I bisbigli Ricucci e Corriere Sera non c'entrano. La ricerca per un libro (titolo provvisorio Cuore di mattone) fa scoprire come possano crescere in modo diverso due città già diverse per tradizioni, dimensione e per quel mare sul quale Bari si affaccia lontana dalla nebbia degli inverni di Parma. La differenza è l'informazione.
A Bari la città programma il cambiamento urbanistico offrendo le proposte al dibattito di un'opinione pubblica informata in modo corretto. La gente discute, gli esperti confrontano tesi opposte; giornali e Tv spiegano a lettori-spettatori cosa sta succedendo. Naturalmente le lobbies hanno il loro peso, ma è un peso equamente distribuito e la gente «sa». Anche per Bari la piega è nuova: dopo 30 anni di governo dei partiti-mattone, il centro sinistra ha conquistato comune, provincia e regione e il dibattito covato nei mugugni di chi non aveva parola, finalmente è aperto. “Cuore di mattone” prova a disegnare la mappa dell'Italia di certi costruttori: da Messina a Bolzano trasformano le aree agricole in quartieri irrespirabili sollecitando varianti urbanistiche che ne soddisfano gli appetiti e confortano le ambizioni dei politici al guinzaglio. Nascono città orribilmente diverse dalle città ereditate da signori non democratici ma innamorati della bellezza. Insomma, le città di ieri restano il fiore da mostrare agli stranieri nelle visite ufficiali nascondendo sotto il tappeto le punte Perotti di oggi: campionario che non finisce mai.
Mentre Bari, con una certe cautela, programma l'appalto per distruggere il suo mostro, Parma sta finendo di costruire l'ultima punta Perotti: imitazione in scala minore perché la città è piccola, ma la ferita non cambia. Si sono mai viste le stanze del campus di un'università concentrate in un palazzo-balena, 440 posti letto isolati in mezzo a una campagna? Bilocali offerti in vendita a chi specula sull'affitto degli studenti; appartamentini il cui affitto oscilla attorno ai 500 euro al mese, naturalmente luce, gas e condominio a parte. Comprano in pochi e come un angelo liberatore arriva l'Inail, sollecitata chissà da chi: investe e forse stimola l'ottimismo per il secondo allungo, magari un terzo se l'affare va bene. Quando alla sera chiudono i cancelli delle facoltà scientifiche, e si spengono le luci del supermercato che assedia il campus, ragazze e ragazzi chiusi nelle loro stanze, senza sale di lettura, o biblioteca o bar dove incontrarsi per scambiare chiacchiere nel ventre della balena, cosa possono fare se non attraversare la nebbia per raggiungere la città irraggiungibile? Si annuncia l'arrivo di un metrò. Serve solo a chi lo costruisce, ma inutile alla normalità dei ragazzi se nelle ore piccole non funziona. Il sospetto è che il treno raggiunga terreni già “opzionati”, neologismo della speculazione, annuncio di una futura città satellite o quartieri frastagliati a caso. Chissà quando. Isolati e impacchettati, gli studenti diventano cavie accessibili alla tentazione che gli psicologi attribuiscono alle polveri proibite: fuga per sopravvivere al tumulto di una giovinezza messa al confino.
Bari e Parma si trovano occasionalmente legate da un progetto la cui definizione è nata nel sud ed è stata trascinata a nord dallo stesso imprenditore Pizzarotti: cittadella della giustizia, cittadella della carta. L'ingegnere Michele Cutolo, che rappresenta la Pizzarotti barese, ha già inventato quattro cittadelle e dopo quella della giustizia progetta la cittadella degli studenti, evitando - immagino - il modello Perotti-Parma. Ecco che la parola Cittadella riunisce occasionalmente due città: Nord che copia il Sud come un pappagallo.
L'attraversare l'Italia dei cuori di mattone è l'avventura che raccoglie avventure impensate. Non solo soldi e carriere politiche, pacche amichevoli sulle spalle degli uomini-partito - «Sono con voi, disposto ad ogni sacrificio» - ma anche sparatorie, poliziotti che portano in galera riveriti presidenti, dalla Calabria a Bolzano, suicidi in anticamera, pastette di quart'ordine trascurate da procure occupate da uomini d'onore a volte troppo deboli verso la ricchezza per la quale provano inconscio rispetto. Il buon cuore dei politici di riferimento scomoda sottosegretari e ministri per strappare all'umiliazione della cella persone ben disposte a soccorrere i partiti. Giurano sull'ingenuità dell'imprenditore, il quale, poveretto, nulla sapeva dei controlli truccati degli ispettori infedeli Anas. Se qualche giornale avanza dubbi, pioggia di querele, denunce intimidatorie. Pretendono risarcimenti da nababbi non nei riti pubblici dei processi penali, ma fra le quinte dei giudizi del privato. Nessuno deve sapere. E nessun giornale di provincia può sopportarne il peso. Non solo per l'entità di una somma che metterebbe in ginocchio, ma per l'uso politico della denuncia. Non sempre, ma succede: prima che ne abbiano conoscenza i protagonisti dell'errore, viene distribuita copia della denuncia-sbarramento a partiti in qualche modo vicini ai giornali. Dai vertici nazionali ai consiglieri della regione e delle province. Operazione terra bruciata: giornalisti lebbrosi, guai dar loro retta. «Come mai un movimento politico serio come il vostro non condanna lo scandalismo ingiustificato di un giornale (o di una tv) impegnati a dimostrare quali vantaggi ho tratto da opere pubbliche mai realizzate, perché mai ho lavorato a Messina, Bari, Parma, Milano, Bolzano o Pordenone, eccetera; mai costruito campus, mai dragato o sistemato fiumi, come si è ingiustamente scritto?». Si può sorridere scorrendo l'elenco delle opere stese al sole, ma è meglio ingoiare e far finta di niente.
Non è il caso di Pizzarotti. Imprenditore straordinario, ormai potentissimo: allarga l'appalto dell'alta velocità Milano-Bologna comprando aziende che hanno in tasca l'alta velocità della Milano-Verona. Poi il ponte di Messina. Nel suo pedigree Disenyland francese e Charles De Gaulle. Un elenco interminabile che ne dimostra la serietà. Ecco perché non gli servono padrini politici. Appartiene al medioevo la presentazione al ministro Prandini da parte del segretario amministrativo della Dc emiliana, andreottiano doc. A differenza dell'ultima armata Brancaleone-Parmalat, i suoi cantieri sono affidati a professionisti eccellenti; quadri di prestigio, esecuzioni la cui funzionalità non teme collaudi. E le procure non hanno nulla su cui indagare, anche se leggende metropolitane attribuiscono disavventure che non trovano riscontro nella realtà. Purtroppo (e ce ne scusiamo) siamo caduti in una di queste leggende. Il processo per lo scandalo Malpensa non è stato trasferito a Parma dove il procuratore generale Panebianco, per caso inquilino Pizzarotti, basso prezzo di un super attico nel centro della città, avrebbe lasciato scivolare i termini fino alla prescrizione. Non è andata così. Tutto è rimasto regolarmente a Milano. Travolto da scandali che lo legano all'ex presidente della Fondazione Cariparma, Silingardi (a sua volta rinviato a giudizio crac Parmalat), Panebianco deve rispondere a Firenze di certi favori ad amici degli amici non lontani da qualche sottomafia.
A dire il vero, con tante imprese e centinaia di cantieri, anche Pizzarotti qualche guaio l'ha sfiorato ponendovi subito rimedio. L'Italia dei rompipalle non nascondeva certe meraviglie e protestava. 1993, Angelo Martelli, geometra del genio civile in pensione a Parma, si stupisce per il cambio di destinazione di un verde agricolo che il progetto della tangenziale trasformava in verde urbano sul quale non poteva fiorire neanche una panchina. Come mai nel 1990 la società Diana 2 (sede nella sede Pizzarotti, presidente il direttore generale della Pizzarotti) compra 83 biolche di terra che non vale niente pagando ogni biolca (3081 metri quadrati) 120 milioni di lire, dodici volte il prezzo di un buon campo di grano? Il geometra scrive ai giornali locali: cosa sa Pizzarotti sulla vera destinazione dei terreni incolti? Lettera troppo lunga, nessuno vuol pubblicarla. Allora Martelli bussa alle autorità: ancora silenzio. E Diana 2 querela. Il Maigret in pensione si rivolge al Corriere della Sera che gli dedica una pagina su Sette, supplemento illustrato. A questo punto la pigrizia della procura delle nebbie ha un sussulto. Affida agli esperti la perizia sul prezzo dei terreni. Diana 2 ha il buonsenso di far telefonare dal suo avvocato Gian Carlo Artoni (poeta elegante) all'avvocato Volponi, difensore del Martelli: ritira la denuncia, paga spese e onorari. Non vuole dibattiti. E neanche una riga di malumore al Corriere.
Poi la variante trasforma l'erba in oro mentre la Pizzarotti vince l'appalto per la costruzione di case dove abiteranno agenti carcerari e altri poliziotti. La legge Amato ne proibisce l'isolamento nell'area ex agricola. Ecco che attorno alle case nasce un quartiere con apposito supermarket. Purtroppo i subappaltatori falliscono e mentre si annuncia il raddoppio del quartiere su ciò che è rimasto delle 83 biolche, i cinque palazzi civetta somigliano agli scheletri di Hirsohima. L'altro cerotto è di qualche giorno fa: dopo una rincorsa di 12 anni, un politico accusato di concussione dimostra in Cassazione di non aver concusso: la verità era diversa. Piccole cose, coriandoli che in fondo sottolineano contraddizioni sorprendenti tra la Pizzarotti Cittadella della Giustizia di Bari e la Pizzarotti Cittadella della Carta di Parma. A Bari trasparenza e chiarezza; a Parma ermetismo e silenzi. A Bari progetti proiettati per due volte in consiglio comunale. Ogni giornalista ottiene il Dvd per studiare virtù e difetti sul televisore di casa. L'ingegnere Cutolo distribuisce con dovizia immagini e documenti. A Parma reticenza, mistero, irritazione.
Ancora una volta Pizzarotti non c'entra. La qualità dei politici del Sud (centro sinistra) e dei politici del Nord (centro destra) chiariscono o incupiscono i sospetti. Ubaldi, sindaco di Parma inventore della città cantiere, non sopporta chi mette il naso nel cantiere dove vorrebbe trasformare in albergo, negozi e resindence l'Ospedale Vecchio, palazzo che da ottocento anni veglia sulla città, sede dell'archivio che raccoglie i secoli di un ducato e carte di scrittori, storici e poeti come Attilio Bertolucci. Il progetto disperde manoscritti che segnano storia di una piccola capitale, in luoghi non definiti dentro casse sorvegliate da chi non si sa. Da Parigi scrive Jacques Le Goff, supplicando con gentilezza dal suo amato medioevo. Appello respinto, troppo vecchio, cosa ne sa? Questa l'eleganza del sindaco. Mario Lavaggetto è il primo a saggista a protestare con un bellissimo intervento sull'Unità. Torna il disprezzo del primo cittadino padrone. Perché se ne impicciano certi pseudo intellettuali? Ma le buone maniere non sono il problema: il problema è che il progetto non viene presentato con la chiarezza barese, ma raccontato a bocconi, nascondendo all'opposizione, senza spiegare carte alla mano, cosa davvero si vorrebbe fare. Inutilmente protestano i cinque sindaci che hanno preceduto il centro destra: buttati via con parole di compassione. Bisogna dire che il potere di chi decide è aiutato dagli svolazzi di un'altra pasta di intellettuali la cui debolezza fa qualche calcolo: un grande imprenditore può sempre finanziare libri e iniziative, insomma, risorsa da non far arrabbiare. Anche il sindaco diventato traumaticamente assessore alla cultura, va coltivato con garbo. Plach, plach italiano con giornali e tv locali schierati sull'entusiasmo. Evviva, evviva la Cittadella della Carta. Solo il piccolo Polis e le sue cronache fanno i conti nel rispetto della verità.
Per fortuna si muove un'altra città anche se tenuta sottoriga. Da Isa Guastalla che discende dalla tradizione di “Palatina” e del “Raccoglitore”, all'architetto Maria Pia Ranza, fino alle ultime generazioni, Anna Zaniboni, nipote del pittore Mattioli. Poi Marzio Dall'Acqua, responsabile dell'Archivio: alle sue lettere disperate fa eco l'indignazione di studiosi di ogni parte del mondo. Si raccolgono attorno all'avvocato Allegri: per difendere gratuitamente crociere e affreschi dell'Ospedale da manipolare, fonda l'associazione culturale Monumenta e apre una battaglia misconosciuta dall'informazione locale. Affidandosi alle regole che la legge prevede, Allegri ottiene finalmente il progetto, lo distribuisce ai partiti del centrosinistra che reagiscono con proposte presentate al teatro Regio: Serventi, Ds; Ablondi che guida con piglio battagliero una Rifondazione battagliera; Libera la Libertà di Mario Tommasini e La Margherita. Pretendono chiarezza e avanzano un progetto per salvare il palazzo. L'avvocato Allegri impugna la decisione del sindaco e il modo in cui è stata scelta la proposta “sacrilega” della Pizzarotti. Un mese fa il Tar gli dà ragione. I lavori non cominciano, le trombe per il momento tacciono. E la giunta non nasconde la rabbia, ma ancora oggi gran parte della cittadinanza non sa bene cosa sia successo perché l'informazione è il nodo che distingue Bari da Parma. 1 - continua
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La conclusione del servizio è qui
Titolo inglese originale: Farmers donate 30,000 ancient bricks for Great Wall revamping – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Rispondendo a un appello dell’amministrazione locale, i contadini del villaggio di Chadao, nella fascia nord-occidentale esterna dell’area di Pechino, hanno donato 30.000 antichi mattoni per riparare e restaurare la Grande Muraglia nel settore Chadaocheng.
Il governo della contea Yanqing aveva lanciato all’inizio dell’anno un programma di tutela della Muraglia, invitando gli abitanti dei villaggi attorno alla grande struttura a donare antichi mattoni in modo da poter ripristinare l’aspetto originale dei settori danneggiati nella zona di Chadaocheng, a nord ovest della famosa sezione di Badaling della Grande Muraglia.
I mattoni regalati verranno utilizzati per restituire l’aspetto e stile originario alla torre di accesso occidentale di Chadaocheng (Città di Chadao), dice Li Baoli, capo villaggio di Chadao.
Gli antichi mattoni della Muraglia, integri, sono lunghi 40 centimetri, larghi 20 e spessi circa 8. Quasi un quarto di quelli donati sono in buone condizioni, ma il resto è danneggiato e deformato, riconosce Li.
Chadao è stata un centro di importanza strategica militare sin dalla sua fondazione lungo la Grande Muraglia, nel 1551, è un simbolo della Cina e località di patrimonio storico tutelata dall’UNESCO.
Con qualche attenzione anche per lo sviluppo del turismo popolare, il villaggio di Chadao ha avviato alcuni progetti di ripristino dell’ambiente locale, risalente alle antiche dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911).
Gli abitanti hanno risposto attivamente, consegnando gli antichi mattoni rimossi dalle mura per costruire case, recinti, o addirittura porcili negli anni ’50 e ’60, racconta il capo villaggio Li.
La Grande Muraglia fu edificata una prima volta nel Periodo degli Stati in Guerra (475-221 a.C.). Si ritiene comunemente che inizi al passo di Jiayuguan nel nord-ovest della provincia di Gansu, estendendosi per 6.000 chilometri sino al passo di Shanhaiguan sulla costa della baia di Bohai a est. La muraglia è stata ricostruita molte volte, e parecchi tratti sono stati gravemente erosi da vento e acqua, o a causa di interventi di distruzione umani.
Alcune indagini compiute dall’Ufficio Beni Culturali della Municipalità di Pechino, mostrano che la lunghezza totale della Muraglia nell’area della capitale è di 629 chilometri, di cui meno di un quinto intatti e ben conservati. Uno sviluppo di 10 chilometri è stato aperto al turismo.
Pechino ha emanato norme e regolamenti per la protezione della Grande Muraglia nel 2003, proibendo di accedere alle sezioni non aperte ai visitatori e alle attività commerciali, e di far illegalmente pagare le visite.
Sin dai primi anni ’80, il governo cinese ha destinato un fondo particolare al restauro di questo magnifico monumento nazionale, concentrandosi sui tratti di Badaling e Mutianyu nella fascia esterna di Pechino, aperti ai visitatori.
Nota: qui il testo originale al sito inglese del Quotidiano del Popolo (f.b.)
Siamo un paese immobile. O meglio: immobiliare. Visto che il reddito delle famiglie deve molto alla casa. Circa otto famiglie su dieci sono proprietarie dell´abitazione in cui vivono. Il 15% ne possiede almeno un´altra. La casa è fonte di sicurezza. Protezione. Altrimenti non si capisce come potrebbero, molte famiglie, finire il mese con lo stipendio di cui dispongono. Se dovessero, appunto, pagare un canone d´affitto. La casa è "investimento" per i figli. Patrimonio trasferibile. Per i giovani, nel futuro, è fonte di reddito integrativo (anch´essi non pagheranno l´affitto, domani). E "capitale" che si apprezza costantemente. Perché il valore delle abitazioni è cresciuto e continua a crescere in modo smisurato. La casa è il porto, per i giovani. Che navigano e navigano lontano. Viaggiano. Ma poi tornano. Puntualmente. Cambiano la valigia e ripartono. Per motivi di studio o di lavoro. Oppure per fare esperienza. Ma restano legati alla loro famiglia, sempre più a lungo, fino a 30-35 anni.
Giovani per forza. Se ne andranno di casa quando avranno trovato un impiego che li soddisfa, quando troveranno una compagna o un compagno con cui condividere il rischio della vita. Dunque il più tardi possibile. Quando i genitori daranno loro una casa.
La casa. E´ il fattore che ha garantito, negli ultimi anni, la crescita del reddito delle famiglie (come ha mostrato un recente rapporto del Censis). Perché, nonostante quasi tutti abbiano un´abitazione, si continua a costruire e a comprare. Per tutelare il reddito. Per incrementarlo.
Tra i principali fattori di "arricchimento", negli ultimi anni (come ricordano Dario Di Vico ed Emiliano Fittipaldi, in "Profondo Italia", edito da Rizzoli), c´è, infatti, la rendita da affitto. Che, dopo la liberalizzazione delle locazioni, è divenuta vantaggiosa, da rischiosa qual era. Soprattutto se si dispone di immobili in città universitarie (e in ogni villaggio, ormai, si apre un corso di laurea). Affittare un appartamento a uno studente (ma anche a un immigrato) corrisponde a uno stipendio.
Certo, non tutti possono comprare case. Per cui il reddito si sta ridistribuendo in modo ineguale. A sfavore dei redditi da lavoro dipendente. E, comunque, molti di coloro che acquistano la casa lo fanno accendendo un mutuo. Un prestito. (Quattro su dieci tra chi vive in una casa di proprietà, secondo una recente indagine Demos per l´Osservatorio sul Nordest). Per cui la casa alimenta, in modo cospicuo e continuo, i flussi finanziari che legano le famiglie alle banche e al credito. Sono come i Bot e i Cct. Sopravvissuti al loro declino. E come i Bot e i Cct costituiscono un segnale, inequivoco, che il sistema economico stagna. In altri termini: riflettono (e alimentano) la narcosi sociale dello spirito di "mercato".
Un paese immobiliare: dove i costruttori accumulano grandi ricchezze, che reinvestono nella finanza e nell´informazione. Un´economia sociale fondata sulla "casa", dominata dagli "immobili", che tende a riprodurre una società "immobile". Anche letteralmente: dal punto di vista della residenza. Chi ha una casa, normalmente, progetta di trasmetterne la proprietà ai figli. Nella speranza (non infondata) che un giorno gli subentrino. E chi acquista (o costruisce) un´abitazione per i figli si preoccupa che non sia troppo lontana. Per mantenere saldi i legami di reciprocità. Affettivi, solidali e utilitaristi. Non per altro, otto persone su dieci, in Italia, hanno un parente stretto - figli, fratelli/sorelle, genitori - che abita nello stesso comune (Indagine Demos-Eurisko, ottobre 2004). Altrettante vivono nel comune in cui risiedono dalla nascita. Per cui gran parte delle famiglie sono "stanziali" da diverse generazioni.
Siamo un paese "tribale" per professione. Nel senso che ogni professione recinta gli spazi in cui si svolgono le sue attività, in modo da controllarne l´accesso, rendendolo inagibile ai più. Un paese di notai, farmacisti, giornalisti, avvocati, magistrati, ingegneri, commercialisti, consulenti del lavoro, medici, musicisti. Tutelati, tutti quanti, da "ordini professionali" che gestiscono prestazioni e operazioni, intrecciate, indissolubilmente, con la nostra vita quotidiana. Per comprare - progettare o modificare - una casa, vendere un´auto a un privato, pagare le tasse (il meno possibile), acquistare un´aspirina, contestare una multa, formare o sciogliere una società, occorre sempre e comunque rivolgersi a una figura professionale "legittimata". Ogni atto e ogni relazione di pubblico (ma anche privato) interesse ci impone di ricorrere a professionisti che appartengano a un Ordine. Non siamo lontani dall´ancien régime. Dalla società dei ceti. Dove il posto di ciascuno - nella gerarchia dei poteri - era ascrittivo. Dunque ereditario. Difficile, praticamente impossibile modificare i confini di questo sistema tribale. Di questa repubblica microcorporativa. "Liberalizzare", come si suol dire oggi, è una impresa quasi impossibile. I tentativi di rivedere la legislazione sugli ordini professionali, dopo un lunghissimo e tortuoso percorso, si sono arenati. D´altronde, sospetto, poco meno della metà dei membri del Parlamento sono "professionisti" iscritti a qualche Ordine. Come immaginare che possano legiferare contro se stessi e i propri privilegi? Che possano favorire la "concorrenza" (come ripete, in modo martellante, Confindustria, per bocca di Montezemolo e Cipolletta)? "Liberalizzare" l´economia? Al più possono contribuire a "privatizzarla". Ma in Italia il privato è, spesso, più protetto e protezionista del pubblico. E le imprese, gli imprenditori, rivendicano la concorrenza, ma, nei fatti, dimostrano di temerla.
Siamo un paese di "giovani invecchiati". O di adulti che non si rassegnano a invecchiare. Dove si è giovani - flessibili e precari: la precarietà rende giovani - fino a quarant´anni. Dove tutti, o quasi, i luoghi di potere - in politica, in economia, nel mercato - sono controllati da "giovani anziani". Dove presidenti, papi e vescovi hanno circa ottant´anni; i premier (e i candidati premier) settanta; i banchieri, i leader di partito (quasi tutti ex), di sindacato e delle associazioni di categoria, i direttori di giornali e i professori universitari, attorno a cinquanta (e alcuni di più). Dietro a loro c´è la penombra. Dove si muovono generazioni invisibili. Che per conquistarsi la visibilità - e l´autonomia - si immaginano veline, "costantini", hacker, disc-jockey. Oppure consulenti finanziari (immobiliari), cooperatori internazionali, volontari (di professione). Mestieri nuovi. A volte fatui, a volte nobili. Dallo statuto, comunque, incerto. Generazioni costrette ad attendere, per avere spazio e potere, quando avranno, a loro volta, cinquanta o sessant´anni. Un paese immobile.
Dove la mobilità sociale è frenata da barriere professionali, generazionali, familiari, territoriali. E l´economia, insieme al lavoro, per sfuggire a questi vincoli, a questa rete di veti e di resistenze, si inabissa. Sceglie l´informale, naviga nel sommerso. Come rivendica, quasi con orgoglio, Berlusconi, per spiegare che non ci dobbiamo lamentare dell´economia, del mercato. Vanno bene, marciano, con passo rapido e sicuro. Solo che non si vedono.
Siamo un paese conservatore. E lo siamo diventati tanto più, sempre più nell´ultimo scorcio della nostra storia. Perché è difficile "riformare" l´economia e il mercato, promuoverne l´apertura, la liberalizzazione, se ad ogni angolo, in ogni contrada, in ogni casa prevale la paura del cambiamento. Perché ogni cambiamento, ogni apertura mette a rischio i mille piccoli privilegi, le mille protezioni, i mille interessi, le mille rendite di posizione, che trapuntano la nostra società.
Ed è difficile riformare il welfare, intervenire sulle pensioni, se il corpo del mercato del lavoro è costituito di adulti e anziani, se i giovani e i giovanissimi traggono dalle pensioni, dalle rendite e dalle case in proprietà dei genitori (anziani) possibilità di vita, oggi, ed eredità patrimoniali domani. Se coloro che governano e controllano i centri di potere, del mercato, del lavoro e delle professioni sono anziani-giovani, che intendono difendere e tutelare la loro posizione a lungo.
Siamo come un lago attraversato da mille correnti, che corrono sotto il pelo dell´acqua. Ma lasciano la superficie immobile.
Per questo, però, rischiamo di diventare - e, forse, stiamo diventando - un paese fermo. Irriformabile.
Titolo originale: Eager shoppers flock to the great malls of China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
DONGGUAN, Cina – Dopo che i muratori avranno finito di intonacare la replica dell’ Arc de Triomphe e di tirare a lucido le strade che sembrano di Hollywood, Parigi o Amsterdam, questo gigantesco parco tematico commerciale si proclamerà il più grande shopping mall del mondo.
Il South China Mall – miscuglio di Disneyland e Las Vegas, una versione commerciale di paradiso e inferno un una sola confezione – sarà quasi tre volte la dimensione del già enorme Mall of America in Minnesota. È un’altra delle incredibili nuove conseguenze di un boom economico che dura da un quarto di secolo: i grandi centri commerciali della Cina.
Non molto tempo fa, fare la spesa in Cina significava soprattutto mettersi in fila e implorare arcigni commessi di accettare contanti in cambio di orribili cose che non andavano. Ma ora, i cinesi hanno iniziato ad abbracciare il moderno ethos americano “compra finché cadi a terra”e sono nel bel mezzo di una frenesia compra-tutto.
Ci sono già quattro shopping malls più grossi del Mall of America. Due sono più grandi del West Edmonton Mall in Alberta (Canada), che ha ceduto il primato di centro commerciale più grande del mondo a un enorme complesso di Pechino. Entro il 2010, si prevede che la Cina ospiterà almeno 7 dei più grossi 10 shopping mall del mondo.
Per il momento, il più grande del mondo è quello da 600.000 metri quadrati della Fonte d’Oro, che ha aperto lo scorso ottobre nel nord-ovest di Pechino. Ha già sparso invidia e ambizioni di concorrenza fra i maggior costruttori di centri commerciali del mondo, che apparentemente guardano da lontano l’ascesa del mall cinese, anche se preparano un proprio percorso per costruire qui su queste dimensioni.
Quanto sono grandi, 600.000 metri quadrati? Quel centro commerciale, che si prevede costerà 1,3 miliardi di dollari una volta portato a termine, occupa la lunghezza di sei campi da football e ha più superfici di pavimento del Pentagono, che con 350.000 metri quadrati è il più grande edificio a uffici del mondo. È un unico, colossale fabbricato a cinque piani – con file e file di negozi, sopra ad altre file efile di negozi – tanto grande che risulta difficile navigare fra quei 1.000 punti vendita e le loro migliaia di clienti.
I costruttori del South China Mall di Dongguan, raccontano di aver viaggiato per tutto il mondo per due anni alla ricerca del modello giusto. Il risultato è una terra fantastica da 400 milioni di dollari: 70 ettari di piazze commerciali fiancheggiate da palme, parchi a tema, alberghi, fontane, piramidi, ponti, mulini a vento giganti. Nel tentativo di superare anche le incredibili stravaganze da casino di Las Vegas, c’è anche un fiume artificiale da tre chilometri che circonda il complesso, che comprende settori modellati sulle sette “famose città d’acqua” del mondo e una replica dell’ Arc de Triomphe da oltre 25 metri.
I cinesi sciamano nei centri commerciali, che di solito sono organizzati su molti livelli sovrapposti anziché sui soli tre tipici della maggior parte degli USA. I consumatori arrivano in autobus o in treno, e un numero crescente inizia a venire in macchina. Nelle giornate particolarmente affollate, un centro nella zona meridionale di Guangzhou attira circa 600.000 clienti.
I costruttori spendono miliardi di dollari per creare questi centri extra-large nelle città in crescita più rapida del paese. Scommettono che una nazione di risparmiatori è sul punto di diventare anche una nazione di instancabili consumatori.
”Questi shopping centers sono semplicemente enormi” dice Radha Chadha, direttore di Chadha Strategy Consulting, che studia i centri commerciali e l’andamento delle vendite di lusso in Asia. “In Cina amano fare le cose in grande, fare effetto”.
Le vendite al dettaglio solo balzate in acanti di quasi il 50% negli ultimi quattro anni, come stimato dagli operatori nazionali principali, riferiscono i dati del governo. E coi redditi crescenti, i cinesi spendono il proprio denaro i scarpe, borse, abbigliamento e anche corse sulle attrazioni dei parchi a tema.
”Ci piace molto questo posto” dice Ruth Tong, 27 anni, visitatrice del South China Mall di Dongguan con marito e figlio. “Ci sono tane cose divertenti da fare. Negozi, e anche giostre. Allora ci piace, e ci torneremo ancora”.
Nonostante la Cina sia ancora una terra di diseguaglianze, c’è un ceto medio in crescita.
”Dimenticate l’idea che i consumatori in Cina non abbiano abbastanza denaro da spendere” dice David Hand, esperto di commercio e immobili per la Jones Lang LaSalle a Pechino. “Qui ci sono persone con molto denaro. Ed è questo che spinge lo sviluppo dei centri commerciali”.
Nota: il testo originale tradotto qui, è disponibile al sito di Deseret News; una versione più lunga, col titolo China, New Land of Shoppers, Builds Malls on Gigantic Scale, è disponibile al sito del New York Times (f.b.)
Quando hanno costruito il nuovo ingresso di Disneyland Hong Kong, i dirigenti della Walt Disney hanno deciso di spostare l’inclinazione del cancello principale di 12 gradi. Sono giunti a questa decisione dopo aver consultato uno specialista di feng shui, il quale ha assicurato che la modifica assicurerà ricchezza e prosperità al parco divertimenti. La Disney ha inoltre aggiunto una curva al vialetto che dalla stazione ferroviaria conduce al cancello, per far sì che l’energia positiva, detta chi, non oltrepassi il cancello disperdendosi nel Mar della Cina.
Tener conto dei consigli degli specialisti di feng shui è soltanto una delle molteplici iniziative che hanno preso i dirigenti della Disney per riflettere la cultura locale e non ripetere gli errori commessi in passato. Quando nel 1992 la Disney inaugurò Disneyland Parigi in un ex campo di barbabietole da zucchero fuori dalla capitale francese, fu severamente criticata per essersi dimostrata culturalmente insensibile ai suoi ospiti europei. Qui a Hong Kong invece la Disney brucia incenso a fini rituali ogni qualvolta un edificio è portato a termine e ha fissato un giorno fausto, il 12 settembre, per l’inaugurazione del parco divertimenti.
La posta in gioco è assai alta: la crescita internazionale è una parte cruciale degli sforzi di espansione della Disney. In Asia Topolino, Buzz Lightyear (personaggio di Toy Story, ndt) e l’orsetto Winnie Pooh sono nomi poco conosciuti dalla gente e la Disney intende cambiare le cose.
”Un tempo si usava esportare la Disney alle sue condizioni” dice Robert Thompson, docente di Cultura popolare all’Università di Syracuse, “ma alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo l’imperialismo culturale americano è stato messo a dura prova. Adesso invece di essere gli spregevoli americani che alcuni stranieri trovavano addirittura affascinanti, dobbiamo toglierci le scarpe o ruttare dopo mangiato”.
I piani per costruire Disneyland Hong Kong, l’undicesimo parco a tema della Disney, replica della Disneyland originale, sono iniziati nel 1999. Costruito nella Penny’s Bay e fiancheggiato da montagne, il parco è il primo che la Disney intende realizzare in Cina. Un altro sorgerà a Shangai.
Nella Disneyland di Hong Kong alcuni dei luminosi effetti ottici e delle concessioni alle differenze culturali possono sembrare operazioni di marketing. Una delle principali sale da ballo del parco, che sarà sicuramente usata per gli apprezzati servizi di matrimonio Disney, misura esattamente 888 metri quadri, perché si ritiene che il numero otto porti fortuna. Lo spiega Wing Chao, autore del piano generale architettonico della Walt Disney Imagineering. Poiché nella cultura cinese il numero quattro porta sfortuna, negli ascensori dell’Hollywood Hotel o degli altri alberghi del complesso del parco non esiste neppure il pulsante per il quarto piano. I registratori di cassa sono sistemati in prossimità di angoli o accanto alle pareti, perché si ritiene che tale collocazione aumenti i profitti.
Nell’esclusivo ristorante Crystal Lotus del parco divertimenti, la Disney ha installato uno stagno koi virtuale, nel quale pesci animati dal computer sfrecciano lontano dagli ospiti che camminano su uno schermo di vetro. Lo stagno è uno dei cinque elementi feng shui del ristorante: gli altri sono il legno, la terra, il metallo e il fuoco, che riluce su uno schermo dietro alle bottiglie del bar.
”Non me ne intendo affatto di fuoco e di cucina e di dove vada sistemato uno piuttosto che l’ altra, ma di sicuro ho imparato che si deve rispettare il prossimo”, dice Jay Rasulo, responsabile dei parchi a tema e dei club vacanze della Disney.
Anche se le sue finanze sono sta rimesse in sesto, Eurodisney ha tuttora debiti per 1,2 miliardi di euro. Molti considerano l’apertura di Disneyland Parigi come un caso da studiare per apprendere come non si deve procedere. Il parco partì male sin dall’inizio. Il primo errore fu quello di non offrire vino all’inaugurazione.
La Disney inoltre travisò completamente le abitudini vacanziere degli europei: diversamente dagli americani che spesso prenotano le loro visite direttamente alla Disney, gli europei si servono molto di più delle agenzie di viaggio.
Nel 1992 la Disney non aveva preparato adeguatamente le agenzie di viaggio e questo diede luogo a poche prenotazioni, dice Rasulo. Al contrario, oggi i dirigenti marketing della Disney stanno preparando da mesi le agenzie di viaggio asiatiche, soprattutto in Cina, da dove la società prevede che possa derivare un terzo del giro d’affari del parco.
Si sta sviluppando in regione il dibattito sulla nuova legge urbanistica e sulla formazione del piano territoriale regionale in sostituzione di quello, ormai vecchio, del 1978 (noto come Purg).
L’avvio di un dibattito politico sui temi del territorio è un evento importante da registrare con piacere. Quando la politica torna a parlare di territorio dimenticando per un momento gli interessi di corto raggio o senza cercare vie di fuga nell’iperuranio, fa innanzi tutto il suo mestiere più autentico. Vediamo, allora, di toccare qualche punto chiave di questo dibattito in modo da aiutare a evitare contraddizioni troppo forti o nuove false partenze.
1.A cosa serve il governo del territorio ? Il territorio è oggi un elemento chiave anche per governare i processi contraddittori dell’economia, ma anche difficile da trattare perché le istituzioni e le amministrazioni del territorio sono, rispetto al passato, più sole e deboli in confronto alla forza del capitale finanziario. Ma il territorio, lo abbiamo visto tante volte, abbandonato da una parte, si ribella dall’altra con i degradi ambientali o sociali, con le introversioni etnocentriche, con i declino economico di comunità locali e regionali. E’ un buon segno, quindi, se la politica vince la riluttanza a occuparsi dei difficili temi del territorio e del suo governo e comincia a fare delle proposte. Tuttavia, una cautela preliminare è d’obbligo: gli approcci possibili non sono molti. E tra questi bisogna scegliere senza fare confusione.
2. La diagnosi del territorio e gli esiti del Purg. Si sente sostenere che il territorio del Fvg non è mal ridotto come quello del Veneto. Il confronto con il Veneto è per certi versi troppo facile (se non si scontano differenze strutturali) e per altri molto fuorviante. Se si vuol partire dalla critica al modello Veneto, l’analisi andrebbe strutturata molto meglio, intanto perché per almeno un trentennio, quel modello ha costituito anche un punto di riferimento per tutto il Nord-Est, mentre la sua crescita economica è stata studiata in tutto il mondo. Non dimentichiamo, inoltre, quel Veneto che sta in casa nostra: le strade statali congestionate, certa “marmellata” insediativa nell’area pordenonese e udinese (come documenta bene uno studio regionale del 2002, non ancora ufficialmente pubblicato, chiamato Moland). Stupisce, poi, che non ci si confronti mai con la Corinzia e la Slovenia, che pure sono i nostri partners più diretti nella cosiddetta euroregione. Uno studio cominicato all’università di Udine qualche anno fa (Complessità e sostenibilità, anno 01, numero 02, 2004), per esempio, mostra come, la qualità del territorio in Slovenia e corinzia sia andata superando, negli anni novanta, quella del Fvg. Semmai è l’idea di un territorio contenitore indiscriminato di qualsisai oggetto che bisogna rilevare come insana e additarla come matrice dominante di molte politiche territoriali – regionali e comunali – sbagliate, (in Veneto e in tutto il Nord-Est). Il Piano urbanistico regionale del Fvg del 1978, da questo punto di vista, ha fatto molto, ma molto non lo ha fatto anche perché non poteva farlo. Sottovalutarne la portata è sbagliato, ma attribuirgli troppi meriti è altrettanto pericoloso perché legittima attese messianiche nella pianificazione del territorio che non sono realistiche.
3. Chi pianifica il territorio ? Secondo alcuni questo compito dovrebbe essere lasciato soprattutto a i Comuni, secondo altri, invece, alla Regione. Ma prima di dirimere questa questione bisognerebbe chiarire un punto. Una cosa è il governo del territorio e un’altra è l’urbanistica. L’urbanistica è dei Comuni. Il Piano regolatore generale comunale, che è uno strumento di regolazione urbanistica, è anche uno strumento di governo del territorio, ma non l’unico. L’urbanistica, quindi, è solo una parte del governo del territorio. Una delle cause principali della dissipazione del patrimonio culturale, del degrado ambientale e dell’alterazione del paesaggio in Italia (il malgoverno del territorio) sta, invece, proprio nella frammentazione amministrativa, nelle infinite competenze separate in cui è ridotto il suo controllo ecc. A partire dalla legge della Toscana del 1995, il governo del territorio è ormai inteso come un’obbligatoria collaborazione dei pubblici poteri al fine di indirizzare le attività pubbliche e private verso lo sviluppo sostenibile, garantendo, al contempo, la trasparenza dei processi decisionali e la partecipazione dei cittadini alle scelte. Pur nelle dovute differenze, quindi, non sarebbe male se nella nostra regione si abbandonasse certa provinciale autosufficienza e si guardasse anche alle esperienze che sono da anni in corso nelle altre regioni. E’ giusto lasciare, quindi, ai Comuni il potere del piano urbanistico ma non, in via esclusiva, il potere di governare i territorio (che è altra cosa !) e che oggi è essenzialmente problema di collaborazione tra diversi soggetti istituzionali per affrontare problemi che il più delle volte fuoriescono dai limite del comune.
4. E la regione, allora, cosa fa ? la prima cosa da fare è decidere se la regione vuol fare coordinamento e regia di interessi territoriali molteplici (compresi i suoi) o l’attore dei propri programmi di intervento. Nell’elencare dell’ipotetico piano territoriale, regionale, l’assessore regionale competente sostiene, in un suo recente documento di indirizzo, che vi sono materie (l’ambiente, il paesaggio, le infrastrutture e gli insediamenti) sulle quali, oltre certe soglie, ci deve essere un dominio esclusivo della Regione e che quindi i piani urbanistici dei Comuni (i Prg) dovranno adeguarsi senza riserve alle scelte regionali (un programma da attore quindi, e per giunta forte). Ma questa politica non ha molto a che fare con un piano di coordinamento che implica anche sedi e strumenti di concertazione interistituzionale e di compensazione territoriale. Non è poi neanche pianificazione territoriale perché lascia tutti i conflitti territoriali fuori del piano (e allora il piano acosa serve ?) e se poi il conflitto arriva prima del piano, il piano non si fa; se, invece, arriva dopo il piano, allora è l’attuazione del piano che viene impedita. La ricercad ei confini rigidi e invalicabili all’interno di uno stesso territorio (da una parte il dominiod ei Comuni, dall’altra quello della Regione) stride, inoltre, con tutti i principi giuridici di sussidiarietà sia verticale (il rapporto tra enti territoriali) sia orizzontale (la negoziazione con i privati). Se vogliamo davvero applicare lo spirito e la lettera del nuovo Titolo V della Costituzione e l’auspicio della Corte Costituzionale di una leale collaborazione, non possiamo non pensare, quindi, a strutturare un’azione collaborativi che coinvolga, stabilmente, le istituzioni territoriali. La prospettiva della giunta regionale, invece, sembra quella di combinare assieme i propri programmi e il coordinamento imparziale nello stesso strumento (il piano regionale). Ma questa soluzione fa prevalere, alla fine, una sola delle due funzioni o produce una serie infinita di cortocircuiti paralizzanti.
5. Le finalità che il piano territoriale regionale dovrebbe perseguire sono molteplici (e ciò può essere un bene) e spesso contraddittorie tra di loro o non automaticamente armonizzabili. La competitività economica, le pari opportunità per tutti i territori, la ricerca della qualità, la sostenibilità ambientale, eccetera si riferiscono a categorie di obiettivi che implicano diverse modalità di uso del territorio e di esercizio dell’azione pubblica sul territorio. Se non li si intende solo come una retorica, ma si vuole che si trasformino in azione concreta, allora si deve mettere ordine tra di essi. Si può introdurre una gerarchia drastica e chiara tra di loro (possibile sul piano teorico, molto meno su quello pratico); oppure si può operare, tra di essi, un bilanciamento da regolare e monitorare costantemente. Ambedue sono forme di governo del territorio, ma implicano pianificazioni di tipo diverso.
6. Quale tipo di governo del territorio, dunque ? Accertato che questa domanda ha senso solo in presenza di una chiara volontà di regia territoriale da parte della Regione, si può dire che tra un approccio molto regolato dal centro (che richiederebbe tempi, modalità di attuazione e risorse di potere che oggi non sembrano disponibili) e uno molto decentrato (che rischia di sfumare nel non-piano e che comunque non può essere associato a obiettivi ambiziosi quali la competitività regionale, la civiltà, la qualità territoriale, ecc.), rimane quel poco (o tanto?) su cui si fa sperimentazione in altre Regioni e in Europa: il tentativo, cioè, di combinare assieme trasformazioni, regole e controlli in quello che si può definire un approccio misto e plurale al governo del territorio e che implica: a) un’inevitabile articolazione dell’unitarietà del piano tradizionale in sotto-strumenti dotati di una loro relativa autonomia; b) l’attribuzione di detti strumenti, per garanzia, a soggetti istituzionali diversi ancorché in interazione tra di loro. L’intera questione è politica, ma anche di rilevante natura tecnica:a non considerarla seriamente fin dall’inizio si rischia, prima o poi, di far impazzire la maionese.
Una chiosa finale. In buona sostanza l’impressione è che il dibattito in corso sia ancora molto lontano dal definire una traccia di lavoro coerente e praticabile. La proposta della Regione, peraltro, sembra voler rispondere a obiettivi ambiziosi e spesso in contraddizione tra di loro, ricorrendo a un sistema di governo ancora troppo elementare. Sarebbe necessario, invece, cominciare a fare un attento lavoro analitico sui diversi obiettivi e sugli strumenti tecnici che sono a disposizione.
Dulcis in fundo c’è un aspetto di non poco conto che va rilevato: dov’è finita l’Europa ? Dov’è l’Est? Stiamo considerando cosa fanno Corinzia e Slovenia ? E il Corridoio 5 ? Come pensiamo di calarlo nel territorio ? Sembra quasi che le esperienze europee non abbiano nulla a che fare con la costruzione di un corpo regolativo a presidio del territorio regionale. Come mai ?
Sull’argomento si veda anche l’intervento di Andrea Corbo
Sandro Roggio: l’apparizione
Eccolo il sogno che si avvera: tridimensionale e opulento. Ma neppure grandissimo. Un ettaro e mezzo più parcheggi di negozi esclusivi, di vestiti e profumi firmati a Porto Cervo, con vista sul mare della Gallura e sulla selva di barche più grandi e più costose che a ferragosto impediscono la vista dell’orizzonte. La struttura sarà pronta, promette il proprietario Tom Barrack, fra qualche mese. Macché “rotonda sul mare, il nostro disco che suona…”. I tempi sono cambiati. La Promenade du port ( attenzione al nome ammiccante come sempre ma con una nota in più) sarà al passo coi tempi del consumo d’elite.
Proprio qui l’immaginazione più audace si realizza, perentoriamente. Il turista-consumatore di prima fascia è ormai maturo per un’ emozione grande come questa. Qui, nel villaggio-vacanze tra i più acclamati e più finti del mondo si rilancia in grande. E si decide di sfruttare il suo connotato pluriforme che echeggia diversi stili di luoghi conglobati: Venezia-Miami- Capri- Disneyland (la catena di immagini che il mercato delle vacanze adotta dappertutto). Altre cittàmercato devono farlo da capo il contesto: qui è tutto pronto. Altro che borghi ‘anticati’ e senza mare.
La sinergia, come si dice, turismo & commercio è decisa a sperimentare qui un tassello un po’ speciale del mercato globale.
Le nuove città del commercio, come ci insegna Fabrizio Bottini, sono un’attrattiva senza pari che consente di mangiare, dormire, eccetera dentro un grande negozio. Ma gli outlet sono per tutti, prescrivono la miscela di media e bassa gente. Qui a Porto Cervo sarà un’altra cosa: non l’invenduto degli stilisti ma prodotti di primissima mano. Pensate. Il villaggio vacanze billionaire che accoglie i volti più noti della televisione che si vestono e si profumano come dice la pubblicità; che addirittura ospita gli stilisti che li firmano quei vestiti e quei profumi; e addirittura quelli/e che li pubblicizzano. È proprio il massimo. La stessa moltitudine che ama gli outlet, che d’estate si apposta qui nelle banchine assolate per vedere un vip, potrà avere emozioni irripetibili all’ingresso ombreggiato della Promenade. Anche se difficilmente potrà acquistarci qualcosa. Niente di meglio per accentuare la separazione di questo luogo dal resto del territorio ( a un’ora di macchina da questo luccichio tanti paesi veri si spopolano progressivamente).
Berlusconi sarà presente all’inaugurazione – assicurano –, Baget Bozzo benedirà, forse.
Antonietta Mazzette : credenti e agnostici
Che il consumo anche in Sardegna sia ormai diventato la ragione centrale per la quale gli individui costruiscono la loro identità, i gruppi sociali si formano o si rompono, la complessiva vita quotidiana si organizza, i luoghi urbani si costituiscono, è ormai cosa nota anche ai ‘non addetti ai lavori’. E che il consumo sia da molti visto come la condizione ‘naturale’ del vivere sociale, è cosa altrettanto nota. Sotto questo profilo, il fatto che Porto Cervo si voglia ‘trasformare’ in una grande vetrina con prodotti di consumo (ovviamente) griffati, non è che l’esito finale di un insediamento artificioso nato per l’appunto per essere consumato (come simbolo per i più, come bene materiale per pochi). In questo contesto, ben si inquadra la richiesta del sindaco di Arzachena di definire Porto Cervo zona urbana, solo per poter aggirare l’ostacolo del decreto salva-coste e poter disporre così di tante ‘belle’ volumetrie. Ciò che invece in questo momento appare anomalo - e non solo per la Sardegna -, è il fatto che il Presidente Soru non perda occasione per manifestare a parole e con decreti che il consumo (non solo del territorio) è contrario allo sviluppo dell’Isola, o che comunque deve essere governato con regole chiare: dalle coste alle megastrutture commerciali. Lo ha fatto nelle dichiarazioni programmatiche, lo ha ripetuto in primavera all’indomani del suo insediamento, lo ha ridetto recentemente in occasione dell’inaugurazione del 443° anno accademico dell’Università di Sassari.
Il presidente Soru sta conducendo una battaglia donchisciottesca? Sì, se pensiamo che ha aperto un conflitto tra un piccolo governo regionale (la cui influenza non oltrepassa i confini del mare) e i grandi interessi (nazionali e sovranazionali) che stanno dietro gli insediamenti commerciali e turistici. Ma il modo eclatante (seppure dai toni lenti e sussurrati) con cui ha messo in discussione l’idea ‘scontata’ che il consumo equivalga a sviluppo, ha avuto l’effetto dirompente di rendere manifesto il conflitto tra due opposte concezioni: dello sviluppo economico, della città, del turismo, e così via.
Oggi non possiamo prevedere quali saranno i risultati di questa battaglia, che è certamente combattuta con armi impari e che, se il governo sardo vuole davvero vincere, abbisogna di concrete e articolate ipotesi di sviluppo che appaiano convincenti alla maggioranza della popolazione. Ma è certo che in questo momento il caso della Sardegna è diventato paradigmatico di una concezione più generale riguardante l’uso del territorio e la costruzione di una qualità della vita compatibile con le risorse naturali.
Guido Piga , Il lusso in vetrina dietro il molo vecchio. È pronta la “ Promenade du port” con i più noti marchi della moda, da La Nuova Sardegna, 17 febbraio 2005
PORTO CERVO - La location è gallurese, il nome è francese, i marchi saranno internazionali. Locale e globale si incontreranno a giugno in quindicimila metri quadrati, fra cinquanta negozi, con vista sul mare di Porto Cervo. Si chiama “ Promenade du Port”, è una struttura su tre livelli, sorge dietro il molo vecchio, e dentro saranno ospitati i migliori marchi al mondo, da quelli dell’abbigliamento ai profumi. Come via Montenapoleone a Milano o via Condotti a Roma, o come King’s Road a Londra, sarà la passeggiata del lusso. E nel lusso.
L’idea è venuta alla Colony Capital di Tom Barrack. Obiettivo: rendere più glamour la Costa, allungare la stagione turistica, fare di Porto Cervo un centro vivo tutto l’anno.
Per l’operazione, la Colony ha scelto un partner di rilievo: la compagnia americana di consulenza Cushman & Wakefield Healey & Baker. Un nome lunghissimo, dietro cui c’è la società leader mondiale nella commercializzazione di questo tipo di strutture.
“Abbiamo lavorato a progetti simili a Londra e Parigi, New York e Milano - dice Thomas Casolo, che rappresenta in Italia il retail della società - Quello di Porto Cervo, una volta ultimato, sarà un grande polo del lusso”.
Barrack ha affidato l’incarico alla C&W a ottobre del 2004. Allora, Casolo aveva in mano una costruzione appena realizzata: è quella messa su dalla società Gocil, controllata dall’avvocato Renzo Persico, dietro il Cafè du Port, accanto al Tennis Club, di fronte alla caserma dei carabinieri. Un grande e prolungato cantiere che, se tutto andrà bene, a giugno sarà liberato dalle impalcature in ferro e consegnato ai più prestigiosi marchi della moda internazionale.
“Speriamo di essere pronti per l’inizio della stagione - spiega Casolo - ma non abbiamo messo fretta ai nostri clienti. Proprio in questi giorni stiamo definendo alcuni accordi commerciali”.
Del resto, la “ Promenade du Port” è solo il primo tassello di un mosaico di opere che, alla fine, se verrà approvato dal consiglio comunale di Arzachena (legge salvacoste permettendo, appunto), trasformerà Porto Cervo. Il cuore pulsante del borgo passerà dalla vecchia Passeggiata alla nuova struttura. Ammette Casolo: “Porto Cervo è una centro di prestigio, e oggi le grandi firme hanno qualche difficoltà ad adattare le proprie esigenze agli spazi ristretti del vecchio nucleo storico”.
Una svolta che, esattamente come è accaduto per la presentazione del piano di restilyng affidato ai passeggiasti Usa dell’Hart Howerton, da una parte propone una versione innovativa di Porto Cervo, “una sfida per il nuovo turismo” come dice Barrack, e dall’altra da’ da riflettere a chi, in un modo o nell’altro, è legato alla tradizione.
La “ Promenade du port” si svilupperà su tre livelli, il primo dei quali a pelo dell’acqua. Avrà una dimensione imponente: 15 mila metri quadri lordi, 10 mila puliti. Ci sarà un parcheggio sotterraneo, capienza 300 posti auto. Ciascun negozio avrà a disposizione, in media, 80 metri quadri. “E tanta libertà” evidenza Casolo. Perché nella nuova “passeggiata del lusso”, tutti i marchi avranno la possibilità di mettere bene in risalto i propri simboli, senza “per questo danneggiare lo stile architettonico della Costa Smeralda”.
Indiscrezioni sui nomi? Nessuna. È ipotizzabile che ci siano Versace e Tod’s, Bulgari e Dolce & Gabbana, Gucci e Prada. Solo per restare a quelli già presenti.
Nota: Antonietta Mazzette è professore ordinario di Sociologia Urbana all’Università di Sassari. Il suo contributo, come quello di Sandro Roggio, era privo di titolo (ne ho scelto uno io per ciascuno). Qui il link al pezzo di Eddyburg sul disegno di legge sardo per la regolamentazione dell’insediamento commerciale. In allegato qui sotto anche un PDF che spiega meglio i progetti di Tom Barrack per la Sardegna (f.b.)
Il titolo dell´Ansa delle 8.53 di ieri mattina sembra grondare involontario umorismo: «A3 bloccata, se non nevica situazione migliorerà».
Invece contiene una perfetta sintesi dell´ultima Caporetto della nostra pubblica amministrazione, riassumendo l´incapacità, l´improvvisazione e il fatalismo con cui governo, enti locali, Anas, polizia stradale hanno reagito a una nevicata, incapaci di gestire i problemi fino al punto di sapere soltanto levare le braccia e gli occhi al cielo.
Dopo un blocco durato due giorni, incredibili disagi per centinaia di cittadini senz´acqua, né cibo, né coperte, tragedie sfiorate da bambine appena operate, malati gravi in attesa di ricovero, novantenni semiassiderati è chiaro che nessuno si può nascondere dietro l´eccezionalità dell´evento.
Arriveranno, per cacciare altra carta negli archivi, le consuete inchieste giudiziarie e amministrative, ma già ora appare patetico lo scaricabarile abbozzato dal ministro delle Infrastrutture Lunardi per rovesciare ogni colpa sugli autisti indisciplinati che non hanno messo le catene.
Abbiamo assistito alla ripetizione, aggravata, del blocco di un anno fa sull´Autosole, nel tratto Firenze-Bologna paralizzato dal ghiaccio e dalla neve. Anche allora ci fu un ping pong di responsabilità, Protezione civile contro Autostrade. Anche allora ci si trincerò dietro la straordinarietà dell´evento e, per garantire che mai più l´inverno avrebbe colto impreparata la sesta potenza economica dell´Occidente, si inventò un Coordinamento nazionale incaricato di fronteggiare le emergenze legate al maltempo, alle dipendenze degli Interni e delle Infrastrutture. Oggi il capo della Protezione civile Bertolaso non ci sta a fare il capro espiatorio e parla chiaro: «Avevamo lanciato l´allerta meteo da 72 ore. Il 13 luglio la commissione Ambiente della Camera aveva approvato una risoluzione per cui a occuparsi di tutto, in caso di neve, doveva essere il centro di coordinamento. Noi abbiamo fatto un passo indietro».
Il problema è che nessuno sembra aver fatto passi avanti. Il viceministro competente Tassone ha pudicamente ammesso «è evidente che qualcosa non ha funzionato», per poi sentenziare «ora è necessario e non più procrastinabile un esame immediato e diretto delle cause dell´accaduto».
Proviamo ad aiutarlo:
1) Il decreto sull´istituzione del Centro non è ancora stato firmato dal ministro Lunardi. Perché? Il presidente della commissione Ambiente della Camera, di An, lo avrebbe giudicato «contradditorio». Ma è vero che tutto si è impantanato in una classica lotta di potere su chi deve comandare, il capo della Stradale o un sottosegretario?
2) L´Anas ha vietato il traffico sul tratto appenninico della Salerno-Reggio Calabria dopo le 17 di mercoledì, ma si è trattato di un provvedimento puramente formale, preso per metterlo agli atti: l´autostrada, senza pedaggio e senza barriere, è in realtà rimasta aperta. Possibile che Anas e Stradale, che si trincerano dietro il divieto, non abbiano almeno provato a bloccare gli svincoli, che sono in tutto quaranta? E la Protezione civile può davvero chiamarsi fuori, sulla base del burocratico «toccava ad altri», anche se, come Bertolaso sa benissimo, non erano mai divenuti operativi?
3) Della Stradale si parla tradizionalmente bene e anche in questo caso ci sono resoconti che testimoniano l´impegno e l´abnegazione degli uomini in divisa. Ma non mancano testimonianze precise della loro inefficienza e perfino una denuncia del Codacons per omesso controllo sulla presenza delle catene a bordo dei Tir (oltre che a carico degli autisti).
4) Da parte di tutti è mancata la comunicazione. Radio Rai, che dovrebbe svolgere un servizio pubblico, ha continuato ad assicurare che tutto andava bene. Salvo diffondersi, a disastro avvenuto, sulle gesta dei soccorritori. Le accuse dei prigionieri dell´autostrada sono al riguardo numerose.
Ancora una volta l´Italia progredita si è fermata al bordo di quella terra che, si chiami Eboli o Lagonegro, resta di nessuno. Non è retorica meridionalista: come dimostra il raffronto tra i due collassi autostradali della A1 e della A3, anche nelle disgrazie ci sono due paesi diversi, per capacità di reazione e mezzi disponibili. Lo ha ben capito il presidente della Repubblica Ciampi: nel suo continuo ripetere a orecchi distratti che il Sud è la prima questione nazionale, una decina di giorni fa, proprio in Calabria, ha indicato nei cattivi collegamenti e nella criminalità mafiosa le catene che frenano lo sviluppo meridionale. Le due Italie si fondono, invece, nell´inciviltà e nella maleducazione stradale: se i camionisti avessero avuto le catene montate, si sarebbe potuto evitare che gli autotreni, slittando sul ghiaccio, rendessero ingestibile l´ingorgo. Con un´attenuante: chi avesse voluto montare le catene in autostrada avrebbe dovuto fare i conti con la quasi totale assenza di corsie di emergenza.
Quanto a Lunardi, l´uomo delle grandi opere che procede di disastro in disastro incurante delle piccole cose in cui dovrebbe consistere la buona amministrazione, crediamo che i fatti parlino da sé: come gli automobilisti dalla neve, anche la sua credibilità di ministro è stata definitivamente sepolta dall´"inferno bianco" caro alla retorica giornalistica. Cento prigionieri del maltempo, al terzo giorno, nella civile Italia, sono una pietra tombale.
Ciononostante crediamo che sia inutile chiederne le dimissioni, come fanno tanti esponenti del centro sinistra (mentre anche da destra fioccano le critiche), perché siamo certi che l´ingegnere berlusconiano non ha la sensibilità necessaria ad andarsene. Ci basterebbe che la smettesse di annunciare inchieste destinate a concludersi con un nulla di fatto. Ma se proprio vuole indagare, per sopire una punta di vergogna, faccia una cosa, magari in segreto: cominci dalla sua scrivania.
Titolo originale: The blame game – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’evacuazione di New Orleans si sta avvicinando al completamento, martedì 5 settembre, sei giorni dopo la rottura degli argini della città bassa a causa dell’uragano Katrina. Uomini della Guardia Nazionale, truppe regolari e forze dei marshals federali – molte delle quali attivate la scorsa settimana dopo le critiche alla lentezza delle operazioni di soccorso – sono arrivate nelle zone più colpite e stanno conducendo ricerche casa per casa dei sopravvissuti. Alcuni residenti, comunque, insistono nel voler rimanere sulle loro proprietà.
Con la maggior parte dei sopravvissuti soccorsa, ora il punto centrale si sposta verso i morti a causa della tempesta e dell’alluvione conseguente. Il calcolo ufficiale nei tre stati più colpiti – Louisiana, Mississippi e Alabama – resta ancora ad alcune centinaia. Ma il bilancio finale potrebbe essere di parecchie migliaia. Molti corpi sono affondati nell’acqua, che ancora copre quattro quinti di New Orleans. Ad alcuni soccorritori è stato detto di contrassegnare i corpi sommersi con una boa, e proseguire nelle operazioni. Potrebbero passare molti mesi prima che le acque defluiscano, e anche un anno prima che la città sia pronta ad accogliere chi se ne è andato.
Forse 100.000 persone non hanno potuto o voluto lasciare New Orleans, una volta avvisate prima che Katrina colpisse. Decine di migliaia sono finite al rifugio ufficiale dello stadio Superdome, restandoci per giorni, e trasformandolo in un catino di caldo, puzzo e sofferenza. Non molto lontano, altre persone senza casa hanno trovato la strada del centro congressi, diventato rapidamente un secondo rifugio gigante. Entro il fine settimana, questi sfollati sono stati trasportati via in autobus. Circa 20 stati si sono offerti di ospitarli temporaneamente. Ma si sta già verificando tensione negli stati confinanti. In Texas, dove ora si trova la metà circa dei rifugiati da New Orleans, i funzionari dicono di aver difficoltà a reggere.
Se il mondo è rimasto addolorato dalle devastazioni di Katrina, è stato poi scioccato dalla crisi di legge e ordine che ne è seguita. I saccheggiatori giravano liberamente per le strade rubando cibo e acqua per la disperazione, ma anche computers, articoli sportivi o armi, per vantaggio personale. Si è parlato di rapine di auto e aggressioni, e ci sono stati aspri scontri fra alcune bande e i pochi proprietari di case e negozi rimasti. Alcuni hanno visto elementi razziali nella tensione sociale, dato che la maggior parte di chi è rimasto era povero, e nero.
Anche se New Orleans è stata allagata martedì della scorsa settimana, si è dovuti arrivare a venerdì perché i soccorsi entrassero a regime, con l’arrivo di migliaia di uomini della Guardia Nazionale. Kathleen Blanco, governatore della Louisiana, ha ricordato che essi “sanno sparare per uccidere”, ed entro il fine settimana si era ripristinato l’ordine nella maggior parte della città. Ma tutto il personale addetto ai soccorsi è sottoposto ad una enorme pressione, con molti che lavorano 24 ore su 24; il New York Times cita Edwin Compass, sovrintendente di polizia a New Orleans, che avrebbe dichiarato che almeno 200 dei suoi 1.500 agenti avevano rifiutato di lavorare il sabato.
Chi avrebbe dovuto pensarci?
Anche se Katrina era una tempesta potente, la quantità di caos e sofferenza che si lascia alle spalle è comunque sorprendente. L’America ha già avuto a che fare con uragani feroci, e la vulnerabilità di New Orleans era ben nota. Così ora molti puntano il dito sia alla risposta di breve periodo che al fallimento delle politiche di lungo termine.
Ray Nagin, sindaco di New Orleans, ha mostrato frustrazione crescente nel fine settimana, in particolare nei confronti del governo federale e delle sue conferenze stampa: “Stanno raccontando alla gente una fila di stronzate, divagano e la gente qui sta morendo ... Muovete le chiappe e facciamo qualcosa”. Un presidente George Bush teso ha criticato venerdì il lavoro dei soccorsi, definendolo “inaccettabile”, prima di prendere l’aereo verso la zona colpita a visitare i danni. Più tardi, ha ipotizzato che le amministrazioni locali avessero compiuto errori. Questo gli è valso la minaccia di un pugno sul naso da parte della senatrice della Louisiana Mary Landrieu.
Molte delle difficoltà immediate sono comprensibili. Come sottolinea Michael Chertoff, segretario per la sicurezza interna, ci sono stati due disastri. I venti dell’uragano hanno colpito le abitazioni sulla costa del Golfo del Messico, e poco dopo le piogge hanno rotto gli argini, creando così una situazione “dinamica” mentre le autorità reagivano solo al primo problema. Chiudere un buco largo cento metri in un argine con l’acqua che ci passa attraverso è una sfida enorme, per gli ingegneri.
Nondimeno, molti americani stanno dando la colpa all’uomo nel posto più alto. Bush avrebbe dovuto recarsi nella regione più in fretta, sostengono i critici (si prevede un secondo viaggio lunedì). Alcuni sostenitori di Bush sono preoccupati perché i problemi coi soccorsi potrebbero danneggiare il presidente in un momento in cui la sua popolarità è già bassa, per via dei problemi con l’Iraq: comunque un sondaggio del Washington Post/ABC, venerdì, ha rilevato che il paese è spaccato in due, col 46% a dire che Bush ha gestito bene la crisi, e il 47% che ha lavorato male.
Alcuni incolpano Bush sulla base del fatto che sono alcune delle sue decisioni di lungo periodo ad aver reso più difficile reagire al disastro. La guerra in Iraq, è stato notato, ha diminuito di un terzo la disponibilità di uomini della Guardia Nazionale in Louisiana, Mississippi e Alabama; molti di coloro che sono stanziati in Iraq sono addestrati agli interventi di emergenza. Altri accusano che la guerra ha ristretto il bilancio, causando un rinvio agli anni futuri dei progetti per migliorare gli argini: anche se non è chiaro, se questi progetti avrebbero potuto essere completati in tempo per fermare l’inondazione dopo Katrina.
Anche se molti degli errori possono essere attribuiti all’amministrazione Bush, il motivo principale per gli effetti devastanti di Katrina può essere anche cercato in decisioni precedenti, come quella di Jean Baptiste le Moyne de Bienville del 1718, di collocare la città in una posizione tanto precaria, o nei più recenti “miglioramenti” alla navigazione marittima dell’area che hanno danneggiato le zone umide della Louisiana sud-orientale. Per la gran parte del XX secolo il governo federale ha interferito col Mississippi, per la navigazione e – ironicamente – per prevenire le inondazioni. Per farlo ha distrutto ampie fasce di acquitrini costieri attorno a New Orleans: una cosa molto gradita ai costruttori di case, ma che ha sottratto alla città gran parte della protezione dalle alluvioni. Ora potrebbe aumentare il consenso per un piano multimiliardario di ripristino delle zone umide, anche se un progetto simile ha incontrato difficoltà in Florida.
Ed è preoccupante, che milioni di americani abbiano scelto di vivere in zone rischiose per questo tipo di calamità. Anche se il Congresso ha autorizzato immediatamente un pacchetto da 10,5 miliardi per la ricostruzione, Denny Hastert, portavoce della House of Representatives, ha espresso un dubbio sull’opportunità di spendere grosse quantità di denaro per località esposte come New Orleans (anche se poi ha ritirato quanto detto). Resta comunque da fare una domanda importante, al governo federale e a quelli locali, sugli errori che hanno portato alle distruzioni e al caos di Katrina. Si è dimostrato un’altra volta che le decisioni prese senza dovuta attenzione alle conseguenze si pagano, prima o poi.
Nota: il testo originale al sito dell’Economist; su Eddyburg numerosi altri contributi, a partire da uno studio scientifico diMark Fischetti e altri, soprattutto nella sezione Città e Territorio/Il Nostro Pianeta (f.b.)
Titolo originale: Malls, alfresco – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Nell’ultima incarnazione del centro commerciale, si passeggia tra filari di alberi. Gli edifici sono alti uno o due piani, progettati per apparire caratteristici. La gente si siede per uno spuntino, sui tavolini sotto gli ombrelloni. Qualcuno può anche raggiungere casa solo passeggiando attraverso il prato.
Questi villaggi contengono negozi di classe, e sono pensati per attirare clienti ad alto reddito in cerca sia di acquisti che, dicono i costruttori, di sense of place comunitario.
Soprannominati “ lifestyle centers” da qualcuno, questi insediamenti stanno prendendo piede nel suburbio, come alternativa sia al tradizionale vecchio centro di acquisti in città, sia ai giganteschi centri commerciali al chiuso. E ora ci sono parecchi di questi progetti in corso di perfezionamento per le aree a ovest di Boston.
C’è una proposta del genere, per una miscela di negozi, ristoranti, residenza e qualche ufficio, in edifici bassi e con parco pubblico, in corso di discussione pubblica a Westborough. E progetti simili si stanno discutendo a Wayland e Berlin.
I lifestyle centers, che possono proporre più o meno gli stessi negozi di un mall tradizionale, sono pensati per essere invitanti al pedone, zone che favoriscono gli incontri tra le famiglie o i vicini.
”Credo che la gente sia in cerca dei bei vecchi tempi” dice Robert Demmons, architetto della Gorman Richardson Architects Inc. di Hopkinton, che sta progettando il complesso Westborough Centre. Racconta che è la residenza ad assicurare uno spazio vivo anche quando i negozi sono chiusi.
“Ci deve essere un’attività costante” dice. “Non devono esserci zone morte”.
Questi lifestyle centers sono l’ultima generazione in un albero genealogico che comprende sia il centro commerciale chiuso che i “ power centers” grandi spazi all’aria aperta che contengono negozi “ big-box” come Home Depot, popolari negli anni ‘90.
Secondo lo International Council of Shopping Centers, ci sono circa 130 lifestyle centers nel paese, come quelli di Acton, Hingham, o Millbury, e altri 40 circa in arrivo.
Le caratteristiche che li distinguono sono di solito la miscela di negozi – catene di livello superiore come Williams-Sonoma o Pottery Barn, nessun grande magazzino o big box – e la forma di insediamento all’aria aperta.
Ma Patrice Duker, portavoce dello ICSC, dice che si tratta di una formula fluida che può comprendere elementi quali residenza e intrattenimento. Alcuni centri contengono anche commercio alimentare o altre funzioni anchor.
I costruttori sostengono che l’idea è di creare una shopping experience che induca il visitatore a trascorrere più tempo nel centro. “Quello che si realizza è una specie di ambiente” dice Lou Petra, project manager per il complesso del Westborough Centre.
Costruttori e operatori riconoscono che il tentativo di costruire ambienti pittoreschi può apparire un po’ forzato a prima vista, dato che questi centri sono nuovi. Ma Alison Moore, portavoce per i responsabili del Wayland Town Center, afferma che i progettisti in quel caso conoscono bene lo stile New England, e anche se gli edifici appariranno nuovi in un primo tempo, alla fine sembreranno “autentici”.
Joe Laydon, urbanista a Wayland, dice che i funzionari comunali erano preoccupati per l’assenza di gettito fiscale degli edifici esistenti (un complesso a uffici inutilizzato).
Un insediamento che unisce commercio, spazi per uffici e residenza, dice, sarà in grado di sostenere meglio gli alti e bassi dell’economia. L’Ufficio Urbanistica sta esaminando la variante al piano necessaria a concedere l’autorizzazione.
Ma non tutti sono contenti di quanto stanno vedendo. Contro il Wayland Center è nato un gruppo detto Citizens Against Reckless Development. Teme che il progetto sia troppo grande per la città.
”Non è un centro di città” dice Alan Mandl, membro del gruppo. “È un centro commerciale”.
A Berlin, il costruttore Jon Delli Priscoli ha rivisto i suoi piani per uno shopping center convenzionale, che era stato respinto all’inizio dell’anno.
Ora sta pensando a un progetto che descrive come “più simile a una replica di downtown” con verde, negozi di lusso, architetture attraenti, e una miscela di case e appartamenti.
Jed Hayes, uno dei soci di SullivanHayes, le cui proposte per un lifestyle center a cavallo dei confini circoscrizionali Berlin-Hudson sono pure state affondate dagli elettori di Berlin quest’anno, dice che questo tipo di centri possono essere più “adattati alla comunità” di quanto non avvenga per il solito mall.
Hayes, che definisce il lifestyle center come un progetto solo commerciale, dice che proverà a Hudson con una nuova proposta; non fornisce alcun particolare del progetto.
Uno dei primi lifestyle centers dello stato, Derby Street Shoppes a Hingham, offre negozi come Gap, Crate and Barrel, Barnes & Noble, o Whole Foods Market. Sono sistemati attorno a un’area di parcheggio, in edifici di varie dimensioni, forme e colori.
Un complesso a Millbury costruito dalla stessa impresa, la W.S. Development Associates di Newton, comprende anche un cinema.
Terry Shook, socio di Shook Kelley, studio di architettura che rileva le percezioni del consumatore per utilizzarle a scopo di sviluppo progetti, afferma che la gente non trascorre più molto tempo nei giganteschi malls cresciuti nel paese a partire dagli anni ‘50.
”Il mall per noi non è più conveniente” dice. Allo stesso tempo, il consumatore vuole ambienti che offrano esperienze interessanti dal punto di vista sociale e dell’intrattenimento. Shook, che era a Cambridge la scorsa settimana per una lezione alla Harvard Design School, interpreta la tendenza dei lifestyle center come segno che “il suburbio sta iniziando a reinventarsi”. Crede che il modello si evolverà, a comprendere più abitazioni e spazi pubblici.
A Wellesley, i costruttori sperano di rifare la zona commerciale di Linden Street con nuovi negozi, ristoranti, uffici, e case. Rifiutano l’etichetta del lifestyle-center perché i negozi sono più di servizio.
Jim Lamp della Eastern Development, che sta dietro al progetto per Linden Street, dice che non si intende mettere in concorrenza la zona con la vicina Central Street. Una striscia commerciale che vanta il tipo di negozi di livello superiore e ristoranti, insieme all’ambiente pedestrian-friendly, che tentano di costruire tanti lifestyle centers.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe (f.b.)
PIOMBINO - Le ciminiere della vecchia acciaieria di Piombino, dove lavorava il marito di Sabrina Ferilli, moglie inquieta e fedifraga, fumano ancora giorno e notte. Ma ormai la crisi della siderurgia ha falcidiato gli operai, da 10-12 mila che erano, a poco più di tremila. E così in molti, proprio come nel film La bella vita, girato da queste parti nel '95 da Paolo Virzì con l' avvenente attrice romana, hanno accettato la "riconversione balneare", tuffandosi nella nuova industria del turismo e delle vacanze, per gestire stabilimenti sulle spiagge in concessione, lavorare negli alberghi o nelle pensioni, aprire ristoranti, pizzerie e bar. La Val di Cornia, un' area di 380 chilometri quadrati in provincia di Livorno, di fronte all' isola d' Elba, è un altro pezzo di quell' Italia da salvare in nome dell' ambiente e dell' industria turistica. Davanti alle incognite e alle paure della recessione, questo rappresenta un modello di successo per la tutela dei Parchi naturali, come risorsa da utilizzare in funzione del territorio, della popolazione locale, della salute e della qualità della vita. E dunque anche una risposta, concreta e realizzata, alle fibrillazioni che agitano il movimento ecologista, nell' alternativa tra una visione o una cultura della conservazione e una più moderna della valorizzazione. "Dalle colline al mare, dalla natura all' uomo", è lo slogan programmatico che campeggia sui dépliants pubblicitari per promuovere i Parchi della Val di Cornia. Un "sistema" di sei siti - uno archeologico, uno naturalistico e gli altri aree protette - gestito da una società mista, pubblico-privata, che fa capo per l' ottanta per cento a un Circondario costituito da cinque Comuni della zona: Piombino, il più grosso, con 35 mila abitanti; Campiglia, San Vincenzo, Severeto e Sassetta. Per il resto, si tratta di imprese locali, per lo più turistiche, interessate a partecipare alla valorizzazione di questo patrimonio collettivo. Nell' ultimo decennio, qui sono stati investiti oltre 20 milioni di euro, provenienti in grande parte dai fondi comunitari, più di quanti ne hanno impiegato le amministrazioni locali e centrali, compreso lo Stato, in tutto il secolo precedente. Oggi la "Parchi della Val di Cornia Spa" funziona come un' azienda in piena regola, capace di autofinanziarsi all' ottanta per cento con gli incassi dei biglietti d' ingresso, dei parcheggi, degli affitti che ricava dagli immobili di proprietà ristrutturati e perfino con il merchandising, come spiega con una punta d' orgoglio il presidente Massimo Zucconi. Bilancio, circa un milione e ottocentomila euro all' anno, con l' obiettivo di raggiungere presto il pareggio. Al momento, i dipendenti sono 70, di cui una trentina fissi, mentre l' indotto arriva a occupare stabilmente altre 200 persone. Certo, non sono i grandi numeri della siderurgia, dell' industria pesante, dei mega-stabilimenti di una volta. Ma il "network verde" della Val di Cornia offre intanto un' alternativa praticabile, un esempio di "sviluppo sostenibile", compatibile cioè con la salvaguardia dell' ambiente e con la difesa della salute. Quel fumo che continua a uscire dalle ciminiere di Piombino alimenta ancora allarmi e paure, con l' incubo dello "spolverino" - la polvere nera che ricopre quotidianamente e inquina tutta la città - come una nube tossica che incombe sulle case e sugli abitanti. E nel frattempo, diventa sempre più stridente il contrasto con lo sviluppo dell' industria turistica, con la nuova "produzione" di vacanze, itinerari, percorsi attrezzati e visite guidate. La gamma del campionario offerto dalla Val di Cornia è particolarmente ricca. Oltre ai parchi di Rimigliano e della Sterpaia, affacciati su quella che fu "la costa degli etruschi", nel raggio di pochi chilometri la S.p.a. del turismo e del verde ne propone altri due naturalistici in collina, quelli di Montioni e di Poggio Neri. Poi, c' è il parco archeologico di Populonia e Baratti e, più all' interno, quello archeominerario di San Silvestro, con un antico villaggio di minatori sorto sulla rocca tra il X e l' XI secolo, ma riportato alla luce solo alla fine degli anni Novanta: un set ideale per un film in costume. Al di là degli aspetti economici, però, il risultato maggiore riguarda proprio la tutela del territorio: più di settemila ettari di aree pregiate sono state sottratti così a diversi progetti di speculazione e lottizzazione già in atto. E' il caso del parco di Rimigliano, una fascia costiera caratterizzata da dune, pineta e macchia mediterranea, su cui a metà degli anni Settanta il Piano regolatore del Comune di San Vincenzo dispose lo stralcio di oltre 300 mila metri cubi di costruzioni turistiche e residenziali. Ma ancor più eclatante è il caso della Sterpaia, diventato poi un simbolo, la "madre di tutte le battaglie ambientaliste" contro la cementificazione delle coste. Sui 180 ettari a ridosso del litorale, dopo un lungo braccio di ferro tra l' amministrazione comunale di Piombino e gli occupanti abusivi che prevalse anche su due condoni intervenuti nel frattempo, si arrivò alla demolizione di oltre duemila abitazioni fuori legge, alla confisca e all' esproprio di gran parte dei terreni. E alla fine il Comune è riuscito anche a recuperare tutte le spese, a carico delle imprese di costruzione o dei rispettivi committenti. Forse, prima di vendere le spiagge ai privati, il vice-premier Tremonti farebbe bene a fare un giro da queste parti per rendersi conto che si possono anche gestire proficuamente. Gli amministratori della Val di Cornia hanno preso il metro, hanno misurato la lunghezza del litorale e hanno calcolato che lungo i dieci chilometri della Sterpaia, per assicurare a ogni bagnante almeno dieci metri quadrati dove piazzare ombrellone e sedia a sdraio, non possono entrare più di 15-20 mila persone al giorno: come al cinema o al teatro. Ma per far rispettare questo "numero chiuso", a tutela dell' ambiente e anche del comfort, non è stato necessario emettere alcun editto: è bastato regolamentare i parcheggi, organizzare cinquemila posti-auto e impedire la sosta all' esterno. Gli altri bagnanti, quelli che arrivano a piedi, in bicicletta o in moto, sono una piccola minoranza e non turbano l' equilibrio della zona. Con un' altra operazione di stampo imprenditoriale, lasciando libera la maggior parte della costa, i manager della S.p.a. hanno tagliato a fette sulla carta l' arenile in senso verticale e, con una gara pubblica, hanno assegnato in concessione alcune strisce di spiaggia ai privati: la larghezza massima è di 180 metri, la lunghezza va dalla fascia demaniale del bagnasciuga fino al terreno retrostante di proprietà del Comune. Su questi "lotti", i gestori hanno ottenuto il permesso di aprire piccoli stabilimenti dotati di cabine, servizi, bar e ristoranti, proprio come nel film di Virzì. Ma i prezzi delle concessioni qui sono prezzi di mercato: dai 25 mila ai 30 mila euro all' anno che vanno ad alimentare le casse comunali. E così anche Tremonti può essere soddisfatto.
ROMA. Ritorna la “legge obiettivo per le città”, gli incentivi voluti dal Ministero delle Infrastrutture e dall’Ance per la riqualificazione e il rilancio territoriale delle aree urbane. La norma è ricomparsa all’articolo 5 del testo unificato del disegno di legge sulla competitività, varato dal comitato ristretto delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera. In questi giorni, le commissioni voteranno il provvedimento che la prossima settimana sarà in Aula a Montecitorio.
Restano immutati, rispetto al disegno originario, le finalità e gli strumenti dell’intervento che si svolgerà in “ambiti urbani e territoriali di area vasta, strategici e di preminente interesse nazionale”. Questi ambiti saranno individuati dal Ministero delle Infrastrutture d’intesa con le Regioni interessate. La sottolineatura dell’area vasta indica già la volontà del Governo di premiare piani di riqualificazioni che favoriscano la cooperazione fra più comuni.
Gli obiettivi degli interventi sono il sostegno alle iniziative di valorizzazione degli ambiti “anche attraverso l’incremento della dotazione di infrastrutture anche immateriali e servizi”, la risoluzione dei problemi di mobilità, la configurazione di interventi complessi “capaci di assicurare processi economici di sviluppo sostenibile e coniugare una molteplicità di soggetti pubblici e privati, attese sociali e interessi economici anche differenziati”.
Interessante la dotazione di strumenti e risorse, si tira fuori completamente il Ministero dell’Economia. Le risorse del programma saranno reperite all’interno dei finanziamenti della “legge obiettivo”. Una norma interessante che sembra avere il ruolo anche di riequilibrare, in senso urbano e metropolitano, lo stesso piano della legge obiettivo, finora concentrato esclusivamente sulle infrastrutture strategiche.
Ma è soprattutto la modalità di attrazione dei soggetti privati che risulta innovativa e particolarmente “dirompente” in chiave urbana. Il comma 5 legittima, infatti, in via generale, che la partecipazione privata alle operazioni possa essere ripagata con quattro strumenti: il trasferimento di diritti edificatori (mediante l’istituzione di un apposito registro); gli incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana; misure fiscali di competenza comunale sugli immobili e strumenti di innovazione del mercato della locazione; partecipazione a società a capitale misto pubblico-privato che progettino, realizzino e gestiscano i piani previsti.
Il testo non dice esplicitamente se gli interventi contenuti nei piani possano operare in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, ma sembrano andare in questo senso le forme di pubblicità “al fine di consentire la formulazione di osservazioni e pareri”, la procedura che si conclude con l’approvazione del Cipe e la previsione di un “accordo di programma quadro da parte dei soggetti competenti per l’attuazione”.
G.SA.
Titolo originale: Beijing to Be Divided into Four Functional Zones – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
In base al nuovo piano della città, i 18 distretti in cui è divisa Pechino si considerano come suddivisi fra quattro aree funzionali, ovvero una zona per le funzioni centrali di capitale, una per funzioni estese della città, un’area di nuova urbanizzazione e una di tutela ambientale, come rivelato da fonti interne alla Terza Sessione del 10° Comitato del partito Comunista Cinese di Pechino.
I distretti di Dongcheng, Xicheng, Chongwen, Xuanwu e Shijingshan saranno dichiarati “zona per le funzioni centrali di capitale”. Con le caratteristiche tipiche di Pechino, quest’area svolge le funzioni di centro politico, culturale, internazionale della Cina, con il ruolo di capitale.
I distretti di Chaoyang, Haidian e Fengtai saranno “zona per funzioni estese” ad ampliare quelle di capitale, ovvero a servizio dell’economia delle esportazioni, e a migliorare le caratteristiche chiave dello sviluppo della capitale.
La “zona di nuovo sviluppo” comprende i distretti di Tongzhou, Daxing, Shunyi e Changping. Nella logica delle zone di sviluppo nazionali, quest’area si concentrerà sulle attività manifatturiere, la logistica, i servizi, e si prevede sarà la base per la nuova crescita della capitale.
Sei contee e distretti nella fascia esterna di Pechino, che comprendono Mengtougou, Fangshan, Pinggu, Huairou, Miyun e Yanqing, saranno “zona di tutela ecologica”, il “polmone verde” della capitale. In quanto barriera ambientale e zona di protezione delle risorse idriche, quest’area è un elemento chiave per lo sviluppo sostenibile di Pechino.
Nota: qui il testo originale al sito di Business Beijing (f.b.)
GValentini L’"oro nero" di Noto
Per cercare l’"oro nero" che (forse) è nascosto nelle viscere della terra, si rischia di perdere quello che già luccica in superficie. Mentre l’umanità si prepara a uscire in un prossimo futuro dall’era del petrolio per far fronte all’esaurimento delle riserve naturali, privilegiare le fonti energetiche rinnovabili e combattere così l’inquinamento che incombe sul pianeta, la Sicilia è minacciata da un’invasione di trivelle Usa. E mentre qualcuno ipotizza di vendere le spiagge per rilanciare il turismo al Sud, nel forziere della Val di Noto che custodisce i gioielli architettonici del barocco una società texana viene autorizzata a scavare al centro di quello che l’Unesco ha dichiarato "patrimonio dell’umanità".
Un’altra storia del Malpaese, un altro delitto contro l’ambiente e contro il paesaggio, si sta consumando nell’estremo lembo meridionale dell’isola, a cavallo fra le province di Siracusa, Ragusa e Catania, le terre dove si coltivano il prelibato pomodoro "pachino" e l’uva di qualità per il rinomato Nero d’Avola. E tutto ciò in forza d’un provvedimento che, al colmo del paradosso, non è stato neppure approvato dalla giunta regionale. Fu un decreto dell’ex assessore all’Industria, Marina Noè, ad assegnare un anno fa la concessione alla Panther, secondo una legge che liberalizza la ricerca energetica in Sicilia. Ma nei prossimi giorni sarà esaminata e discussa la richiesta di revoca presentata dall’assessore al Turismo, Fabio Granata, già ai Beni culturali, esponente di An. Anche se in un caso così intricato sul piano giuridico e burocratico l’amministrazione regionale può temere un’azione di rivalsa da parte della società texana, legalmente autorizzata ormai a iniziare gli scavi a giugno, la mobilitazione generale dei sindaci della zona potrebbe bloccare l’assalto al tesoro di Noto. L’iniziativa dell’assessore Granata punta a un’immediata sospensione e alla revoca definitiva della concessione. Qui il bene da salvare nell’interesse generale è il patrimonio del barocco, le chiese e i palazzi che appartengono all’intera umanità, per difendere anche la nostra industria del turismo.
Al di là del suo ambito territoriale, il caso di Noto può essere considerato un paradigma di quella cultura di governo che in un Paese come il nostro deve privilegiare la tutela ambientale rispetto ad altri obiettivi di ordine economico, finanziario o imprenditoriale. Si tratta di stabilire quanto "vale" la conservazione del barocco in una scala gerarchica di priorità, se vale più del petrolio o del metano, più di qualsiasi profitto che possa derivare dal loro sfruttamento. Ed è un fatto positivo, a conferma della trasversalità d’una tale cultura, che questa battaglia sia guidata da un assessore di destra all’interno di una giunta di centrodestra, d’intesa con un esponente dei Ds come il presidente della Provincia di Siracusa, Bruno Marziano. Sotto il tetto della Casa delle libertà, anche in Sicilia non tutti la pensano come Tremonti che vorrebbe privatizzare le coste, magari per partorire poi qualche altro condono, fare cassa e sanare gli abusi edilizi.
La vicenda di Noto è emblematica anche perché racchiude in un unico caso la salvaguardia dell’ambiente, dell’arte e della cultura, in una politica organica del territorio e del turismo. Probabilmente, in una terra ancora contaminata dalla Mafia Spa, dai traffici clandestini e dal riciclaggio di denaro sporco, quella d’aprire una catena di casinò non sarebbe proprio l’idea migliore. Ma può aver ragione invece il neoministro dello Sviluppo e della Coesione, Miccichè, quando dice che al Mezzogiorno servono più campi da golf, scuole di vela e porti turistici, per allungare la stagione oltre il periodo tradizionale dei 2 o 3 mesi estivi. Questa è la strada d’una modernizzazione compatibile con il rispetto dell’ambiente e del paesaggio. Non c’è bisogno né di vendere le spiagge né di scavare sottoterra, per trovare l’oro che la nostra storia e la nostra civiltà hanno lasciato in eredità alle generazioni successive.
Nei giorni scorsi, Romano Prodi, concludendo un incontro su trasporti e territorio, ha affermato che si deve ricostruire il territorio del nostro paese, si deve rimettere mano alle regole urbanistiche. Secondo me, è una novità storica. Dovremmo tornare agli anni mitici del primo centrosinistra per trovare un uomo politico di rango che utilizza appropriatamente la parola urbanistica e la riferisce a un programma di governo. Da quasi un quarto di secolo quella parola era obliterata, screditata, trattata con diffidenza. È stato così da quando hanno cominciato a soffiare i venti della deregulation e del privato è bello. Da allora si è a mano a mano consumata la separazione fra la politica progressista e l'urbanistica. Per fortuna, non senza eccezioni.
Non sono mancate esperienze locali in controtendenza: molte in Toscana; la recente e convinta determinazione di Renato Soru per salvare le coste della Sardegna; e mi permetto anche di citare Napoli. Ma, di norma, il primato del governo pubblico del territorio è stato sempre insidiato dalle presunte scorciatoie della contrattazione con la rendita fondiaria, apprezzato motore delle trasformazioni urbane.
La destra ha goduto dell'agonia dell'urbanistica e ha cercato, sta ancora cercando, di sferrare il colpo di grazia. Non è ancora scongiurato il rischio che sia approvato un terrificante disegno di legge, di cui ha trattato su queste pagine Vittorio Emiliani. Un disegno di legge - bisogna dirlo, ben poco contrastato dal centro sinistra - che smantella il principio stesso del governo pubblico del territorio, sostituito da “atti negoziali” con la proprietà immobiliare. Altri due inauditi contenuti della proposta sono la cancellazione dei cosiddetti standard urbanistici e lo scorporo della tutela dalla pianificazione. Tutti sanno che gli standard urbanistici sono le quantità minime di spazi destinati a verde e a servizi, un vero e proprio diritto alla vivibilità, conquistato dopo memorabili vertenze negli anni Sessanta. Se è vero che in alcune parti d'Italia la disponibilità di spazi per attrezzature è ormai quasi sempre garantita, non è così in molte altre parti, soprattutto nei comuni del Mezzogiorno, dove adeguate disponibilità di verde pubblico e servizi sono ancora un miraggio. Lo scorporo della tutela dall'ordinaria attività di pianificazione è un inverosimile rigurgito di centralismo che contraddice principi mai messi in discussione dall'Unità d'Italia. Se avesse operato in passato una norma del genere, l'Appia Antica sarebbe come Casal Palocco; le colline di Bologna e di Firenze sarebbero come il Vomero; non ci sarebbe il parco delle Mura di Ferrara; non sarebbe salva la costa della Maremma livornese, e così di seguito.
La più vistosa conseguenza di tanti anni di sostanziale accantonamento della pianificazione è il patologico ritmo di crescita delle aree periferiche, che non ha alcuna giustificazione di natura economica o sociale. Il vantaggio è solo per la rendita fondiaria: e voglio ricordare che più risorse vanno alla rendita meno ne vanno agli impieghi produttivi. In tutte le aree urbane del nostro Paese si assiste al paradosso di una vertiginosa diminuzione di abitanti, soprattutto nelle aree centrali, e di una contemporanea, spropositata espansione del territorio urbanizzato. Alle lottizzazioni residenziali e ai centri commerciali si è aggiunto il decentramento dei luoghi di divertimento e dei servizi. Aumentano l'inquinamento, lo stress, il rumore, il costo della casa, che obbligano a cercare in campagna, o in città minori, condizioni di vita sostenibili. Il problema non è solo italiano. Secondo la Commissione europea - presidente Romano Prodi -, la proliferazione urbana è il problema più urgente per le città europee. “La proliferazione urbana aumenta la necessità di spostamento e la dipendenza dal trasporto privato, che a sua volta provoca una maggiore congestione del traffico, un più elevato consumo di energia e l'aumento delle emissioni inquinanti”.
In altri paesi europei, specialmente in Germania, in Inghilterra, in Francia, la pianificazione del territorio non è una cenerentola. Il contenimento delle aree urbanizzate è oggetto di apposite e rigorose politiche governative che massimamente favoriscono il riutilizzo sistematico delle aree dismesse o sottoutilizzate. Il governo italiano ignora invece il problema. È interessato solo ad agevolare la rendita. In verità, nessun altro precedente governo aveva avuto cura della condizione urbana in Italia.
L'anno prossimo la scena potrebbe finalmente cambiare.
Titolo originale: Our waste howling “cyberness” – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Lexington, Massachusetts – Tenere un blog, ho scoperto, è stimolante: tanto quanto cantare nel frigorifero. L’eco delle mie parole si dissolve in fretta nel silenzio.Può essere, che le mie parole suonino noiose a chiunque le incrocia. Ma sospetto invece che la mancanza di frequentatori nel mio blog abbia più a che fare con l’esistenza di milioni di bloggers, là fuori, che svuotano la propria anima ... soprattutto addosso a sé stessi. E mentre passano – anzi, passiamo – sempre più ore davanti al computer, andiamo sempre più estraniandoci da quel che resta della comunità locale.Spesso mi manca l’America di una volta, quella che ho visto nelle foto storiche più che sperimentato nella vita reale. Un’America di portici e verande sul fronte, di città e villaggi dove si conoscono vicini non solo di nome, ma si trova il tempo di parlarci insieme.La mia famiglia si è trasferita nei sobborghi quando avevo cinque anni. A metà anni ’50 a Long Island, noi ragazzi potevamo scorazzare, e spesso si giocava a bandiera o a palla in mezzo alla strada. Qualche volta scoppiavano dei litigi, e occasionalmente ci si scambiavano anche orribili insulti sull’etnia di appartenenza. La vita non era certo perfetta. Ma era pulsante. Oggi nel sobborgo dove abito, a Lexington, Massachusetts, ci sono pochi ragazzi che giocano per strada. Molti più sono quelli che hanno un programma di sports organizzati, lezioni di musica programmate, studio programmato. Se la vita è una lunga scalata al successo, è anche diventata più solitaria, e frammentata.
E questo vale anche per il loro genitori. Le case di oggi sono parecchio più grandi. Ma sospetto che ci sia un sacco di gente che si sente persa, in tutto quello spazio aggiunto, e corre verso il computer nella speranza di incontrare qualcuno.Io, tanto per fare un esempio, non sono tanto convinto che il computer sarà mai uno strumento utile per stabilire legami veri, di tipo personale. Un professore del MIT un paio d’anni fa ha inventato la cosiddetta e-neighbors nel mio quartiere, pensata come un esperimento per vedere come avrebbero interagito dei vicini, messi in contatto tramite computer. Ho scritto, entusiasta, che mi piaceva giocare a poker, a bridge, o a qualsiasi altro gioco a carte. Non mi ha risposto nessuno. Forse altri, nel quartiere, sono diventati amici occasionali. Ma da quanto sono riuscito a capire, l’intero sistema ha prodotto solo un modo per trovare un idraulico, un falegname, un tosaerba o un potatore di alberi. Compilate il modulo.
Nel frattempo, io continuo a sperare in una partita a carte, in un bar animato, in un posto dove si possano sentire delle opinioni personali e vederle in carne ed ossa, non battute su uno schermo e spedite nel cyberspazio, ad aspettare qualcuno che vaga nel deserto. Non credo che internet – anche se può far conoscere le persone – offra vera amicizia. Ma dubito che anche i quartieri di oggi possano farlo. La gente non te ne da occasione.Dopo una nevicata, qualche giorno fa, stavo portando a passeggio Casey, il mio cane, e sono passato di fianco a due vicini che spalavano la neve. Sulla mia destra c’era un vecchio, vicino agli ’80. Faceva evidentemente fatica, a ripulire il passaggio pedonale. Al di là della strada, un giovane capofamiglia, trentenne, stava dando i tocchi finali alla perfetta pulizia, con soffiatore motorizzato, del suo tratto di marciapiede. Se anche si era accorto dell’anziano vicino una decina di metri più in là, non lo dava a vedere. E evidentemente non si era offerto di dare una mano.Tornando indietro dopo il giro dell’isolato, ho scambiato un saluto con l’anziano: “Faccia con calma – gli ho raccomandato – non si sforzi”.”Ha perfettamente ragione” mi ha risposto.L’altro aveva lasciato il suo soffiatore motorizzato nel vialetto, ed era rientrato.
Nota: qui il testo originale al sito del Christian Science Monitor (f.b.)
Titolo originale: Royal Standard – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Quattro anni fa, Hank Dittmar stava quasi per entrare nell’amministrazione USA presieduta da Al Gore. Si stava preparando a sostenere politiche contrarie al tipo di sviluppo urbano dominante nell’America moderna, dando un taglio alla realizzazione di strade a favore di tram e treni, e sostituendo ai centri commerciali fuori città sobborghi “sostenibili”.
La sconfitta di Gore alle elezioni per mano di George Bush mise fine a quel sogno. Ma Dittmar ha trovato un nuovo mentore. Il Principe di Galles, considerato da alcuni un conservatore sociale, può apparire un compagno di viaggio improbabile dei valori progressisti del movimento new urbanist di Dittmar. Ma Sua Altezza Reale, come il vice primo ministro John Prescott, è in perfetto accordo col credo di Dittmar: ecco perché l’esperto USA di trasporti ora si trova in un’ex pellicceria di sei piani riconvertita, a Shoreditch, nell’est di Londra, a capo della Foundation for the Built Environment del Principe.
Sino ad ora la poco conosciuta, indipendente associazione fondata dal Principe Carlo nel 1988 per sostenere la progettazione urbana e l’architettura tradizionale – vera antitesi delle moderne “pustole”, che detesta – ha creato ben pochi clamori. Ma tutto questo potrebbe cambiare mentre si prepara a portare i principi base, se non il tipo di progetto, dell’amata Poundbury (la sua cittadina in stile tradizionale fuori Dorchester, in Dorset) alle città e sobborghi della Gran Bretagna.
Dittmar, al lavoro da meno di un mese, afferma che il principe ha molto più da dire di quanto non appaia a prima vista: è un grande pensatore, un visionario e, ancora, un antesignano new urbanist. “Ho avuto un incontro con lui per questo posto (circa 90 minuti) e sa molte cose sull’argomento” ci racconta Dittmar. “Ha riflettuto a lungo e in modo approfondito, credo davvero che il suo punto di vista sull’architettura e l’urbanistica sia ben definito. Conosce la letteratura e, sinceramente, credo che ne sia stata fatta una caricatura immeritata”.
Ma è la possibilità di lasciare un segno al di là dell’Atlantico, ora che Al Gore è stato consegnato alla storia, che entusiasma Dittmar. Le questioni urbana, spiega “non compaiono sullo schermo radar degli Stati Uniti”. Il quarantanovenne Dittmar, col suo tono calmo, ci racconta che la Fondazione non è un gruppo di pressione: alimentare le polemiche sulla stampa a base di “pustole” non è il so scopo; piuttosto, vuole aiutare a realizzare iniziative urbane concrete e realizzabili.
”Penso che lui [il principe] sia lieto che si trovino progetti esemplari, che riflettono molte delle nostre idee. Quello che sostiene è che nella realizzazione di edifici e città esistono migliaia di anni di tradizione umana continuativa, ed è sbagliato affermare che tutto questo va messo da parte. Dobbiamo fare un passo indietro, e recuperare la continuità con la tradizione, poi interpretarla alla luce di quanto economie e tecnologie si sono trasformate.
”Può essere un modo educato per dire che il Regno Unito ha pasticciato con troppe città e parti della campagna, con insediamenti sparsi, centri commerciali suburbani e edifici big-box che scimmiottano la peggiore urbanistica USA, buttando lì lottizzazioni a casaccio dappertutto e alimentando così l’uso dell’automobile. Quello che mi colpisce [nel Regno Unito] è il livello al quale, se si esce dalla città verso le zone esterne, è diventato tutto simile agli USA: centri commerciali, chioschi, la logica degli ingegneri stradali che comincia a prendere il sopravvento ... sta succedendo molto di tutto questo.
Dittmar, ora felicemente sistemato con moglie e bambini nel nord di Londra, è appena andato a vedere Brent Cross, l’enorme complesso commerciale di fianco all’autostrada M1. È completamente fuori luogo e contesto rispetto all’ambiente circostante, dice: “potrebbe anche essere stato preso e trapiantato qui da qualunque sobborgo di cintura USA”. Ci avvisa che, oltre Atlantico, parecchi centri del genere sono arrivati alla fine del ciclo di vita. Capito, Inghilterra? “Quelloc he abbiamo imparato sul commercio, è che si tratta di un’attività di breve termine, orientata da tendenze effimere” dice. “Le città che scommettono il proprio futuro su una forma insediativa che dura pochi anni, sono davvero messe male”.
A Dittmar, che conosce bene il Regno Unito ed è senza dubbio informato dal principe, non c’è bisogno di ricordare che questi sono tempi di sperimentazione per l’Inghilterra, con Prescott a far pressioni per i progetti di 200.000 nuove abitazioni in quattro zone di crescita al sud: Milton Keynes e sud Midlands, il corridoio di 60 chilometri del Thames Gateway a est di Londra, Greater Stansted in Essex, e Ashford in Kent.
Questa settimana, la nuova strategia residenziale quinquennale di Prescott, resa nota con l’enfasi richiesta dall’approssimarsi delle elezioni, ha ulteriormente sottolineato la sfida che aspetta la Fondazione, sostenendo percorsi privilegiati per realizzare più case a buon mercato a Londra e nel sud-est. Territorio politicamente sensibile, coi consigli degli enti locali a maggioranza Conservatore del sud schierati contro Prescott.
Anche se certamente Dittmar ha le sue opinioni su come è costruita la Gran Bretagna (diffida degli edifici “firmati” che hanno diffuso il cosiddetto “fattore wow!” e non ama alcune new towns, come Milton Keynes) è un ammiratore di Prescott, che ha incontrato a Washington 18 mesi fa, quando il vice primo ministro tenne una importante conferenza su temi urbani. “Rimasi davvero impressionato dalla profondità del suo impegno” ci dice. “Sarebbe difficile trovare qualcuno all’interno dell’amministrazione [attuale USA] che avrebbe tenuto un discorso del genere, anche se Gore l’avrebbe fatto.
Nonostante Dittmar affermi che sarebbe “probabilmente” entrato nell’amministrazione Gore coem sottosegretario ai trasporti, la Gran Bretagna per lui si è rivelata una specie di rifugio; qui, almeno, le questioni urbana sono “all’ordine del giorno del dibattito nazionale”. Tornerà negli USA circa quattro volte l’anno, a presiedere il comitato del Congress for the New Urbanism, con la piena benedizione di una fondazione lieta di rafforzare i rapporti transatlantici.
Questo, naturalmente, pone alcune questioni, principalmente riguardo ai progetti di new towns di Prescott. Cosa ne pensa Dittmar? Ci dice “Preferisco guardarli in questo modo: il governo deve guardare avanti per quanto riguarda la domanda di abitazioni futura, e sollecitare le autorità locali nelle aree dove questa domanda probabilmente si concentrerà”.
Ma anche accettando i nuovi insediamenti al sud, parla di pericoli oltre che di opportunità. Tanto per cominciare, esiste un “conflitto fra quello che c’è da fare,se si ha una teoria coerente sul linguaggio delle città, e il bisogno di trascinare gli altri: è qui che vedo la sfida”.
In altre parole, che tipo di nuove città e quartieri? Milton Keynes, la new town del Buckinghamshire per cui si prevede la crescita da 220.000 a 330.000 abitanti in meno di 30 anni, certo non è un modello attraente, col suo sistema a griglia losangelino e le basse densità edilizie. “Non ci vado da quindici anni” ci racconta. “Credo che sia stata davvero mal progettata. Bisogna andar cauti con i piani utopici”.
Alcune new towns, pensa, sono “modelli degeneri” delle città giardino di Letchworth e Welwyn, creano una forma di tipo suburbano insostenibile e, soprattutto, corrono il rischio di degradarsi molto prima di quanto non facciano le città tradizionali. “Quello che salva le città, credo, è la realizzazione di quartieri a funzione e composizione sociale mista, dove ci sia spazio per tutto, dal commercio alla vita di tutti i giorni” sostiene.
Troppo spesso, pensa, nelle città si è ossessionati dalla costruzione di icone esagerate (anche se non vuol fare commenti sul progetto di Sir Norman Foster al 30 di St Mary Axe, generalmente conosciuto come “il cetriolo” a Londra). “Stiamo tentando seriamente di rivolgerci a quanto non è stato pianificato, con una teoria coerente” dice. “Come motore economico, l’edificio firmato è stato mal posto”.
Dunque il vento sta cambiando? Dittmar lamenta il degrado, in particolare delle periferie e dei suburbi, sia in USA che in Gran Bretagna: i centri città spiazzati dai nuovi insediamenti di servizi esterni; la scomparsa dei quartieri a funzioni miste (residenza, negozi, attività economiche, tutti combinati in un’unica forma); le strade che diventano sempre più larghe, i marciapiedi più stretti; e l’automobile a conquistare tutto.
La sfida è quella di pensare ad una nuova strada per il progresso. “È davvero profondo, il potere di alcuni esempi positivi” si entusiasma. Dopo aver offerto consulenza per il progetto di una nuova cittadina di nome Upton, vicino a Northampton (e aver siutato a salvare alcune case a schiera storiche destinate alla demolizione a Nelson, Lancashire, attraverso una soluzione innovativa a usi misti, compresi laboratori) la fondazione è ansiosa di intraprendere alcuni progetti urbani tanto di piccola scala quanto potenzialmente influenti.
Le priorità di Dittmar? “Possiamo affermare con sicurezza che il principe e il comitato [dell’ente] si sono dichiarati d’accordo con un piano strategico che mira all’istituzione di un solido programma educativo teso a costruire una tradizione edilizia locale, in termini di capacità costruttive, architettura e progettazione urbana”. Vede come nucleo assolutamente centrale del programma dell’ente la creazione di una rete di professionisti.
”Dobbiamo anche costruire una serie di luoghi che si possano vedere, frequentare, che possano costituire dimostrazioni viventi. Egli [il principe] tiene davvero alle tradizioni costruttive e alle identità locali, e vuole che scopriamo le particolarità architettoniche e edilizie dei molti luoghi che costituiscono l’Inghilterra”.
Questo richiederà, soprattutto, nuovi programmi formativi di più alto livello, e una nuova disciplina. Dopo l’architettura e l’urbanistica [ planning], benvenuto “urbanesimo” [ urbanism]. Se il principe e Dittmar troveranno il modo, potrebbe diventare una materia di studio da qualche parte in Gran Bretagna.
Nota: qui il testo originale sul sito del Guardian . Scaricabile direttamente da Eddyburg, il PDF del programma 2005 della Scuola che sviluppa i programmi descritti nell'articolo. (f.b.)
Negli anni ‘40 del XX secolo il nome di Andrej Aleksandrovic Zdanov era diventato il simbolo, un po’ caricaturale, della teoria del rispecchiamento e del realismo volgare cioè del principio che le arti in generale e l’architettura in particolare dovessero, con le proprie forme, essere ritratto dello stato della società e dei suoi poteri costituiti. Contro questa posizione si era mossa l’intera tradizione dell’avanguardia del primo ventennio del XX secolo, e lo stesso movimento moderno in architettura ad essa strettamente collegato, non solo nell’elaborazione delle forme del nuovo ma anche negli ideali di liberazione sociale ad essa connessi.
L’architettura quindi come coscienza critica delle contraddizioni collettive e come fondazione di proposte alternative: radicali, ingenue e generose.
A questo nucleo ideale e metodologico dell’internazionalismo critico tutt’altro che nazional popolare (come sembra credere Enrico Arosio in un articolo sull’ultimo numero dell’Espresso dedicato a Massimiliano Fuksas), anche la migliore tradizione del razionalismo italiano ha fatto riferimento, sia pure con varie interpretazioni ed accenti. Ciò che distingue la generazione (ma parlare di generazioni è criticamente assai ingannevole) o meglio il gruppo di architetti che vengono citati nell’articolo dell’Espresso (in verità esso è purtroppo assai più vasto), e ciò che li connette strettamente, è proprio il neo-avanguardismo stilistico e l’adesione ideologica allo stato delle cose, dei valori e dei comportamenti, così come essi sono, adesione in cui si è rovesciata di senso da una ventina d’anni la tradizione oppositiva dell’avanguardia ed il suo linguaggio.
I protagonisti di quell’avanguardia erano caratterizzati, pur tra molte confusioni, da un’attitudine strutturale, da un impegno ad un ricominciamento teoreticamente fondato di fronte alla presa di coscienza di un nichilismo in via di compimento, da una posizione di critica verso lo stato della società e dalla necessità di un ricominciamento radicale.
Ma mentre l’avanguardia lavorava sulla messa in discussione anche dei processi dell’arte, gli architetti attuali ne imitano gli effetti. Quindi resta solo il dilagare dell’idea dell’infrazione assoluta, rapidamente accettata perché innocua, ed altrettanto rapidamente superata, in un’area sempre più diffusa, incerta e tollerante in cui l’unica autentica infrazione sarebbe la ricostruzione della regola.
Invece di domandarsi quali azioni si possono compiere che non vengano immediatamente riassorbite ci si domanda cosa si possa fare per esserlo subito. E poiché ogni cosa ormai oggi necessita di un tocco estetico, il lavoro certo non manca.
Inoltre, le proposte di questa rinnovata sintassi (la cattiva coscienza del privilegio estetico è poi compensata in qualche caso da una spolverata di preoccupazione teatral-partecipativa ed ecologico-ambientale) rispecchiano in modo solo constatativo i cambiamenti del corpo sociale cui queste nuove forme sono destinate e le trasformazioni traumatiche cui sono sottoposte le grandi e piccole geografie metropolitane; affermano addirittura sordamente che le deregolazioni che travolgono la realtà sono fatti estetici da ammirare.
Nonostante, o forse proprio a causa di questo, il successo delle grammatiche neoavanguardiste e globaliste sembra essere vasto, almeno presso la maggioranza del pubblico dei consumatori indotti, del gruppo sociale decisivo dei clienti, dei comunicatori e delle stesse istituzioni.
Tutta l’architettura cioè sembra voler diventare "design" nel senso peggiore che questo termine, un tempo nobile, ha oggi assunto. Né disegno nel senso antico del termine, né progetto ma solo processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci che, come oggi si evidenzia, non è un ruolo da poco.
Credo quindi che si debba individuare nell’ideologia del "design", in quanto realizzazione dell’estetica diffusa in cui siamo annegati, l’anello di congiunzione tra nuova visualità, architettura e disegno urbano immaginato come collezione di oggetti ingranditi. Naturalmente si tratta, per me, di congiunzioni perverse, la cui figurazione è soprattutto interpretazione simbolica entusiasticamente constatativa del disastroso stato delle relazioni post-sociali e dell’uso antisignificante dei mezzi: ed oggi ovviamente anche dei mezzi elettronici.
Qualcuno ha scritto con ragione che l’estetica diffusa sta distruggendo gran parte delle verità delle pratiche artistiche: l’evento, cioè, si propone al posto dell’opera e l’artista è al primo posto nell’evento e soprattutto, come scriveva Harold Rosenberg all’inizio degli anni sessanta, non è importante essere artisti: importante è convincere gli altri che lo si è. Ed in questo artisti visuali, pubblicitari, designer, modisti e naturalmente anche una parte degli architetti sono tutti tra loro concorrenti sullo stesso piano.
Per vincere allora bisogna stupire, essere diversi ad ogni costo, anche se tante cose diverse producono solo il rumore indistinto dell’uniformità: oppure rappresentare per immagini il mondo secondo l’ideologia dell’omogeneità dei comportamenti e delle loro prevedibili infrazioni anziché secondo le diversità profonde e le loro contraddizioni. Ma se l’architettura ha un’immagine non è solo immagine.
«Un’architettura degna dell’uomo - scriveva Adorno nel 1965 - deve avere degli uomini e della società un’opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale»; o, ancora meglio, anche delle sue speranze. Dimenticare tutto questo non è solo colpevole distrazione ma segno palese della nostra volontà di smarrire il senso stesso delle cose e di noi stessi e non solo dell’architettura.
La vita delle periferie delle nostre città è segnata da tre grandi punti di discontinuità rispetto ai decenni precedenti. Il primo elemento è rappresentato dalla sostanziale scomparsa dell’edilizia residenziale pubblica nel panorama della costruzione delle periferie. Istituti per le case popolari, Ina casa, Gescal – strumenti che si sono avvicendati nella storia e che andrebbero analizzati e discussi singolarmente per rintracciarne luci ed ombre – hanno indubbiamente dato il volto alle periferie italiane e sono stati cancellati senza essere sostituiti da nuove prospettive.
L’ideologia liberista ha spazzato via ogni traccia di questi interventi. Sono anni che non vengono più finanziati interventi di edilizia sovvenzionata destinati alla parte meno protetta della popolazione. Vengono finanziate, peraltro molto esiguamente, cooperative di abitazione che possono risolvere il problema dell’abitazione ad una fascia sociale che ha già accumulato un piccolo risparmio ed è in grado di gestire il debito contratto con il mutuo. Ma di interventi pubblici nulla. Il massimo che si fa è acquistare orribili complessi edilizi che da anni non trovano alcun acquirente.
Non voglio qui sostenere che nella realizzazione dei nuovi quartieri pubblici tutto sia andato nel modo migliore. Sono troppo noti alcuni errori, sia in sede di programmazione, sia in sede di realizzazione, che hanno creato quartieri scarsamente vivibili o mal localizzati. Ma non si può negare la tensione culturale e il generoso tentativo di favorire l’integrazione sociale che erano alla base di quei tentativi.
È enormemente più grave il pregiudizio ideologico con cui dobbiamo fare i conti oggi, e cioè che deve essere cancellato qualsiasi intervento pubblico e che la realizzazione delle città è un fatto privato, da lasciare esclusivamente alle regole del mercato. Così nascono quartieri di densità ancora maggiore dei peggiori esempi speculativi degli anni Settanta, di pessima qualità architettonica, localizzati dove conviene alla proprietà fondiaria senza verificare se esistono i servizi di trasporto o sociali che garantiscono la complessità dell’abitare.
La seconda caratteristica inedita di questo periodo è che la nozione di periferia ha travalicato i confini dei singoli comuni e possiede caratteristiche metropolitane. Tutte le grandi città italiane presentano enormi fenomeni di abbandono residenziale: per stare agli ultimi due censimenti, le undici maggiori città italiane perdono complessivamente quasi un milione di residenti. Queste persone abbandonano le città a causa dei vertiginosi fenomeni di aumento dei prezzi immobiliari degli ultimi anni. Così, mentre una ristrettissima fascia sociale ha guadagnato in questi anni cifre colossali (i tre “giovani” immobiliaristi romani, insieme al meno giovane Caltagirone stanno in questo periodo facendo parlare le cronache italiane per gli acquisti di importanti banche o imprese nazionali) una grande fetta di ceto medio e popolare è stata costretta a cercare casa nelle enormi villettopoli che nascono intorno alle aree metropolitane.
Queste nuove periferie sono certo connotate da condizioni ambientali migliori che nelle città: le densità edilizie sono più umane e maggiori gli spazi verdi privati a disposizione. Ma a ben vedere esse sono la negazione della città, della ricchezza delle sue relazioni, della sicurezza della rete di servizi che aiutano il vivere quotidiano. Una larga fetta della società italiana sta facendo passi indietro nelle condizioni di vita, ad iniziare dalla ricchezza e dalla qualità dei servizi di vicinato. O, ancora, nelle modalità con cui si è costretti a risolvere il problema degli spostamenti tra casa e lavoro: gran parte di queste famiglie che si sono trasferite, a causa della storica assenza di reti di trasporto pubblico su ferro si sposta quotidianamente con mezzi propri, impiegando parecchie ore della propria vita in faticosi – e costosi – viaggi in automobile.
La terza caratteristica con cui si costruiscono oggi le periferie urbane è la realizzazione dei grandi centri commerciali che vengono realizzati in aperta campagna o in zone isolate dei tessuti urbani. La globalizzazione ha imposto una intensa cura di enormi centri commerciali: un sicuro affare per i grandi investitori economici. Le conseguenze, ovviamente, le pagano i cittadini: queste grandi concentrazioni commerciali impoveriscono la vita dei quartieri perché comportano la chiusura della piccola rete di distribuzione commerciale. Impongono un uso dissennato del territorio basato sull’uso dell’automobile. Insomma, mentre i quartieri delle periferie vedono scendere la ricchezza del tessuto urbano, i nuovi centri rappresentano i luoghi in cui si convive anonimamente accomunati solo dal consumo.
Nella costruzione delle nostre periferie emerge dunque il trionfo della città neoliberista. Ci troviamo di fronte ad un grande deserto sociale in cui i poteri forti dettano incontrastati le regole.
Converrà riprendere le cause strutturali. Della prima e più importante, la cancellazione di qualsiasi forma di intervento direttamente pubblico, abbiamo già detto. L’altro elemento che ha definitivamente spostato prerogative dalla sfera pubblica all’iniziativa privata è la sostanziale cancellazione della pianificazione urbanistica. Poche settimane fa la riforma urbanistica in chiave liberista, legge Lupi, è stata infatti approvata dalla Camera dei Deputati.
Essa afferma due cose di inaudita gravità. La prima è che i piani urbanistici si fanno insieme alla proprietà immobiliare: seppure edulcorato con alcune attenuazioni è questo il pilastro su cui si regge la legge. La seconda afferma che la fondamentale legge sugli standard urbanistici, e cioè quella grande conquista dell’Italia civile che prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino, viene cancellata, sostituita dalla contrattazione volta per volta dei servizi da cedere. Un diritto collettivo viene mercificato e sottoposto alla oscura contrattazione con la proprietà immobiliare.
Il fatto che una parte dello schieramento progressista, come la Margherita, abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, e che alcune associazioni culturali, prima tra tutte l’Istituto nazionale di urbanistica, si siano impegnate per far approvare la legge, dimostra quanto arduo sia il cammino dell’Unione di Prodi per costruire una reale alternativa al liberismo.
Fino a ieri mattina, ore 11, ero incerto se dedicare questa rubrica al problema dell'urbanistica romana o al problema dell'urbanistica concentrazionaria dei Centri di permanenza temporanea. Il primo problema è un effetto collaterale della epopea che Marco Revelli, Edoardo Salzano e altri narrano nel primo numero del nostro nuovo mensile, Carta Etc., ossia come la mano invisibile del mercato neoliberista stia riuscendo in un'impresa inedita nella storia dell'umanità: città in cui gli abitanti siano sostituiti da commerci, servizi ed eventi attira-turisti come le Olimpiadi. A Roma, come ha dettagliatamente documentato Antonello Sotgia su Carta Etc., il Piano regolatore, il primo da mezzo secolo, viene rosicchiato da giganteschi tarli prima ancora di essere approvato formalmente. I tarli sono i costruttori, eterni eroi dell'economia romana (e ormai nazionale). I buchi nel Piano si chiamano «osservazioni». Quelle fatte dai palazzinari vogliono ovviamente aumentare le «cubature», ossia la roba da costruire (su Tor Pagnotta si stanno abbattendo un milione e duecentomila di metri cubi di cemento). E la giunta, per errore (dice), accoglie quelle «osservazioni» prima ancora che il consiglio ne discuta e tralasciando di fornire la documentazione al consigliere comunale più vicino ai movimenti per la casa, Nunzio D'Erme: «Ah, è anche lui della maggioranza?», chiede candido l'assessore competente.
L'Espresso degli anni cinquanta fece la sua fortuna con lo slogan «capitale corrotta, nazione infetta», e con una serie di inchieste sull'urbanistica dell'accumulo (di capitali e clientele) allora diretta da Giulio Andreotti, dal Vaticano, dai comunisti Marchini e dal nonno di Caltagirone, non ancora così potente. Non dico che siamo a quel punto, ma le distrazioni e gli errori di Veltroni sono allamanti. Specie se si pensa che il vasto movimento per l'abitare, che del Piano regolatore ha discusso insieme a mezza città, sta finendo in carcere. I nostri amici di Action sono giudicati da un certo giudice una «associazione per delinquere», e cinque di loro vengono assegnati ad arresti domiciliari che assomigliano tremendamente al confino di polizia. Fossimo in un paese non «infetto», le «associazioni a delinquere» si scoprirebbero ai piani alti dei palazzi padronali.
Il secondo problema sul quale avrei voluto scrivere è quello dei Cpt. Bisogna ringraziare calorosamente Luca Fazio per aver fatto l'intervista che ha fatto (sul manifesto di ieri) alla ex ministra, e dignitaria dei Democratici di sinistra, Livia Turco. Impressionante. Vi si poteva apprezzare la totale vacuità della politica fatta sui giornali e in tv, quella per cui «la lotta ai clandestini deve essere di sinistra». Già, come la guerra alla Serbia era «umanitaria» e le privatizzazioni della gestione degli acquedotti salvaguardano la «proprietà pubblica». Filippo Miraglia, dell'Arci, ha lanciato un appello per sostenere e sospingere i presidenti di Regione che lunedì si riuniranno a Bari per chiedere la chiusura dei Cpt (e Carta settimanale dedica a questo la sua copertina, pubblicando una rara testimonianza dall'interno di un Cpt, di una persona che ha lavorato in quello di Bologna). L'indirizzo per aderire è miraglia@arci.it.
Bene, pensavo a queste alternative, per la rubrica, quando sono arrivate le notizie da Londra, e mi ha preso un grande sconforto, dopo le buone proteste contro il G8. Ho pensato che un mondo diseguale e ingiusto è un alibi perfetto, per gli assassini di massa. E gli assassini di massa sono un alibi perfetto, per chi vuole far sì, con la guerra, che il mondo resti diseguale e ingiusto.
Titolo originale: Build new homes on fields, urges government guru– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il consigliere del governo e guru della pianificazione, Sir Peter Hall, oggi ha chiesto che i terreni agricoli in eccesso siano messi a disposizione per nuovi insediamenti, ad affrontare la crisi delle abitazioni.
In un nuovo rapporto per la Town and Country Planning Association, Sir Peter ha sottolineato che il 9% delle superfici gricole nel congestionato sud-est riceve fondi europei per il “ set aside”, ed è lasciato incolto per impedire una sovraproduzione.
Sir Peter, membro della task force governativa sui problemi urbani, afferma che questi terreni offrirebbero spazio più che sufficiente per risolvere la carenza di spazi economicamente accessibili per nuove abitazioni.
”La semplice conclusione è che abbiamo terre in abbondanza per costruire, quasi ovunque vogliamo”.
E aggiunge: “C’è bisogno di un altro programma di new towns, stavolta non per costruire nuove Harlow o Stevenage o Milton Keynes, ma piccoli gruppi di comunità lungo le spine del trasporto pubblico”.
Nel rapporto, provocatoriamente intitolato Land Fetish, Sir Peter lancia anche un fulminante attacco alla lobby di resistenza all’edificazione delle campagne.
”La lobby delle campagne è riuscita a persuadere tutti che la terra ha valori tanto insostituibili che dovremmo fare qualunque sforzo, pagare qualunque prezzo, per evitare di costruirci sopra” ha detto.
Lamenta che gli attivisti per le campagne abbiano suscitato disordine mentale collettivo sull’uso delle terre in Inghilterra: “Abbiamo fatto della terra un feticcio, senza considerare davvero a cosa ci serve” aggiunge.
Sir Peter mette in discussione anche l’ampiamente sostenuta promozione delle alte densità urbane proposta dal presidente della task force, Lord Rogers.
Sir Peter sottolinea che in questa ricerca di densità più alte, le nuove case risultano troppo rumorose, troppo affollate, costruite troppo vicine a strade trafficate. Dice: “Dovremmo preoccuparci seriamente per il fatto che stiamo costruendo in luoghi non adeguati, inadatti per le persone che ci devono abitare, inadatti soprattutto per i loro figli, se ne hanno”.
Raccomanda invece densità residenziali moderate, che richiedono superfici urbanizzate maggiori.
Sir Peter dice che le previsioni del governo mostrano che sarà necessario trovar casa ad altri 3,8 milioni di famiglie entro il 2021. Aggiunge che è stato “agire da Canuto” [ leggendario Re di Inghilterra che voleva fermare la marea col suo solo potere sovrano, n.d.T.] ritenere che questa tendenza potesse essere contenuta.
”Non non si trovano soluzioni, il risultato sarà che aumenteranno i prezzi delle case, tutti ne soffriranno, ma come al solito i poveri ne soffriranno di più”, dice.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Sulla liquidazione di un prestigioso servizio pubblico
L’Agenzia di stampa DIRE sulla liquidazione dell’Ufficio del Piano territoriale provinciale, denunciato da Eddyburg, lanci del 24 maggio 2005
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA= URBANISTI E DL: PTCP NEL MIRINO; VENTURI: SONO SOLO DELLE TEORIE - (DIRE) - BOLOGNA-
Minaccia bufera sull'urbanistica bolognese. La Provincia di Bologna si appresta a sostituire Piero Cavalcoli, il dirigente capo della pianificazione territoriale, nonche' l'uomo del Ptcp, il piano territoriale di coordinamento provinciale. Nei giorni scorsi l'indiscrezione era stata commentata con toni durissimi in un'editoriale comparso sul sito internet www.eddyburg.it (portale che rappresenta una sorta di comunità telematica degli urbanisti italiani), curato da Edoardo Salzano, già professore di Architettura all'università di Venezia (articolo fatto circolare in rete dalla Compagnia dei Celestini, associazione bolognese di urbanisti). "La decisione di smantellare l'ufficio sarebbe partita qualche mese dai Ds- si legge nell'editoriale- e avrebbe colto di sorpresa la Margherita. Ne sarebbero state liete le imprese immobiliari, tra cui quelle della Legacoop, i cui interessi non avrebbero potuto espandersi se si fosse consolidata la politica di contenimento del consumo di suolo promossa dal Ptcp". Parole che l'assessore provinciale ai Trasporti e alla Pianificazione territoriale della Provincia, Giacomo Venturi, dei Ds, bolla come "teorie" a cui bisognerebbe "contrapporre i fatti"; critiche, pero', che trovano il parziale consenso di Andrea De Pasquale, consigliere provinciale della Margherita e presidente della commissione Urbanistica della Provincia: "Purtroppo- dice il diellino- mi trovo a condividere molte delle preoccupazioni espresse in questo articolo". L'unica cosa certa e' l'avvicendamento imminente di Cavalcoli. Il diretto interessato, che pure precisa di non voler entrare nella questione che lo riguarda, dice: "Non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione formale al riguardo, ma mi e' stato comunicato dall'assessore provinciale alla Pianificazione che non godo piu' della sua fiducia". (Oro/Mac/ segue)
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA(2) (DIRE) - BOLOGNA-
Venturi conferma l'avvicendamento di Cavalcoli: "Abbiamo avviato un percorso concertato di ricambio che era fisiologico. Vogliamo reperire nuove energie e continuare l'importante lavoro svolto fino a qui, un lavoro di grande qualità realizzato in collaborazione con tutti i Comuni". Nell'editoriale di Eddyburg si scrive ancora: "Ridurre il peso dell'ufficio e burocratizzarlo eliminerebbe un elemento di confronto politico e culturale, rischioso per alcune scelte municipaliste che starebbe assumendo il governo Cofferati". Venturi, pero', respinge al mittente le accuse: "Si tratta di teorie, inviterei tutti a valutare i contenuti e i fatti che abbiamo prodotto". L'imminente avvicendamento di Cavalcoli ha fatto venire il mal di pancia anche alla Compagnia dei Celestini di Bologna, che pero', ufficialmente, non vuole intervenire sulla vicenda per una sorta di conflitto di interesse (alcuni suoi componenti sono dipendenti della Provincia di Bologna). Interviene invece De Pasquale: "Quanto visto in questi mesi mi preoccupa. Non vorrei che i segnali emersi rappresentassero una cattiva premessa per la nuova fase dei piani strutturali comunali". Nel comitato consultivo che affianca l'assessorato alla Pianificazione territoriale della Provincia, continua De Pasquale, "noto da alcuni mesi una tendenza che non condivido". (Oro/Mac/ Dire)
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA(3)= (DIRE) - BOLOGNA-
"Vedo che sindaci e assessori al momento di presentare le loro richieste di costruire o di prevedere un'espansione tendono ad argomentare in questo modo: 'Sappiamo che il Ptcp, il documento che stabilisce i criteri generali e gli indirizzi dello sviluppo territoriale dei vari comuni, direbbe che questa nostra richiesta non e' accoglibile, ma vi chiediamo di fare un'eccezzione e di interpretarlo con elasticità". In sintesi, chiude De Pasquale, "il Ptcp, ottima bandiera della sinistra attenta all'equilibrio e alla sostenibilità quando era contrapposta a Guazzaloca, viene spesso citato dagli amministratori dei comuni con l'uso del condizionale". Anche su questo fronte Venturi e' convintissimo nel respingere le critiche: "Non solo il Ptcp non e' in discussione, ma ci vogliamo attrezzare al meglio per un progetto di dimensione metropolitana". (Oro/Mac/ Dire) (ER) PROVINCIA BOLOGNA. AN: CAVALCOLI FUORI, VACILLA IL PTCP= GUIDOTTI: COMANDA SOLO COFFERATI, SOLUZIONE PROBLEMI LONTANA - (DIRE) - BOLOGNA-
"Dopo Cavalcoli non e' irragionevole pensare che cominci a vacillare anche il Ptcp", e che quindi venga rimesso in discussione anche "il Passante nord". Sergio Guidotti, capogruppo di An in Consiglio provinciale, interviene cosi' dopo la notizia che la Provincia ha deciso di sostituire Piero Cavalcoli, dirigente della pianificazione territoriale e "padre" del Piano territoriale di coordinamento provinciale, il principale strumento urbanistico di Palazzo Malvezzi. "I boatos che da tempo davano per esautorato l'architetto Cavalcoli sono improvvisamente esplosi, a ulteriore dimostrazione di quanto abbiamo affermato, anche in una nostra recente interpellanza sul battibecco Merola-De Pasquale, circa gli insanabili e ormai ingestibili conflitti politici all'interno delle locali maggioranze di centrosinistra e istituzionali tra la Provincia ed il Comune di Bologna", afferma Guidotti. Secondo il finiano, "dopo Cavalcoli non e' irragionevole pensare che cominci a vacillare anche il Ptcp (almeno nella rigida interpretazione Rabboni-Cavalcoli) e conseguentemente che si debba riparlare del Passante nord, a tutto danno dell'urgenza della soluzione di uno dei problemi del trasporto bolognese". Tutte domande "ovvie, a cui mancano le risposte, o meglio a cui si puo' dare una sola risposta: il carrozzone elettorale prodiano, prima ancora di presentarsi alle elezioni politiche, fa già acqua persino nelle consolidate amministrazioni bolognesi, dove oggi c'e' un uomo solo al comando (riferimento al sindaco Sergio Cofferati, ndr)- chiude Guidotti- e per il resto tutti sono contro tutti e soprattutto tutti (compreso l'uomo solo) sono contro la buona amministrazione". (Com/Red/ Dire)
Titolo originale: China’s chichi suburbs – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
A venti minuti d’auto dal centro della città trovate file di casette a parallelepipedo. Alcune sono dipinte a colori pastello e in stile italiano o spagnolo, altre più verso il Georgian Revival. Prati curati e edifici dei circoli di ritrovo caratterizzano il paesaggio. Ogni tanto, un campo da golf. I quartieri sono recintati e portano nomi come Lago Leman, Capital Paradise, Yosemite, River Garden. Suona familiare?
Siamo a Pechino, l’antica capitale della Cina dove il “centro” è la storica Città Proibita, il complesso murato che è stata la sede degli imperatori cinesi per secoli.
Negli scorsi anni, sono spuntate parecchie lottizzazioni recintate fuori dalle due grandi città cinesi continentali, Pechino e Shanghai; e la tendenza si sta diffondendo ad altre città, come Tianjin o Shenzhen.
La cosa più notevole è che la maggior parte di questi quartieri, dal punto di vista architettonico e di aspetto, sembrano quelli di San Jose o della Orange County. Sono modellati direttamente sulle tract homes che hannos egnato la crescita suburbana in America negli ultimi 30 anni.
La maggior parte conservano pochissime o nessuna traccia dell’Asia nel progetto, organizzazione generale, decorazioni. Le prime case sono state costruite per espatriati, come i diplomatici o i dirigenti delle sedi locali di imprese multinazionali.
”Per offrire strutture abitative agli stranieri (che corrispondano) a standard stranieri, si sono copiati stili e caratteristiche occidentali” dice Billie Chau, direttore dell’ufficio di Pechino della FPD Savills, impresa britannica che gestisce alcuni di questi quartieri. “Ecco perché sembrano e vengono avvertiti come tanto occidentali”.
Ma ora ne sono stati costruiti molti altri, e molti ancora sono in serbo, perché un crescente numero di cinesi che possono permetterselo tentano di uscire dall’affollato e sporco milieu della città cinese contemporanea. Molti acquistano anche a scopo di investimento.
Con l’economia cinese che continua la sua traiettoria in salita a rotta di collo, con veloce crescita e suburbanizzazione che accade in tutte le città principali come Pechino e Shanghai, gli abitanti più agiati e i lavoratori white-collar di queste città mostrano una preferenza per l’acquisto di ville o case localizzate nelle fasce suburbane esterne” dice Andrew Ness, direttore operativo delle ricerche per l’Asia alla CB Richard Ellis. Questa compagnia immobiliare globale sta facendo molti affari nella vendita e affitto di questo tipo di proprietà.
”In più, dato che la quantità delle automobili private nelle principali città è in crescita, questi nuovi abitanti suburbani mostrano una preferenza a spostarsi coi propri veicoli” continua Ness.
La Cine sembra aver imboccato la strada dello sprawl, e con questa i prevedibili problemi che sperimentiamo qui negli Stati Uniti: più traffico, più inquinamento, minacce ambientali alle zone rurali, e poi esclusione sociale, alienazione, divisioni.
Ma la cosa forse più caratteristica di questi insediamenti non è lo sprawl in sé, ma il suo modo di presentarsi.
Vancouver Forest, per esempio, è una nuova lottizzazione di case che imitano un quartiere tipico della British Columbia. È stata realizzata da architetti canadesi, utilizzando materiali canadesi, per creare un mini-Canada.
”Vancouver Forest è un campionario di capacità canadesi in Cina”, recita fiero un titolo recente sulla newsletter dell’ambasciata del Canada.
Volete vivere in Australia? Gli abitanti di Pechino possono comrpare una casa a Sydney Coast, una lottizzazione che offre ai residenti “una vita in villa Astralian-style sette giorni la settimana”.
” Progettato da esperti australiani, il quartiere propone uno stile di vita semplice e nuovo” recita una brochure pubblicitaria del quartiere. “ Fate una passeggiata lungo le strade di Sydney Coast, e avrete la sensazione della vera Australia”.
Sydney Coast è realizzato dalla Beijing Capital Land, una società mista a cui partecipa anche il comune di Pechino. La stessa compagnia sta costruendo anche Upper East Side, un grosso gruppo di case ad appartamenti nella zona nord-orientale di Pechino.
Per chi preferisce vivere in California i pechinesi sono stati capaci di metter su anche la lottizzazione Yosemite.
Ora c’è anche l’opzione aggiuntiva di trasferirsi a Napa Valley, un nuovo quartiere in costruzione cinquanta chilometri fuori da Pechino. Napa Valley tenta di cogliere uno stile di vita Californiano/Mediterraneo, di riposo in poltrona sotto una veranda.
”Si usa ampiamente la pietra rustica, con ricchi colori per l’intonaco, insieme a persiane in legno e finiture in ferro battuto, per creare una dimensione intima e l’atmosfera del villaggio”, secondo gli architetti e urbanisti di Napa Valley, che stanno a Palm Springs e Newport Beach (Orange County).
Per chi freme dalla voglia di ricreare la vita della Francia del XVII secolo, c’è Chateau Regalia, sulla fascia esterna nord di Pechino. Qui i potenziali acquirenti possono scegliere fra parecchi diversi modelli di case:la Duca I, la Duca II, la Marchese, la Conte e la Visconte. Sia nelle forme che nelle decorazioni, le case di Chateau Regalia sono un eccentrico amalgama di barocco francese e architettura neoclassica.
La frenesia ha preso piede anche a Shanghai, dove ci sono parecchi quartieri realizzati in stili stranieri. I funzionari locali recentemente hanno annunciato piani per costruire gruppi di insediamenti satellite realizzati in vari stili nazionali fuori Shanghai.
Ci saranno una città francese, una italiana, una inglese, e così via. Ciascuna avrà il proprio centro commerciale.
Questi luoghi sono il risultato diretto dellos viluppo economico senza soste della Cina, e della sua scoperta delle tentazioni del libero mercato.
Dopo decenni di isolamento – un periodo la cui architettura residenziale consisteva principalmente di grigiastri blocchi ad appartamenti in stile staliniano – i nouveaux riches cinesi sono storditi dall’eccitazione e decisi a ricreare gli stili di vita dei paesi sviluppati che hanno a lungo guardato da lontano.
Tra i settori più agiati delle nuove classi professionali della Cine, possedere una casa unifamiliare è diventato un importante segno di posizione e status. Dato che la maggior parte delle città cinesi sono dense e fitte di appartamenti o edifici a corte, l’unica possibilità è di costruire nuove case nelle fasce suburbane.
“Con la Cina che diventa sempre più una società capitalistica, le norme sociali si evolvono in varie direzioni e modi” dice Ness. “Una casa costosa è considerata un grande simbolo di status per tutti”.
Questo desiderio di posizione sociale spesso va per mano ad una profonda sfiducia fra i nuovi ricchi nella cultura e tradizione cinese.
Ora che ne hanno i mezzi, le élites cinesi sfuggono l’antica tradizione di eleganza e capacità creativa nazionale, scegliendo invece una piatta versione del modo dei sogni occidentale.
Queste lottizzazioni sono una fantasiosa rappresentazione dell’attuale psicosi cinese: fantasie materialiste dopo decenni di tempo perduto.
La prima volta che sono entrato in un sobborgo cinese, ho avuto la sensazione di entrare in un altro mondo, più in Florida che in Cina.
Con tanta ricerca e divulgazione a spiegare gli effetti collaterali dello stile di vita da villette, molti americani hanno cominciato a mettere in dubbio la saggezza di una vita suburbana nello sprawl.
Nonostante queste scoperte, gli errori americani sono replicati in Cina. Questi quartieri mancano di qualunque legame col luogo. Sembrano goffi e fuori posto, nel panorama cinese.
Molti sostengono che lo sprawl in Cina è inevitabile; che è l’ovvio prodotto collaterale del successo economico. Perché il bisogno di queste comunità sparpagliate sia tanto inevitabile resta poco chiaro, ma se lo accettiamo per buono, i nuovi sobborghi cinesi devono proprio essere una fantasyland straniera? Perché non possono avere caratteristiche cinesi?
Può suonare una domanda strana, ma: cosa c’è di sbagliato in una normale strada cinese?
Nota: qui il testo originale al sito del San Francisco Chronicle; per qualche informazione economica in più, può essere utile visitare anche il sito della Beijing Capital Land, quella con partecipazione della municipalità di Pechino per costruire suburbi all’australiana (f.b.)
Maurizio Giuffrè Metropoli europee sotto effetto sprawl
Da il manifesto del 25 marzo 2005 un commento ai temi trattati nell’evento “Esplosione delle città”. Temi e posizioni sulle quali il dibattito prosegue, a cominciare da una domanda: è giusto considerare fisiologica la patologia della “città esplosa”?
Èsempre meno frequente imbattersi in esposizioni come quella che si tiene in questi giorni a Bologna, nelle sale di San Giorgio in Poggiale, che ha per tema i «territori urbani» e, più esattamente, la «metropolizzazione» nelle regioni urbane dell'Europa meridionale. Vi si trova rappresentata l'analisi e la messa in mostra di quella serie di fenomeni che, negli ultimi decenni, hanno riguardato la dispersione, in aree già densamente urbanizzate, di popolazioni, attività economiche e infrastrutture secondo modelli e processi del tutto nuovi rispetto a trent'anni fa. L'esplosione della città - questo il titolo della mostra bolognese - ordina e spiega, concentrandosi su una serie di casi esemplari e ricorrendo a una originale «tassonomia urbana», i più recenti concetti intervenuti a modificare l'idea classica di città. Rispetto ad altri studi sul paesaggio urbano, orientati più alla descrizione delle «strutture spaziali» che al contesto geografico e sociale, l'esposizione bolognese ha il merito di rivolgere lo sguardo alla materialità dei fenomeni che hanno contraddistinto la crescita e l'espandersi delle città europee. Frutto dell'iniziativa delle catalane Càtedra d'Urbanistíca dell'Escola d'Arquitectura del Vallès e dell'Universitat Politècnica de Catalunya l'esposizione - presentata lo scorso anno a Barcellona in occasione del Fòrum Universal de les Cultures - è il più aggiornato prodotto sulle trasformazioni territoriali nei sistemi metropolitani. Si deve all'urbanista Francesco Indovina il merito di averla fatta arrivare in Italia e di avere lavorato per tre anni insieme ad Antonio Font e Nuno Portas per coordinare i tredici gruppi di urbanisti di altrettante università di Francia, Italia, Portogallo e Spagna. Le città o le regioni metropolitane prese in esame sono per dimensioni e problemi affrontati tutte diverse tra loro, ma la finalità della ricerca non era tanto quella di individuare una «logica comune», quanto quella di intraprendere nuove strategie cognitive e progettuali per l'urbanistica riprendendo, con strumenti aggiornati, la riflessione sulla politica del piano. Dall'elenco delle città prese in esame - Barcellona, Madrid, Valencia, Lisbona , Porto, Marsiglia, Montpellier, Donosta-Bayonne, Bologna, Genova, Milano, Napoli e il Veneto centrale - si comprende bene come sia il territorio a fungere da «contenitore di tutto», «e non più la città»: dove per tutto si intende l'insieme delle plurime funzioni che governano le attività economiche, politiche e sociali, non più collocate in un «centro» bensì distribuite, integrate, addensate in «altre città», in un rapporto di concorrenza o complementarietà con la città principale.
Funzionano così Marsiglia, Barcellona, Milano e Valencia ma in alcuni casi la struttura urbana monocentrica domina i nuclei della sua periferia la cui crescita è avvenuta in modo concentrato (Madrid) o disperso (Lisbona). In altre situazioni ancora il centro principale metropolitano, per limiti naturali e geografici, ha visto l' «esplosione» urbana rimanere compatta - lungo la costa come a Genova - oppure disseminarsi, per esempio verso la pianura e il golfo, come a Napoli.
Ci sono, inoltre, i casi denominati «città diffusa» (Veneto centrale) oppure «struttura lineare» (regione trasfrontaliera basca di Donostia-Bayonne) in cui il processo di «metropolizzazione» è avvenuto lungo infrastrutture storiche viarie e di trasporto. Per tutte le città studiate il corredo di illustrazioni e cartografie - raccolte nei tredici box che compongono il percorso espositivo all'interno della navata centrale della chiesa di San Giorgio - descrive un territorio in continua evoluzione, che oggi appare già modificato rispetto a com'era nel 2000, anno di inizio della ricerca. È proprio il progressivo evolversi della dispersione che genera la «metropolizzazione» ed è questo processo di «allungamento» del territorio l'elemento che evita, come ha scritto Indovina, l'«impoverimento» della vita sociale; anzi, diviene, a certe condizioni, fattore generatore di crescita economica e di sviluppo. Infatti, è proprio lo sprawl, (termine americano in uso negli anni `60 per indicare la crescita urbana), che pur contenendo in sé tensioni e conflitti, configura nuove strutture spaziali, forme inedite di aggregazione della vita sociale, aspetti originali di organizzazione del lavoro e dell'economia.
In questa prospettiva l' «esplosione» della città non ha nulla di tragico. «Nella rovina dell'ambiente causata dallo sprawl germoglia il progetto moderno» - ha scritto Richard Ingersoll ( Sprawltown, Meltemi 2004) e ha aggiunto: « Sprawltown è un progetto per dar vita a una nuova coscienza urbana nelle vaste zone di indifferenza che ci circondano». Anche i curatori dell'esposizione bolognese sostengono la stessa tesi. Dalla città «compatta», che la tradizione urbana ci ha tramandato nei due secoli precedenti, al territorio «metropolizzato» la città non si dissolve bensì si «salva». I processi in atto, pieni di ostacoli, hanno solo altri contenuti, ad esempio fanno riferimento all'integrazione e all'identità: due termini che rimandano alle molteplici forme con cui si esprime la socialità nella «città infinita» che non ha più né centro né una periferia bensì «strutture spaziali», più o meno dense, che si «deformano» e si modificano nel tempo. Nei confronti della complessità delle relazioni che presenta la «metropolizzazione del territorio», ogni spazio che definisce, delimita o confina la «vita post-metropolitana» risulta inadeguato. In modo esemplare Massimo Cacciari ha colto quanto sia «intollerabile» la «retorica del contenitore», dell'edificio che intende innalzarsi nella «città generica», a confronto con la contemporaneità che si esprime nella polivalenza dei diversi «corpi» edilizi e tessuti urbani in perenne stato di interazione e aperti alla «modificabilità» e alla «adattabilità».
Tra gli elementi messi in evidenza dalla esposizione bolognese, inoltre, c'è la dimostrazione efficace di quanto sia urgente individuare una più adeguata strategia di governo pubblico capace di dirigere e organizzare il «territorio metropolizzato». Gestire la complessità rinnovando gli strumenti di analisi è un primo passo necessario per dare senso al progetto urbanistico; e per dimostrare che misurarsi con i problemi della città equivale a confrontarsi con una gerarchia di valori non astratti, bensì reali e utili per ordinare un discorso che ne superi le contraddizioni.