In queste ore il centrodestra ripropone, di fatto, in Finanziaria la vendita delle spiagge demaniali ai privati concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi. In queste ore il centrodestra va all'attacco dell'ambiente con una legge delega scandalosamente al ribasso sul piano delle salvaguardie per parchi, rifiuti, inquinamenti, valutazioni di impatto ambientale, ecc. In queste ore il centrodestra progetta un «colpo basso alla Merloni» (come ha scritto il Corriere Economia supplemento del Corriere della Sera) cancellando cioè, con decreto legislativo, le garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti. E continuano ad essere tempi da lupi per l'urbanistica: vola sempre bassa sul cielo del Senato la minaccia della legge Lupi (Forza Italia) già passata alla Camera. Per liberalizzare? Apparentemente. In realtà per dare il governo del territorio in mano a pochi grandi detentori di aree. Il criterio di fondo è ovunque lo stesso: il patrimonio pubblico viene privatizzato, ma non per liberalizzarlo. Si tratti di ambiente, di spiagge libere, di appalti, di aree fabbricabili, il fine è quello di trasferirne il controllo a gruppi di interessi forti, a privati potenti. L'interesse pubblico viene ancora una volta abbattuto e divelto in nome di una serie di interessi privati privilegiati. Dietro queste leggi spunta, inesorabile, la logica del Berlusconi immobiliarista.
Il disegno è chiarissimo e va in un senso preciso: privilegiare e premiare non già il profitto di impresa bensì la rendita fondiaria speculativa. Il tutto a colpi di accetta o di mazza, con leggi la cui struttura e scrittura appaiono delle più rozze, delle più primordiali. Come il capitalismo del quale risultano al servizio. Prendiamo la legge Lupi per l'urbanistica. Su di essa è appena uscito un libro utilissimo, a più mani ("La controriforma urbanistica", Editore Alinea di Firenze, con contributi di Edoardo Salzano, Vezio e Luca De Lucia, Luigi Scano, Paolo Urbani ed altri, 12 euro), che consente di mettere a fuoco quel percorso di dissoluzione della pianificazione urbanistica, operata cioè in nome dell'interesse generale, sul quale si sono già messi Comuni (Milano in testa) e Regioni (la Lombardia, ma la stessa Regione Lazio con un disegno di legge molto discusso).
Con la legge Lupi, viene interrotto "il plurisecolare tentativo dell'autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare" (Salzano), in nome della più schietta cultura liberale tesa a trasferire le risorse da impieghi improduttivi (la rendita) a impieghi produttivi (il profitto). Interviene dunque un cambiamento epocale: i piani regolatori non sono più atti "autoritativi" del potere pubblico elettivo, bensì "atti negoziali". Con chi? Coi cittadini, si risponde ipocritamente. In realtà, con quanti posseggono aree e/o diritti edificabili. Ecco un altro punto essenziale (e micidiale): se un costruttore ha avuto una concessione edilizia pubblica su propri terreni, acquisisce, a vita, un "diritto edificatorio" che può liberamente commercializzare, scambiare (Luca De Lucia). Come se fosse un bene giuridico a se stante, separato dalla proprietà dell'area per cui era stato concesso. Meccanismo infernale perché, prima o poi, tutti i diritti edificatorii acquisiti dovranno essere soddisfatti, indipendentemente dall'interesse pubblico, dalla sostenibilità ambientale, dai valori paesaggistici, ecc. Quale sarà, allora, il potere dell'Ente pubblico (Regione, Provincia, Comune) nei confronti dei proprietari di aree urbanizzabili e di diritti edificatorii? Nient'altro che quello di negoziare, rinunciando così a pianificare in base a criteri di interesse collettivo.
Secondo il rito ambrosiano (che qui diventa legge dello Stato), spiega Vezio De Lucia, "progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il PRG che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate". Conseguenze? Si cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio; si incentiva il consumo di suoli; si azzerano gli standard urbanistici nazionali; si elimina la tutela dei beni culturali, ambientali e paesistici dai PRG locali. Uno Tsunami.
Un ultimo dato fra i tanti: il consumo di suolo non urbanizzato. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, con strumenti diversi, si adottano leggi per "risparmiare" sul consumo di suolo, agricolo o comunque non urbanizzato. In quei Paesi "lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene comune" (Antonio di Gennaro), utile alla produzione agricola, al riciclo di risorse e alla ricostituzione di aria, acqua, terra, ecc., al mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio. Da noi, no. Eppure, in poco più di mezzo secolo, ci siamo "mangiati", ricoprendolo di cemento e asfalto, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata del 1951. Ad un ritmo, come minimo, doppio di quello tedesco il quale sta sui 47.000 ettari l'anno. Noi superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari. Un impazzimento collettivo.
Ma, mentre l'Europa più avanzata, ne discute e vara misure di "risparmio" del suolo, di riciclo delle aree già urbanizzate, ecc. noi, il Bel Paese dove il paesaggio è ricchezza anche turistica, non ci pensiamo per niente. Anzi, con la legge Lupi, il centrodestra propone di potenziare la logica di quella devastante "abbuffata" territoriale che già ora ha cancellato i confini fra città e città, facendo sparire la campagna. Fermare, battere la società Asfalto&Cemento si può, si deve. Prima che sia davvero troppo tardi.
Titolo originale: Livingstone turns screw on Stratford landowners – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra Ken Livingstone ieri ha avvertito gli interessati ai terreni destinati ai Giochi Olimpici che non verrà consentito in nessun modo di ritardare i preparativi per il 2012, e ha difeso la sua decisione di utilizzare un’ordinanza di esproprio per acquisire le proprietà necessarie al Villaggio Olimpico. Parte delle superfici in seguito saranno destinate al grande progetto di Stratford City, insediamento di residenze, negozi, alberghi e uffici che costituirà praticamente una nuova città nella fascia orientale di Londra.
Gli interessati si sono dichiarati “colpiti, stupiti, e profondamente perplessi” dal fatto che la London Development Agency del sindaco abbia acquisito i terreni usando i poteri di esproprio. Sostengono che l’agenzia abbia incamerato più del necessario, cedendo a una “frenesia di controllo”.
Ma alla sua conferenza stampa settimanale Livingstone ha detto che l’ordinanza era necessaria perché le contrattazioni si stavano muovendo troppo lentamente. “Abbiamo avvertito i proprietari che il termine ultimo era la settimana scorsa e che non ci saremmo spostati da lì. Saremmo stati lieti di concordare prima ma non potevamo evitare il CPO [ compulsory purchase order] se ci si metteva troppo”.
”In questi casi, quando diciamo che c’è una scadenza che non possiamo rinviare, la gente deve accettare il fatto che stiamo parlando seriamente, e la data non sarà cambiata. Non vogliamo mettere a rischio la preparazione dei Giochi Olimpici in tempo ed entro il budget fissato per non seguire la tabella di marcia”.
Ha poi proseguito sul tema dei tempi da rispettare. “Se non avessimo emesso il CPO saremmo stati dipendenti dalla cooperazione [dei proprietari] sulle consegne per tempo. Sarebbe stato il più grosso ricatto nella storia delle costruzioni e avremmo dovuto pagare decine di migliaia per avere l’area”.
”Non possiamo metterci in una posizione in cui possiamo essere minacciati. Non daremo ad alcun operatore privato il diritto si modificare i tempi”.
Livingstone ha affermato che le contrattazioni possono continuare per la modifica dei termini del CPO. Che il progetto di Stratford City non sarà messo in pericolo e che le proteste erano solo “una posa”. Una fonte degli interessati ha dichiarato: “Questa è semplice frenesia di controllo da parte della LDA, e tra l’altro rischiano di farsi nemiche le grosse e prestigiose imprese internazionali di cui avranno bisogno per le realizzazioni olimpiche. Se si comportano così, chi vorrà più far affari con loro?”
Un portavoce della London & Continental Railways, proprietaria di alcuni terreni destinati alle Olimpiadi, ha dichiarato che in negoziati continuano. Ha aggiunto: “Alla luce degli attuali rapporti siamo sorpresi dal linguaggio emotivo utilizzato dal sindaco”.
Anche se la LDA sostiene di essere lieta di raggiungere accordi con le imprese ed enti interessati, la questione è controversa. La prossima settimana l’agenzia terrà una riunione fondamentale con le imprese interessate che possiedono i terreni necessari allo Stadio Olimpico, a Marshgate Lane, Stratford.
Gli interessati sostengono che la LDA ha cercato di ottenere le superfici a prezzi stracciati, affermazione fortemente negata. Livingstone ieri ha ripetuto la sua contestata tesi secondo cui in alcuni casi le negoziazioni con la LDA erano finite in un vicolo cieco per sinistri motivi. “Alcune imprese hanno perseguito una vasta campagna politica tentando di convincere il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare i giochi a un’altra città” ha detto.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: In China, a golf community on a supergrand scale – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Shenzen – La grandeur ha sempre fatto parte della sensibilità cinese, e il complesso da golf del Mission Hill Golf Club and Resort sembra coerente con il fatto che le dimensioni contano.
Dal maggio 2004 il Guinness dei Primati ha ufficialmente inserito questo intervento, a sola mezz’ora d’automobile da Hong Kong, come il più grande complesso del mondo.
Ma anche colle sue 180 buche sparse per oltre 7.700 ettari, i costruttori ricordano che Mission Hills non è stata creata solo per battere dei primati. È pensata piuttosto per rendere più facili gli affari: una specie di ufficio all’aria aperta circondato da residenze che sono tra le più care del paese.
”Non abbiamo costruito questo complesso di dieci campi per soddisfare il nostro ego” dice Ken Chu, vicepresidente del Mission Hills Group e figlio di David Chu, il presidente dell’impresa. “È puramente una struttura di sostegno allo sviluppo economico della regione, di Shenzhen e Guangdong”.
La provincia di Guangdong è uno dei poli principali per l’esportazione in Cina sin da quando l’area è stata aperta all’investimento estero nel 1978 nel quadro delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Concentra circa un terzo del volume d’affari con l’estero del paese.
Ma per anni ci sono state poche occasioni di intrattenimento per gli uomini d’affari, e così secondo Chu il complesso di Mission Hills è stato pensato come spazio entro ciu potessero abitare e socializzare. “Non è solo golf, o proprietà immobiliare, si tratta di costruire una città” sostiene Chu.
Se si parla di grandeur, il golf è solo uno degli elementi per misurare dimensioni e ambizioni del complesso. Mission Hills vanta parecchie cose “ top in Asia”: il maggior numero di campi da tennis, 51; il percorso da golf più difficile, disegnato da Greg Norman; la più grossa sede di club, e qullo che sarà il più grande complesso palestra una volta finito l’anno prossimo.
Le residenze, sino a 864 metri quadrati, si vendono a circa 2.500 dollari il metro: care per la Cina, ma appena un decimo delle case di lusso a Hong Kong.
Mission Hills non rende noti i dati di vendita, anche se sono state cedute più di mille proprietà e sono in corso di completamento 80 case di lusso nel primo lotto di residenze. Tutti gli alloggi sono stati acquistati prima dell’inizio delle costruzioni. Si prevedono altre tre fasi di realizzazione nei prossimi tre anni.
È comunque il golf che ha consentito a Mission Hills di conquistarsi una visibilità su scala mondiale in un tempo tanto breve. I campi sono disegnati da alcuni dei principali nomi del golf, come Jack Nicklaus, Vijay Singh, Ernie Els, Annika Sorenstam, e Norman.
E ci sono voluti solo dieci anni per realizzare tutti i dieci campi, con gli ultimi cinque completati contemporaneamente in due anni. Una crescita tanto rapida rispecchia l’incredibile velocità del progresso economico cinese, e le crescenti domande della fiorente middle-class locale.
”L’unico rivale possibile è il Pinehurst” dice Colin Hegarty, presidente e fondatore del Golf Research Group, con riferimento al complesso su otto campi del North Carolina. Ma aggiunge, “Là si costruisce un campo più o meno in quindici anni. Cinque campi in due anni è una cosa davvero insolita”.
”Nei prossimi dieci anni la gente rimarrà stupefatta dalla quantità di campi realizzati in Cina” conclude.
Il numero al momento non è noto, dato che non ci sono organizzazioni che ne tengano il conto. Ma Han Liebao, professore alla Forestry University di Pechino, sta conducendo un’indagine per conto del governo. Ritiene che ci siano 306 campi, compresi quelli in corso di costruzione. Di questi, solo due sono aperti al pubblico, ed entrambi si trovano a Shenzhen.
L’idea del campo da golf unito ai complessi residenziali è nuova, qui, e alcuni costruttori preparano terreni con le ruspe per sola “immagine”. Ma l’anno scorso, Pechino ha congelato le realizzazioni.
”La preoccupazione è che il paese continui a perdere terreni agricoli per realizzare campi da golf, il che minaccia la produzione alimentare” dice Han.
Secondo lo studio, che sarà pubblicato in novembre, solo l’8,57% dei terreni ora utilizzati per il golf sono arabili. “Il governo non capisce che raramente i campi da golf sottraggono terra agricola” dice. “La maggior parte sono costruiti su rive di fiume, zone inutilizzate, pietrose, o sabbiose”.
Altra preoccupazione del governo è l’uso di pesticidi per i campi, che secondo alcuni funzionari minaccia le scorte idriche.
Mission Hills sembra aver rispettato la proprie promesse in termini ambientali. Sono stati sradicati centinaia di alberi durante la costruzione su questi terreni un tempo inutilizzati, ma poi sono stati ripiantati lungo i margini dei percorsi. Nelle fasi iniziali è stato sviluppato un massiccio programma di fertilizzazione dei suoli per sostenere il prato, ma ora è il personale di 2.400 caddies a strappare le erbacce, per evitare l’uso di pesticidi.
Quando i Chu hanno iniziato il progetto di Mission Hills, sono stati ingaggiati statunitensi e italiani, per dare alle abitazioni un ambiente occidentale. Le case hanno interni spaziosi, con corridoi aerati e soffitti alti sette metri e mezzo; gli esterni hanno un aspetto europeo, con tetti a tegole.
Le abitazioni sono fornite senza arredi, e attico e seminterrato non sono compresi nel prezzo per unità di superficie.
”Per la gente che vive qui, si tratta di Oriente che incontra l’Occidente” dice Carol Chu, direttore esecutivo di Mission Hills e figlia del fondatore. “Molti hanno scelto di vivere in Cina, ma hanno abitato in tanti posti in tutto il mondo. Così, vogliono vivere in qualcosa che appare loro familiare”.
Degli abitanti di Mission Hills, più della metà proviene da Hong Kong, e poi da Taiwan o altre zone dell’Asia. Ci sono industriali, imprenditori, politici, tutti attratti dalle caratteristiche e dal prestigio del complesso.
Nel corso di una recente promozione, per esempio, gli acquirenti sono stati invitati a un concerto di Roberta Flack e omaggiati con anelli di diamanti da 2 carati.
Mission Hills ha anche copiato l’uso occidentale di collocare le case vicino ai campi. Gli appartamenti cinesi di norma sono realizzati in grossi complessi, e anche le case singole spesso hanno vedute limitate. Ma a Mission Hills, ogni abitazione ha una vista, almeno parziale, sul percorso da golf.
”In tutto il mondo le visuali più costose sono sul verde e sul blu; il blu vuol dire mare, corsi d’acqua, oceano, e il verde sta per giardini, montagne, o campi da golf” dice Ken Chu. E qui sta la principale differenza. Abbiamo sistemato me case in modo strategico per aumentare al massimo la visuale”.
Se Mission Hills imita l’Occidente, le sue dimensioni superano di parecchio quelle dei complessi simili di successo. Uno studio su 1.200 complessi degli USA condotto dal Golf Research Group di Hegarty, mostra che sono quelli sui campi più piccoli a dare maggiori profitti.
”Le persone accorte costruiscono con un occhio al bilancio. L’idea è di mantenere le dimensioni contenute in modo da cogliere l’aumento di valore degli immobili, senza avere un grosso carico che può affondare l’investimento” dice Hegarty.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)
Dell’iniziativa della CGIL di Vicenza mi piacciono soprattutto tre cose: il titolo, il taglio, la continuità.
Il titolo “Più piazze e meno mattoni” esprime molto sinteticamente l’obiettivo vero che dobbiamo proporci: restituire la città alla società, ridurre l’edificazione allo stretto indispensabile per allargare lo spazio destinato alla fruizione di tutti. È uno slogan, e una battaglia, che si ricollegano alle grandi lotte operaie del 1969 (sono tra quelli che ricordano ancora la grande manifestazione del 19 novembre di quell’anno, quando l’Italia dei lavoratori si fermò e scese in piazza per la casa come servizio sociale,i servizi, i trasporti pubblici,il Mezzogiorno), ma si apre alla lotta contro il dissennato consumo di suolo per garantire alle generazioni presenti e a quelle future la possibilità di godere di un ambiente pulito, bello, salubre.
Il taglio di una giornata di studio nella quale si esaminano con attenzione le carte tecniche delle scelte sul territorio per valutarle nell’interesse dei lavoratori mi sembra costituire il modo giusto per uscire dalla “politica spettacolo”, dalle risse sulle parole, dalle semplificazione traditrici delle idee, dalle frasi fatte e dai luoghi comuni, dagli ideologismi che nascondono la mancanza di ideali. Studiare per comprendere, comprendere per cambiare: non è questo lo slogan implicito in tutta la storia del movimento operaio?
La continuità con un evento al quale (a differenza di questo) potetti partecipare mi sembra un dato importante. Mi riferisco al seminario che facemmo a Vicenza, all’indomani e “in attuazione” della iniziativa delle sei Camere del lavoro che si riunirono a Bologna nel 2004 per riaprire l’attenzione del sindacato sul territorio. In un’epoca di mode fuggevoli, di revisionismi continui, di altalene tra posizioni e interessi spesso divaricati, la continuità del lavoro che con questa iniziativa testimoniate mi sembra non solo un segno di serietà, ma anche di speranza.
Sulla Giornata di studio vedi Progettare partendo dai diritti dei cittadini
"Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dalle dichiarazioni dei sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo, che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente - il volantino, il centro sociale, l'assemblea - per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa – affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre - boss mafioso - perché era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s'è arresa mai.
Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come società civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé.
Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio - ma non è una novità, perché avviene regolarmente ogni settimana - c'è assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent'anni fa.
Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei "vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.
Care amiche e cari amici, qui di seguito, sottopongo alla vostra attenzione una mia riflessione sul tema delle periferie che tanto sta facendo discutere.
Tutt’altro che una novità, le mie parole sulle periferie e il loro malessere sono l’espressione di una mia preoccupazione antica: ne ho sempre parlato nei miei interventi in giro per l’Italia ed era un tema affrontato già nel 1995 in una delle 88 tesi per il Programma dell’Ulivo, la numero 65 intitolata “Ricostruire la città costruita: una politica per la città”. Ne cito alcuni passaggi: “occorre cambiare completamente direzione - vi si legge -…riqualificare l’esistente…valorizzare le periferie…ricostruire la città costruita , come nell’esperienza di alcune amministrazioni locali, in modo da riqualificare la città, promuovendo luoghi e spazi per la comunità. Di importanza dominante è affrontare il problema drammatico delle periferie (dove si concentra il maggior malessere di vita del nostro paese) con interventi sui servizi, le infrastrutture, il verde pubblico e privato, con la manutenzione delle zone comuni”.
In quelle poche righe, frutto del lavoro di tanti, è già indicata sinteticamente una direzione per affrontare un problema che si è progressivamente aggravato nel tempo ed è il frutto di una somma di elementi. Da quelli che hanno a che fare con la pianificazione territoriale e con un’edilizia non pensata per la comunità e per le persone che ci devono vivere e non solo dormire, a quelli della disoccupazione e della scarsità di servizi, da quelli della povertà e dell’esclusione sociale fino a quelli (più recenti per il nostro Paese) legati ai flussi di immigrazione.
So benissimo che non siamo Parigi. Ma penso che occorra cogliere per tempo, anche da noi, i segnali di disagio piccoli o grandi che siano. E i segnali ai quali mi riferisco - lo hanno detto in questi giorni diversi esperti di scienze sociali- non riguardano soltanto le situazioni più drammatiche di alcuni quartieri di alcune città soprattutto del nostro mezzogiorno (e non solo) ma anche la vita quotidiana di città ricche. Sono segnali, per esempio, le famiglie che iscrivono i figli nelle scuole di quartieri diversi da quelli in cui vivono, le persone che evitano, più o meno giustificatamente, di attraversare certe zone cittadine, caseggiati o quartieri che vengono progressivamente abitati (dati in affitto o venduti da cittadini italiani) soltanto da persone straniere. Tutti fenomeni che segnalano una comunità che si sta frantumando e nella quale gli anziani vivono in solitudine, i bambini crescono senza spazi per loro, e dove rimangono a vivere le famiglie con più problemi.
La “geografia della città”, cioè la trasformazione urbana, richiede “una regia”. Non nego che molte amministrazioni abbiano già cominciato da tempo ad affrontare il problema con anche qualche buon risultato. Ma gli equilibri raggiunti sono delicatissimi e sempre da tenere sotto osservazione. Su di essi infatti si scaricano sempre le nuove emergenze. Si può dotare un quartiere di servizi e far funzionare un centro di aggregazione sociale, illuminare le strade e rinnovare l’arredo urbano, e tanto altro. In questo modo si riesce a ridar vita a quel quartiere. Ma se, in modo non programmato (e oggi le occasioni sono moltissime), ti arrivano improvvisi insediamenti di nuclei familiari con tanti problemi, devi ricominciare da capo. Programmare una città vuol dire arrivare a capire prima (e, quindi, prevenire) ed evitare che i problemi si concentrino in una sola area. Altrimenti fai i quartieri “ghetto”.
Ecco perché condivido l’opinione secondo cui le città devono tornare al centro dell’agenda politica italiana. Sempre più spesso la città entra nel dibattito politico per le pur giustificate preoccupazioni sulla sicurezza e non come il luogo in cui crescono le persone, i nostri figli, dove dobbiamo vivere noi stessi, i nostri anziani e i nuovi cittadini. Un luogo che richiede anche innovazione amministrativa, tecnologica, sociale, ed economica.
Qualche giorno fa, su “La Stampa”, la sociologa Chiara Saraceno ha efficacemente sottolineato le diversità e le somiglianze tra la situazione francese (dove i problemi sono vissuti in particolare dalla terza generazione di immigrati) e quella del nostro Paese (dove invece il disagio riguarda tanto ancora gli italiani). E proprio sui quartieri in disagio si rovesciano quasi inevitabilmente i problemi degli immigrati. Finiamo così con il chiedere ai più deboli di farsi carico anche della convivenza con altre culture.
La politica deve dunque occuparsi primariamente delle origini del disagio che sono ancora una volta il lavoro precario o mancante, la casa che non c’è, la scarsità di servizi, una scuola che promette troppo poco.
Occorre inoltre una grande attenzione quotidiana allo spazio intorno a noi, una vera e propria “politica della manutenzione”, perché è importante vivere in luoghi “curati”. Io sono nato in una città, Reggio Emilia, in cui si è sempre teorizzato che una scuola bella è un ulteriore maestro: “l’ambiente è un insegnante in più. In ambienti migliori si apprende meglio”. Lo diceva il pedagogista che ha progettato la “celebre” rete delle scuole materne reggiane. Ed è per questo che mi dispiace che le periferie siano spesso così esteticamente brutte.
Per tutte queste ragioni, ci vuole sinergia tra politiche economiche e del lavoro, politiche dell’immigrazione, politiche sociali soprattutto finalizzate all’inclusione, politiche urbanistiche ed abitative, affinché sappiano creare case e quartieri vivi e non ghettizzanti, con verde e spazi comuni, in cui la gente possa vivere meglio. Bisogna tornare ad impegnarsi nell’edilizia sociale (siamo rimasti molto indietro rispetto agli altri Paesi europei).
E, dunque, nessun equivoco. A queste cose pensavo quando, intervenendo qualche giorno fa ad un gruppo di studio sul welfare alla Fabbrica, ho lanciato l’allarme sulle nostre periferie. Oggi prendo atto che la mia preoccupazione è condivisa da più parti, a cominciare dal ministro dell’Interno le cui parole non sono interpretate da nessuno come l’invito a provocare rivolte incendiarie in giro per l’Italia. Me ne rallegro: segno che qualche spazio di confronto, benchè faticosamente strappato a strumentali polemiche di parte, ancora sussiste.
Lo ribadisco: Parigi non è qui ma, se non agiamo per tempo, potrebbe non essere così lontana. L’ho detto anche in relazione al fatto che questa Finanziaria che interviene in un momento di grande crisi del Paese in cui si allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, taglia risorse proprio a quelle amministrazioni locali che dovrebbero aiutare le periferie più disagiate.
Io voglio luoghi in cui tutti noi possiamo vivere meglio
La tempesta che ha distrutto New Orleans si è materializzata dai mari tropicali a 125 miglia a largo delle Bahamas. Inizialmente classificata come «depressione tropicale 12» il 23 agosto, rapidamente si è intensificata diventando «tempesta tropicale Katrina»: l'undicesimo uragano cui sia stato assegnato un nome in una delle stagioni più ricche di uragani della storia. Attraversando la Florida e raggiungendo il Golfo del Messico, dove ha vagato per quattro giorni, Katrina ha subito una trasformazione mostruosa e in gran parte inattesa. Distraendo grandi quantitativi di energia dalle acque del Golfo, calde in modo abnorme (tre gradi centigradi sopra la temperatura media di agosto), Katrina è cresciuta improvvisamente diventando uno spaventoso uragano di classe 5, con venti a 290 km/h che alimentavano onde degne di uno tsunami, alte quasi dieci metri. (Come ha poi spiegato Nature, Katrina ha assorbito dal Golfo talmente tanto calore, che «dopo il suo passaggio la temperatura dell'acqua è scesa fortemente, scendendo in alcune regioni da 30 a 26 gradi centigradi»).
La mattina di lunedì 29 agosto, quando ha raggiunto la terraferma presso la foce del fiume Mississippi a Plaquemines Parish, Louisiana, Katrina era scesa alla categoria 4 (venti a 210-249 km/h): una ben magra consolazione per gli impianti petroliferi, i bacini ittici e i villaggi cajun che si trovavano sul suo cammino. A Plaquemines, e poi ancora sulla Gulf Coast in Mississippi e Alabama, Katrina ha sconvolto i bayou (zone paludose, ndt) con rabbia irrefrenabile, lasciandosi alle spalle un paesaggio così devastato che pareva una Hiroshima immersa nell'acqua.
Un calvario annunciato
La morte di New Orleans, naturalmente, era stata predetta. Anzi, nessun disastro della storia americana era stato previsto in anticipo così accuratamente.
Il segretario alla sicurezza interna Michael Chertoff ha poi dichiarato che «le dimensioni dell'uragano superavano qualunque cosa il suo Dipartimento potesse prevedere» ma questo, semplicemente, non è vero. Anche se sono stati sorpresi dall'improvvisa trasformazione di Katrina in un uragano gigantesco, gli scienziati avevano la cupa certezza di ciò che New Orleans poteva aspettarsi dall'arrivo di un grande uragano. «La cosa triste - ha detto un ricercatore dopo il passaggio di Katrina - è che l'avevamo previsto al 100%».
Sin dalla brutta esperienza dell'uragano Betsy, una tempesta di categoria 2 che nel settembre 1965 inondò molte zone orientali di Orleans Parish, ora nuovamente sommerse da Katrina, la vulnerabilità di New Orleans alle onde create dagli uragani è stata ampiamente studiata e pubblicizzata. Nel 1998, dopo un incontro ravvicinato con l'uragano Georges, la ricerca si è intensificata. Un sofisticato studio computerizzato della Louisiana State University metteva in guardia sulla «virtuale distruzione» della città da parte di un uragano di categoria 4 che si fosse avvicinato da sud-ovest. Gli argini e le barriere di New Orleans sono progettati per resistere solo a un uragano di categoria 3, ma anche questa soglia di protezione si è rivelata illusoria nelle simulazioni al computer fatte lo scorso anno dal genio militare ( Army Corps of Engineers).
La continua erosione delle isole della Louisiana meridionale, che costituiscono una barriera, e le paludi dei bayou, (una perdita annuale di fascia costiera stimata in 60-100 chilometri quadrati) fa aumentare l'altezza delle onde che spazzano New Orleans mentre la città stessa, insieme ai suoi argini, sta lentamente affondando. Il risultato è che anche un uragano di categoria tre, pur muovendosi lentamente, oggi inonderebbe gran parte della città.
L'amministrazione Bush ha reagito a queste previsioni respingendo le pressanti richieste di maggiore protezione dalle inondazioni: il fondamentale progetto Coast 2005 per recuperare zone paludose di protezione - il risultato di un decennio di ricerche e trattative - è stato accantonato e gli stanziamenti per gli argini, compreso il completamento dei baluardi intorno al Lago Pontchartrain, sono stati ripetutamente tagliati. In parte, questa scelta è stata una conseguenza delle nuove priorità di Washington che hanno compresso il budget del genio militare: un grosso taglio alle tasse per i ricchi, il finanziamento della guerra in Iraq e, ironicamente, i costi di Homeland Security, il Dipartimento per la sicurezza interna. Eppure, senza alcun dubbio, vi è anche un motivo sfacciatamente politico: New Orleans è una città solidamente democratica, è abitata in maggioranza da neri e i suoi elettori frequentemente decidono l'esito delle elezioni statali. Perché un'amministrazione così implacabilmente «di parte» dovrebbe ricompensare questa spina nel fianco autorizzando i 2,5 miliardi di dollari che, secondo le stime del genio militare, sarebbero necessari per costruire intorno a New Orleans un baluardo di protezione da un uragano di categoria 5?
I vandali della protezione civile
Oltre ad avere finanziato in modo insufficiente il ripristino della fascia costiera e l'edificazione degli argini, la Casa Bianca ha anche vandalizzato la Fema in modo irresponsabile. Sotto la direzione di James Lee Witt (che aveva il rango di membro del governo) la Fema era stata il fiore all'occhiello dell'amministrazione Clinton, guadagnandosi elogi bipartisan per l'efficienza dei suoi interventi di ricerca e soccorso, e per il pronto invio di aiuti federali dopo le inondazioni del fiume Mississippi nel 1993 e il terremoto di Los Angeles nel 1994. Quando però nel 2001 sono subentrati i repubblicani, l'agenzia è stata trattata alla stregua di un territorio nemico: il nuovo direttore Joe M. Allbaugh, ex manager della campagna di Bush, ha bollato l'assistenza nei disastri come un «programma assistenziale sovradimensionato» e ha chiesto agli americani di fare maggiore affidamento sull'Esercito della salvezza ed altri gruppi religiosi. Allbaugh ha puntualmente tagliato molti dei programmi principali che dovevano mitigare l'effetto delle inondazioni e degli uragani. Poi, nel 2003, si è dimesso per diventare un consulente pagato a peso d'oro dalle imprese che aspiravano ad avere contratti in Iraq. (Com'è nel suo stile, recentemente è riapparso in Louisiana come mediatore d'affari per le imprese che mirano ad aggiudicarsi i remunerativi appalti per la ricostruzione dopo il passaggio di Katrina.).
Così c'era ogni ragione di preoccupazione, se non di panico, quando domenica 28 agosto Max Mayfield, il direttore del National Hurricane Center di Miami, ha avvertito in video-conferenza il presidente Bush (ancora in vacanza in Texas) e i funzionari di Homeland Security che Katrina avrebbe devastato New Orleans. Eppure il direttore Brown, di fronte alla possibile morte di 100.000 persone, appariva tracotante: «siamo pronti. Ci siamo preparati a questo tipo di disastro per molti anni perché abbiamo sempre saputo di New Orleans...».
Ma mentre le acque inghiottivano New Orleans e i suoi sobborghi, era difficile trovare qualcuno che rispondesse al telefono o che assumesse il comando delle operazioni di soccorso. «Un sindaco del mio distretto - ha detto al Wall Street Journal un furibondo deputato repubblicano - ha cercato di ottenere soccorsi per i suoi concittadini, che erano stati colpiti direttamente dall'uragano. Ha telefonato per chiedere aiuto, l'hanno lasciato in attesa per 45 minuti. Alla fine, un burocrate gli ha promesso che avrebbe scritto un promemoria per il suo superiore».
Un sindaco fuori uso
Anche il municipio di New Orleans avrebbe avuto bisogno dei soccorsi: l'unità di crisi al nono piano è stata fuori uso fin dalle prime fasi dell'emergenza perché non c'era il carburante diesel per il generatore autonomo.
Per due giorni, il sindaco Nagin e i suoi collaboratori sono stati completamente tagliati fuori dal mondo esterno per il mancato funzionamento delle linee telefoniche terrestri e dei telefoni cellulari. Questo crollo dell'apparato di comando e controllo della città è sconcertante in considerazione dei 18 milioni di dollari in sovvenzioni federali che la città ha speso a partire dal 2002 in addestramento per affrontare esattamente contingenze di questo tipo. Ancor più misteriosa è stata la relazione tra Nagin e i suoi interlocutori statali e federali. Come il sindaco ha detto sinteticamente in seguito, il piano di emergenza cittadino era «far andare la popolazione in zone più elevate e farle inviare i soccorsi in elicottero dai federali e dallo stato», eppure il responsabile della sicurezza interna di Nagin, il colonnello Terry Ebbert, ha stupito i giornalisti ammettendo che non aveva «mai parlato con la Fema del piano di emergenza statale». In seguito Nagir ha cercato di giustificarsi dicendo che la Fema non aveva distribuito preventivamente aiuti.
Com'è inevitabile, molti di coloro che sono stati abbandonati ad annegare nei loro quartieri interpreteranno la negligente incoscienza del municipio nel contesto delle aspre divisioni economiche e razziali che da lungo tempo fanno di New Orleans la città più tragica degli Stati uniti. Non è un segreto che le élite affaristiche di New Orleans e i loro alleati nel Municipio vorrebbero sospingere fuori della città i segmenti più poveri della popolazione, accusati dell'alto tasso di criminalità.
Caseggiati adibiti storicamente ad alloggi popolari sono stati demoliti per fare spazio alle case di un ceto più abbiente e a un Wal-Mart. In altri insediamenti popolari, gli inquilini vengono regolarmente sfrattati per atti illeciti futili come la violazione del coprifuoco da parte dei loro figli. L'obiettivo finale sembra quello di trasformare New Orleans in un parco a tema per turisti - una Las Vegas sul Mississippi - nascondendo la povertà cronica nei bayou, nelle aree per roulotte e nelle carceri fuori città. .
Piccole pulizie etniche
Non sorprende che alcuni sostenitori di una New Orleans più bianca e più sicura vedano in Katrina un piano divino. «Finalmente abbiamo fatto piazza pulita delle case popolari a New Orleans» ha confidato un influente repubblicano della Louisiana ai lobbisti di Washington. «Noi non potevamo farlo, ma Dio lo ha fatto». Similmente, il sindaco Nagin si è vantato delle sue strade vuote e dei suoi quartieri distrutti. «Questa città è per la prima volta libera dalle droghe e dalla violenza, e abbiamo intenzione di mantenerla così». La parziale pulizia etnica di New Orleans sarà un fatto compiuto, senza che le amministrazioni locali e quella federale debbano fare grossi sforzi per dare una casa a prezzi abbordabili alle decine di migliaia di inquilini poveri attualmente dispersi nei rifugi per profughi in tutto il paese. Già si discute sulla possibilità di trasformare alcuni dei quartieri più poveri che sorgono in basso, come Lower Ninth Ward, in bacini di ritenzione idrica per proteggere le zone più ricche della città. Come il Wall Street Journal ha giustamente sottolineato, «questo significherebbe impedire ad alcuni degli abitanti più poveri di New Orleans di fare ritorno nel loro quartiere».
L'amministrazione Bush nel frattempo spera di trovare la propria resurrezione in una combinazione di rampante keynesismo fiscale e ingegneria sociale fondamentalista. Naturalmente, l'effetto immediato di Katrina sul Potomac è stato un calo talmente brusco della popolarità del presidente - e, parallelamente, dell'occupazione Usa in Iraq - che la stessa egemonia Repubblicana è improvvisamente apparsa in pericolo. Per la prima volta dagli scontri di Los Angeles del 1992, le questioni poste dai «vecchi Democratici» come la povertà, l'ingiustizia razziale e gli investimenti pubblici si sono momentaneamente imposte al dibattito pubblico, e il Wall Street Journal ha avvisato i repubblicani che devono «tornare all'offensiva politica e intellettuale» prima che qualche liberal alla Ted Kennedy possa riproporre un rimedio stile New Deal, come ad esempio una grossa agenzia federale per il controllo delle inondazioni o il ripristino della fascia costiera lungo la Gulf Coast.
Su questa linea, la Heritage Foundation ha ospitato riunioni protrattesi fino a tarda sera in cui ideologi conservatori, quadri del Congresso e fantasmi del passato Repubblicano (come Edwin Meese, ex segretario alla giustizia di Nixon) hanno presentato una strategia per salvare Bush dalle conseguenze nefaste del calo di popolarità della Fema. Jackson Square a New Orleans, illuminata a giorno ma vuota, è diventata il fondale spettrale del discorso che il presidente ha tenuto il 15 dicembre sulla ricostruzione dopo l'uragano. È stata una performance straordinaria.
Un laboratorio per il neoliberismo
Con aria radiosa, Bush ha promesso ai due milioni di vittime di Katrina che la Casa Bianca si accollerà gran parte delle spese per i danni, stimati in 200 miliardi di dollari: una spesa pubblica in disavanzo talmente alta che avrebbe fatto girare la testa persino a Keynes. (Il presidente sta ancora proponendo un altro grosso taglio delle tasse per i super-ricchi). Bush ha poi corteggiato la sua base politica con un elenco di riforme sociali cui i conservatori aspirano da tempo: buoni per la scuola e per la casa, l'assegnazione alle chiese di un ruolo centrale, una lotteria «per una casa in città», ampie agevolazioni fiscali alle imprese, la creazione di una Gulf Opportunity Zone, e la sospensione di fastidiose norme governative (come i minimi salariali nell'edilizia e le norme ambientali sulle trivellazioni off-shore).
Per i conoscitori della «Bush-lingua», il discorso di Jackson Square è stato un momento di squisito déjà vu: promesse simili non erano forse state fatte sulle rive dell'Eufrate? Come ha cinicamente osservato Paul Krugman, la Casa Bianca, avendo tentato di fare dell'Iraq «un laboratorio per le politiche economiche conservatrici» e non essendoci riuscita, può ora fare i suoi esperimenti sui traumatizzati abitanti di Biloxi e di Ninth Ward. Il deputato Mike Pence, un leader del potente Republican Study Group - che ha contribuito a scrivere l'agenda del presidente per la ricostruzione - ha sottolineato che i Repubblicani faranno della devastazione causata dall'uragano un'utopia capitalistica. «Vogliamo fare della Gulf Coast un magnete per la libera impresa. L'ultima cosa che vogliamo, dove un tempo c'era New Orleans, è una città federale ».
Significativamente, come ha scritto di recente il New York Times, attualmente il genio militare di New Orleans è guidato dallo stesso personaggio che in precedenza supervisionava i contratti in Iraq. Lower Ninth Ward potrebbe non esistere mai più, ma i proprietari dei bar e dei locali di strip-tease nel quartiere francese stanno già pregustando i guadagni che li attendono, quando i lavoratori della Halliburton, i mercenari della Blackwater e gli ingegneri della Bechtel lasceranno a Bourbon Street i loro stipendi federali. Come si dice nel Vieux Carré e alla Casa Bianca: laissez les bon temps roulez!
Nota: qui su Eddyburg vedi anche : Rimpicciolire New Orleans? di Jon E. Hilsenrath, oltre ai molti altri testi sulla ricostruzione della città (l.t.)
Titolo originale: Bush to Cities: Drop Dead! – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Le notizie sono tutte pessime. Ed è quasi impossibile concentrarsi su qualcosa davanti ai 99 articoli sul deficit crescente, i tentativi dell’amministrazione Bush di privatizzare la Social Security, o l’ultima richiesta multimiliardaria per finanziare la guerra in Iraq. Le cifre sono incomprensibili, le argomentazioni scottano come una piastra incandescente, e vien voglia di buttar via tutto. Lasciare che quei mollaccioni politicanti di Washington si azzuffino fra loro.
Poi c’è questo titolo del Washington Post, 14 gennaio 2005: “ Bush prevede tagli netti ai programmi HUD per le città”. Fa sbarrare gli occhi, vero? Magari è uno di quegli articoli che di solito si saltano. Dopo tutto, che c’entri, tu? Ma proviamo a leggere: “Funzionari dell’amministrazione hanno affermato ieri che la Casa Bianca tenterà di ridurre drasticamente gli 8 miliardi di dollari che il Department of Housing and Urban Development dedica al proprio community branch, tagliando dozzine di progetti di sviluppo economico, eliminando il programma di edilizia rurale, passando le competenze per gli impegni anti-povertà di alto profilo ai dipartimenti del Lavoro e del Commercio”.
Se ci si ragiona per un istante, si capisce che questo articolo tratta di cose che ci interessano. Cosa sono l’abitazione e lo sviluppo urbano se non architettura, progetto, pianificazione? Il fuoco della faccenda è che il bilancio proposto dall’amministrazione per il 2006 taglierà a metà i 4,7 miliardi di dollari del programma Community Development Block Grant (CDBG), da trent’anni fonte di finanziamento per cose che vanno dai sistemi fognari, alla tutela delle zone storiche, alle abitazioni popolari. È un programma tanto vitale per l’esistenza quotidiana delle città americane, che la conferenza nazionale dei Sindaci, riunita a Washington pochei giorni dopo la pubblicazione dell’articolo sul Post, ha approvato una risoluzione urgente a sostegno del finanziamento integrale del programma CDBG, che sembra un grido di dolore dalle casse svuotate dei governi locali.
Gli altri programmi destinati ad eliminazione o trasferimenti, comprendono la Brownfields Economic Development Initiative, che promuove iniziative di infill development e combatte l’insediamento diffuso (e che sarebbe cacciato come un orfano in un romanzo di Dickens, al dipartimento del Commercio), e il piccolo programma da 24 milioni del Rural Housing and Economic Development, che verrebbe eliminato.
Come dice il nome, lo HUD è l’ufficio federale che si occupa principalmente dei bisogni delle città (anche se concorre a costruire case e infrastrutture nelle zone rurali). E una parte del problema è che l’amministrazione Bush non è tanto entusiasta delle città, o delle persone che ci abitano; a novembre John Kerry si è preso il 54% del voto urbano, e il 60% di quello delle grandi città. Poi c’è la spesa crescente per la guerra in Iraq, insieme ai grandi tagli fiscali, e questo significa meno soldi da spendere in programmi interni. Bisogni come le case e le infrastrutture sono improvvisamente diventati dei lussi.
”C’è un deficit da affrontare, e la base di sostegno non sta nelle città” afferma Chandra Western, direttore della National Community Development Association, riassumendo i motivi per cui i tagli presidenziali potrebbero eliminare progetti utili a tante persone. L’architetto Bryan Bell, del North Carolina, noto per aver ideato tipi residenziali innovativi per i lavoratori stagionali agricoli, la prende da un’altra parte: “Credo semplicemente che si tratti dell’alternativa burro-cannoni. E stiamo perdendo il burro”.
”Essenzialmente quello che viene messo in discussione è se il governo federale debba continuare ad avere un ruolo nella soluzione dei problemi urbani e di sviluppo economico per le famiglie a redditi bassi e medio-bassi” spiega Paul Hilgers, responsabile per i quartieri, l’abitazione e il community development di Austin, Texas.
Hilgers dirige quella che è uno degli uffici per l’abitazione più progressisti del paese. Austin di recente ha completato un ambizioso progetto architettonico per uno homeless shelter and outreach center di 2.500 metri quadri, che utilizza acqua piovana per i servizi igienici e funziona ad energia solare. È stato finanziato in parte nel quadro del programma CDBG, che come sottolinea Hilgers fu lanciato da un repubblicano. “È iniziato sotto l’amministrazione Nixon, e l’idea era piuttosto semplice. Abbiamo problemi nazionali riguardo ai quali il governo federale ha alcune responsabilità, che non si sa come risolvere. Allora dobbiamo creare un programma che consenta parecchia flessibilità a livello locale”.
In altri termini, il programma CDBG è un modello di azione in cui un grosso governo agisce con la leggerezza del piccolo governo, e si tratta di un grosso risultato per l’amministrazione Nixon. Purtroppo l’idea di tagliare del 50% i fondi per il community-development ha il profumo di un altro presidente repubblicano anni ’70. È un prodotto dell’annata 1975, dal titolo: “ Ford alle città: a cuccia!”.
Ma può anche darsi che l’idea di un atteggiamento negativo del governo federale verso le città sia una generalizzazione eccessiva, un’astrazione di poca utilità. Magari si pensa a fogne e marciapiedi più o meno come ci si preoccupa di Sicurezza Sociale: non ci si vuol pensare gran che, ma ci si farebbe caso se non esistesse più. In questo caso, c’è una storia più piccola e più accessibile nascosta sotto tutte queste chiacchiere burocratiche. Riguarda il modo in cui negli ultimi dieci anni abbiamo imparato come abitazioni innovative e abitazioni a buon mercato non siano categorie che si escludono a vicenda. L’approccio bottom-up iniziato dallo HUD negli anni della presidenza Clinton (rendere disponibili fondi per il community development con minime formalità burocratiche) ha aiutato il sorgere di una nuova generazione di architetti che, ispirati dai successi del Rural Studio di Samuel Mockbee in Alabama, e da programmi simili in tutto il paese, hanno tentato di recuperare l’idea del Movimento Moderno, della casa per tutti.
Le generazioni precedenti avevano interpretato il messaggio modernista in modo piuttosto letterale, utilizzando i fondi federali per costruire i progetti residenziali monolitici diventati il simbolo dell’incapacità del settore pubblico di realizzare qualcosa di buono. Ora una nuova generazione di architetti trova interessante il tema dell’abitazione a basso costo: un enigma intrigante da risolvere. Giovani professionisti, spesso laureati nelle aree della progettazione/esecuzione, sono diventati maestri nel progetto e finanziamento di case a basso costo e prezzo. I fondi dello HUD entrano quasi sempre nell’equazione.
Hilgers ci dice: “Abbiamo un gruppo di giovani architetti molto innovativi che escono dalle scuole e sono veramente motivati ad alti livelli di progettazione creativa per abitazioni rivolte ai ceti meno abbienti. Non ci era mai successo prima. Ed è un peccato che, proprio quando abbiamo una struttura di giovani professionisti creativi che avrebbero bisogno di essere sostenuti, si debbano prevedere dei tagli”.
L’ufficio di Hilgers ha dato lavoro a studi di Austin come lo Krager Robertson Design Build, aiutandoli ad ottenere fondi federali. Il KRDB ha ottenuto fondi sufficienti dallo Housing and Urban Development attraverso l’amministrazione di Austin e il suo programma residenziale, per ideare, progettare e realizzare case a buon mercato in vendita per famiglie a medio reddito, sulla Cedar Avenue, nella zona est della città. Queste sottili ed eleganti case piene di luce, sono offerte a cifre da 105.000 a 125.000 dollari. Il sostegno dello HUD ha ridotto di 10-15.000 dollari il prezzo di vendita, e dato agli acquirenti un po’ di respiro nel pagamento degli interessi.
A Raleigh, lo studio di Bryan Bell, Design Corps, conta moltissimo sui finanziamenti delle varie branche dello HUD, compreso il programma Rural Housing and Economic Development di cui si prevede l’eliminazione. “Quando si parla di Home Investment Partnership (che per ora non è compresa nella lista dei programmi da eliminare) e di Rural Housing and Economic Development, quelle sono tutt ele risorse per i nostri progetti” dice Bell. “E que
Titolo originale: How green is their tunnel? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Mentre la torcia olimpica corre verso Torino, un’ombra si allunga sui vicini giochi olimpici invernali dell’anno prossimo.
La disputa sui progetti per un grosso tunnel che corre per 53 chilometri sotto le Alpi è sfociata due volte in violenze nell’ultima settimana. Giovedì, la polizia in assetto antisommossa ha usato i gas lacrimogeni contro i dimostranti, dopo che decine di migliaia di persone avevano approfittato della giornata di festa per manifestare contro i piani per la Val di Susa, che ospita molte delle principali strutture olimpiche.
Gli scontri hanno avuto luogo quando alcuni oppositori del progetto hanno cercato di raggiungere il cantiere già occupato dai contestatori e violentemente sgombrato dalla polizia. Circa venti persone, tra cui cinque poliziotti, sono stati trasportati via in ambulanza dopo gli incidenti, e le tensioni che ne sono risultate devono ancora placarsi.
A dire il vero, queste sono state ulteriormente alimentate dal ministro delle infrastrutture del governo di Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi, ingegnere specializzato in gallerie e ardente sostenitore del progetto, il quale mercoledì ha dichiarato che la questione ha smesso di essere responsabilità del suo dicastero, diventando un “problema di ordine pubblico”.
Berlusconi, per parte sua, ha insistito che il progetto deve andare avanti, e che “dal punto di vista ambientale, ha tutte le the [necessarie] garanzie”.
Non è certo quello che pensa la maggior parte degli abitanti, o la maggior parte degli ambientalisti italiani. Essi sostengono che la linea ferroviaria, che collega Torino a Lione, rovinerà la bellezza della valle.
Affermano anche che la montagna contiene depositi sia di uranio che di amianto. Temono che lo scavo del tunnel porterà alla creazione in valle di luoghi di scarico dei rifiuti da cui i pericolosi sedimenti potranno diffondersi nell’aria.
Ma non si tratta solo di uno scontro diretto fra campioni del progresso e dello sviluppo da un lato, e amici dell’ambiente dall’altro. All’inizio di questa settimana la causa degli oppositori del tunnel ha ricevuto un duro colpo da una direzione inattesa.
Gérard Leras, leader dei Verdi nella regione Rhône-Alpes della Francia sud-orientale, ha rilasciato un’intervista al quotidiano italiano Il Corriere della Sera nella quale accusa i suoi colleghi italiani di aver imboccato una direzione sbagliata opponendosi a un progetto che ridurrà l’inquinamento da autocarri nelle Alpi.
Ha dichiarato al giornale: “Un conto è essere ecologisti, un altro essere localisti. Non si può dire sempre di NO”.
Leras sostiene che la zona di Maurienne sul versante francese del confine “non può più sostenere 5-6000 camion al giorno: gli stessi che attraversano e inquinano la Val Susa”.
Ma il progetto dell’alta velocità ferroviaria li toglierà dalla strada? I contestatori italiani sostengono di no. E all’inizio del mese si sono guadagnati il sostegno di un importante esperto di trasporti, Marco Ponti, che insegna al Politecnico di Milano.
Ha raccontato alla rivista L'Espresso di non riuscire a trovare una “motivazione razionale” per costruire il collegamento Torino-Lione. Ponti dice: “La capacità dell’attuale rete [ferroviaria] è già in eccesso rispetto alla domanda, e le merci che viaggiano su ferrovia non hanno bisogno di muoversi a 300km l’ora”.
Per quanto riguarda i passeggeri, continua, hanno già un collegamento ad alta velocità. Si chiama voli low-cost.
Il vertice del comitato olimpico ha dichiarato questa settimana di contare su una tregua, che impedisca alla protesta di riversarsi sui Giochi. Ma con la tensione ai livelli attuali, non c’è alcuna garanzia.
Nota: il testo originale in Inglese: le opinioni di Marco Ponti citate da Hooper, sono meglio argomentate con dati tecnici nell'articolo scritto in collaborazione con Andrea Boitani sul sito La Voce (f.b.)
La Biennale di Tirana cade negli anni dispari insieme alle biennali di Venezia, Valencia, Mosca, Praga e Istanbul; come se non bastasse, nel 2007 si troverà anche a coincidere con la dodicesima edizione della quinquennale Documenta di Kassel. Un affollamento che certo non contribuisce ad attirare nella capitale albanese l’ormai stremato establishment del circuito internazionale dell’arte, ma che in compenso impone alle manifestazioni più “periferiche” un orientamento fortemente site-specific.
La ricerca di una relazione osmotica con il territorio e la popolazione di un paese o di una determinata area geografica rappresenta di fatto uno dei modi più efficaci di arginare la serialità delle biennali: non ci si limita a passare in rassegna le nuove tendenze o le punte eccellenti della produzione artistica internazionale, ma si organizza un tipo di evento in cui gli artisti sono invitati a reagire criticamente alla situazione sociale e politica del luogo, a intervenire nel contesto ambientale e a interloquire con gli abitanti. Cinicamente, si potrebbe persino ipotizzare che la ragione del successo di questa formula sia un interesse voyeuristico nei confronti di regioni di cui si sa poco, un nuovo genere di esotismo.
L’operazione che ha dato notorietà a Tirana e alla sua biennale risale al 2003, quando gli artisti ridipinsero un numero consistente di palazzi con i colori più chiassosi, concordandoli con i residenti: si trattava di un’opera pubblica partecipata, e per di più con una chiara valenza simbolica (spazzare via la grigia impronta dell’era comunista), che non poteva mancare di suscitare l’entusiasmo generale.
La terza edizione della mostra, Sweet Taboos (10 settembre-10 novembre 2005), scaglionata in cinque episodi, continua a riflettere sul postcomunismo. Gli edifici che ospitano la mostra, la Galleria Nazionale d’Arte, di epoca comunista, e il Kompleksi ‘Vila Goldi’, un enorme centro commerciale ancora in costruzione, sono metafore fin troppo didascaliche del passaggio brusco da un sistema rigido a un vuoto di regole che non accenna a essere colmato.
Il terzo episodio, Democracies, curato dalla slovena Zdenka Badovinac, è quello più strettamente politico. Le opere raccolte mettono in questione il tabù che le economie parallele (dalla privatizzazione selvaggia al traffico di donne, agli insediamenti e mestieri informali) rappresentano per i modelli europei di democrazia. La sezione di Hou Hanrou è focalizzata sul confronto con l’arte del realismo socialista all’interno della galleria (Go Inside), mentre Bittersweet, della svedese Joa Ljungberg, esplora le relazioni tra sesso e potere. I due direttori della biennale, Edi Muka e Gëzim Qëndro, hanno curato Temptations, sul potere come tabù, che mostra in primo piano, tra le infinite interpretazioni del tema, un quadro del 1974 raffigurante il Congresso degli 81 partiti comunisti di Mosca, una sorta di palinsesto della censura: la fitta trama delle cancellature, delle distorsioni e delle segregazioni che ha subito racconta la storia dell’isolamento politico dell’Albania.
Dalle fotografie perturbanti di Annee Oloffson, autoritratti deformati dall’intrusione delle mani del padre o della madre, alle installazioni di Platforma 9.81 o di Rubin Mandija che denunciano l’appropriazione dello spazio pubblico, sono molte le opere interessanti.
Tuttavia l’eccezionalità di questa biennale, l’elemento che la rende un’esperienza del tutto atipica, non è il frutto di una scelta deliberata dei curatori. È, al contrario, un fenomeno di resistenza da parte della città, un’opposizione sorda che impedisce allo spettacolo di realizzarsi. I colori dei palazzi, orgoglio dell’amministrazione del sindaco-artista Edi Rama, sbiadiscono inesorabili, il proiettore del cinema Agimi si inceppa, i lavori stradali rendono impraticabile il viale d’accesso alla Galleria Nazionale il giorno del vernissage, la performance di Regina Galindo – che si fa appendere nuda, in attesa di mestruazioni chimicamente indotte, nel garage del kompleksi Goldi, davanti a operai che sbalorditi continuano a lavorare – fallisce, mentre un guardiano si apposta in una saletta video qualche metro più in là, nella sezione Bittersweet, per molestare le donne sole che gli capitano a tiro.
Roberto Pinto, che nell’episodio To Loose Without Being a Looser propone un’idea della sconfitta come rifiuto di partecipare all’ideologia della competizione e della vittoria a ogni costo, è fortemente tentato di appropriarsi di questa rugosità del reale, di farla sua, ma la specificità di Tirana sfugge anche alla sua presa. Uno spiritello situazionista si aggira per le vie, senza che peraltro nessuno lo abbia chiamato.
Quello che la biennale non coglie, se non in minima parte, è la dialettica tra il rifiuto iconoclasta nei confronti di qualunque spazio, uso od oggetto associabile alla dittatura comunista, condizione comune a tutta l’area postcomunista, e il pensiero che alcune componenti di questo rifiuto appartengano alla sfera degli stereotipi. Uno di questi è certamente lo squallore attribuito alla città comunista: pur non avendo un vero e proprio centro storico, Tirana (e anche una parte di Bucarest, come si evince dall’appassionante libro di Giuseppe Cinà sull’argomento appena pubblicato da Unicopli) possiede un bell’impianto urbano, strade alberate e palazzi di epoca comunista che nonostante l’aspetto scalcinato mostrano un buon design, e l’insieme di questi elementi non ha prodotto solo una città civile, ma anche piena di fascino, in cui i caffè, i locali e i negozi aperti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha si sono inseriti nel modo più naturale. Bar e ristoranti sono però solo uno degli aspetti della liberalizzazione: circa un terzo della popolazione rurale si è riversato su Tirana, raddoppiandone la popolazione e trasformandola in una sorta di laboratorio di urbanizzazione accelerata. Nel giro di un decennio la città è stata sommersa prima da baracche e chioschi abusivi – in parte rasi al suolo dal sindaco – poi da una speculazione selvaggia che respinge i poveri ai margini. L’energia convulsa di queste migliaia di persone e automobili in lotta per l’accaparramento dello spazio vitale si osserva ancora meglio dall’alto, dove la prospettiva, invece di aprirsi come di consueto, viene soffocata da alti palazzi color pastello, pieni di archetti e timpani postmoderni, a distanza di cinquanta centimetri l’uno dall’altro.
Di fronte a questo scenario di prevaricazione viene da pensare che il vero tabù, ciò di cui è più difficile parlare e proprio per questo bisogna parlare, sia quel conglomerato di desideri e aspirazioni a una “buona vita”, a un uso pubblico, razionale e condiviso della propria esistenza che, a prescindere dalle sue realizzazioni storiche novecentesche, si è sempre celato e insieme rivelato nella parola “comunismo”.
Titolo originale: The Virtues of Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Dalla Pasco County appena fuori Tampa, alle zone dei ranch a nord di Dallas, fino a Phoenix, e Las Vegas e Boise, i chilometri di lottizzazioni appena costruite sono la scelta ufficiale di milioni di americani. I demografi utilizzano oggi il termine “esurbano” a descrivere questo tipo di localizzazione, in zone aperte nelle fasce più esterne alle zone già suburbane, dove è completamente assente qualunque tipo di relazione tradizionale con una grande città. Pianificatori, ambientalisti, architetti, chiamano tutto questo lo spreco dello sprawl, e spingono per un tipo di urbanizzazione più compatta.
Ma nonostante i prezzi della benzina in crescita, che rendono sempre più costoso accedere a questi paesaggi diffusi, alcuni studiosi e commentatori sostengono che lo sprawl, a dire il vero, non è tanto male.
Alcune realizzazioni recenti fuori Los Angeles, Phoenix, e Dallas sono lontane, ma abbastanza dense, ad esempio, e fanno pensare a qualche tipo di strisciante efficienza che si insinua nella continua suburbanizzazione d’America. Una ricerca della Brookings Institution sull’area di Los Angeles ha rilevato una media di venti abitanti ettaro nelle zone di nova urbanizzazione (1982-1997), ovvero tre volte le quantità dell’area metropolitana di New York. Se si guarda alla popolazione per chilometro quadrato, Los Angeles – che per quanto sia ampia è delimitata dalle montagne e dall’oceano – è più densa di Chicago, secondo il Census Bureau. E le immagini delle case unifamiliari stipate tutte insieme, hanno provocato qualche brontolio sul fatto che questa nuova generazione di suburbi non offra abbastanza spazio.
La densità è solo uno dei fattori, nell’analisi dell’insediamento disperso. Dato che tutte le funzioni della vita quotidiana – case, negozi, divertimenti, posti di lavoro – sono rigidamente separate e diffuse, tutti hanno bisogno dell’auto per muoversi. Ciò significa lunghi spostamenti pendolari, ingorghi stradali, meno tempo da passare con la famiglia. Le amministrazioni locali rischiano la bancarotta tentando di estendere le reti idriche e fognarie o alte infrastrutture verso le aree esterne, anche se poi sono dense, una volta che ci si arriva. Lo sprawl si mangia terre agricole e spazi aperti, e l’investimento verso le zone di insediamento diffuso è avvenuto a spese delle zone centrali urbane, peggiorandone la frammentazione sociale ed economica.
Ma è tutta una storia negativa? Può anche darsi, dice Robert Bruegmann, professore di storia dell’arte, architettura e urbanistica alla University of Illinois di Chicago, che individua alcune buone cose riguardo allo sprawl. “Non è meglio o peggio di altri modi di urbanizzazione” sostiene Bruegmann. “Funziona, perché soddisfa molti bisogni. Quando se lo può permettere, la gente esce dalle città. Ora ci sono decine di milioni di persone che possono fare quello che un tempo era consentito solo a una piccola minoranza.
Bruegmann, il cui nuovo libro Sprawl: A Compact History (Chicago), sarà pubblicato alla fine del mese, si aggiunge allo scrittore e consulente Joel Kotkin, all’editorialista del New York Times David Brooks, e ad altri, nel trovare ispirazione nelle lottizzazioni, quasi fossero delle Jane Jacobs di suburbia. Il sostegno all’insediamento disperso segue una lunga tradizione, iniziata da Thomas Jefferson e proseguita da Frank Lloyd Wright. Oggi, Bruegmann e gli altri sentono come importante individuare ciò che di buono esiste nell’urbanizzazione diffusa, perché lo sprawl è stato martellato per oltre vent’anni da attivisti che auspicano una smart growth, o un New Urbanism, quest’ultimo un movimento architettonico che promuove la progettazione di quartieri tradizionali compatti.
Lo sprawl ci da’ “decentramento e democrazia” sostiene Bruegmann says: un tipo di uso ordinato dello spazio che avvicina classe lavoratrice e ceti medi, consentendo un avanzamento economico e sociale. Le abitazioni nei nuovi insediamenti, nel Sud e nell’Ovest, di solito partono da 120.000 dollari. Tentare di arginare lo sprawl significa mettersi di traverso allo sbocciare del sogno americano.
”È un modo per avere cose un tempo riservate solo a pochi”, prosegue Bruegmann. “ Privacy, mobilità – fisica e sociale – possibilità di scelta”.
E lo sprawl non è un fenomeno nuovo. Dalle antiche Roma e Cina, alla Londra del XIX secolo, a Parigi o Los Angeles oggi, la società si è diffusa sul territorio nei fasi positive dell’economia. “Appena le persone possono permetterselo, si verifica una massiccia migrazione verso le zone esterne” dice Bruegmann. Quindi, può darsi che dovremmo tutti smettere di preoccuparci, e imparare ad amare le lottizzazioni.
Naturalmente, altri osservatori del panorama nazionale di insediamento diffuso vedono un futuro più nero. James Howard Kunstler, campione del New Urbanism e autore di The Long Emergency: Surviving the Converging Catastrophes of the 21st Century (2005), sostiene che quando non sarà più disponibile petrolio a buon mercato, l’economia suburbana collasserà: l’organizzazione fisica che richiede lunghi spostamenti per recarsi ovunque si rivelerà una follia. Kunstler prevede solo erbacce secche rotolanti nelle lunghe strisce commerciali davanti ai Wal-Mart.
”Le nostre città in genere sono organismi ipertrofici: sono diventate troppo grandi nel secolo scorso, grazie alla crescita consentita dall’energia a buon mercato” dice Kunstler. “Qualunque cosa siano oggi, certamente dovranno contrarsi nel XXI secolo. Il processo probabilmente comporterà una densificazione dei vecchi centri o sulle sponde, nella generale contrazione”. L’organizzazione attuale delle nostre vite, sostiene Kunstler, “segue l’incessante logica del cancro, dell’ipertrofia, e si dimostrerà auto-limitante, dato che consuma e distrugge il portatore”.
La gran parte degli attivisti smart-growth oggi non occupa il proprio tempo a criticare lo sprawl o a prevedere la caduta del suburbio. L’attenzione principale è rivolta all’offrire una scelta più ampia a chi non desidera abitare nello sprawl: modificando norme di zoning superate che impediscono insediamenti a funzioni miste vicino a stazioni ferroviarie, per esempio.
”La smart growth non afferma che tutto lo sprawl sia orribile” dice John Frece, direttore associato del National Center for Smart Growth Research all’Università del Maryland. “Non si tratta di impedire la possibilità di costruire sprawl: solo di aggiungere quella di fare cose diverse, e metterla sul medesimo piano. Poi deciderà il mercato”.
Bruegmann sostiene di essere piuttosto aperto all’idea che gli americani scelgano diversi modi di vita in diversi momenti dell’esistenza. E, giusto a complicare ulteriormente le idee di tutti, prevede anche che con l’aumento della ricchezza nelle società, più persone desiderano tornare in città. Si tratta solo di capire in che modo l’agiatezza condiziona la domanda di vari ambienti fisici.
”Se si hanno soldi a sufficienza, la vita nell’alta densità può essere molto attraente” dice. “Credo che ci sarà sempre qualcuno che desidera vivere in spazi di tipo suburbano, comunque. Ma se si ha un appartamento spazioso sulla Fifth Avenue con un portinaio, e se si può prendere un taxi o camminare fino al Metropolitan Museum of Art ... ci sono milioni di persone che adorerebbero farlo”.
In definitiva, sostiene Kotkin, autore di The City: A Global History (2005), “I problemi dello sprawl dovranno essere risolti nel contesto dello sprawl. Non si può fermarlo. Non si può riprogrammare la società facendo tornare tutti a Boston. Dimenticatevelo. Non succederà”.
Lo sprawl sta migliorando, dice Kotkin says: più denso, e alla fine con una migliore combinazione funzionale, e negozi e posti di lavoro più vicini alle abitazioni. Kotkin prevede una crescita di questi villaggi suburbani, che chiama “ new suburbanism”, riecheggiando deliberatamente il New Urbanism. Con l’aiuto della tecnologia, più persone saranno in grado di lavorare da casa, o comunque più vicino a casa. Gli spostamenti in auto saranno ancora necessari, ma potranno essere più brevi, e fatto usando veicoli ibridi e ad uso efficiente dell’energia.
”Nella California meridionale diciamo queste cose da anni: semplicemente, è un nuovo tipo di città” sostiene Kotkin. “È come se qualcuno dalla Firenze rinascimentale arrivasse nella Manchester del XIX secolo. Direbbe: dov’è la chiesa nel mezzo? È semplicemente diverso. L’urbanizzazione di suburbia è la grande sfida della pianificazione all’inizio del XXI secolo in America”.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe (f.b.)
Negli anni ‘40 del XX secolo il nome di Andrej Aleksandrovic Zdanov era diventato il simbolo, un po’ caricaturale, della teoria del rispecchiamento e del realismo volgare cioè del principio che le arti in generale e l’architettura in particolare dovessero, con le proprie forme, essere ritratto dello stato della società e dei suoi poteri costituiti. Contro questa posizione si era mossa l’intera tradizione dell’avanguardia del primo ventennio del XX secolo, e lo stesso movimento moderno in architettura ad essa strettamente collegato, non solo nell’elaborazione delle forme del nuovo ma anche negli ideali di liberazione sociale ad essa connessi.
L’architettura quindi come coscienza critica delle contraddizioni collettive e come fondazione di proposte alternative: radicali, ingenue e generose.
A questo nucleo ideale e metodologico dell’internazionalismo critico tutt’altro che nazional popolare (come sembra credere Enrico Arosio in un articolo sull’ultimo numero dell’Espresso dedicato a Massimiliano Fuksas), anche la migliore tradizione del razionalismo italiano ha fatto riferimento, sia pure con varie interpretazioni ed accenti. Ciò che distingue la generazione (ma parlare di generazioni è criticamente assai ingannevole) o meglio il gruppo di architetti che vengono citati nell’articolo dell’Espresso (in verità esso è purtroppo assai più vasto), e ciò che li connette strettamente, è proprio il neo-avanguardismo stilistico e l’adesione ideologica allo stato delle cose, dei valori e dei comportamenti, così come essi sono, adesione in cui si è rovesciata di senso da una ventina d’anni la tradizione oppositiva dell’avanguardia ed il suo linguaggio.
I protagonisti di quell’avanguardia erano caratterizzati, pur tra molte confusioni, da un’attitudine strutturale, da un impegno ad un ricominciamento teoreticamente fondato di fronte alla presa di coscienza di un nichilismo in via di compimento, da una posizione di critica verso lo stato della società e dalla necessità di un ricominciamento radicale.
Ma mentre l’avanguardia lavorava sulla messa in discussione anche dei processi dell’arte, gli architetti attuali ne imitano gli effetti. Quindi resta solo il dilagare dell’idea dell’infrazione assoluta, rapidamente accettata perché innocua, ed altrettanto rapidamente superata, in un’area sempre più diffusa, incerta e tollerante in cui l’unica autentica infrazione sarebbe la ricostruzione della regola.
Invece di domandarsi quali azioni si possono compiere che non vengano immediatamente riassorbite ci si domanda cosa si possa fare per esserlo subito. E poiché ogni cosa ormai oggi necessita di un tocco estetico, il lavoro certo non manca.
Inoltre, le proposte di questa rinnovata sintassi (la cattiva coscienza del privilegio estetico è poi compensata in qualche caso da una spolverata di preoccupazione teatral-partecipativa ed ecologico-ambientale) rispecchiano in modo solo constatativo i cambiamenti del corpo sociale cui queste nuove forme sono destinate e le trasformazioni traumatiche cui sono sottoposte le grandi e piccole geografie metropolitane; affermano addirittura sordamente che le deregolazioni che travolgono la realtà sono fatti estetici da ammirare.
Nonostante, o forse proprio a causa di questo, il successo delle grammatiche neoavanguardiste e globaliste sembra essere vasto, almeno presso la maggioranza del pubblico dei consumatori indotti, del gruppo sociale decisivo dei clienti, dei comunicatori e delle stesse istituzioni.
Tutta l’architettura cioè sembra voler diventare "design" nel senso peggiore che questo termine, un tempo nobile, ha oggi assunto. Né disegno nel senso antico del termine, né progetto ma solo processo di intermediazione formale nello scambio di immagini delle merci contro merci che, come oggi si evidenzia, non è un ruolo da poco.
Credo quindi che si debba individuare nell’ideologia del "design", in quanto realizzazione dell’estetica diffusa in cui siamo annegati, l’anello di congiunzione tra nuova visualità, architettura e disegno urbano immaginato come collezione di oggetti ingranditi. Naturalmente si tratta, per me, di congiunzioni perverse, la cui figurazione è soprattutto interpretazione simbolica entusiasticamente constatativa del disastroso stato delle relazioni post-sociali e dell’uso antisignificante dei mezzi: ed oggi ovviamente anche dei mezzi elettronici.
Qualcuno ha scritto con ragione che l’estetica diffusa sta distruggendo gran parte delle verità delle pratiche artistiche: l’evento, cioè, si propone al posto dell’opera e l’artista è al primo posto nell’evento e soprattutto, come scriveva Harold Rosenberg all’inizio degli anni sessanta, non è importante essere artisti: importante è convincere gli altri che lo si è. Ed in questo artisti visuali, pubblicitari, designer, modisti e naturalmente anche una parte degli architetti sono tutti tra loro concorrenti sullo stesso piano.
Per vincere allora bisogna stupire, essere diversi ad ogni costo, anche se tante cose diverse producono solo il rumore indistinto dell’uniformità: oppure rappresentare per immagini il mondo secondo l’ideologia dell’omogeneità dei comportamenti e delle loro prevedibili infrazioni anziché secondo le diversità profonde e le loro contraddizioni. Ma se l’architettura ha un’immagine non è solo immagine.
«Un’architettura degna dell’uomo - scriveva Adorno nel 1965 - deve avere degli uomini e della società un’opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale»; o, ancora meglio, anche delle sue speranze. Dimenticare tutto questo non è solo colpevole distrazione ma segno palese della nostra volontà di smarrire il senso stesso delle cose e di noi stessi e non solo dell’architettura.
La vita delle periferie delle nostre città è segnata da tre grandi punti di discontinuità rispetto ai decenni precedenti. Il primo elemento è rappresentato dalla sostanziale scomparsa dell’edilizia residenziale pubblica nel panorama della costruzione delle periferie. Istituti per le case popolari, Ina casa, Gescal – strumenti che si sono avvicendati nella storia e che andrebbero analizzati e discussi singolarmente per rintracciarne luci ed ombre – hanno indubbiamente dato il volto alle periferie italiane e sono stati cancellati senza essere sostituiti da nuove prospettive.
L’ideologia liberista ha spazzato via ogni traccia di questi interventi. Sono anni che non vengono più finanziati interventi di edilizia sovvenzionata destinati alla parte meno protetta della popolazione. Vengono finanziate, peraltro molto esiguamente, cooperative di abitazione che possono risolvere il problema dell’abitazione ad una fascia sociale che ha già accumulato un piccolo risparmio ed è in grado di gestire il debito contratto con il mutuo. Ma di interventi pubblici nulla. Il massimo che si fa è acquistare orribili complessi edilizi che da anni non trovano alcun acquirente.
Non voglio qui sostenere che nella realizzazione dei nuovi quartieri pubblici tutto sia andato nel modo migliore. Sono troppo noti alcuni errori, sia in sede di programmazione, sia in sede di realizzazione, che hanno creato quartieri scarsamente vivibili o mal localizzati. Ma non si può negare la tensione culturale e il generoso tentativo di favorire l’integrazione sociale che erano alla base di quei tentativi.
È enormemente più grave il pregiudizio ideologico con cui dobbiamo fare i conti oggi, e cioè che deve essere cancellato qualsiasi intervento pubblico e che la realizzazione delle città è un fatto privato, da lasciare esclusivamente alle regole del mercato. Così nascono quartieri di densità ancora maggiore dei peggiori esempi speculativi degli anni Settanta, di pessima qualità architettonica, localizzati dove conviene alla proprietà fondiaria senza verificare se esistono i servizi di trasporto o sociali che garantiscono la complessità dell’abitare.
La seconda caratteristica inedita di questo periodo è che la nozione di periferia ha travalicato i confini dei singoli comuni e possiede caratteristiche metropolitane. Tutte le grandi città italiane presentano enormi fenomeni di abbandono residenziale: per stare agli ultimi due censimenti, le undici maggiori città italiane perdono complessivamente quasi un milione di residenti. Queste persone abbandonano le città a causa dei vertiginosi fenomeni di aumento dei prezzi immobiliari degli ultimi anni. Così, mentre una ristrettissima fascia sociale ha guadagnato in questi anni cifre colossali (i tre “giovani” immobiliaristi romani, insieme al meno giovane Caltagirone stanno in questo periodo facendo parlare le cronache italiane per gli acquisti di importanti banche o imprese nazionali) una grande fetta di ceto medio e popolare è stata costretta a cercare casa nelle enormi villettopoli che nascono intorno alle aree metropolitane.
Queste nuove periferie sono certo connotate da condizioni ambientali migliori che nelle città: le densità edilizie sono più umane e maggiori gli spazi verdi privati a disposizione. Ma a ben vedere esse sono la negazione della città, della ricchezza delle sue relazioni, della sicurezza della rete di servizi che aiutano il vivere quotidiano. Una larga fetta della società italiana sta facendo passi indietro nelle condizioni di vita, ad iniziare dalla ricchezza e dalla qualità dei servizi di vicinato. O, ancora, nelle modalità con cui si è costretti a risolvere il problema degli spostamenti tra casa e lavoro: gran parte di queste famiglie che si sono trasferite, a causa della storica assenza di reti di trasporto pubblico su ferro si sposta quotidianamente con mezzi propri, impiegando parecchie ore della propria vita in faticosi – e costosi – viaggi in automobile.
La terza caratteristica con cui si costruiscono oggi le periferie urbane è la realizzazione dei grandi centri commerciali che vengono realizzati in aperta campagna o in zone isolate dei tessuti urbani. La globalizzazione ha imposto una intensa cura di enormi centri commerciali: un sicuro affare per i grandi investitori economici. Le conseguenze, ovviamente, le pagano i cittadini: queste grandi concentrazioni commerciali impoveriscono la vita dei quartieri perché comportano la chiusura della piccola rete di distribuzione commerciale. Impongono un uso dissennato del territorio basato sull’uso dell’automobile. Insomma, mentre i quartieri delle periferie vedono scendere la ricchezza del tessuto urbano, i nuovi centri rappresentano i luoghi in cui si convive anonimamente accomunati solo dal consumo.
Nella costruzione delle nostre periferie emerge dunque il trionfo della città neoliberista. Ci troviamo di fronte ad un grande deserto sociale in cui i poteri forti dettano incontrastati le regole.
Converrà riprendere le cause strutturali. Della prima e più importante, la cancellazione di qualsiasi forma di intervento direttamente pubblico, abbiamo già detto. L’altro elemento che ha definitivamente spostato prerogative dalla sfera pubblica all’iniziativa privata è la sostanziale cancellazione della pianificazione urbanistica. Poche settimane fa la riforma urbanistica in chiave liberista, legge Lupi, è stata infatti approvata dalla Camera dei Deputati.
Essa afferma due cose di inaudita gravità. La prima è che i piani urbanistici si fanno insieme alla proprietà immobiliare: seppure edulcorato con alcune attenuazioni è questo il pilastro su cui si regge la legge. La seconda afferma che la fondamentale legge sugli standard urbanistici, e cioè quella grande conquista dell’Italia civile che prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino, viene cancellata, sostituita dalla contrattazione volta per volta dei servizi da cedere. Un diritto collettivo viene mercificato e sottoposto alla oscura contrattazione con la proprietà immobiliare.
Il fatto che una parte dello schieramento progressista, come la Margherita, abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, e che alcune associazioni culturali, prima tra tutte l’Istituto nazionale di urbanistica, si siano impegnate per far approvare la legge, dimostra quanto arduo sia il cammino dell’Unione di Prodi per costruire una reale alternativa al liberismo.
Fino a ieri mattina, ore 11, ero incerto se dedicare questa rubrica al problema dell'urbanistica romana o al problema dell'urbanistica concentrazionaria dei Centri di permanenza temporanea. Il primo problema è un effetto collaterale della epopea che Marco Revelli, Edoardo Salzano e altri narrano nel primo numero del nostro nuovo mensile, Carta Etc., ossia come la mano invisibile del mercato neoliberista stia riuscendo in un'impresa inedita nella storia dell'umanità: città in cui gli abitanti siano sostituiti da commerci, servizi ed eventi attira-turisti come le Olimpiadi. A Roma, come ha dettagliatamente documentato Antonello Sotgia su Carta Etc., il Piano regolatore, il primo da mezzo secolo, viene rosicchiato da giganteschi tarli prima ancora di essere approvato formalmente. I tarli sono i costruttori, eterni eroi dell'economia romana (e ormai nazionale). I buchi nel Piano si chiamano «osservazioni». Quelle fatte dai palazzinari vogliono ovviamente aumentare le «cubature», ossia la roba da costruire (su Tor Pagnotta si stanno abbattendo un milione e duecentomila di metri cubi di cemento). E la giunta, per errore (dice), accoglie quelle «osservazioni» prima ancora che il consiglio ne discuta e tralasciando di fornire la documentazione al consigliere comunale più vicino ai movimenti per la casa, Nunzio D'Erme: «Ah, è anche lui della maggioranza?», chiede candido l'assessore competente.
L'Espresso degli anni cinquanta fece la sua fortuna con lo slogan «capitale corrotta, nazione infetta», e con una serie di inchieste sull'urbanistica dell'accumulo (di capitali e clientele) allora diretta da Giulio Andreotti, dal Vaticano, dai comunisti Marchini e dal nonno di Caltagirone, non ancora così potente. Non dico che siamo a quel punto, ma le distrazioni e gli errori di Veltroni sono allamanti. Specie se si pensa che il vasto movimento per l'abitare, che del Piano regolatore ha discusso insieme a mezza città, sta finendo in carcere. I nostri amici di Action sono giudicati da un certo giudice una «associazione per delinquere», e cinque di loro vengono assegnati ad arresti domiciliari che assomigliano tremendamente al confino di polizia. Fossimo in un paese non «infetto», le «associazioni a delinquere» si scoprirebbero ai piani alti dei palazzi padronali.
Il secondo problema sul quale avrei voluto scrivere è quello dei Cpt. Bisogna ringraziare calorosamente Luca Fazio per aver fatto l'intervista che ha fatto (sul manifesto di ieri) alla ex ministra, e dignitaria dei Democratici di sinistra, Livia Turco. Impressionante. Vi si poteva apprezzare la totale vacuità della politica fatta sui giornali e in tv, quella per cui «la lotta ai clandestini deve essere di sinistra». Già, come la guerra alla Serbia era «umanitaria» e le privatizzazioni della gestione degli acquedotti salvaguardano la «proprietà pubblica». Filippo Miraglia, dell'Arci, ha lanciato un appello per sostenere e sospingere i presidenti di Regione che lunedì si riuniranno a Bari per chiedere la chiusura dei Cpt (e Carta settimanale dedica a questo la sua copertina, pubblicando una rara testimonianza dall'interno di un Cpt, di una persona che ha lavorato in quello di Bologna). L'indirizzo per aderire è miraglia@arci.it.
Bene, pensavo a queste alternative, per la rubrica, quando sono arrivate le notizie da Londra, e mi ha preso un grande sconforto, dopo le buone proteste contro il G8. Ho pensato che un mondo diseguale e ingiusto è un alibi perfetto, per gli assassini di massa. E gli assassini di massa sono un alibi perfetto, per chi vuole far sì, con la guerra, che il mondo resti diseguale e ingiusto.
Titolo originale: Build new homes on fields, urges government guru– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il consigliere del governo e guru della pianificazione, Sir Peter Hall, oggi ha chiesto che i terreni agricoli in eccesso siano messi a disposizione per nuovi insediamenti, ad affrontare la crisi delle abitazioni.
In un nuovo rapporto per la Town and Country Planning Association, Sir Peter ha sottolineato che il 9% delle superfici gricole nel congestionato sud-est riceve fondi europei per il “ set aside”, ed è lasciato incolto per impedire una sovraproduzione.
Sir Peter, membro della task force governativa sui problemi urbani, afferma che questi terreni offrirebbero spazio più che sufficiente per risolvere la carenza di spazi economicamente accessibili per nuove abitazioni.
”La semplice conclusione è che abbiamo terre in abbondanza per costruire, quasi ovunque vogliamo”.
E aggiunge: “C’è bisogno di un altro programma di new towns, stavolta non per costruire nuove Harlow o Stevenage o Milton Keynes, ma piccoli gruppi di comunità lungo le spine del trasporto pubblico”.
Nel rapporto, provocatoriamente intitolato Land Fetish, Sir Peter lancia anche un fulminante attacco alla lobby di resistenza all’edificazione delle campagne.
”La lobby delle campagne è riuscita a persuadere tutti che la terra ha valori tanto insostituibili che dovremmo fare qualunque sforzo, pagare qualunque prezzo, per evitare di costruirci sopra” ha detto.
Lamenta che gli attivisti per le campagne abbiano suscitato disordine mentale collettivo sull’uso delle terre in Inghilterra: “Abbiamo fatto della terra un feticcio, senza considerare davvero a cosa ci serve” aggiunge.
Sir Peter mette in discussione anche l’ampiamente sostenuta promozione delle alte densità urbane proposta dal presidente della task force, Lord Rogers.
Sir Peter sottolinea che in questa ricerca di densità più alte, le nuove case risultano troppo rumorose, troppo affollate, costruite troppo vicine a strade trafficate. Dice: “Dovremmo preoccuparci seriamente per il fatto che stiamo costruendo in luoghi non adeguati, inadatti per le persone che ci devono abitare, inadatti soprattutto per i loro figli, se ne hanno”.
Raccomanda invece densità residenziali moderate, che richiedono superfici urbanizzate maggiori.
Sir Peter dice che le previsioni del governo mostrano che sarà necessario trovar casa ad altri 3,8 milioni di famiglie entro il 2021. Aggiunge che è stato “agire da Canuto” [ leggendario Re di Inghilterra che voleva fermare la marea col suo solo potere sovrano, n.d.T.] ritenere che questa tendenza potesse essere contenuta.
”Non non si trovano soluzioni, il risultato sarà che aumenteranno i prezzi delle case, tutti ne soffriranno, ma come al solito i poveri ne soffriranno di più”, dice.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Sulla liquidazione di un prestigioso servizio pubblico
L’Agenzia di stampa DIRE sulla liquidazione dell’Ufficio del Piano territoriale provinciale, denunciato da Eddyburg, lanci del 24 maggio 2005
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA= URBANISTI E DL: PTCP NEL MIRINO; VENTURI: SONO SOLO DELLE TEORIE - (DIRE) - BOLOGNA-
Minaccia bufera sull'urbanistica bolognese. La Provincia di Bologna si appresta a sostituire Piero Cavalcoli, il dirigente capo della pianificazione territoriale, nonche' l'uomo del Ptcp, il piano territoriale di coordinamento provinciale. Nei giorni scorsi l'indiscrezione era stata commentata con toni durissimi in un'editoriale comparso sul sito internet www.eddyburg.it (portale che rappresenta una sorta di comunità telematica degli urbanisti italiani), curato da Edoardo Salzano, già professore di Architettura all'università di Venezia (articolo fatto circolare in rete dalla Compagnia dei Celestini, associazione bolognese di urbanisti). "La decisione di smantellare l'ufficio sarebbe partita qualche mese dai Ds- si legge nell'editoriale- e avrebbe colto di sorpresa la Margherita. Ne sarebbero state liete le imprese immobiliari, tra cui quelle della Legacoop, i cui interessi non avrebbero potuto espandersi se si fosse consolidata la politica di contenimento del consumo di suolo promossa dal Ptcp". Parole che l'assessore provinciale ai Trasporti e alla Pianificazione territoriale della Provincia, Giacomo Venturi, dei Ds, bolla come "teorie" a cui bisognerebbe "contrapporre i fatti"; critiche, pero', che trovano il parziale consenso di Andrea De Pasquale, consigliere provinciale della Margherita e presidente della commissione Urbanistica della Provincia: "Purtroppo- dice il diellino- mi trovo a condividere molte delle preoccupazioni espresse in questo articolo". L'unica cosa certa e' l'avvicendamento imminente di Cavalcoli. Il diretto interessato, che pure precisa di non voler entrare nella questione che lo riguarda, dice: "Non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione formale al riguardo, ma mi e' stato comunicato dall'assessore provinciale alla Pianificazione che non godo piu' della sua fiducia". (Oro/Mac/ segue)
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA(2) (DIRE) - BOLOGNA-
Venturi conferma l'avvicendamento di Cavalcoli: "Abbiamo avviato un percorso concertato di ricambio che era fisiologico. Vogliamo reperire nuove energie e continuare l'importante lavoro svolto fino a qui, un lavoro di grande qualità realizzato in collaborazione con tutti i Comuni". Nell'editoriale di Eddyburg si scrive ancora: "Ridurre il peso dell'ufficio e burocratizzarlo eliminerebbe un elemento di confronto politico e culturale, rischioso per alcune scelte municipaliste che starebbe assumendo il governo Cofferati". Venturi, pero', respinge al mittente le accuse: "Si tratta di teorie, inviterei tutti a valutare i contenuti e i fatti che abbiamo prodotto". L'imminente avvicendamento di Cavalcoli ha fatto venire il mal di pancia anche alla Compagnia dei Celestini di Bologna, che pero', ufficialmente, non vuole intervenire sulla vicenda per una sorta di conflitto di interesse (alcuni suoi componenti sono dipendenti della Provincia di Bologna). Interviene invece De Pasquale: "Quanto visto in questi mesi mi preoccupa. Non vorrei che i segnali emersi rappresentassero una cattiva premessa per la nuova fase dei piani strutturali comunali". Nel comitato consultivo che affianca l'assessorato alla Pianificazione territoriale della Provincia, continua De Pasquale, "noto da alcuni mesi una tendenza che non condivido". (Oro/Mac/ Dire)
(ER) URBANISTICA BOLOGNA. PROVINCIA CONGEDA CAVALCOLI, E' BUFERA(3)= (DIRE) - BOLOGNA-
"Vedo che sindaci e assessori al momento di presentare le loro richieste di costruire o di prevedere un'espansione tendono ad argomentare in questo modo: 'Sappiamo che il Ptcp, il documento che stabilisce i criteri generali e gli indirizzi dello sviluppo territoriale dei vari comuni, direbbe che questa nostra richiesta non e' accoglibile, ma vi chiediamo di fare un'eccezzione e di interpretarlo con elasticità". In sintesi, chiude De Pasquale, "il Ptcp, ottima bandiera della sinistra attenta all'equilibrio e alla sostenibilità quando era contrapposta a Guazzaloca, viene spesso citato dagli amministratori dei comuni con l'uso del condizionale". Anche su questo fronte Venturi e' convintissimo nel respingere le critiche: "Non solo il Ptcp non e' in discussione, ma ci vogliamo attrezzare al meglio per un progetto di dimensione metropolitana". (Oro/Mac/ Dire) (ER) PROVINCIA BOLOGNA. AN: CAVALCOLI FUORI, VACILLA IL PTCP= GUIDOTTI: COMANDA SOLO COFFERATI, SOLUZIONE PROBLEMI LONTANA - (DIRE) - BOLOGNA-
"Dopo Cavalcoli non e' irragionevole pensare che cominci a vacillare anche il Ptcp", e che quindi venga rimesso in discussione anche "il Passante nord". Sergio Guidotti, capogruppo di An in Consiglio provinciale, interviene cosi' dopo la notizia che la Provincia ha deciso di sostituire Piero Cavalcoli, dirigente della pianificazione territoriale e "padre" del Piano territoriale di coordinamento provinciale, il principale strumento urbanistico di Palazzo Malvezzi. "I boatos che da tempo davano per esautorato l'architetto Cavalcoli sono improvvisamente esplosi, a ulteriore dimostrazione di quanto abbiamo affermato, anche in una nostra recente interpellanza sul battibecco Merola-De Pasquale, circa gli insanabili e ormai ingestibili conflitti politici all'interno delle locali maggioranze di centrosinistra e istituzionali tra la Provincia ed il Comune di Bologna", afferma Guidotti. Secondo il finiano, "dopo Cavalcoli non e' irragionevole pensare che cominci a vacillare anche il Ptcp (almeno nella rigida interpretazione Rabboni-Cavalcoli) e conseguentemente che si debba riparlare del Passante nord, a tutto danno dell'urgenza della soluzione di uno dei problemi del trasporto bolognese". Tutte domande "ovvie, a cui mancano le risposte, o meglio a cui si puo' dare una sola risposta: il carrozzone elettorale prodiano, prima ancora di presentarsi alle elezioni politiche, fa già acqua persino nelle consolidate amministrazioni bolognesi, dove oggi c'e' un uomo solo al comando (riferimento al sindaco Sergio Cofferati, ndr)- chiude Guidotti- e per il resto tutti sono contro tutti e soprattutto tutti (compreso l'uomo solo) sono contro la buona amministrazione". (Com/Red/ Dire)
Titolo originale: China’s chichi suburbs – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
A venti minuti d’auto dal centro della città trovate file di casette a parallelepipedo. Alcune sono dipinte a colori pastello e in stile italiano o spagnolo, altre più verso il Georgian Revival. Prati curati e edifici dei circoli di ritrovo caratterizzano il paesaggio. Ogni tanto, un campo da golf. I quartieri sono recintati e portano nomi come Lago Leman, Capital Paradise, Yosemite, River Garden. Suona familiare?
Siamo a Pechino, l’antica capitale della Cina dove il “centro” è la storica Città Proibita, il complesso murato che è stata la sede degli imperatori cinesi per secoli.
Negli scorsi anni, sono spuntate parecchie lottizzazioni recintate fuori dalle due grandi città cinesi continentali, Pechino e Shanghai; e la tendenza si sta diffondendo ad altre città, come Tianjin o Shenzhen.
La cosa più notevole è che la maggior parte di questi quartieri, dal punto di vista architettonico e di aspetto, sembrano quelli di San Jose o della Orange County. Sono modellati direttamente sulle tract homes che hannos egnato la crescita suburbana in America negli ultimi 30 anni.
La maggior parte conservano pochissime o nessuna traccia dell’Asia nel progetto, organizzazione generale, decorazioni. Le prime case sono state costruite per espatriati, come i diplomatici o i dirigenti delle sedi locali di imprese multinazionali.
”Per offrire strutture abitative agli stranieri (che corrispondano) a standard stranieri, si sono copiati stili e caratteristiche occidentali” dice Billie Chau, direttore dell’ufficio di Pechino della FPD Savills, impresa britannica che gestisce alcuni di questi quartieri. “Ecco perché sembrano e vengono avvertiti come tanto occidentali”.
Ma ora ne sono stati costruiti molti altri, e molti ancora sono in serbo, perché un crescente numero di cinesi che possono permetterselo tentano di uscire dall’affollato e sporco milieu della città cinese contemporanea. Molti acquistano anche a scopo di investimento.
Con l’economia cinese che continua la sua traiettoria in salita a rotta di collo, con veloce crescita e suburbanizzazione che accade in tutte le città principali come Pechino e Shanghai, gli abitanti più agiati e i lavoratori white-collar di queste città mostrano una preferenza per l’acquisto di ville o case localizzate nelle fasce suburbane esterne” dice Andrew Ness, direttore operativo delle ricerche per l’Asia alla CB Richard Ellis. Questa compagnia immobiliare globale sta facendo molti affari nella vendita e affitto di questo tipo di proprietà.
”In più, dato che la quantità delle automobili private nelle principali città è in crescita, questi nuovi abitanti suburbani mostrano una preferenza a spostarsi coi propri veicoli” continua Ness.
La Cine sembra aver imboccato la strada dello sprawl, e con questa i prevedibili problemi che sperimentiamo qui negli Stati Uniti: più traffico, più inquinamento, minacce ambientali alle zone rurali, e poi esclusione sociale, alienazione, divisioni.
Ma la cosa forse più caratteristica di questi insediamenti non è lo sprawl in sé, ma il suo modo di presentarsi.
Vancouver Forest, per esempio, è una nuova lottizzazione di case che imitano un quartiere tipico della British Columbia. È stata realizzata da architetti canadesi, utilizzando materiali canadesi, per creare un mini-Canada.
”Vancouver Forest è un campionario di capacità canadesi in Cina”, recita fiero un titolo recente sulla newsletter dell’ambasciata del Canada.
Volete vivere in Australia? Gli abitanti di Pechino possono comrpare una casa a Sydney Coast, una lottizzazione che offre ai residenti “una vita in villa Astralian-style sette giorni la settimana”.
” Progettato da esperti australiani, il quartiere propone uno stile di vita semplice e nuovo” recita una brochure pubblicitaria del quartiere. “ Fate una passeggiata lungo le strade di Sydney Coast, e avrete la sensazione della vera Australia”.
Sydney Coast è realizzato dalla Beijing Capital Land, una società mista a cui partecipa anche il comune di Pechino. La stessa compagnia sta costruendo anche Upper East Side, un grosso gruppo di case ad appartamenti nella zona nord-orientale di Pechino.
Per chi preferisce vivere in California i pechinesi sono stati capaci di metter su anche la lottizzazione Yosemite.
Ora c’è anche l’opzione aggiuntiva di trasferirsi a Napa Valley, un nuovo quartiere in costruzione cinquanta chilometri fuori da Pechino. Napa Valley tenta di cogliere uno stile di vita Californiano/Mediterraneo, di riposo in poltrona sotto una veranda.
”Si usa ampiamente la pietra rustica, con ricchi colori per l’intonaco, insieme a persiane in legno e finiture in ferro battuto, per creare una dimensione intima e l’atmosfera del villaggio”, secondo gli architetti e urbanisti di Napa Valley, che stanno a Palm Springs e Newport Beach (Orange County).
Per chi freme dalla voglia di ricreare la vita della Francia del XVII secolo, c’è Chateau Regalia, sulla fascia esterna nord di Pechino. Qui i potenziali acquirenti possono scegliere fra parecchi diversi modelli di case:la Duca I, la Duca II, la Marchese, la Conte e la Visconte. Sia nelle forme che nelle decorazioni, le case di Chateau Regalia sono un eccentrico amalgama di barocco francese e architettura neoclassica.
La frenesia ha preso piede anche a Shanghai, dove ci sono parecchi quartieri realizzati in stili stranieri. I funzionari locali recentemente hanno annunciato piani per costruire gruppi di insediamenti satellite realizzati in vari stili nazionali fuori Shanghai.
Ci saranno una città francese, una italiana, una inglese, e così via. Ciascuna avrà il proprio centro commerciale.
Questi luoghi sono il risultato diretto dellos viluppo economico senza soste della Cina, e della sua scoperta delle tentazioni del libero mercato.
Dopo decenni di isolamento – un periodo la cui architettura residenziale consisteva principalmente di grigiastri blocchi ad appartamenti in stile staliniano – i nouveaux riches cinesi sono storditi dall’eccitazione e decisi a ricreare gli stili di vita dei paesi sviluppati che hanno a lungo guardato da lontano.
Tra i settori più agiati delle nuove classi professionali della Cine, possedere una casa unifamiliare è diventato un importante segno di posizione e status. Dato che la maggior parte delle città cinesi sono dense e fitte di appartamenti o edifici a corte, l’unica possibilità è di costruire nuove case nelle fasce suburbane.
“Con la Cina che diventa sempre più una società capitalistica, le norme sociali si evolvono in varie direzioni e modi” dice Ness. “Una casa costosa è considerata un grande simbolo di status per tutti”.
Questo desiderio di posizione sociale spesso va per mano ad una profonda sfiducia fra i nuovi ricchi nella cultura e tradizione cinese.
Ora che ne hanno i mezzi, le élites cinesi sfuggono l’antica tradizione di eleganza e capacità creativa nazionale, scegliendo invece una piatta versione del modo dei sogni occidentale.
Queste lottizzazioni sono una fantasiosa rappresentazione dell’attuale psicosi cinese: fantasie materialiste dopo decenni di tempo perduto.
La prima volta che sono entrato in un sobborgo cinese, ho avuto la sensazione di entrare in un altro mondo, più in Florida che in Cina.
Con tanta ricerca e divulgazione a spiegare gli effetti collaterali dello stile di vita da villette, molti americani hanno cominciato a mettere in dubbio la saggezza di una vita suburbana nello sprawl.
Nonostante queste scoperte, gli errori americani sono replicati in Cina. Questi quartieri mancano di qualunque legame col luogo. Sembrano goffi e fuori posto, nel panorama cinese.
Molti sostengono che lo sprawl in Cina è inevitabile; che è l’ovvio prodotto collaterale del successo economico. Perché il bisogno di queste comunità sparpagliate sia tanto inevitabile resta poco chiaro, ma se lo accettiamo per buono, i nuovi sobborghi cinesi devono proprio essere una fantasyland straniera? Perché non possono avere caratteristiche cinesi?
Può suonare una domanda strana, ma: cosa c’è di sbagliato in una normale strada cinese?
Nota: qui il testo originale al sito del San Francisco Chronicle; per qualche informazione economica in più, può essere utile visitare anche il sito della Beijing Capital Land, quella con partecipazione della municipalità di Pechino per costruire suburbi all’australiana (f.b.)
Maurizio Giuffrè Metropoli europee sotto effetto sprawl
Da il manifesto del 25 marzo 2005 un commento ai temi trattati nell’evento “Esplosione delle città”. Temi e posizioni sulle quali il dibattito prosegue, a cominciare da una domanda: è giusto considerare fisiologica la patologia della “città esplosa”?
Èsempre meno frequente imbattersi in esposizioni come quella che si tiene in questi giorni a Bologna, nelle sale di San Giorgio in Poggiale, che ha per tema i «territori urbani» e, più esattamente, la «metropolizzazione» nelle regioni urbane dell'Europa meridionale. Vi si trova rappresentata l'analisi e la messa in mostra di quella serie di fenomeni che, negli ultimi decenni, hanno riguardato la dispersione, in aree già densamente urbanizzate, di popolazioni, attività economiche e infrastrutture secondo modelli e processi del tutto nuovi rispetto a trent'anni fa. L'esplosione della città - questo il titolo della mostra bolognese - ordina e spiega, concentrandosi su una serie di casi esemplari e ricorrendo a una originale «tassonomia urbana», i più recenti concetti intervenuti a modificare l'idea classica di città. Rispetto ad altri studi sul paesaggio urbano, orientati più alla descrizione delle «strutture spaziali» che al contesto geografico e sociale, l'esposizione bolognese ha il merito di rivolgere lo sguardo alla materialità dei fenomeni che hanno contraddistinto la crescita e l'espandersi delle città europee. Frutto dell'iniziativa delle catalane Càtedra d'Urbanistíca dell'Escola d'Arquitectura del Vallès e dell'Universitat Politècnica de Catalunya l'esposizione - presentata lo scorso anno a Barcellona in occasione del Fòrum Universal de les Cultures - è il più aggiornato prodotto sulle trasformazioni territoriali nei sistemi metropolitani. Si deve all'urbanista Francesco Indovina il merito di averla fatta arrivare in Italia e di avere lavorato per tre anni insieme ad Antonio Font e Nuno Portas per coordinare i tredici gruppi di urbanisti di altrettante università di Francia, Italia, Portogallo e Spagna. Le città o le regioni metropolitane prese in esame sono per dimensioni e problemi affrontati tutte diverse tra loro, ma la finalità della ricerca non era tanto quella di individuare una «logica comune», quanto quella di intraprendere nuove strategie cognitive e progettuali per l'urbanistica riprendendo, con strumenti aggiornati, la riflessione sulla politica del piano. Dall'elenco delle città prese in esame - Barcellona, Madrid, Valencia, Lisbona , Porto, Marsiglia, Montpellier, Donosta-Bayonne, Bologna, Genova, Milano, Napoli e il Veneto centrale - si comprende bene come sia il territorio a fungere da «contenitore di tutto», «e non più la città»: dove per tutto si intende l'insieme delle plurime funzioni che governano le attività economiche, politiche e sociali, non più collocate in un «centro» bensì distribuite, integrate, addensate in «altre città», in un rapporto di concorrenza o complementarietà con la città principale.
Funzionano così Marsiglia, Barcellona, Milano e Valencia ma in alcuni casi la struttura urbana monocentrica domina i nuclei della sua periferia la cui crescita è avvenuta in modo concentrato (Madrid) o disperso (Lisbona). In altre situazioni ancora il centro principale metropolitano, per limiti naturali e geografici, ha visto l' «esplosione» urbana rimanere compatta - lungo la costa come a Genova - oppure disseminarsi, per esempio verso la pianura e il golfo, come a Napoli.
Ci sono, inoltre, i casi denominati «città diffusa» (Veneto centrale) oppure «struttura lineare» (regione trasfrontaliera basca di Donostia-Bayonne) in cui il processo di «metropolizzazione» è avvenuto lungo infrastrutture storiche viarie e di trasporto. Per tutte le città studiate il corredo di illustrazioni e cartografie - raccolte nei tredici box che compongono il percorso espositivo all'interno della navata centrale della chiesa di San Giorgio - descrive un territorio in continua evoluzione, che oggi appare già modificato rispetto a com'era nel 2000, anno di inizio della ricerca. È proprio il progressivo evolversi della dispersione che genera la «metropolizzazione» ed è questo processo di «allungamento» del territorio l'elemento che evita, come ha scritto Indovina, l'«impoverimento» della vita sociale; anzi, diviene, a certe condizioni, fattore generatore di crescita economica e di sviluppo. Infatti, è proprio lo sprawl, (termine americano in uso negli anni `60 per indicare la crescita urbana), che pur contenendo in sé tensioni e conflitti, configura nuove strutture spaziali, forme inedite di aggregazione della vita sociale, aspetti originali di organizzazione del lavoro e dell'economia.
In questa prospettiva l' «esplosione» della città non ha nulla di tragico. «Nella rovina dell'ambiente causata dallo sprawl germoglia il progetto moderno» - ha scritto Richard Ingersoll ( Sprawltown, Meltemi 2004) e ha aggiunto: « Sprawltown è un progetto per dar vita a una nuova coscienza urbana nelle vaste zone di indifferenza che ci circondano». Anche i curatori dell'esposizione bolognese sostengono la stessa tesi. Dalla città «compatta», che la tradizione urbana ci ha tramandato nei due secoli precedenti, al territorio «metropolizzato» la città non si dissolve bensì si «salva». I processi in atto, pieni di ostacoli, hanno solo altri contenuti, ad esempio fanno riferimento all'integrazione e all'identità: due termini che rimandano alle molteplici forme con cui si esprime la socialità nella «città infinita» che non ha più né centro né una periferia bensì «strutture spaziali», più o meno dense, che si «deformano» e si modificano nel tempo. Nei confronti della complessità delle relazioni che presenta la «metropolizzazione del territorio», ogni spazio che definisce, delimita o confina la «vita post-metropolitana» risulta inadeguato. In modo esemplare Massimo Cacciari ha colto quanto sia «intollerabile» la «retorica del contenitore», dell'edificio che intende innalzarsi nella «città generica», a confronto con la contemporaneità che si esprime nella polivalenza dei diversi «corpi» edilizi e tessuti urbani in perenne stato di interazione e aperti alla «modificabilità» e alla «adattabilità».
Tra gli elementi messi in evidenza dalla esposizione bolognese, inoltre, c'è la dimostrazione efficace di quanto sia urgente individuare una più adeguata strategia di governo pubblico capace di dirigere e organizzare il «territorio metropolizzato». Gestire la complessità rinnovando gli strumenti di analisi è un primo passo necessario per dare senso al progetto urbanistico; e per dimostrare che misurarsi con i problemi della città equivale a confrontarsi con una gerarchia di valori non astratti, bensì reali e utili per ordinare un discorso che ne superi le contraddizioni.
Firenze studia Napoli: studiosi a convegno sulla sostenibilità urbana
Festa, Natascia
Al congresso della Società europea di Storia ambientale che si è aperto ieri a Firenze si parla di « Sostenibilità urbana a Napoli » . A farlo sarà oggi Gabriella Corona, tra gli studiosi di quella scuola napoletana di storici dell'ambiente individuata come la più propositiva di tutto il panorama nazionale.Sostenibilità urbana a Napoli: è curioso che se ne parli a Firenze. « Un po' sì — dice Corona — ma la storia ambientale si occupa anche di rapporti tra città. Il punto di partenza della mia relazione è un grido d'allarme per il progetto di legge Lupi che intende modificare la riforma urbanistica scorporandone la tutela dell'ambiente. Di fatto si tratta della privatizzazione della gestione del territorio, ipotesi preoccupante. Napoli, in questo senso, rappresenta un caso positivo. Le politiche urbanistiche degli anni Novanta, della prima giunta Bassolino per intenderci, sono tra i migliori esempi italiani. L'approvazione del piano regolatore portata a termine lo scorso anno ha una particolare attenzione al paesaggio e non solo da un punto di vista conservativo » .E i rifiuti? « C'è un filone di territorialisti che colloca l'aggravarsi del problema dei rifiuti con la privatizzazione dello smaltimento e l'abbandono della gestione pubblica » .
Che il « caso Napoli » sarà protagonista dell'importante congresso si deve, appunto, all'attività del gruppo di giovani studiosi del Cnr, come spiega l'organizzatore del convegno Mauro Agnoletti: « La scuola napoletana si è posta all'attenzione del panorama nazionale ed è diventata un polo di attrazione per una serie di approcci nuovi e per la coesione stessa del gruppo che lavora in diverse direzioni, tra cui il dissesto idrogeologico, l'ambiente urbano, la forestazione, tutti problemi attualissimi per il governo del territorio » .
Di dissesto idrogeologico parlerà, invece, Walter Palmieri, che studia i movimenti franosi nell'Appennino durante l'Ottocento. « Sarno è un caso esemplare di rimozione collettiva del fenomeno franoso — spiega lo studioso che al salernitano ha dedicato il suo saggio più recente — . Le colate rapide di piroplastidi sciolti ( materiali vulcanici che franano velocemente senza preavviso) annoverano miriadi di casi tra Sette e Ottocento. Ma allora non avevano esiti catastrofici.Come e perché tocca alla storia ambientale ricostruirlo ( grazie alla manutenzione, soprattutto). In realtà si tratta di riappropriarsi delle modalità del rapporto uomo natura che tanto puossono insegnare a chi si occupa oggi di politiche del territorio » . Il suo prossimo studio? « Sto costruendo una banca dati sui fenomeni idrogeologici di tutto il Mezzogiorno continentale che sarà utile per supportare chi si occupa di interventi territoriali. E questo è fondamentale perché l'Italia è il paese europeo con il più alto rischio idrogeologico per una spesa di 7milioni di euro al giorno » .
Fatto sta che il congresso, al quale partecipano ben trecento delegati da tutto il mondo, mette a confronto anche la Campania e la Toscana. E così Agnoletti? « In un certo senso sì. La Toscana è un punto di riferimento qualitativo sia perché ha tradizione di buona amministrazione sia per la coscienza sociale dei cittadini. E' questa soprattutto che manca in Campania ma manca anche un'identità territoriale alla quale contribuiscono lo studioso, l'amministratore e il cittadino » . Come può influire su tutto questo la presenza della scuola napoletana di storia ambientale? « Gli sforzi sono molti — risponde Marco Armiero, che insieme a Stefania Barca e Gabriella Corona fa parte del comitato scientifico del congresso — a partire dagli eventi che hanno visto Napoli protagonista. Nel 2003 in città si è tenuta la prima conferenza di storia dell'ambiente dei paesi mediterranei grazie al nostro gruppo che lavora costantemente al Cnr.Tra gli studiosi ci sono anche Roberta Varriale ( che si occupa di storia delle infrastrutture urbane), Eugenia Ferragina e Stefania Barca, che con me è autrice del primo manuale di Storia dell'ambiente, pubblicato da Carocci l'anno scorso. Ma devo aggiungere che il cosiddetto gruppo napoletano molto deve a Piero Bevilacqua, un profesore calabrese d'origine e romano d'adozione che è tra i promotori della disciplina in Italia. Con lui pubblichiamo la rivista i Frutti di demetra , l'unica di Storia ambientale in Italia che si realizza per lo più a Napoli. E molto dobbiamo anche al direttore dell'istituto del Cnr, Paolo Malanima » .
Lei si occupa di Storia dei boschi e Conflitti ambientali . Cosa sono precisamente? « Una rilettura ecologica del conflitto sociale. Centrale è la questione dell'uso delle risorse e da parte dei gruppi sociali ed etnici.Ma per approfondire gli argomenti si può visitare il sito www. eseh. org » .
Titolo originale: Communities given helping hand with responsible rebuilding – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Gli abitanti del villaggio di Kirinda, nel sud-est dello Sri Lanka, hanno perso quasi tutto con lo tsunami dell’Ocenao Indiano. Ora un gruppo di architetti spera di trasformare questa piccolo comunità di pescatori in un modello per il lavoro di ricostruzione delle aree colpite dal cataclisma.
La paura principale, ci dice Cameron Sinclair di Architecture for Humanity, organizzazione con base a New York, è che i costruttiori senza far troppa attenzione tirino su strutture senza alcun piano, in luoghi pericolosi.
”Una volta effettuati i soccorsi e ristabilita la normalità, la gente inizierà a ricostruire” prosegue Sinclair “E lo scenario peggiore è quello di vedere blocchi di cemento apparire ovunque”.
Architecture for Humanity ha mandato una squadra di urbanisti, architetti, biologi e ambientalisti a Kirinda nell asperanza di aiutare la popolazione a ricostruire il villaggio in modo sicuro e sostenibile.
”La comunità giocherà da protagonista almeno al 50%” sottolinea Sinclair “ma per quanto riguarda le decisioni chiave di trasformazione, le prenderemo noi”. Il gruppo prevede di operare a Kirinda per tutto il 2005, e spera di iniziare i lavori principali di costruzione entro l’estate.
Parlare chiaro
Il governo dello Sri Lanka raccomanda che i villaggi sulla costa vengano ripristinati più all’interno. Ma questo non è quello che vogliono gli abitanti, e quindi gli architetti probabilmente seguiranno il punto di vista dei residenti in questo caso, dice Sinclair.
”Le comunità non si sposteranno di un centimetro” continua. “La gente vuole addirittura piantare tende esattamente dove stava la loro casa.
Ma comunque si tenterà di combattere la crescita di baracche di pescatori ammucchiate sulla linea di costa. Sinclair sottolinea come i villaggi vicini che avevano dune di sabbia, anziché edifici direttamente di fronte al mare, abbiano subito molti meno danni dall’onda mortale del 26 dicembre.
Gli architetti sono anche orientati a preservare gli elementi ambientali di Kirinda, ovvero la riserva per gli uccelli e le aree a parco nazionale sui lati del villaggio. Si prevede di orientare la ricostruzione all’uso di materiali e manodopera locale, edificando con legno e argilla, anziché in cemento
Una migliore capacità di recupero
Spesso è l’economia anziché l’urbanistica a determinare i modi di crescita delle città nei paesi in via di sviluppo, ci dice Zygi Lubkowski, ingegnere a Londra per Arup e presidente della Society for Earthquake and Civil Engineering Dynamics.
I villaggi di pescatori vivono del mare, e così le popolazioni finiscono per colonizzare la linea di costa.
Ma se la gente non vuole muoversi, deve diventare in qualche modo più capace di reagire a eventuali tsunami future.
Un modo per farlo, è che gli elementi infrastrutturali chiave come ospedali o stazioni di polizia siano collocati in zone protette, spiega Lubkowski. “Così quando, Dio non voglia, succederà ancora, l’aiuto sarà lì, nel momento del bisogno”.
Chi sovrintende ai lavori di ricostruzione deve anche essere consapevole di quanto le proprie azioni possano determinare altri disastri, come frane, continua Lubkowski. “Il modo più facile [di evitare alcuni effetti dello tsunami] è di tenere gli edifici più in alto, ma occorre verificare la stabilità dei pendii, specie quando è stata rimossa la vegetazione”.
L’isola di Hong Kong, per esempio, è stata resa instabile dalla eccessiva edificazione, ci racconta.
Per le comunità povere della regione colpita dalla tsunami dell’Oceano Indiano, la migliore difesa può essere la consapevolezza, conclude Lubkowski. Imparare r conoscere i segnali di avvertimento, avere un ben sperimentato piano di evacuazione, potrebbe salvare innumerevoli vite la prossima volta.
Nota: qui il testo originale e alcuni links al sito di Nature come quello con la descrizione e le immagini da Kirinda (f.b.)
La riforma urbanistica liberista è stata approvata dalla Camera dei deputati in un clima di rassegnazione, senza che la sinistra riformista abbia avuto la cultura politica per comprendere che non era un provvedimento «tecnico». Era invece l'ultimo tassello di un mosaico che il governo ha lucidamente perseguito in questi anni e che ha portato al più spettacolare spostamento di ricchezza verso la rendita speculativa che la recente storia italiana ricordi. Vediamo nell'ordine. Nel settembre 2001 il governo Berlusconi appena insediato licenzia il primo provvedimento noto come scudo fiscale finalizzato al rientro dei capitali illegalmente esportati all'estero. Quello stesso mese di settembre crollano le torri gemelle di New York e, conseguentemente, il mercato borsistico. Gran parte dei 70 mila miliardi di euro rientrati sulla base di quel provvedimento sono andati in investimenti immobiliari: da quell'anno i prezzi delle abitazioni hanno avuto un'impennata impressionante. E' appena il caso di rammentare che un articolo di quel provvedimento prevedeva addirittura il rientro di capitali liquidi senza l'obbligo della dimostrazione della provenienza: che la legge sia servita per il riciclaggio di denaro illecito è opinione purtroppo unanime.
Con lo scudo fiscale si sostiene la domanda: occorre dunque alimentare l'offerta. Sempre nel mese di settembre nasce il primo provvedimento che generalizza e rende sistematica la vendita del patrimonio pubblico. La legge sarà convertita nel novembre 2001 (n. 410) e immette sul mercato uno straordinario affare a prezzi inferiori a quelli reali. Quello stesso provvedimento presenta anche una «perla» che a distanza di qualche anno può essere ben compresa: afferma che questi immobili possono essere «valorizzati» d'intesa con i comuni. In altre parole, magazzini possono diventare case, abitazioni zone commerciali, a seconda delle convenienze di mercato, eliminando le regole urbanistiche. E mentre la finanza locale viene strozzata con quell'articolo si invogliano i comuni a derogare i piani regolatori: una parte della valorizzazione viene infatti destinata agli stessi comuni.
Ma c'era un altro ostacolo da superare. La fondamentale legge sugli standard urbanistici prevede che sia garantita una quantità di servizi per ciascun cittadino. Molti comuni hanno resistito a ignobili speculazioni invocando l'impossibilità di soddisfare l'aumento di standard connesso con i nuovi usi proposti. La legge Lupi, e cioè la recente riforma liberista dell'urbanistica approvata alla Camera, abolisce questa storica conquista democratica e rende gli standard facoltativi.
E infine l'ultima perla contenuta nel disegno di legge sulla competitività attualmente in discussione alla Camera. L'articolo 9, «Legge obiettivo sulle città» afferma (comma 5) che nelle città si può prevedere «l'incremento premiale dei diritti edificatori» e cioè un ulteriore aumento delle densità urbane. Sarebbero necessari ulteriori standard pubblici, ma sono stati aboliti dalla legge Lupi!
Come si vede dall'azione del governo Berlusconi emerge un quadro impressionante. Questi anni sono serviti per spianare la strada alla peggiore rendita speculativa. Il sistema produttivo nazionale versa in una crisi profonda senza che una sola idea di rilancio sia stata concretizzata, mentre per il comparto immobiliare sono stati costruiti provvedimenti su provvedimenti di rara efficacia. Non si può far finta di vedere questo disegno perverso e combatterlo aspramente per le conseguenze economiche e di potere che provoca. E' noto infatti che un gruppo di immobiliaristi (Coppola, Ricucci e Statuto) insieme al più blasonato Francesco Gaetano Caltagirone stanno dando la scalata al cielo: Banca nazionale del lavoro, Corriere della sera e Mediobanca. Il fatto che non siano finora riusciti nei loro intenti nulla toglie all'inaudita gravità della situazione, del fatto cioè che essi godano di impressionanti liquidità. Va sottolineato che questo gruppo di immobiliaristi si afferma a Roma dove il nuovo piano regolatore prevede la costruzione di oltre 60 milioni di metri cubi di cemento a fronte di una città che ha perduto 180 mila abitanti nel decennio 1991-2001. Una valanga di abitazioni private a costi impossibili, mentre l'emergenza abitativa scandisce la vita di molti che - come quei 180 mila - non sono stati ancora espulsi verso i comuni dell'area metropolitana.
L'urbanistica liberista produce un generale impoverimento di masse di persone e un arricchimento devastante di ristrettissimi gruppi speculativi. Il fatto che una parte dello schieramento progressista abbia appoggiato apertamente la legge Lupi, primo tra tutti l'Istituto nazionale di urbanistica, dimostra di quanto arduo sia il cammino dell'Unione per ricostruire una reale alternativa al liberismo.
L'allarme americano sulla fine del boom immobiliare arriva in Europa. Ma per l'Italia gli esperti frenano: fase «riflessiva», niente crolli. Ma qualche speculatore potrebbe restare col cerino in mano. Alberto Lunghini (Reddy's Group) lancia l'allarme sull'eccesso di nuove costruzioni: serviranno ancora tra 30 anni?
Alan Greenspan ha detto che potrebbe scoppiare, ma solo «per alcune zone». E dopo che il governatore della Federal reserve ha parlato, i proprietari di tutto il (nostro) mondo si sono uniti, non nella lotta ma nel dilemma: se scoppia negli Stati uniti, cosa succederà da noi? Parliamo della bolla immobiliare, spettro che turba i sonni non solo degli speculatori ma di tutti coloro che, da Sidney a Milano, da Londra a Stoccolma, da Montreal a Dublino, si sono avventurati per necessità o virtù nel più gigantesco affare degli ultimi anni: la compravendita degli immobili. Ne parla la comunità degli economisti, ne parlano gli analisti d'affari, ne parlano i giornali, dall' Economist a Libération che lunedì scorso ha posto la domanda in copertina: «la bolla sta per scoppiare»? In Italia, il numero delle compravendite sfiora ormai il milione (all'anno), l'ammontare dei mutui concessi dalle banche solo nell'ultimo anno è cresciuto del 24% e la percentuale di famiglie proprietarie di casa è sull'80%. Sono in tanti quindi che anche qui - a Milano come a Treviso come a Bari - appesi al verbo di Greenspan si chiedono come Libé: allora, scoppia o non scoppia?
L'Italia e gli altri
«Tranquilli, non scoppia», è l'indicazione che con maggiore o minore forza viene da tutti i centri indipendenti di valutazione del mecato immobiliare. Qualcuno però aggiunge un inquietante «per ora», altri dicono che comunque l'era dei prezzi pazzi volge al termine, altri ancora distinguono tra immobile e immobile, tra zona e zona. Il più ottimista dei vari osservatori è quello di Nomisma: il centro studi bolognese prevede che i prezzi degli immobili, che nel primo semestre dell'anno sono cresciuti del 4,5% nella media italiana, saliranno nella seconda metà del 2005 di un ulteriore 3%. Un ritmo inferiore a quello degli anni scorsi - basti pensare che in Italia dal `97 al 2005 il numero indice dei prezzi delle abitazioni è salito del 69% - , ma comunque superiore all'inflazione (almeno a quella ufficiale). «I timori sullo scoppio della bolla immobiliare posso capirli se riferiti ad altri paesi - spiega Luca Dondi, ricercatore di Nomisma - ma certo non per l'Italia. Qui siamo ancora indietro nel ciclo dei prezzi degli immobili e il quadro macroeconomico non dà elementi per pensare a cambiamenti bruschi». In effetti, a guardare le stime dell' Economist sull'andamento dei prezzi, per quanto incredibile possa sembrare, in altri paesi la febbre è stata molto più alta (v. grafico).
Dondi spiega cos'è una «bolla che scoppia»: un calo dei prezzi sensibile e rapido, come quello che si ebbe dopo il picco dei prezzi degli immobili raggiunto nel `91, quando - correva l'anno 1992 - i prezzi delle case scesero del 20% in un anno. Ma non vede per ora gli elementi chiave che potrebbero innescare lo stesso meccanismo: che sarebbero, una ripresa dell'economia e della borsa e un rialzo dei tassi di interesse, tutti eventi che farebbero tornare il risparmio nei lidi - per ora abbandonati - della borsa e dei titoli, facendo al tempo stesso scendere febbre e prezzi del mercato immobiliare. Come dire, il miglior alleato del caro-case è la recessione. Che negli Stati uniti è finita, da noi ancora no.
Aspettando il 2008
Ma non è l'unica differenza che separa la nostra bolla immobiliare da quella degli Stati uniti. La differenza fondamentale è un'altra e si chiama: finanza. «La finanziarizzazione del mercato degli immobili da loro è molto più spinta», dice Alberto Lunghini, amministratore delegato di Reddy's Group, società di consulenza immobiliare globale. Il che vuol dire che i mutui coprono spesso l'intero valore dell'immobile, vengono ricontrattati in corsa quando i tassi scendono o quando i prezzi degli immobili salgono; «e allo stesso modo le riduzioni dei prezzi hanno un impatto immediato e si allargano a macchia d'olio: i proprietari indebitati corrono subito a vendere, facendo scendere ancor più i prezzi», spiega Lunghini. Che comunque non vede lo «scoppio» nell'orizzonte immediato neanche per gli Stati uniti: «secondo le previsioni degli analisti più accreditati, non succederà prima del 2008».
Anche in Italia sono salite compravendite, prezzi e indebitamento. Ma - spiega Lunghini - il numero di compravendite annue si è semplicemente allineato agli standard dei grandi paesi occidentali, mentre la minore finanziarizzazione del mercato ci mette un po' al riparo da ondate di ribassi rapide e generali. Anche perché l'investimento in immobili resta ancora appetibile, dato che i risparmiatori, scottati dalla borsa e da avventure finanziarie molto recenti (Argentina, Parmalat, Cirio e quant'altro) difficilmente torneranno in massa e di corsa a Piazzaffari.
Tempi lunghi per vendere
Questo non vuol dire che la bolla continuerà a gonfiarsi: «Si allungheranno, anzi si sono già allungati, i tempi di vendita. I tassi di interesse saliranno. E dunque arriverà un momento riflessivo dei prezzi degli immobili, che per i casi più eclatanti della febbre immobiliare, come Cortina o Santa Margherita o alcune zone di Roma e Milano, potranno vedere riduzione anche sensibili». Ossia, i 10.000 euro al metro quadro, le follie di alcune zone per vip, potranno anche scendere a 9.000 o a 8.000. Ma per tutti gli altri non sono all'orizzonte, neanche quando arriverà qui da noi l'effetto-Usa, cali forti e generalizzati. «E per quella fascia di mercato che sta intorno ai 2.000 euro al metro quadro una compressione dei prezzi è impossibile, giacché si scenderebbe al di sotto di quello che è il costo di costruzione, il valore dei terreni più tutti gli oneri accessori», spiega Lunghini.
Insomma più che uno scoppio della bolla sarebbe all'orizzonte una fase un po' meno folle del mercato. Nella quale però chi ha partecipato alle precedenti follie potrebbe restare un po' bruciacchiato. «Certo alla fine qualcuno con il cerino in mano resta», dice Lunghini: ma è il cerino dello speculatore, ossia di chi delle plusvalenze da compravendita di immobili fa la sua professione. Sul punto tutti gli osservatori concordano: «Chi ha comprato la casa per viverci, attratto anche dal fatto che i tassi di interesse sui mutui erano bassi, non deve monetizzare l'investimento, anche qualora i prezzi scendessero non perderebbe molto», dice Dondi. Tutti costoro potranno però avere un effetto di impoverimento per altra via: se hanno comorato con mutui a tasso variabile, il rialzo dei tassi peserà sul loro bilancio familiare molto di più della svalutazione (piccola e virtuale) della casa. Concorda Lunghini, secondo il quale neanche il piccolo investitore che ha comprato un immobile per «metterlo a reddito» (affittarlo) corre grossi rischi. Il popolo dei neo-rentier - delle famiglie che hanno investito il patrimonio in seconde case, negozietti, garage e quant'altro: un 15-20% del totale delle compravendite - non sarà travolto dalla bolla. Chi rischia invece è il trader, soprattutto quello che non si accorge in tempo del momento in cui deve vendere.
In futuro troppe case
Ma la vita degli immobili non è fatta solo di previsioni, tassi di interesse, speculazioni, trading. Ci sono anche le case, in mattoni e cemento, e i terreni e i materiali e tutto il resto. Lunghini invita a guardare un po' al di là della fase e del dilemma sullo scoppio della bolla. A valutare, per esempio, gli effetti di lungo periodo della recente nuova espansione edilizia: i comuni hanno dato il via libera, i costruttori hanno ripreso a costruire alla grande. Interi quartieri sorgono intorno a Roma e a Milano ma anche in cittadine di provincia. Il mercato preme, le case nascono. Case nuove, che si vendono come il pane ma che restano comunque inaccessibili a tutte quelle fasce deboli che la bolla immobiliare ha buttato fuori dal mercato. «Il punto è: quante case ci sono? e quante case servono? Se è vero che andiamo a una riduzione della popolazione consistente tra 30-40 anni, nel giro di una generazione ci troveremo con un eccesso di offerta di immobili. E allora sì che i prezzi crolleranno». Lunghini, che di mestiere fa consulenza immobiliare internazionale per banche, società e grandi investitori, non è certo per una pianificazione sovietica delle nuove costruzioni: però - dice - «il mercato va indirizzato, frenato in alcuni casi e incentivato in altri: altrimenti tra pochi decenni potremmo trovarci di fronte a una situazione davvero difficile».
Nota: su Eddyburg, qualche tempo fa, anche l'articolo di Mike Davis sulla "bolla" americana e i suoi risvolti (f.b.)
Titolo originale: Capital vision for new city within a city – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Alcuni fra i principali progettisti britannici stanno sviluppando un’ambiziosa proposta, per costruire una nuova “città grande come Leeds” entro la zona est di Londra.
Il gruppo coordinato da Lord Rogers, il principale consulente per l’architettura del sindaco di Londra, sta discutendo un piano che potrebbe trasformare alcuni tratti delle are più depresse del paese.
Potrebbero essere realizzati, nell’ambito di un’idea denominata City East, quartieri ad alta densità per circa 500.000 abitanti all’interno delle aree orientali di Londra, all’estremità occidentale del sistema Thames Gateway, entro i prossimi 25 anni.
Questa strategia evidenzia un chiaro spostamento, dato che si concentrerà su zone del Thames Gateway già in gran parte edificate, anziché su una rigenerazione estesa a scala regionale, secondo l’approccio sostenuto dal vice primo ministro, John Prescott. Gli urbanisti stanno già ricordando che i nuovi nuclei di popolazione dovranno essere collocati in aree dotate o dotabili di infrastrutture di trasporto per servirli.
Le aree individuate del Thames Gateway, che comprendono Greenwich, Charlton, Canary Wharf, Stratford e i Royal Docks, dovrebbero poter approfittare del prolungamento della linea East London e della metropolitana leggera dei Docklands, ma anche dei collegamenti secondari del Channel Tunnel e forse della CrossRail.
Il piano è emerso la scorsa settimana dopo un incontro del comitato di progetto internazionale della London Development Agency, che comprende Lord Rogers e gli architetti Lord Foster, Will Alsop, David Adjaye, Josep Acebillo, Sir Terry Farrell e Sir Peter Hall.
Lord Rogers, in una dichiarazione alla rivista Building Design ha affermato: “Questa zona è la parte occidentale del Thames Gateway, e il principale motivo per concentrarsi su di essa è la presenza dei trasporti pubblici. Dove esistono infrastrutture, si possono costruire parti di città come Islington o Notting Hill Gate, in termini di densità.
”Il fiume in questa zona è un magnifico spazio pubblico, ma sinora ne abbiamo fatto un uso orribile”.
Ha aggiunto che è importante affrontare il problema con pazienza e metodo. Esistono progetti per grandi insediamenti più a est, come quello per 11.000 case a Barking Riverside, con una buona localizzazione ma meno infrastrutture di trasporto.
”Non si può far tutto contemporaneamente, e in qualche modo dobbiamo aspettare [a costruire più a est], altrimenti la cosa non sarebbe sostenibile”.
Lord Rogers ha dichiarato al Guardian: “Non si tratta di sprawl suburbano. Molte parti saranno a densità elevate, molto superiori a quelle britanniche. Non credo che nessuno abbia problemi sulla possibilità di collocare abitanti qui. La cosa importante è che esiste il trasporto pubblico”.
Ha aggiunto che il Canary Wharf è stato un buon esempio di cosa è possibile realizzare. “Non sto pensando a una città di uffici o in stile americano, ma si possono ottenere vedute fantastiche, valorizzare al massimo il fiume e avere grande vitalità”.
Anche se è auspicabile un grande piano per lo East End, ci saranno problemi per le grandi densità pensate, e difficoltà per collocare nuovi insediamenti tra i vecchi.
Neil Jameson rappresentante dello umbrella group della zona orientale di Londra, Telco, dice: “Siamo favorevoli a nuovi insediamenti nella nostra zona, se non significheranno spostamenti degli attuali abitanti, e se ci porteranno occasioni di lavoro ben pagato e opportunità di miglioramento. È estremamente difficile costruire artificialmente quartieri sostenibili”.
E aggiunge: “Alcuni degli interventi nei Docklands hanno comportato lo spostamento e la distruzione di intere comunità, producendo divisioni fra vecchi abitanti e nuovi arrivati. Speriamo che non si ripetano questi errori”.
Bob Neill, capogruppo dei Tories al Consiglio di Londra, sostiene che il piano è troppo ambizioso. “Non tutti vogliono vivere con le densità di Islington. È urbanistica da cappuccino country”.
Il sindaco di Londra è un grande sostenitore delle alte densità, ed è determinato a sfruttare il potenziale delle localizzazioni urbane anziché consentire una diffusione suburbana di abitanti e abitazioni. Ha anche parlato di “spostare l’asse del benessere da ovest a est”.
La scorsa settimana la London Development Authority ha calcolato che potrebbero rendersi disponibili per l’edificazione 50 ettari di terreni già urbanizzati [ brownfields] l’anno, offrendo spazio per migliaia di residenze e posti di lavoro. Le aree già possedute nel Thames Gateway potebbero contenere 25.000 abitazioni.
Nota: il testo originale sul sito del Guardian (f.b.)
L’Italia non è più una Repubblica fondata sul lavoro, è una Repubblica basata sui patrimoni. La quota di reddito nazionale che va al lavoro si è ridotta negli ultimi 20 anni dal 50 al 40% e quella della rendita è aumentata dal 20 al 30% con i profitti oscillanti intorno al 30%. E’ questa la principale causa del declino che il recente check up sulla competitività elaborato dal Centro studi della Confindustria ha evidenziato ad abundantiam: energia e servizi più cari d’Europa, istruzione e ricerca più povere, unico Paese europeo che perde quota di commercio mondiale (dal 4,8% al 3,8% dal 1996 al 2004), unico paese al mondo con il “paradosso dei laureati”: pur avendone come la Turchia e la metà di Spagna, Francie e Germania, i nostri laureati hanno tassi di disoccupazione relativa più alti dei loro colleghi. E la cosa si spiega con la fuga dall’innovazione e dal rischio: per fare aerei o marchant bank ci vogliono più laureati che per fare scarpe o banche di credito ordinario.
Non è che in Italia manchino creatività e innovazione, infatti i confronti settoriali mostrano quote di laureati e spese di ricerca delle nostre aziende comparabili, solo che in elettronica le spese sono il 20% del fatturato, mentre nel tessile abbigliamento sono il 2 per cento. E l’Italia di oggi, che ha meno industria e servizi innovativi fa complessivamente meno ricerca e innovazione e impiega meno laureati. Il filo rosso che unisce le negative performance dell’azienda Italia è sicuramente legato al prevalere della rendita sul profitto. “Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala e le forze dello sviluppo declinano a vantaggio di interessi parassitari” diceva Paolo Baffi, indimenticato grande governatore della Banca d’Italia.
Purtroppo, a partire dagli anni 80, la risposta alle grandi crisi petrolifere che accelerarono la deindustrializzazione nel mondo è stata in Italia diversa da quella di altri Paesi industrializzati, “perché l’acqua si dirige dove trova il varco”, secondo una vecchia legge valida non solo in fisica. E’ anche il frutto avvelenato delle privatizzazioni senza liberalizzazioni, previsto agli inizi degli anni 90 da Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca: “Le grandi famiglie migreranno dalla manifatturiera ai servizi, dalla produzione di automobili, pneumatici, macchine d’ufficio e pc alla gestione delle autostrade, dei telefoni, dell’energia elettrica e del gas naturale”. La profezia di Cuccia purtroppo si è avverata con esiti molto negativi per il paese.
Perché in Italia più che altrove c’è stata questa fuga dal profitto alla rendita? Che cosa bisogna fare per “piegare l’acqua” su percorsi diversi, spingere i capitali verso impieghi più innovativi e rischiosi della valorizzazione di aree fabbricabili?
Qualche precisazione metodologica è necessaria. La differenza tra profitti e rendite è tutta nel contesto in cui si realizzano: i profitti si realizzano in un mercato competitivo quasi perfetto, le rendite si realizzano in un mercato molto imperfetto e poco competitivo, come quello immobiliare o degli ordini professionali chiusi e dei pedaggi autostradali e delle tariffe delle utilità. L’Italia non ha mai completato la rivoluzione liberale. Di più, mentre le rendite finanziarie personali sono tassate con aliquota del 12,5% gli utili d’impresa sono tassati con aliquota del 33%, che, aggiunta all’Irap porta la tassazione al 50% sugli utili, che è un record mondiale negativo. Lo sviluppo di un paese è fatto da imprese, lavoro e innovazione. Se le imprese sono supertassate così come il lavoro e le attività innovative e rischiose sono trattate peggio delle attività tradizionali a basso rischio a chi conviene rincorrere l’utile piuttosto che la rendita? Soffriamo di nanismo industriale anche per questo.
Molto più che il contestato articolo 18, l’autofinanziamento con crescita dell’impresa industriale è impedito da livelli di tassazione doppi della media europea, che è del 30% e con tendenza a calare. E per quanto riguarda il lavoro, tutti giustamente si preoccupano quando Bertinotti evoca la patrimoniale, nessuno si scandalizza quando lo Stato tassa il lavoro e la “patrimoniale del lavoro” il Tfr, con aliquote mediamente superiori al 30%.
Oggi si parla giustamente di escludere il costo-lavoro dall’Irap, che a regime significa dimezzare questa tassa (su 24 miliardi di Irap pagati dalle aziende private, la metà deriva dal costo-lavoro), ma per ridurre in modo più significativo lo svantaggio di cui attualmente il profitto e i redditi da lavoro soffrono rispetto alla rendita bisogna pensare anche a qualcosa d’altro, come abbassare l’aliquota sugli utili d’impresa, unificare l’aliquota personale sugli interessi dei conti correnti, oggi al 27%, e quella sui dividendi, oggi al 12,5%, ad un livello medio equo che potrebbe essere introno al 20 per cento. Questo provvedimento potrebbe portare 4-5 miliardi di maggiori incassi sull’attuale imposta sostitutiva sugli interessi, dividendi e plusvalenze (10,5 miliardi nel 2003). Se l’impresa è il motore dello sviluppo essa va aiutata a crescere tassando gli utili d’impresa al livello più basso possibile, sino a “livelli baltici”, dove l’aliquota per le aziende va dallo zero dell’Estonia al 15% degli altri due Stati baltici. Così si eliminerebbe anche l’attuale ingiusta doppia imposizione su utili e dividendi.
Ai fini dello sviluppo e dell’innovazione, la quadratura dei conti pubblici va realizzata con politiche fiscali eque ma pur sempre progressive sui redditi delle persone fisiche, secondo la nostra Costituzione, e con politiche fiscali sui redditi delle persone giuridiche assai più leggere delle attuali. Tertium non datur, se si vogliono imprese e conti pubblici in salute in uno Stato sociale da Paese europeo moderno.
Nicola Cacace, già presidente di Nomisma (centro di ricerche economiche fondato da Romano Prodi) e Consigliere d’Amministrazione della Banca Nazionale del Lavoro, è in Italia uno dei più autorevoli studiosi del mondo delle professioni.