un categoria ad hoc. Ma questo non basta ad eliminare dalla ricerca l’orizzonte aperto da questa innovazione legislativa. Va in effetti studiato più accuratamente il rapporto fra nuova legge e organizzazione degli uffici di pianificazione in relazione al verde urbano.
Alla Liberazione, la cultura della lotta partigiana segna duramente la pratica urbanistica. La concezione della relazione al verde urbano viene quindi costruita a partire sia del quadro della legge del 42 che dalle idee di una pianificazione tratte dagli ideali partigiani. La proposta del MSA, Movimento di studi per l’architettura per un piano di Milano che venne poi ricordato come Milano verde, si iscrive in questo contesto. Confrontato con le realtà amministrative e soprattutto politiche del immediato dopo guerra, questo ambiente propositivo è dovuto molto presto integrare altri elementi, come la forza del valore fondiario. Ma in occasione dell’ottava triennale, nel 1947, con la pianificazione del quartiere detto QT8, si è potuto proporre diversi elementi tratti da questa cultura nel dibattito sul piano regolatore di Milano. E anche se, come ha sottolineato Mioni, gli uffici tecnici del comune hanno tradito lo spirito dei professionisti più avanzati, l’idea di una città verde ha segnato la cultura urbanistica del dopoguerra[7]. Il verde urbano era all’epoca già più del risultato della sottrazione alla speculazione. Era parte integrante della pianificazione di un quadro di vita concepito al livello urbano.
Anche a Firenze, le esperienze del dopoguerra hanno segnato una svolta, se non nella forma della città, almeno nella storia intellettuale del rapporto tra pianificazione e verde urbano. Le idee del Comitato provinciale per la ricostruzione, e il progetto di piano in questo ambito redatto, riflettevano in effetti una concezione della ricostruzione della città, e della sua estensione, che dava al verde urbano un ruolo organico[8]. Queste idee sembravano inoltre in misura di guadagnare consensi nel contesto locale quando la caduta del governo Parri a livello nazionale ha segnato la fine delle esplorazioni politiche che le accompagnavano. Il confronto poi tra un’amministrazione comunale di sinistra e il governo De Gasperi ha creato un contesto completamente diverso, come, a partire dell’inizio degli anni 1950 la presenza a Palazzo Vecchio di un primo La Pira la cui priorità era chiaramente la casa. Negli anni 1960, con l’emergenza alluvione, e nel decennio successivo con alcune esplorazioni sulla necessità di una pianificazione sovracomunale Firenze torna brevemente ad esplorare vie alternative di pianificazione, ma il paesaggio locale e la cultura urbanistica locale restano a lungo segnati da queste condizioni iniziali.
A Napoli, con gli anni del cosiddetto “laurismo” e i peggiori eccessi di una speculazione segno di collusione tra poteri politici e interessi privati, si è venuto a dimenticare il contesto che aveva fatto si che nell’immediato dopoguerra ci si era già allontanato dall’eredità di un piano del 1939 che prevedeva per esempio un parco panoramico ai Camaldoli. Con una sinistra che aveva come unica priorità nel piano il lavoro, e una destra già molto vicina agli ambienti della speculazione, già nel 1944 si capisce che la Napoli del dopoguerra non sarà il teatro di innovazioni urbanistiche per quanto riguarda il verde urbano. Già il piano del 1946, risultato delle mediazioni politiche dell’anno precedente dà la priorità assoluta all’industria[9]. Quando Lauro decide di uscire dalla procedura, nel 1952, i giochi sono già fatti.
Gli anni 1950 sono poi segnati da necessità diverse, la prima delle quali essendo legata all’enorme bisogno di case. Anche se il concetto di quartiere come viene declinato all’epoca è stato promosso dalla Democrazia cristiana in opposizione a una città giardino consumatrice di spazio fondiario e alle troppe forti concentrazioni, con dietro un’ideale ideologico, rimane il fatto che nel piano Fanfani, e poi nei programmi INA-CASA, il sociale è più importante del spaziale. Per questa epoca, importa oggi però proporre una lettura politica delle vicende del verde urbano che vada oltre i giudizi morali e politici sulla stagione dei blocchi edilizi. La storia urbana c’insegna, insomma, che vanno rivalutati i studi politici in materia di pianificazione.
La Bologna degli anni 1950, con il piano Marconi, è anche segnata da una cultura urbanistica molto convenzionale: il piano traccia le linee dell’espansione e riempie i buchi dell’urbanizzazione.
Nel 1960, il convegno nazionale d’Italia nostra, che si tiene a Modena, città allora già importante nel dibattito sul verde urbano[10], ha come tema la “difesa del verde”. Si diffondono nel pubblico e fra gli addetti ai lavori cifre allarmiste sulla disponibilità di verde urbano per abitante in Italia. Contro i 154m2 di Los Angeles, 30 di Amsterdam, 10 di Londra, 7,5 di Parigi, Roma disporrebbe all’epoca di soli 2m2, e Milano 1,5.
Si comincia allora ad elaborare una tipologia del verde (decoro urbano, giardini, verde di quartiere, grandi parchi urbani), che serve da base a molti piani degli anni successivi. Con la politica detta poi degli standards, si rinnova di fatto la fiducia nel piano come strumento capace di portare a risultati soddisfacenti. La fiducia è anche nelle capacità di acquisizione fondiaria dei comuni.
Ma in questi primi anni 1960, Modena presente l’esempio di una prima svolta nella concezione del piano. Già la variante generale al piano regolatore presentata nel 1958 e adottata nel 1965 riflette la diffusione di una nuova cultura del piano. Questo è strettamente legato alla storia politica di questo comune, ma è anche segno di un cambiamento di attitudine e di mobilizzazione delle competenze professionali. Come sempre, sin dall’Ottocento, il piano è lo strumento d’azione di un potere municipale. Come sempre, la fiducia nel piano s’incontra più volentieri tra quelli che hanno intenzione di applicare allo spazio urbano un programma politico e sociale. Ma se il piano progressista investito di questa fiducia rifletteva anche una certa ingenuità, a partire dalla metà degli anni 1960, in alcune città, la fiducia progressista nel piano si accompagna di una riflessione rinnovata sullo strumento stesso, di cui la concezione del verde è un eco.
L’idea del verde come servizio deriva da queste considerazioni.
Italo Insolera ha partecipato a questa elaborazione concettuale sin dall’inizio. Se si consulta il suo articolo per Urbanistica del 1966, si vede quanto il verde veniva pensato poco a poco in relazione ai cambiamenti sociali in atto[11]. Il verde nel piano diventa anche la trasposizione spaziale della nuova cultura del tempo libero. Ancora negli anni Ottanta, è questo paradigma marxista di evoluzione della società industriale a fornire il quadro alla lettura delle mutazioni della cultura del piano[12]. Il cambiamento nella concezione della pianificazione deriva dal passaggio “da società agro-industriale alla condizione odierna” (non più precisamente specificata).
Ma, all’inizio degli anni 1970, è ancora Modena che segna l’arrivo sulla scena urbanistica di una nuova concezione, quella del verde urbano il cui ruolo è di orientare la crescita urbana. L’idea, in questa città, di un parco della Resistenza, eco nel nome degli ideali pianificatori di quest’epoca, che si concretizza nella variante generale del 1975, costituisce uno dei primi esempi di verde urbano atto ad orientare le linee di espansione, e quindi ad articolare il piano. Da vuoto nel piano, il verde diventa spina dorsale. La nozione di “sistema del verde”, che poi si diffonde, ne deriva sicuramente. Il verde urbano diventa allora spatium ordinans, e non più solamente spatium ordinatum, secondo la seducente proposta teorica di Jan Patocka[13].
Lo studioso dell’Ottocento deve qui precisare però che questa non è una novità assoluta, anche se lo è sicuramente nella costruzione concettuale. Ma già negli ultimi decenni dell’Ottocento a Roma, l’area archeologica centrale, voluta da Guido Baccelli può essere letta in questi termini: un blocco di verde urbano disegnato dallo stato per orientare le linee di pianificazione municipale. Il sistema del verde del Novecento non ne è per meno nuovo, in quanto teorizzazione innovativa del rapporto fra città e verde.
Negli anni Settanta, il dibattito sul verde urbano conosce altre declinazioni. Leggere oggi la descrizione dei piani della terza generazione che davano gli attori all’epoca rimanda ad una retorica marxista nella quale l’industria e il patrimonio industriale erano ancora al centro delle priorità. Il piano della terza generazione non è per niente ancora un piano di città sostenibile o di città verde. Ma l’espansione di alcune città alla punta della riflessione sul piano (generalmente progressiste talmente il valore ideologico dello strumento è forte nel contesto italiano), verso zone finora agricole pone nuovi problemi, e favorisce l’emergere di nuove soluzioni. La trasformazione del verde agricolo in verde ricreativo è la posta in gioco, cioè togliere all’espansione del costruito un parte di questi terreni. Ne viene fondamentalmente modificato il grado di artificialità del paesaggio. Ma questo è il destino delle città. Urbanizzare zone precedentemente agricole è stato il modo prioritario d’espansione per più di un secolo. Quel che è interessante è vedere quanto questo fatto all’epoca, segna la cultura urbanistica, e quanto ha avuto influenza sulla nuova cultura del piano che si diffonde.
Le esperienze bolognesi degli anni Settanta e Ottanta, la cui grande innovazione è forse l’idea del piano come strumento di creazione di uno spazio per il cittadino e luogo stesso, sia simbolicamente che nelle pratiche, della partecipazione cittadina, derivano parzialmente di questo dibattito sul verde agricolo[14]. La riflessione sul che fare di queste zone è parte integrante della maturazione della democrazia partecipativa, o almeno della sua teorizzazione e promozione politica. Il verde, da vuoto dell’urbanizzazione ad asse della regolazione diventa cuore della nuova governance. Anche se non conviene caricatturare il passato quando si descrivono le svolte storiche, si può dire che qualcosa è cambiato all’epoca nella concezione della relazione tra città e verde urbano.
Modena compare di nuovo nel dibattito urbano sin dagli anni Ottanta in quanto modello di una certa cultura del piano, che porta nuove modalità di rapporto tra città e natura, ma anche tra tecnica pianificatrice e spazio urbano. Roberto d’Agostini, in un saggio sul verde urbano, ricostruisce il percorso storico che va dai piani della Liberazione a quelli degli anni Ottanta[15]. Dopo un periodo di lottizzazione, caratterizzata dal riempimento delle aree libere della prima periferia urbana, con un fenomeno di “ispessimento” di questa, si è arrivato al paradosso di una città borghese del periodo precedente pervertita nella sua relazione al verde, la lottizzazione avendo fatto scomparire il verde privato che la caratterizzava. Con la fine dei quartieri giardino, si pongono quindi nuovi problemi, ai quali il piano del 1958 non rispondeva. La maturazione di nuovi soluzioni nei decenni 1970-1990 deriva da queste considerazioni iniziali.
I nuovi paradigmi emersi sulla scena urbanistica a partire dagli anni 90 si possono discutere secondo questioni parallele a quelle applicate ai periodi precedenti[16].
La pianificazione sostenibile delle periferie, per esempio[17], ma anche le diverse teorizzazioni sul rapporto tra città e natura vanno lette in un contesto più ampio.
Se la storia ambientale non sempre affronta i temi urbani[18], bisogna sottolineare che le teorie anglo-sassoni sullo sviluppo sostenibile sono state accolte molte precocemente in Italia, come lo sono state le voci critiche sul contenuto della nozione. Un dibattito si è aperto, illustrato da numerose prese di posizioni[19]. Ma la particolarità italiana è soprattutto di aver illustrato il tema della sostenibilità nel campo della ricerca urbana.
I dibattiti sulla città sostenibile sono stati molto presenti nell’Italia degli ultimi anni, e, logicamente, sono stati illustrati da esempi che riprendono le esperienze precedenti e si inseriscono nel quadro della riflessione sulla pianificazione urbana.
Questo ci consente di mandare avanti nostra riflessione sul posto del verde urbano in queste considerazioni.
Venezia sostenibile, Napoli sostenibile[20], Modena sostenibile, ogni volta la sostenibilità, ricercata attraverso lo strumento piano regolatore è come sempre anche quella delle giunte progressiste. Nella letteratura specializzata, quando si parla di Milano, per esempio, è per illustrare la non-sostenibilità[21].
Oltre a queste considerazioni, mirate solamente a sottolineare ancora una volta quanto lo strumento piano sia connotato nella pratica italiana, e come lo sia ancora nei dibattiti attuali, si possono evocare alcune questioni suggerite dalla storia urbana:
La valenza del piano: l’importanza del piano non ci deve far dimenticare che si può pianificare al di fuori del piano. Per decenni la storia urbana è stata cieca su questo aspetto, con il risultato di una narrazione storica che andava dal disegno di un piano (da parte di una giunta progressista generalmente) al fallimento del piano (sotto delle giunte conservative generalmente). Solo di recente ci si è reso conto di come la città andava studiata come si faceva e non come si pensava che si doveva fare. Si è quindi insistito sui modi alternativi di pianificare (deroghe alla regola, pratiche al di fuori della regola ma che comunque fanno la città, convenzioni…). Non si deve fare lo stesso errore con i dibattiti odierni. Il ricercatore deve studiare la città cosi com’è nel suo rapporto all’ambiente, e non solo cosi come compare nei progetti di città sostenibile, per quanto questi siano importanti e interessanti. Il tema della città sostenibile viene oggi investito di un valore politico proprio al sistema italiano, e di questo va tenuto conto, anche da chi si riconosce negli obiettivi complessivi dell’applicazione del concetto alle realtà urbane. Il fatto che l’urbanistica in Italia sia stata storicamente materia accademica investita dalle competenze di persone che avevano anche un progetto politico deve essere preso in considerazione anche nello studio dei temi odierni, relativi alla sostenibilità. Nel leggere la letteratura sull’argomento ci si rende conto che i presupposti ideologici sono paragonabili a quelli relativi all’argomento piano regolatore nelle sue declinazioni precedenti. Per queste ragioni sembra auspicabile sia di affrontare direttamente il tema politico, per non lasciare sovrintesi, che di esplorare altre questioni.
La riflessione sull’evoluzione delle concezioni della natura nelle procedure di pianificazione si deve accompagnare di uno studio rinnovato dell’evoluzione degli apparati burocratici di pianificazione. Questa vena di investigazione ha portato molto alla conoscenza dell’Ottocento. Ma sappiamo molto poco dell’evoluzione di questi apparati negli ultimi decenni: statuto degli addetti ai lavori, relazione all’amministrazione municipale, formazione, percorso professionale, organizzazione del lavoro, sociabilità professionale… Come le nuove maniere di considerare il rapporto tra città e natura sono state condizionate da queste evoluzioni? O anche dall’inerzia di pratiche e dati legati ai periodi antecedenti.
Il progressivo passaggio di varie competenze alle regioni, il cambiamento di scala, ma anche nei percorsi della decisione invita ad analizzare anche questo aspetto nell’evoluzione del verde urbano [22]. Qual è stato l’effetto del cambiamento di scala dovuto a mutazioni nel sistema politico amministrativo? O invece, qual è stato l’effetto delle lotti di potere legate a questo movimento?
Le nuove pratiche professionali hanno fatto ricorso a nuovi strumenti tecnici di mediazione tra disegno e spazio. Questo è molto importante nello sguardo dato al verde urbano.
E anche interessante l’evoluzione delle rappresentazioni grafiche del verde urbano, tra “coloriage”, “collage” e rappresentazioni degne di quadri astratti. Manca ancora un panorama complessivo dell’evoluzione dei modi di disegnare il verde.
Nella stessa logica, l’evoluzione delle denominazioni è interessante [23]. Come i pianificatori chiamano il verde urbano, come creano delle gerarchie nello spazio… A questo riguardo, la produzione linguistica romana negli ultimi dieci anni è forse la più interessante [24].
La riflessione si deve anche confrontare ad una storia sociale e spaziale dei condoni edilizi. Questi fanno parte del sistema burocratico e amministrativo di pianificazione e vanno trattati positivamente nelle ricerche sul verde urbano. Positivamente non nel senso che se ne deve approvare l’uso, ma che si deve uscire dai giudizi morali per valutarne l’effetto.
Verde urbano e democrazia partecipativa. Integrare nella riflessione sulla governance quella sul verde.
Considerare sulla lunga durata il verde urbano.
Comparatismo internazionale [25].
Ci si può anche confrontare alle più recenti tendenze della teorizzazione anglosassone sul tema, in modo di fare avanti l’esempio italiano non solo come fonte di esperienze originali, ma anche di un pensiero urbano avanzato [26].
[1] Sui piani : Mazza (Luigi), Piano, progetti, strategie, Milano, Franco Angeli, 147p. Dallo stesso autore: Trasformazioni del piano. Si veda anche: Bobbio (Luigi), La democrazia non abita a Gordio, Milano, Franco Angeli.
[2] Roncayolo (Marcel), Les Grammaires d’une ville, Parigi, Ehess.
[3] Si veda, per esempio: Sori E. (2001), La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, Il Mulino, Bologna. Anche: Melosi M.V. (2000), The Sanitary City. Urban infrastructure in America from colonial times to the present, John Hopkins, Baltimore.
Melosi M.V. and Scarpino F. (Eds.) (2004), Public history and the environment, Krieger, Malabar.
[4] Campos Venuti (Giuseppe), “I piani della terza generazione: il caso di Bologna”, in Bonfiglioli (Sandra)( a cura di), Il tempo nello spazio, Milano, Franco Angeli, 1987, 188p., p. 65-82.
[5]Si veda, per esempio: Treves (Anna), “La politica antiurbana del fascismo e un secolo di resistenza all’urbanizzazione in Italia”, in Mioni (Alberto (a cura di), Urbanistica fascista, Milano, Franco Angeli, 1986, 344p., p. 312-344.
[6]Su questa legge e sull’insieme del periodo: Salzano (Edoardo), Fondamenti di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 1998, 326p.
[7] Mioni, L’urbanistica milanese nella ricostruzione.
Si veda anche: Un secolo di urbanistica a Milano, Milano, CLUP, 1986, 223p.
[8] Su questo periodo, si veda, per esempio: Zoppi (Mariella), Firenze e l’urbanistica: la ricerca del piano, Roma, Autonomie, 1982, 249p.
[9] Si veda, per esempio: Dial Piaz (Alessandro), Napoli, 1945-1985: quarant’anni di urbanistica, Milano, Franco Angeli, 1985, 166p.
[10] Si veda per esempio : D’Agostino (Roberto), Il verde pubblico a Modena dal dopoguerra a oggi », in Natura e cultura urbana a Modena, Modena, Panini, 1983, 413p., p. 357-375.
[11] Insolera (Italo), « L’evoluzione del concetto del verde nella cultura urbanistica », Urbanistica, 46-47, 1966.
[12] Si veda, per esempio: Fabbri (Marcello), L’urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi, Bari, De Donato, 1983, 443p.
[13] Patocka (Jan), Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis.
Su questi aspetti: Dewitte (Jacques), “L’unité dans la multiplicité”, Recherches, 14, 1999, p. 78-94.
[14] Si veda, per esempio : Bologna, una città per gli anni ’90 : il progetto del nuovo piano regolatore generale, Venezia, Marsilio, 1985, 207p. Si veda anche: Cervellati (Roberto) De Angelis (Carlo), La nuova cultura della città, Milano, Mondadori, 1977, 299p.
Su questo periodo: Campos Venuti (Giuseppe), L’urbanistica riformista, Etaslibri, 1991, 414p.
[15] Loc. cit.
[16]Si veda, per esempio: Perulli (Paolo), Piani strategici, Milano, Franco Angeli, 2004, 120p.
[17]Si veda, per esempio: Camagni (Roberto) (a cura di), La pianificazione sostenibile delle aree periurbane, Bologna, Il Mulino, 1999, 331p.
[18] Bevilacqua (Piero), Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, Donzelli, 1996, 224p.
[19] Per esempio : Tiezzi (Enzo) Marchettini (Nadia), Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Le basi scientifiche della sostenibilità e i guasti del pensiero unico, Roma, Donzelli, 1999, 194p.
[20] Si veda, per esempio, il numero speciale della rivista Meridiana, n.41, 2001.
[21] Camagni (Roberto) Gibelli (Maria Cristina) Développement urbain durable, La Tour d’Aigues, L’Aube, 1997, 174p. Cap III : « Milan :une métropole en retard ».
[22]Sui cambiamenti del quadro legislativo: Novarina (Gilles), Plan et projet: l’urbanisme en France et en Italie, Paris, Anthropos, 2003, 233p. Si veda anche:Archibugi (Franco), Eco-sistemi urbani in Italia, Roma, Gangemi, 1999, 319p.
Sulla pianificazione territoriale: Campos Venuti (Giuseppe), Amministrare l’urbanistica, Torino, Einaudi, 300p.
[23] Per un panorama generale della questione : Colombo (Guido), Dizionario di urbanistica: voci e locuzioni d’uso corrente in urbanistica applicata, Milano, Pirola, 1981, 202p.
Venturi (Marco), Town planning glossary, Monaco, Saur, 1990, 277p.
[24] Si veda, per esempio: Marcelloni (Maurizio), Pensare la città contemporanea: il nuovo Piano Regolatore di Roma, Roma-Bari, Laterza, 2003, 236p.
[25] Si veda per esempio: Salvo (A. Enrique), naturaleza urbanizada: estudio sobre el verde en la ciudad, Malaga, 1993, 167p. Rueda Palenzuela (Salvador), Ecologia urbana: Barcelona i la seva regiò metropolitana, Barcellona, Beta, 1995, 266p.
[26] Per esempio : Brand (Peter), Urban environmentalism : global change and the mediation of local conflicts, NY, Routledge, 2005. Frey (Hildebrand), Designing the city: towards a more sustainable urban form, Londra, Spon, 1999, 148p.
La pratica del community planning si colloca tra urbanistica e politiche sociali: se da un lato la comunità è l’esperto in grado di fornire indicazioni ai progettisti per sviluppare soluzioni complessivamente più rispondenti ai bisogni reali, dall’altro il consolidamento della comunità in quanto tale è uno degli scopi del processo di piano. In tal senso infatti si parla di community building, individuando nel processo di formazione dei piani l’occasione per favorire il miglioramento della coesione interna delle comunità locali e i rapporti di vicinato.
Municipal Art Society, New York
Indagare il rapporto tra urbanistica e comunità nella metropoli contemporanea significa avventurarsi in una ricerca difficile e complessa, che necessita di alcune precisazioni. La scelta della comunità come oggetto di indagine può sollevare alcune perplessità, dato che si tratta di una categoria dai contorni non ben definiti e non proprio rappresentativa degli abitanti della New York contemporanea. Il tema è ambiguo anche perché lascia intendere che l’urbanistica – o una sua componente – abbia uno stretto rapporto con le comunità, e questo accade solo in particolari circostanze.
Numerosi studi sociologici ci dicono che la comunità è un’entità sempre più vaga e indeterminata, e che la sua perdita di significato rimanda alla perdita del senso di identità e di coesione sociale che caratterizzano la vita urbana contemporanea. Lo sappiamo grazie agli studi, e molti di noi lo sperimentano personalmente nella vita quotidiana. Eppure nella letteratura che ho esaminato, nei meeting e nelle lezioni a cui ho partecipato a New York, il termine community ricorreva con una certa frequenza. È probabile che il significato attribuito al termine non sia lo stesso che gli si attribuisce in Italia e nella tradizione europea, dove è riferito a comunità storiche nelle quali i legami sociali sono alimentati da un rapporto stabile con un dato gruppo e un dato territorio. Personalmente, ho maturato l’idea che a New York la parola community rimandi ad un modello ideale di organizzazione sociale a cui fare riferimento: la comunità è solidale, coesa, sicura, protettiva. Un’idea alla quale tendere, un modello da seguire per chi si pone il problema di come orientare le politiche e l’azione sociale. Tra le definizioni usate dagli studiosi e dai planners newyorchesi mi sembra che prevalga, con una certa approssimazione, la descrizione della comunità come un insieme di abitanti e di operatori economici che vivono o lavorano abitualmente in una data porzione di città, e che condividono anzitutto un determinato spazio urbano. In questo caso si tenderebbe a superare la definizione classica che rimanda alla società preindustriale, per riferirsi piuttosto a nuove comunità improprie che presentano solo alcune caratteristiche del modello storico. Si tratta di una definizione minima ma funzionale allo scopo del community-based planning che, non solo riconosce la comunità locale come interlocutore, ma che vi si affida per dialogare con gli abitanti di un quartiere, per affrontare i problemi comuni e favorire la partecipazione alla formazione delle decisioni.
Si potrebbe osservare che di comunità in realtà non ne esiste una sola in un dato territorio, e che casomai ne esistono tante, che hanno caratteri poco definiti, instabili e mutevoli, che sono fondate su occasionali interessi condivisi piuttosto che basate su durevoli legami territoriali. Dunque la community cui continuano ad alludere politici, funzionari e urbanisti nei loro interventi pubblici non sarebbe un soggetto di riferimento appropriato.
Tuttavia, come affermano alcuni sociologi, l’idea – o meglio il desiderio – di comunità persiste. Pur nella sua indeterminatezza fisica e temporale, la comunità può trovare la sua ragione d’essere in un dato momento e in un dato luogo, quando un gruppo di persone si riunisce per discutere del futuro del territorio che, almeno temporaneamente, condivide. Perciò questa “ricerca della comunità perduta”, condotta attraverso l’esame delle pratiche urbanistiche e delle analisi socioeconomiche dalle quali le pratiche traggono ispirazione, può essere intesa anche come una sfida, come una provocazione. Andiamo a vedere di cosa si occupano i community planners, chi sono i community leaders, cosa significa community building e, per differenza, di cosa si occupano i poteri politici, economici, istituzionali e i planners più convenzionali.
Il lavoro descrive le trasformazioni urbanistiche e sociali che hanno accompagnato la transizione di New York verso l’economia post industriale e che stanno plasmando la metropoli contemporanea, tentando di evidenziare le sfide che l’urbanistica si trova ad affrontare. La ricerca utilizza due chiavi di lettura privilegiate: 1) gli studi sociologici che si occupano (e si preoccupano) della giustizia sociale, della democrazia e della qualità dell’abitare; 2) quella particolare pratica urbanistica conosciuta come community-based planning.
Attraverso l’esame delle dinamiche sociali, delle scelte politiche e urbanistiche che regolano le trasformazioni urbane, rileggiamo la storia recente ed i problemi quotidiani della città e dei suoi abitanti. Quando l’attenzione si sofferma sulle vicende più note, a fianco della storia “ufficiale” vengono considerate anche letture critiche, che interpretano i fatti ed i loro effetti in un più ampio quadro di interesse generale. Anche se questo esercizio può essere considerato poco interessante per il giornalismo e per le cronache di costume più attenti agli eventi spettacolari (ma spesso anche per la letteratura dell’architettura e dell’urbanistica), può esserlo per chi si occupa degli aspetti sociali dell’intera città. Per chi osserva come si vive la quotidianità nella metropoli più importante al mondo, come questa si trasforma e che rapporto hanno i suoi abitanti con il governo delle trasformazioni. L’esercizio può anche stimolare la riflessione su quanto l’urbanistica serva ai cittadini e al buon governo del territorio, quali interessi asseconda e quali trascura.
Il punto di vista utilizzato per osservare le trasformazioni urbane e i relativi piani non riscuote i consensi e l’interesse delle maggioranze. Infatti, l’urbanistica con le comunità è considerata una pratica relativamente marginale, sia per l’entità del fenomeno sia per l’area sociale cui in prevalenza si rivolge. Non ultimo, per il ridotto peso politico e per la scarsa incidenza sui processi reali di trasformazione delle città, che sono concentrati nelle mani dei cosiddetti poteri forti: politico, finanziario e immobiliare sopra a tutti. [1] Ma la “lente” sociale, messa a fuoco sulla vita quotidiana dei quartieri (delle comunità), consente di vedere in maniera più complessa e più approfondita gli effetti delle politiche e delle azioni di trasformazione urbana. Gli effetti di quelle esternalità, che non sono considerate nella valutazione delle politiche urbane, dei piani di trasformazione fisica, pubblici e privati che si occupano prevalentemente degli aspetti economici e funzionali.
Con lo sguardo rivolto agli abitanti più che agli edifici, questo lavoro cerca di descrivere le “regole del gioco” dell’urbanistica di New York degli ultimi decenni, lasciandole sullo sfondo. Si sofferma, invece, sui piani con le comunità, che raccontano una sorta di “controstoria” delle vicende urbanistiche più conosciute. Il community-based planning è una pratica che affonda le sue radici nella cultura statunitense fin dalle sue origini, nella spiccata attitudine degli “americani” ad associarsi spontaneamente per affrontare le più disparate questioni ritenute di interesse comune. Questa attitudine, che nei secoli ha generato un complesso universo di associazioni non-profit e gruppi di interesse, ha costituito la base della lunga stagione di lotte per i diritti civili, per la pace, contro le ingiustizie sociali e la segregazione razziale iniziate negli anni sessanta e settanta.
In quegli anni nasceva l’ advocacy planning, una particolare forma di urbanistica con finalità sociali che si batteva per una maggiore giustizia sociale, coinvolgendo i cittadini nei processi decisionali e assistendo i più deboli nella difesa dei propri quartieri, nel tentativo di migliorare le loro condizioni di vita. Il community planning americano ha pertanto una precisa connotazione culturale e storica, ma anche geografica: è un fenomeno tipicamente urbano, che nasce e trova alimento nelle città, dove i problemi sociali sono più evidenti e le lotte più accese. E, particolare non trascurabile per gli Stati Uniti, una maggiore densità abitativa. Nelle città lo spazio urbano non è rarefatto, la prossimità ha un significato diverso rispetto ai suburbs, il rapporto con ciò che accade nei pressi è più immediato, nel bene e nel male.
È bene analizzare in profondità le condizioni nelle quali si sviluppa il fenomeno dell’urbanistica con le comunità, comprenderne la sua effettiva utilità sociale. Si eviterà così di banalizzarlo relegandolo ad una pratica ideologica che ha caratterizzato una fase politica ormai trascorsa, o di elevarlo impropriamente a strumento tecnico buono per ogni occasione e in ogni parte del mondo. Quella del community planning è soprattutto una storia di lotte per la difesa dei quartieri da discutibili operazioni di rinnovo urbano, una storia di rivendicazioni per case più umane, meno costose e più vivibili. È una storia di successi e di insuccessi, di un cammino difficile e incerto verso una maggiore equità sociale, verso una partecipazione effettiva alla vita democratica. Un elemento costante di questa storia, come si evince dal nome che porta, è la comunità: quella rete di relazioni, quella sorta di assicurazione sociale di cui hanno bisogno soprattutto coloro che devono unire le forze per difendere i propri diritti in assenza di potere e rappresentatività politica adeguati.
La prima parte del lavoro descrive le “condizioni al contorno” dell’urbanistica newyorchese, raccontando la storia delle trasformazioni urbane della città e delle regole che hanno cercato di governarla. I primi due capitoli prendono largamente a prestito le analisi e le opinioni che urbanisti, storici, sociologi ed economisti hanno sviluppato sulla città. Sono fonti di seconda mano, ma in questo caso mi sono parse necessarie per inquadrare criticamente fenomeni complessi. Una ricostruzione del genere può presentare alcuni limiti, perché pur servendosi di testi collaudati, scritti da autori noti e rigorosi, esprime comunque letture parziali e incomplete del fenomeno osservato. Tuttavia il ricorso a queste letture mi sembra raggiunga lo scopo prefisso: dare un’idea della complessità dei fenomeni, collegare fatti, persone e cose in un modo che sarebbe difficile per un osservatore esterno che attinga prevalentemente alle fonti di prima mano come i dati, le normative e i comunicati ufficiali.
Il secondo capitolo, dedicato a comprendere il contesto economico e sociale, si chiude con una domanda che si è fatta progressivamente avanti osservando le diverse anime dell’urbanistica newyorchese, e che ha trovato qualche conferma nelle analisi socioeconomiche sulla New York degli anni ottanta: esiste una doppia urbanistica così come esiste una città duale? Emerge il ritratto di una città sempre più polarizzata nella sua composizione sociale: da una parte un’élite ricca e potente, ben connessa e consapevole dei propri interessi, e tutto il resto dall’altra parte, una miriade di minoranze che rappresentano la stragrande maggioranza, un magma estremamente dinamico che ha in comune soprattutto la frammentazione sociale. La mia impressione è che a questo quadro sociale facciano da specchio le diverse anime della pianificazione urbanistica: queste, pur non potendo essere ridotte ad una banale dicotomia – come del resto anche la società nel suo insieme – sembrano descrivere un’urbanistica del potere e un’altra, eterogenea, che nasce dalle esigenze delle comunità e ritorna alle comunità. Queste ultime, debolmente e faticosamente, cercano di reclamare pari opportunità e pari considerazione rispetto alle élites, di ridurre le sperequazioni nelle scelte urbanistiche e nelle scelte politiche che riguardano l’intera vita sociale della città.
La seconda parte è dedicata agli approfondimenti, e indaga le condizioni sociali e politiche nelle quali si manifesta la partecipazione. Si inizia con i soggetti protagonisti della partecipazione: le comunità e le associazioni. È l’occasione per riflettere sul concetto di comunità e sul ruolo peculiare che hanno le associazioni nella società americana. L’attenzione si sposta poi sulle pratiche della partecipazione, ripercorrendo le origini e le motivazioni dell’ advocacyplanning. Chiude il capitolo un esame sulle forme che la partecipazione può assumere, indagando la relazione che intercorre tra pianificazione e potere. Anche questo capitolo fa ampio ricorso ad interpretazioni fornite da altri autori, attraversa i confini disciplinari dell’urbanistica per approdare nel più ampio campo delle scienze sociali, dove sembra trovare un significato più ampio e correlarsi al più esteso insieme delle politiche urbane e, con azioni complementari, perseguire obiettivi comuni.
La terza parte affronta l’argomento centrale del lavoro: come si manifesta l’urbanistica con le comunità nella città di New York? Dopo un breve richiamo alle origini del community planning negli USA l’indagine si sviluppa descrivendo le caratteristiche specifiche del planning newyorchese, le sue leggi, la sua storia e le sue applicazioni. Perché si fanno piani comunitari, a chi sono rivolti e chi coinvolgono, come si manifestano e quali sono i loro effetti concreti. Il capitolo si conclude esaminando le relazioni che intercorrono tra l’urbanistica e la programmazione economica, con una riflessione sulla spesa pubblica cittadina.
La quarta parte esamina alcuni esempi: si tratta di esperienze accomunate dalla partecipazione, ma che nascono e si sviluppano in contesti e con modalità anche piuttosto diversi tra loro. Il caso di Greenpoint a Brooklyn esamina un piano della “partecipazione ufficiale”, realizzato secondo le disposizioni della normativa comunale, interessante anche per la complessità dei temi trattati. Il piano di Melrose Commons, nel Bronx, descrive un’esperienza riuscita di opposizione ad un piano di rinnovo urbano progettato per la comunità – ma che l’avrebbe notevolmente danneggiata – e sostituito da un nuovo piano costruito con la comunità e con tutti (o quasi) i soggetti pubblici che a vari livelli rappresentano il quartiere, dalle associazioni ai politici. La proposta di piano per Hell’s Kitchen, a Manhattan, descrive un’esperienza relativamente più giovane e immatura, ancora in corso, e perciò più difficile da valutare. Ma è interessante per lo svolgimento del processo e per la collocazione dell’area: si tratta infatti della parte più ad ovest di Midtown, un’area dove è in atto un conflitto tra una comunità coesa ma debolmente rappresentata e gli enormi interessi immobiliari dei developers e dei proprietari fondiari che vorrebbero espandere nel quartiere il cuore finanziario della città. Il contrasto è accentuato dalle ipotesi di localizzazione nella stessa area di strutture sportive che ospiterebbero parte dei Giochi Olimpici del 2012 in caso di assegnazione alla città di New York.
Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.
Manuel Castells, Volgere di millennio
In questo lavoro abbiamo assunto la città di New York come un osservatorio privilegiato per comprendere le trasformazioni fisiche e sociali della città contemporanea. Qui si possono osservare in modo più evidente che altrove i fenomeni che caratterizzano il passaggio dalla società industriale a quella dell’informazione e dell’economia globalizzata. Attraverso la ricca letteratura disponibile abbiamo analizzato le principali trasformazioni urbane e i corrispondenti mutamenti economici e sociali, cercando di comprendere il ruolo che l’urbanistica ha avuto in questa vicenda.
Abbiamo così appreso come l’urbanistica pubblica e il mercato immobiliare siano state spesso alleate, e come un’ “altra urbanistica” abbia tentato di rappresentare le ragioni dei cittadini comuni, di promuovere percorsi di pianificazione più rappresentativi degli interessi della città e dei suoi abitanti. Abbiamo potuto constatare come l’urbanistica con le comunità proponga oggi un approccio alla pianificazione molto attuale rispetto alle questioni da affrontare, per molti aspetti anche più attuale di quando, negli anni sessanta, nacque l’advocacy planning. Se allora la sfida del community planning rientrava nei più ampi social movements per l’estensione dei diritti civili, ora la stessa sfida si fa più impegnativa, perché l’urbanistica partecipata è chiamata a contribuire al rafforzamento complessivo delle condizioni che favoriscono la coesione sociale, siano esse fisiche o relazionali.
Tuttavia, porre questioni attuali, evidentemente, non basta. Le trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni non solo hanno favorito l’accentuazione delle disuguaglianze, ma hanno visto anche un progressivo indebolimento dell’attivismo sociale e politico, e dunque dell’elemento su cui principalmente si basa l’urbanistica con le comunità. Ci troviamo così di fronte ad una situazione paradossale: in un’epoca che registra la progressiva disgregazione dei legami sociali e la caduta dell’interesse per le questioni di pubblico dominio diviene maggiore la responsabilità delle istituzioni (pubbliche e private) che hanno finalità sociali. A maggiore responsabilità, però, non corrispondono adeguati strumenti.
Dalla lettura delle trasformazioni urbane degli ultimi quarant’anni, si osserva come città si è dovuta misurare con un processo di crescita e di trasformazione continuo e imponente, a causa del forte dinamismo economico e demografico seguendo, invece di organizzare preventivamente, il proprio sviluppo urbano. New York è allo stesso tempo l’immagine del liberalismo e dell’accumulazione dei capitali come dei suoi effetti secondari: forti disuguaglianze, situazioni di marginalità e di degrado, fanno da contraltare alla ricca città del commercio e della finanza. La forza economica del mercato immobiliare appare evidente ma, inaspettatamente, emerge un’importante componente pubblica nelle vicende di trasformazione urbana più importanti degli ultimi decenni. Ingenti finanziamenti pubblici hanno infatti sostenuto molte delle principali operazioni immobiliari private che hanno cambiato il volto della città, contribuendo ad accelerare la transizione verso la città della finanza e dell’informazione. Chi critica il sostegno pubblico a queste operazioni lo fa segnalando la contraddizione del sostegno al mercato più redditizio (degli uffici e delle residenze di lusso) a danno delle politiche di sostegno ai ceti più deboli (Fitch 1983). Questi ultimi risultano danneggiati sia direttamente dagli interventi realizzati, sia indirettamente, a causa della riduzione dei fondi per interventi di rigenerazione urbana delle aree più svantaggiate.
Gli abitanti di New York hanno talvolta contrastato le operazioni di rinnovo urbano, e dalle proteste spontanee si è sviluppato il community planning (Jacobs 1961, Angotti 2002). Emerge anche il contrasto tra due modi opposti di intendere l’amministrazione del potere: da una parte il verticismo decisionista e autoritario che ha visto uniti i poteri economici più forti (la FIRE Industry) e il potere pubblico, quest’ultimo abilmente condizionato dai primi attraverso strumenti di pressione come le fondazioni private (Fitch 1983). Dall’altra parte invece, una concezione della democrazia estesa, protesa verso l’estensione della rappresentatività, dell’inclusione di tutti i gruppi sociali (Davidoff 1965).
Uno sguardo sulla New York degli anni novanta evidenzia i fenomeni della polarizzazione sociale, economica e territoriale: le tendenze dei decenni precedenti si sono accentuate (Sassen 1997, Mollenkopf-Castells 1991). Nel multiverso economico e sociale della metropoli globale si riconoscono sempre più distintamente una élite economica ben organizzata che plasma i centri principali della città a sua misura ed immagine, così come si dota di nuove politiche e di nuovi strumenti funzionali al mantenimento dello stato delle cose. Basti pensare ai casi in cui, nei decenni trascorsi, a fronte di un disagio crescente nel fabbisogno della casa, venivano tagliati i fondi per l’housing e la rigenerazione di aree degradate mentre venivano finanziati quartieri per uffici e residenze di lusso nel nome dello sviluppo.
Alle scelte politiche degli ultimi decenni, che hanno guidato la transizione post industriale verso la global city e favorito lo sviluppo di una “città duale” (Mollenkopf-Castells 1991), fanno da specchio anche due diversi modi di intendere l’urbanistica: dalla parte del potere e dalla parte delle comunità.
Il fenomeno dell’advocacy planning, dell’urbanistica radicale schierata alla difesa degli interessi più deboli, ha radici antiche, che affondano nella stessa struttura sociale e politica degli Stati Uniti. Già Alexis De Tocqueville (1835) osservava come gli americani si distinguessero per la spiccata attitudine a formare associazioni della più varia natura, per affrontare problemi comuni. Egli rilevava come la proliferazione delle associazioni fosse anche una risorsa per la nascente e fragile democrazia americana, perché una solida e articolata pluralità di interessi, una solida società civile, avrebbero frenato gli abusi di potere da parte dei partiti o “del principe”. La forte concentrazione di interessi e di potere a cui assistiamo oggi smentisce in parte Tocqueville, ma non vanifica le sue analisi: la società civile ha tentato e tenta tuttora di opporsi alla “tirannide economica e politica”, e da essa nascono i movimenti per i diritti civili e il community planning.
Analizzando più in profondità la società civile emergono due soggetti di riferimento: la comunità e le associazioni. La comunità, oggetto dai contorni mutevoli e dai legami instabili, si pone come riferimento perché incarna l’idea di “bene comune”, di “locale”, di qualcosa che è più vicino ai cittadini di un generico interesse pubblico dato in delega ad altri (Etzioni 2000, Bauman 2001). La comunità tutela gli esclusi e chi non è rappresentato, è il riferimento di un pluralismo più esteso e più rappresentativo. La comunità richiama anche l’idea di coesione sociale, un patrimonio immateriale che è riconosciuto come elemento fondamentale per una società sana, aperta, fiduciosa, solidale, capace di prosperità economica (Fukujama 1996, Bagnasco 1999). Senza coesione sociale il prezzo da pagare è la disgregazione della città, la marginalità di ampie fasce di popolazione, l’indebolimento della fiducia reciproca necessaria per lo sviluppo economico.
Le associazioni, soprattutto quelle di tipo comunitario e del settore non-profit, sono a loro volta riconosciute come un fondamentale collante sociale (Dockerty, Goodland, Paddison). La loro inclusione nei processi decisionali e nelle politiche istituzionali è considerata altrettanto importante per l’attuazione di politiche di governance giuste ed efficaci. Molti studi affermano che le politiche e i piani di rigenerazione urbana che non considerano adeguatamente i soggetti destinatari e che non adottano processi partecipati rischiano di fallire i loro obiettivi (Dockerty, Goodland, Paddison). La seconda parte del lavoro ci suggerisce dunque che l’urbanistica con le comunità, se inserita nel contesto più ampio delle politiche urbane rivolte alla rigenerazione urbana assume un rilievo strategico, superando i confini angusti della gestione e ricomposizione dei conflitti sociali e della protesta.
La riflessione si conclude con qualche avvertenza circa il rapporto tra pianificazione e potere e circa le possibili mistificazioni del principio della partecipazione. Non è sufficiente che le istituzioni garantiscano la riproduzione della struttura sociale nei processi decisionali, poiché ciò significherebbe soltanto riprodurre gli squilibri di potere esistenti, senza garantire una effettiva influenza dei meno rappresentati. Inoltre, i decisori pubblici hanno la possibilità di favorire o di scoraggiare la partecipazione democratica, di informare o disinformare, di essere trasparenti o di manipolare le informazioni, condizionando l’andamento dei processi (Forester 1989). Per queste ragioni la partecipazione richiede la presenza costante e vigile delle associazioni che rappresentano i diversi gruppi sociali: la democrazia è “un meeting senza fine” (Polletta 2002).
La terza parte analizza le forme e i contenuti dei piani comunitari realizzati a New York. La maggior parte dei piani ha dimensione locale, prevalentemente alla scala del community district, il livello amministrativo locale più vicino ai cittadini. Possono essere settoriali o generali, promossi dalle comunità in autonomia o in associazione ad agenzie pubbliche. Si occupano di sviluppo economico, di rigenerazione urbana, di trasporti, di housing, di questioni ambientali, di zonizzazione e di funzioni urbane. Molti di essi hanno carattere informale, non codificato da una norma di legge; i più importanti fanno riferimento all’articolo 197-a dello Statuto comunale, che stabilisce il principio fondamentale per il quale associazioni di cittadini, attraverso i diversi organi amministrativi, possono promuovere piani partecipati.
A New York la lunga esperienza sviluppata dalle comunità con il sostegno di tecnici e università ha portato ad una naturale maturazione degli strumenti. I limiti alla loro efficacia e perciò alla loro diffusione sono da ricercare soprattutto nel debole sostegno da parte delle amministrazioni locali, nell’eccesso di burocrazia, nella difficoltà di legare i piani alla programmazione economica e al bilancio comunale. Ciò nonostante i piani comunitari hanno fornito l’opportunità di estendere la partecipazione civica nel governo locale e avvicinato i cittadini ai problemi del loro territorio.
Molto rimane da fare. Per la dimensione dei problemi di New York l’impegno di risorse economiche e umane dovrebbe crescere sensibilmente. Un aspetto strettamente correlato all’attuazione dei piani riguarda la programmazione economica e la gestione della spesa pubblica. I piani 197-a incontrano difficoltà sia nel reperire fondi per la loro formazione sia per il loro sviluppo operativo. Anche nel caso che siano utilizzati dalle amministrazioni locali per il loro scopo, come linee guida per l’attuazione di politiche e programmi di varia natura, spesso mancano fondi per l’attuazione dei programmi, fondi che provengono in buona parte dal bilancio comunale. Nei periodi di crisi finanziaria della città come quello attuale i tagli si abbattono soprattutto sul welfare, mentre la pressione fiscale privilegia le imprese rispetto ai cittadini. Gli osservatori più critici sostengono invece che il sistema fiscale e di spesa pubblica dovrebbe essere rivisto, alleggerendo la pressione sui ceti medi e accrescendo la spesa per il miglioramento dei servizi. In tal modo sarebbero poste le premesse per uno sviluppo più equilibrato e duraturo.
I tre casi esaminati nella quarta parte rappresentano altrettante diverse declinazioni dell’urbanistica con le comunità. Diversi per scale di intervento, per situazioni ambientali, per la natura degli strumenti utilizzati, questi piani hanno in comune l’approccio metodologico e le finalità generali. Si tratta naturalmente di piani che affrontano il tema della rigenerazione urbana con un approccio “dal basso”, vicino alle esigenze degli abitanti. Il principio guida è il coinvolgimento di tutti i gruppi sociali e portatori di interessi nel processo di pianificazione e di formazione delle decisioni. Il caso di Melrose Commons, nel Bronx, è quasi esemplare nel testimoniare come una progettazione che coinvolge attivamente i cittadini, gli operatori economici locali, i livelli istituzionali in un processo aperto e ben coordinato da una agenzia di sviluppo locale, può produrre risultati sensibilmente migliori sul piano della qualità progettuale e della adeguatezza delle soluzioni al contesto specifico. In questo caso poi, l’iniziativa è riuscita a trovare finanziamenti anche per sperimentazioni d’avanguardia nel campo della tecnica costruttiva e della sostenibilità ambientale. A proposito della sostenibilità sociale l’esito del confronto con le esperienze di rinnovo urbano precedenti è ancora più netto: se la storia parla di vere “diaspore” in seguito alla demolizione e ricostruzione di interi quartieri, qui al contrario, il processo di rinnovo è stato studiato accuratamente per evitare la dispersione, sulla base delle necessità degli abitanti.
Il piano 197-a di Greenpoint è interessante per i contenuti, per certi aspetti assimilabili a piani di indirizzo strategico o alle agende XXI, nel porsi come documento di riferimento per le politiche di sviluppo del distretto. Dato che i piani 197-a hanno carattere programmatico e non prescrittivo, il piano di Greenpoint è affiancato da proposte attuative coerenti che fanno riferimento ad altri strumenti tecnici e finanziari: dalle modifiche alla zonizzazione di piano ai programmi per la riconversione di aree industriali, ai programmi di housing pubblico.
Il piano per Hell’s Kitchen, difficile da valutare perché l’iter decisionale è ancora in corso, pone in evidenza due aspetti particolarmente interessanti: la proposta di piano partecipato del community board, prodotta con un processo durato anni, si contrappone ad un piano del Dipartimento di Planning cittadino. Dal confronto dei due scenari e delle loro argomentazioni il primo appare più sensibile alla difesa del tessuto sociale ed economico esistente e allo sviluppo di una città più articolata, con una maggiore attenzione alla vivibilità degli spazi pubblici. L’altro aspetto da rilevare è che qui si confrontano due modelli di sviluppo piuttosto diversi: le macrostrutture finanziarie e della grande distribuzione da un lato e il quartiere “a misura d’uomo” dall’altra. La sostituzione radicale del tessuto edilizio e sociale esistente si contrappone alla conservazione delle strutture e delle relazioni consolidate nel tempo e considerate patrimonio da difendere. Qui si confrontano, più che altrove, le due opposte espressioni della “città duale”.
Che senso ha, dunque, parlare di urbanistica con la comunità oggi a New York? Ha senso anzitutto come testimonianza di una precisa idea di governo e di democrazia: pluralista, trasparente, inclusiva di tutti i gruppi sociali. Un approccio nel quale al centro è la comunità, l’immagine di un più complesso orizzonte a cui guardare: la difesa della coesione sociale, la valorizzazione delle differenze, l’attivazione di politiche a sostegno dei gruppi sociali e delle aree più deboli, il riconoscimento del valore degli spazi pubblici come elementi essenziali per la vita della città. In sintesi, un approccio all’urbanistica che cerca il dialogo con la società urbana per difenderne i suoi stessi caratteri costitutivi e la sua straordinaria complessità.
La trasformazione economica e sociale di New York, come delle principali aree urbane dei paesi economicamente avanzati, segnala una tendenza opposta anche nelle pratiche prevalenti in campo urbanistico, come è illustrato nel secondo capitolo. La tendenza alla disgregazione del tessuto sociale nella forma in cui lo conosciamo e l’aumento delle differenze economiche pongono seri interrogativi ai quali non può certamente rispondere l’urbanistica né tantomeno una sua parte come il community planning, che conta su risorse modeste e si misura con una società sempre meno propensa a farsi carico delle questioni di interesse comune. Tuttavia le istituzioni non possono assistere passivamente: le scienze sociali individuano uno stretto percorso sul quale possono incontrarsi lo Stato, la società civile e le associazioni, anche nell’interesse del mercato.
La zona viva, all’interno della quale ricercare soluzioni che compensino sia la debolezza del welfare statale e dell’urbanistica pubblica che gli eccessi del mercato è forse la zona nella quale si identificano la comunità, il quartiere, il locale. Il luogo dal quale partire per cercare di ricucire nuove reti sociali e riprodurre il capitale sociale.
Il tratto emergente dell’urbanistica con le comunità consiste nell’aver raccolto e organizzato le reazioni dei cittadini nei confronti di trasformazioni urbane considerate inique o sbagliate, nell’aver dato voce ai bisogni di una parte della popolazione, generalmente la più povera e meno rappresentata.
L’osservazione delle interazioni tra istituzioni e comunità può essere molto utile per comprendere i fenomeni sui quali si interviene con le politiche e con i piani. Può anche essere utile agli estensori delle politiche pubbliche e dei piani urbanistici per valutare gli effetti sociali delle loro scelte, così come gli effetti economici indotti, non limitati all’intervento previsto. Può essere utile ai decisori – strumentalmente – per manipolare il consenso senza condividere realmente le decisioni e il potere, contrabbandando la partecipazione formale per una pratica di democrazia. Guardando gli effetti diretti delle esperienze di community planning è sufficiente analizzare l’ormai ricca letteratura prodotta dagli attori sociali (planners, comitati, associazioni, ecc.) o dagli studiosi per registrare i benefici – o almeno le aspettative – che questo tipo di pianificazione genera nel tessuto sociale della città. Con le avvertenze di considerarne anche i limiti: la debolezza intrinseca di questi processi, il rischio di cadere nell’ideologia e nel radicalismo, nell’illusione e nella disillusione, nella dispersione inutile di tempo, denaro e risorse umane.
In conclusione, sembra possibile descrivere almeno due distinte modalità di approccio al rapporto tra urbanistica e comunità: l’urbanistica con le comunità, ma anche l’urbanistica per le comunità. Intervistando Eva Hanhardt, già vice direttore dell’Urban Center della Municipal Art Society, le sottoposi un titolo possibile per la mia ricerca: Planning for communities, intendendo comprendere in quel titolo tutte le attività pianificatorie che considerano centrale la valutazione degli effetti sociali, e non si limitano agli aspetti strettamente tecnici o economici. Lei mi chiese se in italiano per avesse lo stesso significato del termine inglese for, e poi mi corresse: with communities, not for. La differenza era per lei sostanziale: per le comunità è l’urbanistica top-down; con le comunità è l’urbanistica bottom-up. La prima è quella dei cosiddetti poteri forti, inclusi gli enti pubblici, che pianificano in nome dell’interesse pubblico e dei cittadini ma non sempre tengono conto realmente delle loro esigenze e delle loro opinioni. La seconda, che spesso si contrappone alla prima ma che dovrebbe essere almeno complementare, è l’urbanistica che nasce nelle comunità, tra i cittadini che vogliono partecipare alle decisioni che riguardano il proprio quartiere e la propria città.
[1] È di uso comune definire con una sigla questo potere: FIRE, Finance, Insurance and Real Estate industry, (l’industria della finanza, delle assicurazioni e del settore immobiliare), forze trainanti dell’economia post industriale di New York.
Premessa
La presente tesi si propone di contestualizzare il gioco basato sul web, GioCoMo – che si presenta come uno strumento interattivo di consultazione e di costruzione di nuove ipotesi progettuali, applicato al contesto dello studio di fattibilità di un sistema di metrotranvia in Como – all’interno della sfera degli strumenti partecipativi della pianificazione territoriale ed urbanistica.
Nell’ultimo decennio, il tema della partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione della città e del territorio – abbandonate le connotazioni più ideologiche ed istituzionalizzate del passato – ha acquisito maggiore risalto all’interno del dibattito urbanistico e destato l’attenzione di alcuni istituti universitari e culturali che, in risposta alle strategie inclusive e di best practice europee e internazionali, hanno avviato un percorso disciplinare dai molteplici tracciati teorici e sperimentali. Tuttavia, di fronte alla proposta di adottare approcci di tipo consensuale, la pubblica amministrazione risponde quasi sempre con diffidenza e riluttanza adducendo motivazioni di carattere pratico (mancanza di risorse, iter procedurali troppo lunghi e complessi, ecc.), ma in realtà temendo che ciò comporti una perdita di potere e prestigio, nonostante i numerosi vantaggi, riconosciuti da più parti, che queste nuove modalità decisionali, se gestite adeguatamente, apporterebbero alla pratica urbanistica (tra tutti, la definizione di soluzioni condivise, conformi ai problemi sollevati dalla comunità, più efficaci e durature nel tempo). Pertanto, l’urbanistica partecipata non si pone come alternativa alla pianificazione tradizionale, ma anzi, intende restituire credibilità e fiducia ad un processo di gestione del territorio fortemente in crisi, perché impreparato a governare uno scenario sempre più complesso, morfologicamente governato dalle regole del mercato, socialmente mutevole, instabile, e culturalmente diversificato, e soprattutto incapace di gestire i conflitti scaturiti dalla crescente richiesta dei cittadini di una maggiore considerazione delle proprie opinioni sulle iniziative politiche di cui saranno i destinatari. La crisi di legittimazione del consolidato modello di pianificazione sembra dunque frutto di un più diffuso malessere, individuabile nell’elevata diffidenza e sfiducia nei confronti degli organi rappresentativi del governo, che porta alcuni ad affermare di essere di fronte ad una crisi dell’attuale sistema democratico.
Partendo da queste considerazioni generali, dapprima è stata affrontata la questione della "democrazia" ed in particolare di come le diverse nozioni teoriche si siano evolute dal concetto classico di "demokratia" fino ad arrivare alla concezione moderna (capitolo 1), che oggi è messa fortemente in discussione dalla crisi di legittimazione della politica, fenomeno presente non solo nel nostro paese. La crescente disaffezione nel sistema politico (talvolta attribuibile ad un reale disinteresse degli elettori) e la diffusa sfiducia verso le istituzioni, possono anche tradursi nella richiesta di una maggiore partecipazione, soprattutto nei casi in cui i cittadini desiderino non delegare totalmente la responsabilità decisionale ai propri rappresentanti. Tale necessità, sentita in particolar modo nell’ambito della gestione del territorio (elemento forse più vicino e quindi più sentito dalla popolazione che si è rivelata capace di attivare proteste anche molto intense e durature) e oggi agevolata dallo sviluppo delle nuove tecnologie, ha portato alla formulazione di nuovi approcci di stampo argomentativo e partecipativo, in grado di restituire un ruolo centrale ai cittadini attraverso una serie di tecniche sperimentali che si adattano al contesto in cui si sta operando e al tipo di comunicazione che si vuole instaurare (capitolo 2). In seguito, l’analisi sull’evoluzione della pianificazione partecipata dagli anni settanta ad oggi, e sulla tendenza assunta nell’ultimo decennio dalle politiche internazionali e italiane, hanno reso necessario approfondire cosa si intenda per "partecipazione", esplorandone le caratteristiche e le ragioni a favore e contro (capitolo 3), e come possa concretizzarsi nei processi di pianificazione, presentando le principali tecniche partecipative. La descrizione di come il coinvolgimento attivo dei cittadini nei processi di trasformazione urbana possa assumere distinti gradi di intensità e di influenza, consente infine di introdurre una particolare tipologia di strumenti partecipativi, i giochi di simulazione, ed in particolare di presentare le caratteristiche, gli obiettivi, i pregi e i difetti di GioCoMo (GIOco COmo MObilità).
La crescente complessità delle moderne società industriali, caratterizzate dalla convivenza – talvolta forzata – di molteplici razze e culture, dalla presenza di interessi corporativi che possono sfociare in aspri conflitti e dall’impossibilità delle fasce più deboli della popolazione di intervenire nel processo decisionale, associata alla sempre maggiore sfiducia nei confronti dell’elitaria rappresentanza politica, ha condotto progressivamente la pratica urbanistica tradizionale alla crisi. L’incapacità nel gestire comunità «sempre più differenziate e in rapido mutamento», ha infatti portato la pianificazione «dirigista e autoritaria» a rivendicare solo «più autorità, più poteri, spesso peggiorando la situazione» [1], ossia accrescendo il divario tra sfera pubblica e privata, indotto dalla mancanza di comunicazione e di fiducia. Si è reso quindi necessario individuare e promuovere un alternativo approccio progettuale e comunicativo – la pianificazione partecipata e condivisa – che prevedesse la collaborazione dei cittadini alla costruzione di politiche pubbliche, in particolare urbanistiche, di cui saranno poi i destinatari. Negli ultimi anni, queste pratiche "innovative" stanno diventando sempre meno sporadiche, grazie anche all’iniziativa di alcuni istituti culturali (come l’INU) e universitari (come il "Laboratorio Ombrello" dello IUAV e il "Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti" dell’Università di Firenze) che hanno sollecitato un dibattito costruttivo attorno a questi temi, e incoraggiato l’attuazione di processi di partecipazione nelle politiche urbane, come confermano le numerose rassegne sulle esperienze partecipative presenti nella letteratura di settore.
La partecipazione, che sarà analizzata in seguito più dettagliatamente, può avvenire in diversi modi, a seconda del grado di coinvolgimento effettivo: «Ci sono i casi, più semplici, di consultazione, in cui i cittadini sono chiamati a esprimere il loro punto di vista sul progetto predisposto dall'amministrazione, come avviene nelle inchieste pubbliche ( public inquires) britanniche. Ci sono esperienze più complesse in cui viene riconosciuto ai cittadini il potere di discutere il merito del progetto e a negoziarlo con l'amministrazione o in cui il compito di definire l'intervento pubblico viene interamente delegato alle comunità destinatarie. Esistono anche esperienze in cui una specifica politica locale è affidata alla discussione e alla valutazione di un gruppo di «cittadini comuni» o di utenti di un servizio ( citizens panels o citizens juries).» [2].
La scelta di ricorrere a pratiche partecipative di questo e di altro tipo è dettata dalla necessità di costruire quadri di significato condivisi – attraverso un «processo di reframing, cioè di de–costruzione delle immagini conflittuali e di ricostruzione di possibili prospettive condivise» [3] – che consentano di ridurre i conflitti ideologici e sociali, e di prevenire, o almeno mitigare, l’opposizione delle comunità direttamente coinvolte negli interventi pubblici. È dettata inoltre dalla volontà, sia di rendere la cittadinanza maggiormente consapevole e informata, sia di fornire uno strumento – alternativo a quello del voto – che permetta di esprimere consenso (o eventualmente dissenso) sull’operato pubblico.
Il passaggio dalla democrazia diretta alla democrazia rappresentativa - indotto anche dalla presenza, nei moderni Stati democratici, di popolazioni sempre più numerose e disperse sul territorio – ha reso le periodiche elezioni (e gli occasionali referendum e plebisciti, adatti solo in casi particolari) gli unici mezzi legittimi di espressione della volontà popolare.
« Dall’antichità classica al diciassettesimo secolo, la democrazia è stata largamente associata con la riunione assembleare dei cittadini e con i luoghi pubblici dedicati a tali incontri. Alla fine del diciottesimo secolo essa cominciò ad essere pensata in termini di diritto della cittadinanza a partecipare alla determinazione della volontà collettiva tramite la mediazione di rappresentanti eletti.» (Held,1997)
Anche se «tutte le democrazie funzionanti» autorizzano, oltre al voto, «anche l'espressione extraparlamentare del dissenso (marce, dimostrazioni di piazza, scioperi di ogni specie)», eccetto, com’è ovvio, qualsiasi forma di violenza o di «altro atto che costituisca reato» [4], queste manifestazioni di malcontento godono sempre meno di una effettiva considerazione da parte dei governanti che scelgono di non "cedere alla piazza", cercando di mantenere il processo decisionale il più possibile al di fuori della sfera pubblica, e quindi di negoziare le decisioni politiche "dietro le quinte". Delegando l’esercizio del potere, i cittadini hanno perso il controllo sulle decisioni politiche, ovvero la possibilità di sollevare problemi, proporre soluzioni alternative, intervenire sull’agenda del governo, «devono limitarsi ad attendere le elezioni successive per giudicare se [il leader eletto] ha governato bene o male» [perché] ogni altro atteggiamento altererebbe la logica maggioritaria» (Rodotà, 2002). Dato che ciò «può trasformarsi, e sovente si trasforma, in alienazione del potere decisionale, comportando l'annullamento di fatto dei controlli democratici», e vi è il rischio che «i bisogni concreti» siano «manipolati dalle interpretazioni di mediatori avulsi dalle contingenze della vita quotidiana», «sembra imporsi la necessità di superare la democrazia rappresentativa per realizzare una democrazia diretta» (Bobbio, 1981; Dahl, 1987).
Per questo motivo, di fronte ad una «"democrazia senza popolo"», determinata non solo da una crescente astensione elettorale, ma anche dalla presenza di «assemblee elettive [che] si svuotano di senso e di potere; diventano luoghi di registrazione meccanica della volontà di maggioranze "blindate"», e ad un trasferimento della politica «nel sistema dei media», molti cittadini, spinti dal «bisogno di vivere collettivamente la politica», sono tornati ad occupare le piazze per far sentire la loro voce [5]. Appare quindi necessario rispondere a questo «bisogno di autorappresentazione» derivante alla scarsa fiducia dell’opinione pubblica per i politici, offrendo ai cittadini una partecipazione che vada oltre la scelta elettorale o la consultazione attraverso referendum elettronici che riguardano proposte elaborate senza la loro presenza. In tutto ciò, le tecnologie, spesso già sperimentate a livello locale, avranno un ruolo determinante nel consentire alla cittadinanza di intervenire effettivamente nelle diverse fasi del processo decisionale.
Da quanto detto, si evince che democrazia e pianificazione partecipata sono strettamente interconnesse. Non è quindi possibile approfondire il tema della partecipazione nell’ambito della pianificazione urbanistica, senza prima aver presentato almeno una rapida rassegna dei modelli di democrazia presenti nella letteratura (ponendo particolare attenzione alla legittimazione del potere, la formulazione delle decisioni, la regolamentazione della partecipazione di base).
[1] Balducci A., (1996), "L’urbanistica partecipata", p. 18
[2] Bobbio L., (2002), I governi locali nelle democrazie contemporanee, p. 192
[3] Balducci A., (1995), "Progettazione partecipata fra traduzione e innovazione", in Urbanistica, n.103, p. 116
[4]Luttwak E. N., Creperio Verratti S., (1996), Che cos’è davvero la democrazia, p. 56
[5] Rodotà S., (2002), "Democrazia senza popolo", in La Repubblica, 8 aprile 2002
J'aimerais t'emmener cheminer avec moi, sur des sentiers fantasmagoriques, à l'image d'un Walter Benjamin[1] (modestement). "Lire la ville" ensemble, en appréhender les dimensions sémantiques, dans une sorte de "phénoménologie de la vie", de la ville.
Un parcours qui nous emmènera à la découverte d'un récit de la ville; à l'observation de quelques définitions et de différentes manières théoriques d'appréhender la ville. Pour nous retrouver ensuite à Venise, après avoir traversé certains événements historiques choisis, qui marquent aujourd'hui encore les représentations que l'on a de cette ville lagunaire[2]; et pour finir je te donnerai un aperçu de quelques lieux de référence de l'imaginaire urbain et du débat sur la nature de Venise, et de toutes les villes, en dernière analyse.
Le sujet de ma recherche sera Venise.
Une ville en représentation, les représentations d'une ville, de toutes les villes. Venise, comme emblème de la construction mythologique que sont toutes les villes, ou - pour reprendre ce que Walter Benjamin dit de Paris dans son livre "Paris, capitale du XIXème siècle" -, une ville "de fantasmagories où la réalité s'affuble des atours de l'opérette d'Offenbach".
"Ville en représentation, représentations sur la ville, ville à paraître, ville être-à-part: on ne perdra pas de vue le risque d'anthropomorphisation qu'impliquent ces termes, comme si la ville se donnait à voir alors qu'on la donne à voir, selon des règles des lois du marketing et de stratégies sur l'espace, et en faisant appel à nos cartes mentales.
[...]
Praesens c'est le présent, repraesentare c'est rendre présent quelque chose; à partir de là, on ne peut qu'accumuler une gerbe de synonymes: présentation, exhibition, description, évocation, figuration, illustration, image, portrait, tableau, spectacle, comédie, mais aussi symbole, allégorie ou emblème, ou encore figure, croquis, dessin schéma, plan et carte.
«Paraître», c'est tout cela."[3]
Pour pouvoir explorer les rapports emblématiques à la ville que l'on trouve à Venise (et qui ne seront qu'esquissés dans le cadre de ce mémoire de licence, mais ça c'est une autre histoire), des rapports parfois épidermiques tant ils sont intenses, il me faut dans un premier temps effectuer un travail théorique qui cherche à tracer une définition de la ville, au travers d'un parcours historique d'abord, et de la reproduction d'une grande partie des discours portés sur elle ensuite.
Et l'on verra qu'il y a presque autant de définitions qu'il y a de villes...
Mais tout de suite, délimitons mon sujet de recherche. Définir, au moins d'un point-de-vue spatial, ce que j'entends lorsque j'écris: "le sujet de ma recherche sera Venise".
La Commune de Venise est - depuis 1926 - une "ville-territoire". Elle est une articulation territoriale savante et fragile entre l'archipel d'îles de la lagune, la terre ferme, et les littoraux. Mais cette ville-territoire est sans nom.
Ainsi, lorsque l'on parle de Venise, c'est bien le centre historique insulaire qui vient immédiatement à l'esprit. Et ce sera donc la délimitation de mon sujet de recherche, Venise tel que l'entend le sens commun relayé par les guides touristiques, un centre historique composé de six Sestieri: San Marco, Castello, Cannareggio, Santa Croce, San Polo, et Dorsoduro.
D'ailleurs, dans l'imaginaire des Vénitiens eux-mêmes, il est rare que le "reste" soit considéré comme faisant intrinsèquement partie de Venise. C'est ce que Michele Casarin, historien vénitien, a analysé. Il s'est penché attentivement sur l'identité urbaine des habitants de Venise au sens large.
Lorsqu'en 1926 - suivant en cela l'idée de Giuseppe Volpi - les communes de la terre ferme furent annexées à celle de Venise, aucun nom ne fut donné à cette nouvelle entité territoriale. Probablement est-ce là un choix idéologique délibéré du régime fasciste de Mussolini. Quoi qu'il en soit, ce territoire sans nom véritable peine à devenir un objet d'identification pour ses habitants, aujourd'hui peut-être même plus qu'hier.
"Dovendo parlare a uno straniero o a un italiano, anche veneto - persino veneziano - di quella «cosa» che sta all'interno dei confini amministrativi del Comune di Venezia dal 1926 (...), non si sa bene che cosa dire: si sente, e talvolta si legge, «Venezia, comprese Mestre e Marghera», «Venezia città e terraferma», «tutto il Comune di Venezia» - con la variante «tutto il Comune di Venezia compreso Mestre». Provando a utilizzare il termine «città», senza specificare, avviene un fenomeno di immediata associazione parziale, ma difficilmente si riesce a trasmettere l'idea di un complessivo. Peggio ancora se si prova a utilizzare «Venezia»: in quel caso l'associazione è senza equivoci alla città antica con pocchissimi casi di coinvolgimento della terraferma o persino delle isole."[4]
Pourquoi Venise ?
Pour des raisons subjectives, d'abord: j'ai eu l'occasion de m'y rendre en mai 2000, au cours d'un voyage d'études organisé par le Département de Géographie de l'Université de Genève. J'y ai rencontré alors le professeur Gabriele Zanetto, et Stefano Soriani, chercheur, travaillant tout deux au Département des Sciences de l'environnement de l'Université Ca'Foscari, avec qui (ce dernier surtout) j'ai eu d'intéressantes discussions sur la situation de Venise.
De nos discussions, ces questions sont restées en suspend: Faut-il vraiment sauver Venise ? Pour qui et pourquoi ?
Cela m'a mis la puce à l'oreille. Alliant alors le plaisir (de m'y rendre) et la nécessité (de trouver un sujet de licence, ce qui fait partie des raisons objectives), je me suis décidée à me pencher sur Venise, en tant que ville à part.
Venise est unique en ce sens qu'elle est, de par sa structure-même, une ville prémoderne. Elle contient en elle la ville historique d'avant la modernité: ce sont les formes élémentaires de l'urbain qui s'y présentent à nous. Des formes pures, donc, qui ne sont pas le résultat du fonctionnalisme, d'une conception mécaniste, et dans lesquelles on ne trouve pas trace des caractéristiques essentielles de la ville "moderne" (dans le sens de: ville de type occidental contemporaine): voitures, et foule (à l'exception des touristes, mais c'est une forme particulière - là encore - de foule).
Venise est ainsi un lieu privilégié où observer les rapports à la ville contemporains, les rapports au patrimoine, à l'environnement naturel, un lieu où rechercher les représentations sociales liés à l' "habiter" et au "vivre" la ville.
"- Oui, mais..." - vas-tu me dire, cher lecteur - "là nous sommes en pleine contradiction ! Alors, d'un côté tu dis qu'à Venise, on n'y trouve pas trace des caractéristiques essentielles de la ville moderne, et de l'autre tu prétends que c'est un lieu privilégié pour appréhender les rapports actuels à la ville."
Et je ne peux que te donner raison. À première vue, c'est totalement contradictoire. Mais, je pose l'argument suivant: ces caractéristiques de la ville moderne peuvent altérer, contaminer l'observation des rapports à la ville. En ce sens que les problèmes liés aux voitures (trafic, pollution, bruits, dangers de la route, encombrements, etc.), et ceux liés à la "civilisation de masse" (hétérogénéité culturelle, sentiment d'insécurité, etc.), prennent dans les discours et les représentations sur les villes une place telle, qu'ils occultent les autres composantes du rapport à la ville. Des caractéristiques auxquelles on pourrait peut-être aussi ajouter l'anonymat et la mobilité, en tant que "composantes principales de la forme sociale de la métropole moderne"[5].
Enfin, Venise nous permet d'aborder le thème de la mort de la ville, toujours au travers des représentations sociales, et des discours portés sur elle (dont la plupart parlent de la nécessité de sa sauvegarde physique et sociale). C'est ce thème qui, en dernière analyse, m'a amenée à consacrer ce travail de recherche à Venise.
"On a voulu moderniser Venise. On a repris en 1957 l'idée mussolinienne d'une autoroute translagunaire. Mais celle-ci a été heureusement abandonnée. On a envisagé de faire construire par L.F. Wright un home d'accueil pour les étudiants en architecture, face à la Ca'Foscari. On a envisagé de faire construire par Le Corbusier un hôpital de 1200 lits au nord-ouest de la ville, à l'emplacement des anciens abattoirs. On a envisagé de faire construire par Louis Kahn un ensemble culturel dans les jardins du Castello, comprenant un palais des Congrès de 150 mètres de long. Puis finalement, il semble bien que l'on va abandonner Venise à sa lente agonie. En voulant sauver économiquement Venise par l'adjonction d'une ville-satellite industrielle, on l'a en effet condamnée à mort."[6]
"Le thème de la mort de Venise, de la mort à Venise, du rapport entreVenise et la mort fait partie du mythe de Venise depuis plus de deux siècles."[7]
Voilà ce que nous dit (et il n'est pas le seul à le faire) Antonio Alberto Semi.
Pour effectuer ce parcours, je vais te proposer une sémantique de l'espace qui ne se plie pas au discours scientifique habituel. Un discours que je ne prétends pas avoir inventé, mais qui m'est familier. Pour reprendre Robert Ferras déjà cité plus haut et qui résume parfaitement mes intentions:
"On parlera de la ville considérée comme expérience vécue et non comme structure planifiée, de la ville pratiquée plus que de la ville qui affiche un site et propose une situation. Ces choix, en partie littéraires, ou - plus grave - artistiques, ou - bien plus grave encore - subjectifs, renvoient au document sur la ville, en une sorte de discours au deuxième degré. En étant plus proche du récit de voyage que du Plan d'Organisation des Sols, même si ce type de zonation existe; en étant plus soucieux des significations de l'espace urbain pour l'usager que de coefficients d'occupation des sols. Parler de «Venise la rouge» où rien de bouge, c'est parler comme Musset, et moins des gains d'une lagune qui n'a jamais cessé de bouger que de tout ce qu'a produit le récit et l'imaginaire sur un de ces hauts-lieux du discours urbain: Venise sous les citations. Venises." [8]
J'aurais aimé aborder mon sujet de recherche dans une lecture "marxiste", ou plutôt "marxisante"; cela se traduit dans le choix de certains des auteurs de référence. Et dans cette autoréflexion critique (ou cette autocritique réflexive): cela n'échappera pas à ta perspicacité, cher lecteur, mon style change au fil du travail. Comme si je subissais une contamination de la part des auteurs de référence. Mais cela tient à la fonction du chapitre où apparaît l'auteur, qui a lui-même été choisi pour son affinité avec le sujet traité, cela ne tient donc pas à une imitation stylistique.
Enfin, j'ai opté pour les citations en V.O. avec traduction en notes de bas de pages. J'ai modestement assuré les traductions, et je réclame ton indulgence si ta maîtrise de la langue de Dante est supérieure à la mienne: toute la bibliographie n'était pas disponible en français.
Par contre, les soulignés et autres mises en évidences des citations sont d'origine. Je me suis contentée, ici et là, d'ajouter entre parenthèses une définition ou une précision, en le signalant par un "ndlr", comme il se doit.
Ces précisions faites, nous voilà parés pour notre déambulation.
Alors, allons-y, cher lecteur. Partons à la découverte de ce "kaléidoscope théorique". Mais attends-toi à ce que notre parcours soit un peu cahotique: c'est la structure particulière de Venise qui le veut, sa forme céphalique qui nous entraîne non seulement dans les méandres physiques des calli et des campi, des fondamente et des campielli, mais aussi dans les méandres métaphysiques de la pensée humaine, celle des Vénitiens au cours de l'histoire, comme la mienne propre au cours de cette recherche.
Car, comme le dit si bien Antonio Alberto Semi, psychiatre vénitien,
"... Venezia altro non è se non un enorme, fantastico cervello e (...) il rapporto tra Venezia e il suo popolo altro non è che il rapporto stesso che esiste tra il cervello e la psiche !"[9]
[1]Walter Benjamin voit dans la notion de "fantasmagorie" - qu'il tire des études de Marx sur le fétichisme de la marchandise -l'effet magique dont finissent par être recouverts les rapports économiques et sociaux. Il faut lever ce voile - dit-il - et regarder. Pour constater quoi ? Que les "passages", par exemple, sont nés de faits économiques irréfutables qui ont commandé leur mode de construction et leur fonction: l'utilisation d'une nouvelle architecture métallique et l'expansion du commerce des textiles.
[2]De l'histoire à la mythologie, il n'y a parfois qu'un pas...
[3]Robert Ferras, (1990), pp. 10 - 11
[4]Michele Casarin, (2002), pp. 26 - 27
"Si l'on doit parler à un étranger ou à un Italien, même du veneto - voire même Vénitien - de cette «chose» qui se trouve dans les limites administratives de la Commune de Venise depuis 1926, l'on ne sait pas très bien quoi dire: l'on entend, et parfois on peut lire, «Venise, y compris Mestre et Marghera», «Venise ville et la terre ferme», «toute la Commune de Venise» - avec la variante «toute la Commune de Venise y compris Mestre». En essayant d'utiliser le terme «ville», sans spécifier, se produit un phénomène d'association partiale immédiate, mais difficilement l'on réussit à transmettre l'idée de globalité. Pire encore si l'on essaye d'utiliser «Venise»: dans ce cas l'association à la ville antique est sans équivoque, avec quelques rares cas où la terre ferme ou bien même les îles y sont inclues."
[5]Harvey Cox, in Michel Ragon, (1986, 3), p. 228
[6]Michel Ragon, (1986, 3), p. 144
[7]Antonio Alberto Semi, (1996), p. 97
[8]Robert Ferras, (1990), p. 17
[9] Antonio Alberto Semi, (1996), p. 32
"... Venise n'est rien d'autre qu'un énorme, un fantastique cerveau et (...) le rapport entre Venise et son peuple n'est rien d'autre que le rapport qui existe entre le cerveau et la psyché !"