La nuova legge urbanistica? «E' il delirio di uno speculatore trasformato in legge». L'allarme sarà lanciato pubblicamente oggi - nell'ambito della giornata di Italia Nostra su «Paesaggio e tutela» - ma è da qualche tempo che il mondo degli urbanisti è entrato in agitazione per quel che sta accadendo in parlamento, e in particolare nella commissione ambiente. Che si appresta a partorire una legge considerata mostruosa da gran parte degli urbanisti e salutata con favore dello stato maggiore dei costruttori (Confedilizia benedicente); una legge il cui fulcro è la sostituzione degli «atti autoritativi» con quelli «negoziali»: in sintesi, l'ingresso ufficiale degli interessi privati nella sede di definizione dei piani urbanistici, quelli che una volta dovevano tutelare l'interesse generale. Proprio oggi scade il termine per la presentazione degli emendamenti, in commissione ambiente, al «testo unificato» sul governo del territorio. Padre della legge è Maurizio Lupi, ciellino confluito in Forza Italia sin dagli esordi del partito Mediaset, già assessore all'urbanistica a Milano e ispiratore anche della legge urbanistica in via di approvazione in Lombardia. E del «modello lombardo» - una vera fonte di ispirazione, così come è successo per la sanità e la scuola - la nuova legge è l'applicazione fedele, a livello nazionale. In primo luogo, si stabilisce che il «governo del territorio» spetta alle regioni, salvando per lo stato centrale solo «gli aspetti direttamente incidenti sull'ordinamento civile e penale, sulla tutela della concorrenza nonché sulla garanzia di livelli uniformi di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Il potere legislativo delle regioni avrebbe così assai scarse limitazioni, denuncia Italia nostra che vede nella proposta di legge la sostanziale smentita dell'articolo 9 della Costituzione («la Repubblica tutela il paesaggio»).
Quanto agli strumenti per «governare il territorio», il successivo articolo 4 della proposta di legge non lascia dubbi, enunciando sin dal titolo quel principio-cardine del «modello lombardo» che è la sussidiarietà tra pubblico e privato. E se in materia sociale questo vuol dire lasciare allo stato solo i rifiuti che il mercato lascia dietro di sé, in materia urbanistica la sussidiarietà alla lombarda si traduce facendo sedere i costruttori e i soggetti privati forti alla scrivania dove si progetta la città: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti». Chi sono questi «soggetti interessati»? «Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di `soggetti interessati' ci si riferisca al cittadini e alla cittadina? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare», scrive Edoardo Salzano sull'Archivio di studi urbani e regionali (n. 77/2003, che contiene un esteso dibattito sulla riforma urbanistica in discussione). E che i «soggetti interessati» siano quelli che hanno «voce e potere», come dice l'urbanista Francesco Indovina, lo conferma anche la relazione di accompagnamento al disegno di legge.
«E' un testo terrificante», sostiene Vezio De Lucia, che descrive così l'effetto della legge a regime: «il governo del territorio non sarebbe più nelle mani dei poteri istituzionali, ma sarebbe affidato ad `atti negoziali' tra tutti i soggetti interessati, cioè i proprietari fondiari». Il trionfo dell'«urbanistica contrattata», inaugurata per l'appunto nella Milano da bere e in quella del decennio successivo. Tra gli urbanisti l'allarme è diffuso. «Mentre tutte le regioni stanno legiferando, una legge quadro dovrebbe indicare i princìpi generali, questa non lo fa e allo stesso tempo dà persino un accesso di potere alle regioni», commenta Indovina. Intanto la Lombardia marcia da sola verso la sua legge, in attesa della sua consacrazione su scala nazionale.
Caro Direttore, desidero sottoporle alcune considerazioni - non necessariamente per la pubblicazione - su un tema rilevante trattato da l'Unità il 20-3-2004 (articolo di Maria Zegarelli sulla legge di riforma dell'urbanistica, tema poco dopo trattato anche d V. Emiliani a proposito di beni culturali). In entrambi gli articoli sembra quasi che l'urbanistica sia prevalentemente o soltanto una faccenda di paesaggio. Forse andrebbero fatte alcune precisazioni.
Innanzitutto, va detto che il tema del paesaggio, quello della urbanistica negoziale, quello (che pare dimenticato) della natura dell'urbanistica, quello del governo del territorio e quello delle modifiche costituzionali sono altamente interrelati.
Quando l'estate scorsa furono presentati a Milano in Regione i progetti di legge (Lupi FI, Mantini Margherita, Sandri Ds; il prossimo 31 marzo verrà di nuovo trattato il tema, sempre a Milano in un grande albergo, da urbanisti milanesi, dai presentatori dei progetti, e da avvocati immobiliaristi) non eravamo ancora in presenza di due grosse novità:
a) il tentativo di compattamento delle opposizioni, e,
b) la Sentenza 303 / 2003 della Corte costituzionale, che onde evitare equivoci afferma che nonostante la riforma costituzionale del 2001 parli di governo del territorio e non più di urbanistica, la materia urbanistica non è affatto scomparsa.
L'on. Mantini presentò, anche con un articolo su Urbanistica Informazioni, l'ipotesi di una operazione "bipartisan" di accordo tra il suo progetto e quello di Forza Italia. Mi chiedo se con la situazione politica successiva un "esperimento" bipartitico del genere (a meno che non sia un'ipotesi di grossa coalizione...) sia ancora di attualità, o se il progetto della Margherita non debba prima di tutto accordarsi con quello Ds.
Quanto alla legge di principi generali, mentre l'urbanistica è materia nota e una legge si potrebbe forse fare velocemente, il "governo del territorio", che comprende anche l'urbanistica insieme a tante altre cose, andrebbe studiato con calma piuttosto che precipitarsi a fare una legge generale. E si vedrebbe allora l'intreccio con temi costituzionali non ancora risolti: era questa proprio una delle materie ancora soggette a chiarimenti dopo la riforma costituzionale del 2001, anche se i tentati chiarimenti furono poi dimenticati quando dalla riforma la Loggia o poi La Loggia-Bossi si passò un pò disordinatamente a più succulente materie relative ai poteri costituzionali. E della difficile applicazione della legge 131 del 5 giugno 2003 di adeguamento dell'ordinamento repubblicano alla nuova Costituzione mai si sente parlare. Il tema tuttavia continua a non essere chiaro, e ricordiamo che persino una nota Sentenza della Corte Costituzionale, la 407 del 2002 , parlava di tematiche "inestricabilmente intrecciate" a proposito di ambiente, beni, territorio. E si sa che, a parte le differenze di opinioni e di interessi tra regioni e amministrazione statale, anche dentro a quest'ultima esistono modi assai diversi di vedere il tutto, come minimo tra gli apparati che si occupano di Ambiente, Beni (e quindi paesaggio), Infrastrutture, Difesa del suolo; nonostante la Corte invochi una "leale cooperazione" tra le amministrazioni. Inoltre, sempre a proposito di governo del territorio, non sarà da escludere che qualcuno veda nell'espressione una specie di riconoscimento di "sovranità" regionale sul territorio (sicché converrebbe trovare un altro nome). Qualche rilievo avevo fatto in una serie di osservazioni sui temi ambientali e territoriali in rapporto alla Costituzione in un mio breve corso di Giurisprudenza alla Bicocca, poi pubblicate in tre puntate di sintesi nel sito www.filosofia-ambientale.it e riprese in www.sernini.net. Ben a proposito in un'intervista a l'Unità del 12/9/2003 Campos Venuti denunciava i tentativi di "secessione urbanistica".
Del resto, anche la recente vicenda del Condono, se portato dinnanzi alla Corte con l'assunto che non si tratta di materia statale (neppure nei principi generali o qualcosa di simile) ma esclusivamente regionale, rischia di essere una zappa sui piedi: le regioni che non vogliono il condono non l'applicherebbero, tutte le altre sì, come avverrebbe per tutta l'urbanistica ove fosse esclusivamente regionale o se lo stato non potesse dettare principi di fondo. Sono immaginabili le conseguenze di questa urbanistica "differenziale", della quale avevo avvertito brevemente in uno studio del 1985.
Vorrei anche accennare al fatto che mi pare esagerato ridurre tutta l'urbanistica, come è ora di moda, ai temi del paesaggio. L'urbanistica riguarda anche e forse soprattutto gli insediamenti umani sul territorio di persone e attività, quante, dove, come, quanto dense, città e non città. Anche in Francia i poteri di pianificazione urbanistica sono locali, comunali, ma esistono norme generali, per es. circa gli strumenti di coerenza territoriale, e vi sono inoltre norme di intenzione urbanistica per l'intero paese, a durata ventennale. E anche in Inghilterra la libertà di costruire non è esente da obiettivi politici generali. Per quanto sia in voga il paesaggio, e la bellezza, e l'elogio della qualità della vita agreste, come è possibile far scomparire non soltanto gli eccessi della pianificazione ma anche le parti usuali dell'urbanistica? E l'importanza degli agglomerati urbani? Ad Amsterdam come a Londra di fanno piani, in Francia si discute se densificare Parigi, in Inghilterra si discute pubblicamente se i milioni di nuovi alloggi necessari si debbano fare espandendo Milton Keynes pianificata come espandibile o invece vadano collocati nelle zone abbandonate di una città esistente come Birmingham, e sempre in Inghilterra si discute di case dal costo sopportabile. Da noi è persino difficile sapere qualcosa delle previsioni abitative decennali delle regioni, richieste dalla legge del 1978. E per molte norme il testo Unico dell'Edilizia del 2001 sembra soppiantare la normativa urbanistica.
Certo, mi si dirà, i progetti in discussione si occupano anche di urbanistica, infatti trattano delle nuove regole negoziali, della perequazione immobiliare e finanziaria tra operatori. Ma, e qui giustamente vedo che Vezio De Lucia ha fatto dei rilievi in proposito, si può andare verso una tendenza terrificante. Se l'urbanistica è sempre meno politica, se il privato fa un vero piano urbanistico avendo però come intento non la organizzazione dell'insediamento sul territorio ma solo la valorizzazione proprietaria, sparisce l'interesse pubblico, sparisce la differenza tra giusta remunerazione della rendita e speculazione. Eppure, già l'Einaudi nel 1920 studiando il problema delle abitazioni, mentre magnificava come unico sistema valido quello liberista puro, doveva poi ammettere che a volte subentrano valutazioni politiche a modificare i modelli. Forse si vuol andare a piani urbanistici privati come si fece a Beyrouth negli ani '90, o a casi come quello del Mori Bulding nel quartiere centrale Rappongi di Tokyo, esproprio privato (oppure partecipazione azionaria!) e libera costruzione? Nella Polonia deregolata è successo che si sono costruite case in luoghi sgraditi ai ceti più ricchi ma con caratteristiche inarrivabili per i ceti più poveri. Risultato: case non occupate. E' chiaro che le nostre Società di Trasformazione Urbana, specialmente se non se ne garantisce la presenza pubblica maggioritaria, oggi che con la perequazione eventualmente funzionante si incentiva al costruire prevalentemente chi ha grandi possibilità finanziarie - e infatti sono molto presenti sul mercato le grandi immobiliari - potranno allontanare tramite l'esproprio piccoli proprietari non graditi nella zona da "abbellire": uno sfratto dei proprietari insomma. Senza che si voglia disporre almeno la regola che queste operazioni nella città abbiano inizio da zone dismesse e da zone veramente degradate. Quanto all'extraurbano (per quanto poco trovi credito tra architetti alla moda questo termine), vedremo forse i privati acquistare terreni liberi e costruirci sopra vere e proprie piccole città, di cui essi e non certo sostanzialmente i Comuni farebbero il piano urbanistico? Questa ottica privatistica trova un singolare elemento simmetrico in una iniziativa di questi giorni sùbito e forse affrettatamente magnificata da molte parti: il privato che acquista immobili "mostruosi" per poi demolirli. Se si tratta di abusivismo, ci sono già le norme sull'abbattimento, e le ammende per l'illecito andrebbero comunque portate a livelli più alti. Se si tratta di edifici che semplicemente non piacciono all'acquirente, ma furono regolarmente costruiti, mi pare un caso di arroganza proprietaria bella e buona.
Insomma, sarà una istanza ingenua, ma credo che non sarebbe male se tra tutti gli urbanisti si discutesse di tutta la materia, e poi si discutesse ampiamente tra questi e i politici, e poi questi operassero sapienti mediazioni sui progetti di legge, se possibile, oppure molti emendamenti accompagnati da un pò di supporto dell'opinione pubblica. Temi difficili, se ci si occupa solo di calcio e di TV, e se persino le riforme costituzionali - è stato giustamente lamentato giorni fa - fanno poca audience. Ma ancor più difficili se sui giornali non si spiega ampiamente tutto l'intrico.
Professor Mazza, la filosofia che ispira il testo Lupi sembra essere "più contrattazione, meno piani regolatori". Lei è d´accordo con questa impostazione?
«È una semplificazione eccessiva. Il problema è mal posto, perché l´alternativa non è tra "più contrattazione" e "meno piani" (le regole sono indispensabili), ma tra contrattazione trasparente e contrattazione opaca e collusiva, come quella che si è praticata finora nelle sedi dei partiti, delle banche, negli studi professionali, nelle associazioni sindacali e imprenditoriali. Ogni scelta urbanistica comporta una discriminazione che richiede contrattazione e accordo. Il problema, tutto politico, è quale sia il senso degli accordi, se gli accordi servano interessi particolari oppure generali».
In che modo questo testo può correggere le storture che gravano sulle nostre città?
«Nessuna legge può correggere storture che sono il prodotto dei sistemi di valori della nostra cultura e anche della cultura tecnica. La nostra cultura tecnica non sarà mai una cultura adulta sino a quando i tecnici per progettare avranno bisogno di una legge che imponga, per esempio, densità edilizie, dal momento che la loro integrità professionale non è sufficiente a impedire che si progetti con densità eccessive. Bisogna costringere tecnici e politici ad assumersi le loro responsabilità senza nasconderle dietro il paravento delle leggi».
Una delle obiezioni mosse al testo è che con la via negoziale la città non verrebbe più governata con un´attenzione unitaria.
«Se si escludono quelle di fondazione, le città si sono sempre trasformate con progetti parziali. Se un disegno complessivo è disponibile, talora i progetti parziali lo completano o reinterpretano, talora segnano uno scarto rispetto ad esso, uno scarto che può indicare l´avvio di un nuovo disegno complessivo. Il riconoscimento del carattere parziale dei processi di trasformazione urbana ricorda che il perseguimento di un disegno complessivo è ostacolato dal fatto che il disegno tende ad essere stabile nel tempo, mentre le trasformazioni sono il prodotto della dinamica di interventi settoriali e di interessi individuali. Il disegno complessivo non può essere congelato in un modello rigido come il piano regolatore, deve essere un costrutto sociale, la metafora spaziale di un programma politico che diviene un quadro di riferimento, continuamente ricostruito e reinterpretato con il contributo dei progetti parziali».
La presentazione di Francesco Erbani
L'intervento critico, di Edoardo Salzano
Una ventata neoliberista, anzi una burrasca, si abbatte sull´urbanistica italiana. Sta per giungere in porto la riforma della legge che dal 1942 regola il governo del territorio. Ed è una riforma, patrocinata dalla maggioranza di centrodestra, che spazza via alcuni dei principi cruciali della pianificazione, di ciò che regola, cioè, la trasformazione di un suolo: dove si costruisce, dove no, dove vanno fatte le strade, i ponti, i binari, dove c´è verde da tutelare, paesaggio da rispettare, dove c´è agricoltura da salvaguardare.
In primo luogo viene incrinato lo stesso principio della pianificazione, quello per cui in una città gli interventi devono essere coordinati l´uno con l´altro e rispondere a una visione d´insieme. In secondo luogo viene abbattuto il primato dell´autorità pubblica, sostituita da una serie di "atti negoziali" in cui la stessa autorità pubblica (il Comune, per esempio) è solo uno dei protagonisti di una trattativa (l´altro o gli altri sono i privati). In terzo si affida alla discrezione delle Regioni definire quali luoghi vanno pianificati e quali no.
La riforma, che nel mese di aprile viene discussa in Commissione per giungere in aula prima dell´estate, ha un padre che ha già sperimentato queste soluzioni. Si chiama Maurizio Lupi, è un deputato di Forza Italia. «Questa è una legge che fissa principi», spiega Lupi, «seguendo il nuovo dettato costituzionale che affida allo Stato poteri di indirizzo e alle Regioni facoltà legislativa». Non è vero, assicura, che tutta la pianificazione passa alla contrattazione: essa infatti si dividerebbe in due fasi, una di tipo più strutturale, che resta affidata all´ente pubblico, e un´altra di tipo attuativo, che procede invece per via negoziale.
Prima di arrivare a Montecitorio, Lupi è stato assessore all´urbanistica del Comune di Milano, dove questa filosofia della deregulation si è inverata in un documento datato maggio 2000 ed elaborato da Luigi Mazza ( che qui sotto intervistiamo), docente di urbanistica al Politecnico, professionista molto stimato e noto per le sue simpatie diessine. A Milano si è bandito il piano regolatore sostituito da un documento di indirizzi in cui sono fissati una serie di obiettivi di massima anche questi - si legge nel documento - soggetti a modifica. Per il resto tutto il futuro della città è affidato alla contrattazione fra l´amministrazione comunale e i privati (proprietari di aree, di industrie dismesse, di immobili, oppure grandi investitori). Chi vuole può presentare un progetto. Una commissione comunale lo valuta e, se lo ritiene apprezzabile e in linea con gli indirizzi fissati, lo approva. Partito di gran carriera, il sistema milanese si è però via via inaridito: da un centinaio di progetti si è scesi, negli ultimi mesi, a poco meno di una decina.
La soluzione milanese si è comunque diffusa in molte altre città, dove il vecchio piano regolatore non è stato formalmente soppiantato, ma lo si è nei fatti svuotato procedendo per progetti riferiti a singole trasformazioni, spesso in contrasto con il piano. Il modello della giunta Albertini (che raccoglieva una serie di pratiche e di leggi proliferate dagli anni Ottanta in poi) ha trovato orecchie sensibili presso amministrazioni di centrodestra, ma anche di centrosinistra (ultima in ordine di tempo la giunta di Salerno, che ha accantonato il piano redatto da Oriol Bohigas, che pure era ispirato alla dottrina della deregulation più spinta).
La legge divide gli urbanisti, incassando l´obiezione di molti ( vedi qui sotto l´intervista a Edoardo Salzano, per molti anni professore a Venezia), ma anche una tiepida adesione dai vertici dell´Inu, l´Istituto nazionale di urbanistica. Contrarie, invece, alcune associazioni ambientaliste, come Italia Nostra.
Qual è la formula per far rinascere una città industriale in declino? Primo: identificare un quartiere degradato. Secondo: spingere una comunità di artisti a trasferirsi lì. Terzo: far sì che giornali e televisioni ne parlino, in modo che la zona diventi rapidamente di moda. A quel punto i bar e i ristoranti si moltiplicheranno, i borghesi ricchi cominceranno a popolare le strade, i prezzi saliranno.
Richard Lloyd, sociologo alla Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee, dice che questo modello sta diventando fondamentale per lo sviluppo di quella che definisce l''economia dell'estetica', cioè di un'economia post-moderna basata sempre più sulla cultura e sulla creatività. Per sostenere questa tesi, Lloyd ha scritto un libro -'Neo-Bohemia: art and commerce in the post-industrial city' - per descrivere il ruolo crescente che le culture artistiche giovanili giocano nel capitalismo post-moderno.
La 'Neo-Bohème' di cui parla Lloyd è assai diversa dalla Bohème della Parigi del 1840, quando Henri Murger coniò il termine per descrivere una cultura ribelle che faceva scandalo. Lloyd, che ha a lungo studiato l'evoluzione di Wicker Park, un quartiere di artisti di Chicago, applica le sue idee a tutte le città moderne che hanno visto rapidamente svanire le ciminiere e al loro posto nascere un'economia basata sui servizi avanzati. Secondo lui oggi i giovani artisti alternativi sono diventati i portatori d'acqua, e di idee, della nuova economia post-moderna.
Nel suo libro Lloyd, intellettuale trentenne che porta l'orecchino e mostra grande empatia nei confronti delle nuove culture ribelli, rielabora il concetto di 'classe creativa' inventato alcuni anni fa da Richard Florida, sottoponendolo a una dura critica. Lo abbiamo intervistato.
In che modo la Neo-Bohème di oggi è diversa dalla Bohème della Parigi di Baudelaire?
"I quartieri degli artisti di oggi sono molto simili a quelli del passato. Come allora, per esempio, si trasformano rapidamente in zone per ricchi. Ma oggi questi quartieri giocano un ruolo più importante nell'economia urbana. Sono laboratori di ricerca e sviluppo per la produzione dell'economia dell'entertainment, dei media, della pubblicità, dei lavori legati all'estetica".
Lei ha studiato soprattutto il caso di Chicago.
"Chicago è una città importante per capire i cambiamenti in corso. Fino a vent'anni fa era il prototipo della metropoli industriale: produceva acciaio ed era il centro del commercio del bestiame. Ma ha dovuto reinventarsi: oggi produce soprattutto cultura, finanza e tecnologia. E in questo contesto i quartieri della Neo-Bohème, come Wicker Park, giocano un ruolo nuovo".
Che caratteristiche hanno questi quartieri?
"Sono aree per loro stessa natura candidate a diventare punti di attrazione dell'estetica post-industriale. Hanno ampi locali che possono essere usati come loft dagli artisti, o come gallerie, night club, coffee shop. Questi quartieri sono in costante cambiamento. Una volta che un quartiere viene identificato come 'area artistica' il suo momento magico è già finito, i prezzi salgono, i nuovi artisti non possono più andarci a vivere e devono inventare un nuovo posto creativo".
Come è successo a Manhattan nel Greenwich Village e a Soho...
"Certo. Oggi gli artisti non possono più permettersi di vivere lì. Come non possono più vivere nel Quartiere Latino, a Parigi. Ma sopravvivono gallerie d'arte, spazi per le performance, bar e coffee shop. E queste 'istituzioni' offrono opportunità di lavoro agli artisti, che infatti lavorano come barman o come camerieri e questo costituisce una delle parti più importanti di questo processo. Il successo di Williamsburg a New York dipende dalla metropolitana veloce che trasporta gli artisti in pochi minuti nel Village, dall'altra parte dell'East River. Non si può capire la vita degli artisti contemporanei senza studiare l'industria dei bar, perché è qui che la maggior parte degli artisti lavora".
La Neo-Bohème è un fenomeno americano oppure mondiale?
"Non credo che sia solo americano, né solo occidentale. Mi sono chiesto se esista anche in città come Bombay. Ma penso di sì. La Neo-Bohème è un fenomeno legato alla transizione dall'economia industriale a un'economia sempre più basata sulla produzione di immagini e cultura. E questo è un fenomeno generale".
Un esempio europeo?
"Un paio d'anni fa, durante un soggiorno in Olanda, lessi un giornale che si chiedeva perché molti artisti oggi preferiscono Rotterdam, città dell'industria e del porto, ad Amsterdam, più affascinante e cosmopolita. È evidente che oggi i creativi convergono a Rotterdam proprio per certi tipi di spazi post-industriali - i capannoni dismessi per esempio - che fino a ieri sembravano anacronistici e che invece sono diventati il centro di nuove attività. Gli artisti sono attratti da questi spazi, li colonizzano e li fanno tornare alla vita".
Torniamo agli artisti-baristi: che cosa c'entrano con l'economia post-industriale?
"Esattamente come avveniva ai tempi della vecchia Bohème, gli artisti non producono solo opere d'arte, ma offrono anche se stessi come opera d'arte. Gli artisti sono vistosi, creativi, anticonformisti, hanno la capacità di creare tendenze. E nei bar, nei ristoranti, nelle gallerie d'arte, dove passano gran parte del loro tempo, riescono a creare l'ambiente giusto. Chi va a mangiare al Greenwich Village, o a Soho, o al Wicker Park di Chicago, va lì proprio per consumare questa atmosfera alternativa, e una delle esperienze che vuole vivere è avere un cameriere con i capelli rosa e il piercing al naso".
Così i giovani artisti diventano attrazioni per turisti?
"Non solo per turisti. Anche per molti cittadini di New York, o di Chicago, perché molti residenti, soprattutto i più istruiti, usano la loro città come fossero turisti. Certo non vanno a visitare la Statua della libertà o l'Empire State Building, ma vanno nei locali underground dove il clima è creato proprio dalle persone che ti servono un drink".
Questo ambiente di nuovi bohémien americani è sempre influenzato dalla cultura europea?
"Certamente. La nuova Bohemia mantiene fede alle sue origini europee, anche se ha caratteristiche meno intellettuali, rispettando una certa tradizione americana".
Lei sostiene che la Neo-Bohème è associata alla nostalgia, la noia, l'ansia. Ne parla come se fosse uno stato della mente.
"Baudelaire e gli Impressionisti sono stati così importanti perché il loro apparire ha coinciso con l'esplosione della metropoli moderna. Sono stati i primi a fare della metropoli il centro dei loro progetti estetici. La Bohème è sia un posto sia uno stato della mente. E queste due cose si rafforzano l'una con l'altra. Le persone che vivono queste esperienze credono nell'arte per amore dell'arte, riconoscono il primato dell'esperienza, hanno la volontà di fare grandi sacrifici personali per ottenere i risultati voluti. Chi abita in quei posti vive un'avventura collettiva che aumenta la creatività di tutti. Stare in quei posti produce uno stato della mente, un senso di sé. Un giorno una di queste persone mi disse: "Dal momento in cui mi sono trasferito a Wicker Park sono diventato un artista di Chicago". E la stessa cosa si può dire di certe zone di Manhattan e di altri posti che sono diventati dei marchi che identificano le persone che ci vivono".
Come possono i nuovi bohémien essere allo stesso tempo dei ribelli e un ingranaggio fondamentale nello sviluppo della new economy...
"Molti giovani artisti non si identificano con la logica capitalista. Rifiutano i lavori da impiegato nelle grandi aziende perché lo ritengono un insulto alla loro sensibilità di artisti. Vogliono vivere poveri e senza certezze, magari drogarsi e costruire la loro avventura senza legami. Ma si tratta di un'eredità del passato inadeguata al mondo di oggi. Questi giovani vanno alla ricerca della libertà personale e della creatività e poi si trovano incatenati a fare lavori in subappalto per aziende di Internet design, e lavorano 12 ore al giorno per produrre spot pubblicitari della Nike".
Richard Florida sostiene che oggi il successo delle città dipende dalla capacità di attrarre la 'classe creativa'. E i quartieri artistici, con la loro effervescenza e la loro tolleranza, sono un ingrediente fondamentale. Cosa la divide da Florida?
"Non sono altrettanto ottimista. Florida pensa che la classe creativa abbia ampia libertà e grande potere sociale. Credo che sbagli. Secondo me molti di questi artisti restano fregati in questo processo. E con loro, anche molti altri. Florida dice che la classe creativa costituisce il 30 per cento della popolazione. E l'altro 70 per cento? Chi paga il prezzo dei privilegi della classe creativa?".
Chi paga?
"Economia globale non significa solo spostare nel Terzo Mondo le attività produttive che avevano sede a Chicago. Significa anche che nelle fabbriche dismesse oggi lavorano grafici e artisti del web che offrono il loro talento ad aziende come la Nike che così trae beneficio da entrambi i lati: da una parte sfruttando il lavoro a basso costo dei lavoratori del Terzo mondo, e dall'altra quello dei creativi di casa nostra. Mi chiedo quali siano i costi sociali di questo fenomeno. Florida ritiene che la vecchia nozione della proprietà dei mezzi di produzione sia superata perché secondo lui la nuova classe dominante è la classe creativa. Ma io sono scettico sul reale potere sociale di questa classe. Ha grande utilità sociale, ma scarso potere sociale".
Lei oggi dice che le aziende del nuovo capitalismo tendono a incorporare le idee dei giovani artisti alternativi. Un po' come ieri l'industria musicale ha incorporato la musica dei neri...
"Credo di sì. Nel dopoguerra la società americana era diventata ricca ma rischiava di diventare sterile. Gli artisti beat furono i primi a ispirarsi alla cultura nera, in particolare al jazz, vedendolo come un'espressione culturale genuina. Nel 1950 Norman Mailer scrisse un articolo intitolato 'White Negro', negro bianco, per descrivere come gli intellettuali bianchi, per avere successo, dovevano ispirarsi alla cultura dei neri, che proprio perché appartenevano agli strati marginali della società erano liberi di esprimersi in modo istintivo. Oggi le aziende si ispirano ai giovani della nuova Bohème".
Titolo originale: Bursting boom town holds key to a stable China – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
KORLA, CINA – L’aeroplano a elica pieno di uomini d’affari plana su questa un tempo sonnolenta città-oasi nell’estremo ovest della Cina, volando basso sulla spettacolare catena delle montagne Tian Shan, ora coperte di neve.
Nel minuscolo, primitivo aeroporto, dove si deve aspettare all’aperto nel freddo pungente per i bagagli, un cartellone sopra lo scassato terminal annuncia chiaramente che qualcosa è cambiato: dice “ Hotel Petrolio”, in cinese, inglese, e nella grafia araba usata dalla minoranza regionale etnica Uighur.
Di notte, le fiamme dai nuovi campi petroliferi accendono l’orizzonte lungo strade desolate che si diramano in ogni direzione da questa città sui margini di uno dei più vasti deserti del mondo, il Taklimakan.
Di giorno, i treni scaricano passeggeri: i nuovi arrivati migranti cinesi dalle affollate campagne dell’est, o nella stagione dei raccolti i lavoratori giornalieri a decine di migliaia, per raccogliere il cotone e la frutta che cresce nelle distese di proprietà dei grandi investitori della costa orientale.
Queste brulicanti “ insta-cities” sono piuttosto comuni sulla prospera costa orientale. Ma in molti modi quello che sta accadendo a Korla e nelle altre città simili nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uighur è molto più impressionante. E a un livello che pochi sospettano la nell’est, il futuro del paese dipende dal successo qui.
La Cina ha una sete inesauribile di petrolio e gas, e lo Xinjiang li produce entrambi in quantità sempre maggiori. In più, grazie alla vicinanza all’Asia Centrale, la regione è diventata il percorso preferito degli oleodotti dal Kazakhstan e oltre.
Dato che questa è la regione o provincia più vasta della Cina in termini di superficie, abitata dalla principale minoranza di popolazione musulmana, quello che succede in Xinjiang è cruciale per la futura stabilità del paese. Come per il Tibet a sud, il controllo cinese sullo Xinjiang è piuttosto recente. Molti delle minoranze Uighur e Kazakh aspirano da lungo tempo all’indipendenza.
Pechino ha represso duramente il separatismo e ha vietato le scuole religiose in Xinjiang, per paura che potessero fomentare radicalismo e separatismo islamico. Ma ora, come accade altrove in Cina, il governo sembra scommettere sulla forte crescita economica come il modo migliore per consolidare il proprio controllo.
Le recenti scoperte petrolifere nella regione hanno certamente creato un’atmosfera di fiducia fra politici e mondo degli affari, in gran parte proveniente dall’est. La produzione di gas naturale è raddoppiata negli ultimi cinque anni, e quella di petrolio sta pure crescendo velocemente, in particolare nel vicino bacino del Tarim.
”Questo posto pompa e brilla” racconta Jim Scott, esuberante americano che trascorre la maggior parte dell’anno in Xinjiang, a vendere valvole ad alta pressione e altri macchinari per l’industria estrattiva alle compagnie cinesi. “Ve lo garantisco, qui c’è un boom in corso. Ci sono più trivellazioni e ricerche di quanto possiate immaginare”.
Oltre agli stranieri del petrolio, l’esplosione estrattiva sta attirando migliaia di imprenditori cinesi dalle città costiere, come Shanghai.
Alcuni arrivano già ricchi, pronti a investire. Altri, come Qian Bolun, 36 anni, che abita qui da 15, cercava fortuna a Korla quando era poco più di un villaggio polveroso.
Un tempo il livello di affari auspicato da Qian era passare da bevande per un quinto di yuan (15 cents), a quelle da uno yuan. Ora tratta esclusivamente prodotti come generatori industriali, trattori, attrezzature per l’estrazione.
La nuova economia del petrolio ha lasciato il segno dappertutto a Korla, dai grandi magazzini e centri commerciali allineati lungo l’ampia via del centro, fino al grande quartiere dei locali notturni immerso nella luce dei neon dopo il tramonto.
Ora la città ha 420.000 abitanti, e cresce di 20.000 all’anno.
Con tutti questi successi economici, i problemi con le minoranze a Korla non sono stati risolti, ma semplicemente accantonati. Lungo le strade del quartiere centrale, i negozi gestiti da Uighur sono una rarità, e gli stessi Uighur in giro sono pochi. Al di là del fiume che taglia la città in due, tra parte vecchia e nuova, la proporzione si inverte.
”Gli Uighur di solito non tengono una vetrina. Affittano uno spazio d’angolo” dice Hao Lin, 32 anni, commerciante di personal computer in un nuovo centro commerciale specializzato in informatica. “I loro clienti sono Uighur. Molto pochi di loro fanno affari con la compagnia petrolifera Tarim. Quelli li fanno gli Han”, ovvero membri, come lui, del principale gruppo etnico cinese.
In una bottega di barbiere al di là del fiume rispetto al centro città, tre uomini Uighur siedono davanti a una stufa a carbone.
”Ho studiato all’università di Urumqi” la capitale provinciale “per tre anni, ingegneria meccanica” dice il barbiere Uighur, Yasen Keyimu, 25anni, “ma non riesco a trovare un lavoro nell’industria petrolifera. Tanta formazione superiore, e non trovo lavoro”.
La metropoli di ieri che contiene quella di domani, è la sua filosofia, l'assunto per dare un futuro vivibile al nostro passato. Pier Luigi Cervellati ha legato il suo nome a grandi progetti di recupero dei centri storici e dedicato la vita a salvare l'anima alle città per una modernità non da perseguire, ma da proiettare culturalmente.
Una giustizia senza debolezza. È questa la soluzione per arginare la rivolta delle banlieues parigine?
La giustizia, che non deve essere né forte né debole, ma solo giustizia, dev'essere fatta nei confronti degli emarginati. Violenza è la stessa banlieue. L'unica soluzione è eliminare il degrado, l'emarginazione, invece si continua a produrre periferie anche nei centri.
Quali invece le cause di disagio delle città italiane?
La perdita del senso della città intesa come bene comune, la massiccia privatizzazione di ciò che apparteneva alla comunità. Cattive amministrazioni locali, pessimi indirizzi statali, fameliche speculazioni, immobiliaristi che si arricchiscono producendo periferia e piani regolatori sbagliati hanno finito per omogenizzare i centri urbani. Siamo uno dei paesi con il maggior numero di case in proprietà. Le strade un tempo luogo di convivenza sono occupate da auto in sosta o in movimento. I luoghi pubblici sono scarsi e in genere lontani, squallidi.
E allora in che modo si possono fare interventi seri con l'edilizia?
In realtà bisognerebbe per almeno un decennio non produrre edilizia, ma recuperare, riqualificare.
Nelle città italiane esiste un disegno urbanistico complessivo?
No purtroppo. E la legge cosiddetta “Merli” [evidentemente Lupi - es] discussa da un ramo del parlamento, senza troppa opposizione, è una tale catastrofe da far temere che se sarà approvata, l'urbanistica italiana sarà materia solo di storia del recente passato.
Qualità dell'architettura e condono. Sarebbe interessante capire la relazione considerato che si profila il terzo condono edilizio in 18 anni.
La bella architettura è un miserabile paravento. Quando non si ha un'idea del futuro della città si ricorre alla bella architettura. Quando si vuol far passare indenne un nuovo condono edilizio, si ricorre al concorso di bella architettura. Chissà perché non si parla mai di città bella, perché non si parla di città. Di che significato, oggi, attribuiamo a questo termine. Eppure siamo in una fase cruciale per il futuro dei centri urbani per il nostro stesso avvenire.
Priva di zone d'espansione, Cagliari vede riempito con il cemento ogni suo spazio. Parcheggi multipiano, centri commerciali, zone residenziali. Quale futuro?
Cagliari ha rinunciato (o non ha saputo o voluto) alla costruzione della città metropolitana. Eppure era avvantaggiata dalla separazione di alcuni comuni che erano stati incorporati nei primi decenni del Novecento. Le cause sono molte. Il Comune maggiore non vuole raccordarsi con quelli minori che ha trattato per decenni come discariche. Sarebbe indispensabile pianificare - e Cagliari potrebbe diventare un esempio straordinario - la città di città. Città metropolitana non significa “grande città” bensì, città mad re . Ma il capoluogo stenta a decentrare quello che ritiene la sua forza, il suo potere, economico soprattutto, e così paga il prezzo della congestione. Produce solo periferia e non capisce che sta diventando essa stessa banlieue. La città di città richiede saggezza amministrativa, volontà pianificatoria, capacità di coordinarsi nell'interesse comune, nel bene della collettività. La perdita di abitanti che si sta registrando nel centro costituisce la premessa per accentuare la perdita del senso di città. Il centro non può essere scambiato per un super mercato con parcheggi, così operando, Cagliari, come luogo di convivenza civile, non esisterà più. Ma non diventerà neanche un centro direzionale e commerciale importante, ma solo uno dei tanti luoghi sparsi nel mondo soffocato dalla periferia. Il capoluogo sardo nell'ultimo decennio ha perduto la sua identità, la sua anima. Ci dobbiamo chiedere: in cambio di cosa?
Non è facile descrivere la vulnerabilità del territorio italiano, meglio di quanto lo faccia l'immagine di quel vagone sospeso nel vuoto. Essa spiega molte cose.
Ci dice che, le piogge concentrate e dalle conseguenze sempre più disastrose, (in una settimana piove quanto in un intero anno) sono figlie di un cambiamento climatico che nessuno sembra voler seriamente affrontare.
Ma quell'immagine non ci racconta solo di ritardi ed inadempienze, evidenzia anche colpe e responsabilità: di tante infrastrutture costruite in aree a rischio o di interi territori incapaci di assorbire le piogge perché ricoperti di cemento ed asfalto.
E più quella foto la si guarda e più ci dice che la riduzione e la prevenzione del rischio nel quale viviamo è una priorità assoluta di un programma di governo. Farne però una priorità non significa definire un elenco di opere, di appalti o soldi da distribuire, ma prendere un insieme di decisioni che affermino che sono finiti gli usi speculativi ed abusivi del territorio, per lasciare il posto a quelli sostenibili.
Nel corso di questi anni questo giornale ha più volte ripetuto che la principale opera pubblica da fare, in questo paese, è un piano di riassetto idrogeologico.
Quel treno sospeso nel vuoto rappresenta con forza l'Italia che ci lascia Berlusconi.
Non basterà però cacciarlo, per avere un territorio più sicuro, se il governo che gli succederà non saprà affermare una nuova cultura della terra e delle acque. Una cultura fatta di tre ingredienti: conoscenza (elaborare in un anno una carta geologica a scala 1:5000 che fornisca una mappa vera del rischio) di prevenzione (misure di salvaguardia, vincoli, delocalizzazioni e revisione delle concessioni) e di manutenzione diffusa della terra e delle acque (piani di rimboschimento, lotta agli incendi, demolizioni delle case abusive).
Una cultura che per affermarsi ha però bisogno di una moratoria o almeno un ripensamento concreto delle decisioni prese di ulteriore infrastrutturazione pesante del paese (come ad esempio le nuove autostrade, il Mose, il ponte sullo stretto).
Speriamo, che la fortuna e la bravura dei macchinisti, che hanno fermato quel treno sull'orlo del baratro, facciano capire a Romano Prodi che il declino di questo paese può essere fermato e che il riassetto idrogeologico del territorio è il patto con gli italiani che s'impegna a sottoscrivere.
Titolo originale: Chicago’s “Mayor for Life” seems less so - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
CHICAGO – il sindaco Richard M. Daley stava spiegando il superamento per 48 milioni di dollari del costo di un terminal all’Aeroporto Internazionale O’Hare quando un frequentatore regolare delle sue conferenze stampa ha chiesto se, fra cinque o dieci anni, presenterà scuse del genere per il fatto che il suo ampliamento dell’aeroporto da 15 miliardi ha sforato il preventivo.
“Sarò ancora qui, fra cinque o dieci anni?” l’ha interrotto Daley, cercando di sfuggire alla questione con un sussulto di sorpresa. “Grazie!”
Nel passato, nessuno avrebbe messo in dubbio la longevità di Daley, un Democratico i cui incredibili margini di vantaggio in quattro rielezioni gli hanno fatto ereditare il titolo originariamente appartenente a suo padre, il leggendario boss politico Richard J. Daley: Sindaco a Vita. Le cose sono cambiate quest’anno con l’esplodere di un enorme scandalo di corruzione su consulenze e contratti che ha portato a 30 incriminazioni, una dozzina di dimissioni dal gabinetto del sindaco, e all’interrogatorio dello stesso Daley dai magistrati federali.
Ora, anche se Daley continua ad essere celebrato a livello nazionale come il miglior primo cittadino degli Stati Uniti – audace e visionario costruttore che ha rivitalizzato il centro e rinnovato le scuole pubbliche – si trova di fronte a un’opposizione senza precedenti in un Consiglio che controllava da lungo tempo, e potrebbe trovarsi di fronte il primo serio sfidante alle elezioni da quando è entrato in carica.
Burbero e sarcastico, propenso alle gaffes, il sessantatreenne Daley in quest’ultimo difficile anno è pubblicamente scoppiato in lacrime e di rabbia, ma si scrolla di dosso qualunque traccia degli scandali quando afferma in una intervista recente “Si va avanti, non si può vivere nel passato”.
Così continua a parlare della sua passione di sempre, l’istruzione, o della nuova ossessione, la concorrenza della Cina. Ha festeggiato il trionfo nelle World Series dei suoi amati White Sox. E attraversando le strade dei più remoti quartieri della terza più grande città d’America, prende nota di lampioni rotti, fioriere vuote e recinzioni da riparare, assicurandosi poi personalmente che venga fatto.
Ma la corruzione è stata l’oggetto della prima domanda – cambierà la sua agenda? – dopo un discorso a un gruppo organizzato. La nomina di tre nuovi commissari lo scorso mese è stata oscurata dalle voci secondo cui c’erano problemi nell’attirare competenze al Municipio. Durante il suo ultimo discorso alla presentazione del bilancio annuale, c’erano manifestanti all’ingresso con cartelli che dicevano “Soldi per la gente, non per gli scandali”.
“Il suo guaio principale è col governo federale” dice John Callaway, osservatore di lunga data della politica cittadina ed ex conduttore di un programma di questioni pubbliche, “ Chicago Tonight”. “Chi sono le persone di grado più elevato sinora incriminate o sentite? Cosa diranno di quanto sapeva il sindaco, mentre lui dice di non sapere?”
I magistrati hanno dipinto un quadro di “frode pervasiva” nelle nomine, dicendo che la città sistematicamente ha violato le ordinanze della corte federale contro i favoritismi utilizzando criteri politici anziché di merito, come base per selezionare i candidati a incarichi pubblici. Il sindaco insiste di non essersi mai interessato di nomine, avendo spostato a un ufficio apposito tutte le decisioni sul personale, nominando anche un controllore interno con un grasso bilancio.
Il deputato Jesse Jackson Jr., figlio dell’altro famoso uomo politico cittadino e principale candidato alla carica di sindaco per il 2007, ha detto che secondo un sondaggio commissionato in novembre gli elettori si sentivano offesi dallo scandalo, ma che avevano ancora un elevato giudizio del sindaco.
“Cambiare il sindaco è come cambiare Chicago,” dice Jackson. “Tanta gente non vuole la corruzione, ma non vuole nemmeno cambiare la città”.
Chicago ha avuto un Sindaco Daley per tutti gli ultimi 50 anni, tranne 13: Richard Primo, come chiamano ora il padre, dal 1955 sino alla morte nel 1976, e “Little Richie,” il figlio maggiore, dal 1989. Richard M. firma documenti e posa per le foto dietro l’enorme scrivania di legno che fu di suo padre (e un ritratto di Richard J. guarda sul lungo tavolo riunioni dove il sindaco svolge gran parte del lavoro quotidiano, senza giacca).
Ex eletto all’assemblea statale e procuratore, Daley è stato allevato per questo incarico, e non aspira ad altro.
“Non vuole diventare governatore, senatore, presidente, vice presidente, membro di gabinetto, niente di tutto questo” dice suo fratello William Daley, segretario al commercio durante la presidenza di Bill Clinton e ora vicepresidente della banca Chase. “Il suo interesse è totalmente su una unica cosa: la città”.
Cattolico di origine irlandese, il sindaco non beve più caffè dall’anno scorso come fioretto di quaresima, sostituito da tè verde a colazione, succhi di frutta durante la giornata. Non guida una macchina da un quarto di secolo, ma percorre spesso le strade della città in bicicletta. È da poco nonno, e suo figlio è entrato da poco nell’Esercito; un altro figlio è morto di spina bifida a due anni.
Sostenuto da un’economia dei servizi in forte crescita e parallela caduta della criminalità negli anni ‘90, Daley ha guidato la rinascita di questa ex capitale industriale sulle coste del Lago Michigan, invertendo la perdita di popolazione con grossi investimenti nei quartieri più vicini al centro terziario, di cui è fra i 70.000 residenti con la moglie, fra gli edifici sviluppati in altezza e i lofts che sbocciano come fiori. Gioiello della corona, qui, il Millennium Park, pezzo da 475 milioni di dollari, esposizione di architetture e sculture che, nonostante il ritardo di quattro anni nell’inaugurazione e il costo doppio del preventivo, ha entusiasmato turisti, residenti e critici d’arte.
Nel 1995, Daley si è impossessato del controllo del consiglio scolastico, primo di molti altri sindaci di grandi città che l’hanno seguito. Ha pompato 4 miliardi dentro al sistema per realizzare 38 nuovi edifici, ha esteso i programmi pre-scolastici, post-scolastici ed estivi, portando a un costante aumento nei livelli standard di valutazione, che restano comunque bassi.
“Per quanto riguarda le scuole pubbliche, è stato davvero il nostro Mosé” dice J. Thomas Cochran, direttore della U.S. Conference of Mayors. “Con Daley abbiamo avuto due anni di valutazioni 101, 102, 103 e 104 delle scuole pubbliche. Dieci anni fa non ne parlavamo, ma lui ci ha insegnato che se non si fanno funzionare le scuole la gente abbandona le città”.
Lo stesso Daley afferma che “la priorità centrale di questa amministrazione, una e unica, sono le scuole pubbliche”.
L’eredità forse più tangibile di Daley è l’aspetto esteriore di Chicago, sia nei luccicanti quartieri centrali che nei numerosi quartieri popolari un tempo famigeratamente degradati. Da quando è entrato in carica, nella città si sono piantati 400.000 alberi, si sono aggiunti spazi verdi per 80 ettari, e realizzate fasce verdi stradali che si estendono per 110 chilometri. In primavera i viali sono tappezzati da migliaia di tulipani colorati, i fiori preferiti dalla moglie.
Fra le principali differenze col Sindaco Daley Primo, ci sono i profondi rapporti che ha saputo sviluppare con le minoranze, in una città i cui 2,9 milioni di abitanti sono per il 36% afroamericani, 31% bianchi, 26% ispanici. Eletto la prima volta col solo 2% del voto nero, ora ha il consenso di almeno il 25% dei neri, e ha evitato una vera opposizione, in questa città di tribù politiche etniche, almeno in parte investendo nei quartieri delle minoranze.
Ma Jackson dice che la Chicago di Daley è stata “la storia di due città” il centro brillante sul lungolago o i quartieri settentrionali che vantano “tre posti di lavoro per ogni persona”, e le parti meridionali (rappresentate da Jackson) “dove ci sono più o meno sessanta persone ogni posto di lavoro”.
I dissidenti, che di solito erano zittiti rapidamente, sull’onda degli scandali hanno iniziato a trovare seguito in Consiglio. Questo mese è stata approvata un’ordinanza che vieta il fumo nei ristoranti, a cui si opponevano il sindaco e i suoi sostenitori nel mondo degli affari.
Una proposta per introdurre contratti di privatizzazione è stata oggetto di numerose riunioni quest’estate, e sarà portata al voto probabilmente molto presto. Nelle assemblee sul bilancio, i membri del consiglio sono stati molto più critici di quanto non si ricordi sia mai accaduto prima, nei confronti sia del sindaco che dei suoi capi dipartimento.
Anche se sono stati i titoli di prima pagina di quest’anno sullo scandalo corruzione ad aver intaccato maggiormente il capitale politico di Daley, il punto di svolta è collocabile poco dopo la sua rielezione nel 2003 quando, nel cuore della notte, con decisione unilaterale chiuse Meigs Field, il piccolo aeroporto del centro città, mandando le ruspe a tagliare delle grandi X sulla pista.
Daley parlò di problemi di sicurezza legati agli attacchi terroristici del 2001, ma molti videro solo una mossa dittatoriale per realizzare il sogno a lungo coltivato di trasformare quell’aeroporto, vicino a casa sua, in un parco sul lungolago.
“La gente diceva lo so che è arrogante, lo so che ha troppo potere, lo so che non ha opposizione politica” ricorda Callaway, analista politico di lunga data, “ma è il modo in cui ha chiuso Meigs Field, credo, che ha spezzato la fiducia di molte persone”.
Secondo Callaway, Daley e suo padre condividono una grande debolezza: “non si fidano davvero di nessuno”. Ecco perché, dice, nessuno dei Daley ha fatto niente per allevarsi un successore.
Invece, Richard il Giovane ha iniziato ancora una raccolta di fondi e nominato un nuovo responsabile del comitato per la sua campagna.
Quando gli hanno chiesto se avrebbe concorso per un sesto mandato - e quindi a una durata superiore a quella di suo padre - Daley ha risposto “Il giorno in cui sarò stanco, mi ritirerò”.
Titolo originale:In Zimbabwe, Mugabe razes more than slums – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BULAWAYO, Zimbabwe – il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe ha una parole per definire le notizie secondo cui l’operazione Drive Out Trash, campagna di demolizioni urbane mirata agli slum che il suo governo descrive come programma di miglioramento civico, abbia fatto dei cittadini più poveri dei senza casa.
”Sciocchezze” ha dichiarato alla ABC News in un’intervista trasmessa negli Stati Uniti il 3 novembre. “Migliaia, migliaia, migliaia. Dove sono queste migliaia? Andate là adesso e guardate se ci sono queste migliaia. Dove sono? Uno scherzo dell’immaginazione”.
Forse Mugabe non è stato a Bulawayo, la seconda città dello Zimbabwe, ultimamente.
Solo cinque chilometri a ovest del centro di Bulawayo, Robson Tembo e sua moglie, Ticole, vivono all’aria aperta in un piccolo recinto, 3,5x3,5 metri, fatto di pezzi di legno e rottami. File di sacchetti della spesa di plastica contengono la storia completa dei loro 72 anni.
Otto chilometri a nord, Nokuthula Dube, 22 anni, le sue due figlie e due piccoli parenti orfani se ne stanno accovacciati in una casa di due stanze non terminata fratta di cemento scadente. Quando di recente c’è andato un giornalista, c’era una sconosciuta rannicchiata sul pavimento dell’unico sgabuzzino, addormentata.
Nella parte opposta della città, Gertrude Moyo, 28 anni, vive coi suoi quattro bambini e sette altre famiglie nelle tende piantate fra i cespugli.
C’è più del solo essere senza casa, a legare queste tre famiglie. Fino a qualche mese fa, vivevano tutti a Killarney, una baraccopoli che ospitava i cittadini meno fortunati di Bulawayo sin dai primi anni ‘80.
Oggi, Killarney è un paesaggio lunare di terra cotta dal sole, sterpaglie e spazzatura bruciacchiata. Nello scorso maggio e giugno, i poliziotti hanno fatto a pezzi le baracche, bruciato quel che rimaneva, e cacciato via i più di 800 abitanti, nel quadro dell’Operazione Drive Out Trash.
”Avevano delle spranghe lunghe così” racconta Robson Tembo della polizia, allargando le mani. “Hanno demolito parzialmente tutte le capanne, e poi ci hanno ordinato di distruggere il resto”.
Dice di aver rifiutato, e che allora il lavoro è stato finito dalla polizia, che ha raso al suolo le sue due stanze fatte di pali di legno e pareti di metallo.
A più di cinque mesi dall’inizio delle demolizioni, il governo dello Zimbabwe insiste nell’affermare che la distruzione di 133.000 alloggi, secondo i suoi calcoli, è stata un’operazione di slum-clearance che era necessaria da lungo tempo, e che ha causato ai cittadini solo disagi temporanei.
Il governo sostiene che la gran massa di chi è stato privato dell’alloggio è stata trasferita verso i villaggi rurali dove viveva prima di migrare verso le città, soprattutto alla ricerca di lavoro. Altri, afferma, saranno collocati nelle migliaia di nuove case in corso di costruzione per sostituire le capanne illegali rase al suolo.
Mugabe ha respinto il tentativo delle Nazioni Unite di raccogliere 30 milioni di dollari per aiutare le vittime dell’Operazione Drive Out Trash, affermando che in Zimbabwe non c’è nessuna crisi. Nonostante l’appello pubblico del Segretario Generale ONU Kofi Annan, il 31 ottobre, il governo ha respinto qualunque sostegno che implichi propri cittadini in stato di disagio.
E pure molti lo sono, in stato di grave disagio. Sulla base delle stime del governo dello Zimbabwe, le Nazioni Unite affermano che sono state sgombrate 700.000 persone nel corso delle demolizioni di maggio e giugno, e della successiva campagna, Operazione Going Forward, No Turning Back, quando la polizia ha respinto quanti cercavano di ritornare verso le città e ricostruire.
Un’indagine di agosto su più di 23.000 famiglie dello Zimbabwe condotta da un gruppo di sostegno del Sud Africa, ActionAid International, calcola le persone private di abitazione sino a 1,2 milioni: più di uno su dieci Zimbabweani.
Dove siano finiti molti è un mistero. Il governo ne ha trasportati migliaia in campi di raccolta che poi sono stati smistati, e altre migliaia su camion sino all’aperta campagna, dove sono stati lasciati, apparentemente nei pressi delle loro abitazioni rurali. Si tratta di persone registrate dalle autorità locali, ma quasi certamente sono solo di una piccola parte del totale.
E allora, dove sono i senza casa?
“Questa è ciò che definisco una crisi umanitaria invisibile: invisibile agli occhi internazionali, e il motivo è che gli sgomberati sono stati dispersi” dice David Mwaniki, coordinatore di ActionAid in Zimbabwe.
Molti sono probabilmente con dei parenti; alcuni hanno lasciato il paese.
Altri sono nella savana, e sopravvivono della pietà dei vicini. Molti altri sono svaniti dentro a qualche catapecchia, tenda o casa costruita a metà.
Le Nazioni Unite affermano che 32.000 dei 675.000 abitanti di Bulawayo hanno perso la loro casa, ed è stato loro ordinato di andarsene dalla città durante la campagne di demolizione; i funzionari locali pubblici parlano di 45.000. Torden Moyo, che dirige un coordinamento di gruppi civici chiamato Bulawayo Agenda, sostiene che non ci sono dubbi su dove siano andati.
”Il novantanove per cento ora è tornato” dice. “Sono ancora nei guai, ancora senza casa, ancora senza un centesimo, senza un posto dove stare. Sono stati trasformati in profughi nel loro stesso paese”.
Killarney è la prova di tutto questo. Prima delle demolizioni, era povera sino all’osso ma viva, divisa in tre villaggi con negozi e servizi. Tutto questo è stato raso al suolo e bruciato. A nord-est della città, non lontano dalla strada per l’aeroporto di Bulawayo, ci sono una decina di piante di granturco e qualche vegetale che cresce in un orto improvvisato fuori dalla casa non terminata dove stanno Dube e la sua famiglia, ma cinque di loro sopravvivono con la farina donata da una vicina chiesa
Dube è tornata dalla scuola del nipote un giorno in giugno, e ha trovato la sua casa al Villaggio Uno di Killarney distrutta e in fiamme. Senza casa e incinta, ha perso il suo lavoro di donna delle pulizie in un vicino sobborgo. Suo marito, Nomen Moyo, ha dovuto andarsene per mantenere il lavoro di giardiniere. Dube racconta che lei e i bambini hanno camminato per settimane, dormendo sul ciglio della strada, prima di trovare il guscio dove vivono ora.
Ha settembre, Dube ha partorito una bambina, Mtokhozisi. Ha lasciato soli la figlia di tre anni, Nomathembe, e i due orfani, Pentronella di dieci e Kevin di quattordici, durante il parto in ospedale. Poi è tornata a casa a piedi con la neonata.
”Sono uscita al mattino” racconta “e tornata verso le 3”.
Qualche settimana fa è comparso un uomo.
“Voleva che ce ne andassimo” dice. “Sostiene che questa è la sua casa”.
Se le chiedete dove andranno risponde “Solo Dio lo sa”.
Dall’altra parte della città Moyo, che abitava da 23 anni a Killarney quando è stato sgombrata l’11 giugno, ora vive in una tenda tre metri per cinque coi suoi quattro bambini. Il marito è morto un anno fa. Dice che la polizia prima ha trasportato la famiglia in un campo di raccolta temporanea per senza casa, poi alla tenda. Moyo racconta che le hanno detto di aspettare per una nuova casa.
Il governo sta costruendo una schiera di case di fianco alla tenda, e si dice che siano per chi ha perso l’alloggio per le demolizioni. Moyo dice però che la polizia le detto che la sua famiglia non avrà una nuova casa, ma un pezzo di terra agricola a nord della città.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello Internationale Herald Tribune (f.b.)
Titolo originale: Can New Orleans survive its rebirth? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
NEW ORLEANS – L’ottimismo scarseggia da queste parti. E mentre la gente inizia a frugare nelle distruzioni lasciate dall’urgano Katrina, si insinua la sensazione che il colpo finale debba ancora arrivare, e che cancellerà irrevocabilmente il passato della città.
Il primo segno premonitore è comparso quando il sindaco C. Ray Nagin ha annunciato che il modello per la rinascita sarebbe stato quello dell’insediamento pseudo-suburbano chiamato River Garden, nel Lower Garden District. La sola idea ha allarmato i conservazionisti, che temono il rifacimento dei quartieri storici in forma di lottizzazioni senza carattere servite da negozi big-box.
Più di recente, Nagin ha preso in considerazione la possibilità di sospendere le norme di tutela storica, per rendere New Orleans più invitante per i costruttori: evocando così la possibilità di devastazioni architettoniche e avidità senza limiti.
Ma non sono solo politici e costruttori ad avere colpe, qui. Per decenni la mainstream architettonica ha accettato il presupposto che le città possano esistere in un punto fisso del tempo storico. Ne risulta una versione fiabesca della storia, le cui conseguenze potrebbero essere particolarmente gravi per New Orleans, che era già sulla buona strada per diventare un’immagine da cartoline del proprio passato anche prima che l’uragano colpisse.
Ora, con la città nelle condizioni più vulnerabili, queste voci minacciano di sovrastare tutte le altre. Un dibattito sulla ricostruzione della Costa del Golfo tenuto di recente in Mississippi [vedi link su Eddyburg a pie’ di pagina n.d.T.] è stato dominato dai sostenitori del New Urbanism, che esprime una visione sentimentale e storicista del funzionamento delle città. Nel frattempo chi sostiene una lettura più complessa della storia urbana – ovvero che comprenda la realtà del XX e XXI secolo oltre al fascino di New Orleans del XIX – rischia di essere relegata ai margini.
Il destino che minaccia la città si può verificare a River Garden, il modello futuro preferito dal sindaco. Poche settimane dopo la tempesta, ho attraversato la zona insieme a Wayne Troyer, architetto del luogo che si oppone alla visione del sindaco. Per suggerire alcune caratteristiche da quartiere tradizionale di New Orleans, qui le case sono progettate secondo una miscela di stili. C’è una fila di edifici a schiera su Laurel Street, con le ringhiere di ferro battuto che riprendono molto liberamente quelle del Quartiere Francese. Poco lontano, edifici bifamiliari un po’ più grandi sono modellati sui bungalows tradizionali, con tetti puntuti, portici poco profondi e finestre con persiane decorate a graziose tonalità di rosa, giallo, e azzurro.
Si vedono tutti i segni caratteristici di una lottizzazione suburbana convenzionale. I fili del telefono sono invisibili, sepolti, e le case un po’ più distanti una dall’altra delle loro corrispondenti nella New Orleans vera, per lasciar spazio all’ingresso pavimentato per l’auto. La maggior distanza vorrebbe offrire privacy ma fa pensare invece a diffidenza; il percorso per l’auto tiene la gente lontana dalla strada, e coltiva il senso di isolamento. L’indizio più evidente del fatto che siamo entrati in un ambiente surreale, è la vista di carrelli della spesa vuoti in mezzo ai prati. Vengono dal vicino Wal-Mart, che ha da tempo rimpiazzato i negozi locali in tutti gli Stati Uniti. Al giorno d’oggi, gli ubiqui scatoloni e insegne bianco-blu di Wal-Mart rappresentano la nostra ritirata dentro a un mondo sigillato e omogeneizzato.
Quello che manca del tutto, da River Garden, sono naturalmente i dettagli sottili della vita quotidiana, che si costruiscono nei decenni, e che pure quel quartiere afferma di avere.
A parere di Troyer, l’evidenza più visibile è tutto quel che rimane: cinque solidi edifici di mattoni, unica traccia del quartiere di case popolari St. Thomas Hope, costruito nei primi anni ‘40. Le forme semplici, sormontate da tetti in tegole piatte, rappresentano esattamente il tipo di edilizia pubblica disprezzato dai funzionari pubblici ai nostri giorni.
Ma per Troyer e molti altri architetti della sua generazione, le semplici strutture a tre piani, attorno a una piccola core centrale, hanno dimensioni umane che le distinguono dai grossi interventi. Anche coi propri difetti, riflettono un patto sociale – la promessa di una casa decorosa a basso costo per ogni cittadino – infranto molto tempo fa, e che molto probabilmente non sarà certo ricomposto dalla gentrification urbana.
E River Garden non rappresenta ancora lo scenario peggiore. Guidando lungo il canale industriale qualche giorno dopo, sono arrivato a Abundance Square, un quartiere residenziale per famiglie a redditi misti. Le strade nude del quartiere incrostate di fango sono fiancheggiate da abitazioni che vorrebbero evocare l’immagine di una comunità tradizionale. Ma qui, il risultato è una formula genericamente suburbana: case col medesimo aspetto a scatola, regolarmente separate dagli accessi per le auto, prati vuoti e un sistema di vie privatizzate.
L’argomento a favore di quartieri del genere, naturalmente, sarebbe che New Orleans deve essere ricostruita in fretta, e la formula delle case standardizzate è meglio di niente. È l’argomento delle aspettative troppo modeste, che serve gli interessi dei costruttori e priva la città di tutta la sua vita.
Il presupposto è che l’unica alternativa sarebbe quella di non far niente. Ma in realtà, il modo in cui gli architetti pensano alle città si è evoluto per un certo periodo di tempo; la questione è se la città voglia attingere alle risorse intellettuali che ha a disposizione. Stephanie Bruno, per esempio, dirige il progetto Comeback del Preservation Resource Center. Negli ultimi dieci anni il centro ha restaurato case di architettura vernacolare locale del XIX secolo dette shotgun e bungalows creoli nei quartieri più poveri della città. L’intero programma, rara miscela di conservazione e prospettiva sociale, era parte di una strategia più ampia per far risorgere le zone più povere. Legando continuità storica e orgoglio di appartenenza locale, dimostra che la rivitalizzazione urbana non può essere ridotta a formule ottuse.
Appena a su della St. Claude Avenue, nella Ninth Ward,molte delle abitazioni restaurate appaiono relativamente intatte dalla strada, anche se sono fortemente danneggiate all’interno. Comunque, molte possono ancora essere salvate, dato che sono costruite in acero, un legno duro che di solito resta intatto anche dopo le inondazioni.
Sarà un lavoro difficile, individuare cosa possa essere restaurato. Richiederà il tipo di sostegno pubblico che è diventato una rarità, in un paese che tende a mettere sullo stesso piano interessi privati e benessere collettivo. Quello che la signora Bruno e altri temono di più, è che queste case siano semplicemente spazzate via con le ruspe, come espediente per far spazio a insediamenti di grossa scala come Abundance Square (dopotutto, perché costruire una casa o due quando si può spazzar via un intero quartiere, ricostruirlo, e ammassare profitti enormi?)
Anche se si salveranno molte delle umili case shotgun della signora Bruno, i paesaggi urbani del XX secolo molto probabilmente troveranno pochi difensori. Realizzata nel catino a basso livello, la zona di Mid City simboleggia l’abbraccio della modernità. La sua mescolanza di bungalows in stile California case tardo-vittoriane, ora seriamente danneggiate, ha più elementi in comune con gli sterminati paesaggi di Los Angeles che con le immagini romantiche delle radici europee della città. E come tale, probabilmente sarà ignorata dai custodi locali del passato architettonico.
Solo per ritenere, magari, che gli stili storici rigidamente compartimentati della città possano essere riproposti entro quartieri interamente ricostruiti, sostenendo così una versione del passato in forma di parco a tema.
Senza dubbio grandi parti di New Orleans dovranno essere ricostruite dalle fondamenta. Ma i migliori architetti al lavoro, oggi, probabilmente guarderanno per ispirazione al cavernoso Superdome come alle spirali della Cattedrale di St. Louis. Perché comprendono come le innovazioni della città nel XX secolo – dai bungalows ai canali alle freeways – sono parte integrale della sua identità, tanto quanto l’architettura vernacolare del XIX.
Questo ci lascia meglio attrezzati ad affrontare le questioni della New Orleans del XXI secolo. Passato e futuro devono imparare a vivere insieme.
Nota: il testo originale ripreso dal sito dello International Herald Tribune; l’approccio dei Nuovi Urbanisti citato implicitamente più volte, qui su Eddyburg nell’articolo ripreso da New Urban News (f.b.)
Il centro-sinistra si sta spaccando le ossa sulla Tav Torino-Lione prima ancora di essere messo alla prova come maggioranza di un futuro governo. È quasi una beffa. La Tav Torino-Lione non si farà mai. È un’opera quattro volte più costosa del famigerato ponte sullo stretto di Messina; quattro volte più inutile quanto a volumi di traffico previsti (che anche artatamente gonfiati a 20milioni di tonnellate/ anno non coprono che la metà della capacità da installare); quattro volte tecnicamente più incerta quanto alla sua effettiva fattibilità tecnica: Il ponte rischia di lasciare dietro di sé solo due giganteschi piloni in cemento armato mozzi, con i ferri che spuntano dalle cime, come nei tanti edifici abusivi in attesa di sopraelevazione costruiti nel Mezzogiorno, senza che in mezzo venga steso nulla.
Quanto alla Tav Torino-Lione, nessuno sa ancora che cosa si troverà sotto quelle montagne; si sa comunque che la principale società di perforazione del mondo si è ritirata dall’affare - verosimilmente per le difficoltà incontrate - lasciando il suo posto alla Rocksoil del ministro Lunardi, debitamente nascosta dietro una catena di subappalti.
I costi della sicurezza
Non ho competenze per valutare i rischi connessi alla presenza di amianto e uranio nelle montagne da perforare; posso anche ammettere che esistano e si possano attivare a costi abbordabili interventi di contenimento del rischio (ma qui parlare di costi significa comunque mettere in gioco una montagna quasi inimmaginabile di denaro). Ma per un’opera che promette di trasformare un’intera valle - già dissestata da una viabilità quasi esclusivamente di transito (cioè senza ricadute economiche o sociali di qualche peso) ñ in un cantiere della durata programmata di oltre 13-15 anni, destinati verosimilmente, sulla base di tutte le esperienze pregresse, a raddoppiare, e per il quale si prevede di scaricare sul fondo valle diversi milioni di tonnellate di detriti inquinati e inquinanti, una verifica seria sulle alternative praticabili con interventi meno pesanti sarebbe stata doverosa.
Molti esperti, compreso il presidente delle Ferrovie dello Stato, fautore del progetto, ci dicono che questa alternativa non solo è praticabile, ma è già in parte in corso di realizzazione, e porterà in pochi anni la capacità di trasporto dell’attuale linea Torino-Lione vicino al livello del traffico “previsto” tra venti anni per la Tav Torino-Lione. Ma questa alternativa non è stata inserita nella valutazione di impatto che ha dato il benestare al nuovo progetto; valutazione peraltro mai portata a termine, in violazione della normativa dell’Unione europea, grazie all’esenzione prevista dalla Legge-obiettivo del ministro Lunardi. Ma chi ha detto che il traffico effettivo di merci tra Torino e Lione tra venticinque anni (2030) corrisponderà quello programmato? L’alta velocità Torino-Lione è stata pensata come linea di trasporto passeggeri, e inclusa come tale nel Libro bianco della Commissione europea Crescita, Competitività, Occupazione, noto come Rapporto Delors, che risale al 1994; solo successivamente è stata estesa al trasporto merci come tratta del corridoio 5, trasformandola in una cosiddetta “autostrada ferroviaria”: cioè una tratta lungo la quale i tir in transito sullo stesso itinerario dovrebbero essere caricati su vagoni (in uno scalo ancora da definire, prossimo a Torino), per poi esserne scaricati una volta superata la tratta alpina francese; o viceversa.
Una soluzione che dal 2016 sarà obbligatoria per tutti i tir in transito attraverso la Svizzera, indotta a questa soluzione dal fatto che prima e dopo l’attraversamento del suo territorio, cioè in Francia, Germania e soprattutto in Italia, i tir che effettuano trasporti anche di lunga percorrenza sono liberi di circolare ovunque.
E i tir scorrazzano liberi
L’impossibilità di adottare la stessa soluzione lungo l’attuale tratta ferroviaria, anche rimodernata, è la principale ragione addotta per giustificare l’opera. Ma caricare i tir su una singola tratta, quando sono liberi di scorrazzare nel resto del paese, non ha ovviamente lo stesso significato che proibirne o limitarne il transito di lunga percorrenza su tutto il territorio nazionale. E se limitazioni del genere fossero introdotte anche in Italia, il concetto stesso di autostrada ferroviaria non avrebbe più alcun senso. Che cosa c’entri poi l’alta velocità - che fa guadagnare al massimo due o tre ore lungo il percorso, ma che ne impiega molte di più nelle operazioni di carico e scarico dei tir con il trasporto pesante di merci, nessuno lo ha ancora spiegato. Ma anche il cosiddetto corridoio 5 Lisbona- Kiev è puramente virtuale, non molto diverso dalle linee tracciate con il pennarello da Berlusconi quando illustrava a Bruno Vespa il suo programma. Intanto, tutta la tratta del corridoio a est di Trieste, che potrebbe avere un ruolo fondamentale nel rilancio del suo porto, non è neppure in fase di progettazione, per non parlare del suo finanziamento, non incluso in alcuna previsione budgetaria dell’Unione europea o dei paesi interessati.
In secondo luogo, non esiste alcun traffico di merci pesanti tra Lisbona e Kiev o viceversa. Esiste un intenso traffico in crescita - di merci provenienti dall’estremo o dal medio Oriente, che sbarcano e sbarcheranno sempre più nei porti del Mediterraneo: Barcellona, Marsiglia, Genova, Ravenna e Trieste; ma anche, dopo il trasbordo, Livorno, Napoli, Gioia Tauro, Atene, Bari, ecc. Queste merci poi prendono la via del nord e del centro Europa, o dell’Europa dell’est, risparmiandosi così, fino a che l’effetto serra non avrà sciolto completamente i ghiacci dell’Artico, la circumnavigazione dell’Europa per arrivare a Le Havre, Rotteram e Amburgo. E viceversa.
I“corridoi” che servono questo traffico sono già tutti in funzione (Tarvisio, Brennero, Gottardo, Sempione) o di prossima apertura (Loetchberg) e in via di potenziamento; il che contribuirà non poco a ridurre ulteriormente il traffico in transito tra Torino e Lione. Basta comunque guardare una cartina geografica per capire che la Torino-Lione non è che il più periferico degli itinerari nord-sud; tanto è vero che per raggiungere Lione il collegamento virtuale tra Lisbona e Kiev deve compiere una vistosissima deviazione verso nord.
L’autostrada ferroviaria
In terzo luogo, per trasformare la Tav Torino- Lione in un’”autostrada ferroviaria” occorre che i tir e i loro autisti siano disposti a salirci sopra (a pagamento). Per questo la presidente della Regione Piemonte, schierata a favore del progetto, continua a chiedere “garanzie”: il che vuol dire rendere la cosa obbligatoria. Ma finché non si riforma il trasporto autostradale - oggi in mano a decine di migliaia di padroncini, italiani e sempre più est-europei, peraltro tutti in subappalto, attraverso una catena spesso assai lunga, dei grandi operatori multinazionali della logistica, quasi tutti stranieri inducendoli ad associarsi per ottimizzare carichi, percorsi, consegne e veicoli, sarà ben difficile per governi, di destra e di sinistra, costringere i tir a salire su un vagone. Tanto più che quei governi, finora, non sono stati capaci nemmeno di abolire gli sconti sulle accise del combustibile, perché questi operatori sono in grado di bloccare immediatamente, per protesta, tutti valichi interni e internazionali del paese.
Una vera intermodalità
In quarto luogo, la riforma del trasporto nasce di qui: non accoppiando treni e tir lungo i valichi, o navi e tir nel trasporto marittimo, facendo salire gli uni sugli altri, raddoppiando così vettori e costi; ma promuovendo una vera intermodalità, che permetta di disaccoppiare le motrici dai rimorchi (o dai container che trasportano); di caricare sui treni e sulle navi soltanto questi ultimi, e di farli riagganciare, alla stazione di arrivo, da altre motrici: operazione molto semplice dal punto di vista tecnico; complicatissima in termini economici e organizzativi. Perché presuppone strutture consortili, anche internazionali, che oggi non ci sono, ma che potrebbero essere l’unico argine contro il supersfruttamento dei “padroncini” da parte delle multinazionali del trasporto.
Questo ci riporta al concetto di “corridoio”, che non è solo né soprattutto un tracciato ferroviario o stradale (o entrambi), bensì un sistema logistico di cui i tracciati, debitamente attrezzati, potenziati e messi in sicurezza, non sono che una componente. Ci vogliono poi operatori logistici in grado di valorizzare le opportunità offerte dall’intermodalità, interporti per lo scambio intermodale tra i diversi vettori e tra il trasporto di lunga percorrenza e quello di prossimità; e centri logistici per le rotture e le ricomposizioni dei carichi (comprese molte operazioni di assemblaggio e disassemblaggio di componenti, che è assai opportuno effettuare in questi centri).
Mentre quello che si sa è che la Tav Torino- Lione salterà l’efficiente interporto torinese di Orbassano, per costruirne (forse) uno ancora tutto da progettare e finanziare vicino a Chivasso; che per l’utilizzo dell’”autostrada ferroviaria” non è prevista alcuna “garanzia “; che le alternative offerte dal Sempione e dal Loetchberg sottrarranno altro traffico alla Torino-Lione, i cui costi comunque non verranno mai coperti dall’introito tariffario, tanto è vero che per quest’opera, a differenza che per il ponte sullo stretto, l’operazione del project-financing non è stata neppure tentata.
Infatti quest’opera non è finanziata, se non con un contributo dell’Unione europea destinato a svanire, se si prolungheranno i rinvii dell’apertura dei cantieri, o se non verranno stanziati fondi adeguati per le tratte francese e italiana: quest’ultima per un importo previsto di 6,5miliardi, interporti esclusi, destinato probabilmente a raddoppiare. Con i chiari di luna che il prossimo governo si troverà ad affrontare qualunque sia la futura maggioranza questa sarà sicuramente la prima grande opera a cadere sotto la mannaia degli indispensabili tagli.
In sesto luogo, previsioni così a lungo termine (venticinque anni al 2030) dovrebbero prendere in considerazione scenari più elastici, e non una proiezione lineare dell’attuale trend dei traffici. E in corso un processo di “dematerializzazione” dell’economia che avrà come principale conseguenza la riduzione in peso e in volume dei beni scambiati. È in corso, nonostante i molti processi di delocalizzazione, un ripensamento sull’opportunità di sguarnire completamente i territori delle loro capacità manifatturiere e soprattutto agroalimentari, il che porterà a un ridimensionamento dei volumi trasportati in molti comparti merceologici. È in corso un processo di recupero e valorizzazione degli scarti e dei materiali ricavati dai beni dimessi che farà sempre più delle città una fonte locale di materie prime per l’industria. È in corso un drastico aumento del prezzo del petrolio e anche un processo di progressivo esaurimento delle sue disponibilità che si ripercuoterà inevitabilmente sui costi di trasporto e sulle sue convenienze, rivalutando le produzioni di prossimità. Dove mai si è tenuto conto, anche solo in via ipotetica, di tutto ciò nel progettare la Tav Torino-Lione?
Il consenso preventivo
Per concludere, l’opera non è stata discussa né tantomeno negoziata con le popolazioni della Val di Susa né dai precedenti governi nazionali, né da quelli regionali. Adesso, mentre il ministero dell’interno è passato alle maniere forti, si cerca di correre ai ripari per conquistare “il consenso” delle popolazioni coinvolte. Ma quale consenso? Si è forse disposti a mettere in discussione il tracciato, o la validità dell’intervento? Oppure si tratta solo di far digerire la pillola alle sue recalcitranti vittime.
Ma quale cultura della negoziazione ambientale è mai questa? I negoziati ambientali bisogna farli prima di definire gli interventi, presentando diverse alternative (compresa quella di non fare niente) e prospettando costi e benefici di ogni opzione, eventualmente rinforzati con interventi di mitigazione del danno o di incentivazione o penalizzazione delle diverse situazioni. Fatto a posteriori, quando un ministro dichiara che comunque l’opera si farà, difenderla è solo un suicidio.
Nota: qui su Eddyburg dello stesso Autore, un intervento sul tema Nimby; sugli stessi temi di "sistema", un estratto dal Piano Direttore del Canton Ticino (f.b.)
I due presidenti di Legambiente
In un paese in cui per sostenibilità si intende sopportabilità il compito delle associazioni ambientaliste potrebbe essere notevole. In realtà non è così, anche per la grande confusione di ruoli, di cui questo articolo di Aprile online del 15 novembre 2005 testimonia un aspetto
Francesco Rutelli, qualche giorno fa, ha incontrato i rappresentanti della Margherita del Piemonte per ribadire che, con tutti i controlli e le garanzie ambientali del caso, la Tav sulla Torino-Lione dovrà essere realizzata. Ermete Realacci, deputato della Margherita e presidente onorario di Legambiente (dopo esserlo stato a tutti gli effetti per quasi un ventennio), ha assunto ovviamente la stessa posizione anche se la sua associazione è pienamente impegnata nel movimento popolare che da alcune settimane anima la Val di Susa con cortei e dibattiti contro il progetto di alta velocità.
Roberto Della Seta, il vero presidente di Legambiente, a differenza del presidente ad honorem della stessa associazione, ha infatti espresso il sostegno alla difficile vertenza apertasi in Val di Susa, annunciando la propria presenza alla manifestazione del 16 novembre: "Vogliamo testimoniare la nostra vicinanza a un movimento che, grazie al forte esempio di coesione di un'intera comunità locale, ha posto all'intero paese un interrogativo sulle infrastrutture di sviluppo e di cui i circoli Legambiente della Val di Susa e del Piemonte sono da sempre tra gli animatori". "La Tav – continua Della Seta – non è solo una nuova ferita in una valle già gravata da troppe infrastrutture di trasporto, è anche la risposta più sbagliata, inefficiente e costosa per rispondere alla necessità di ridurre il traffico autostradale e razionalizzare il trasporto internazionale delle merci".
Non è solo il vero presidente di Legambiente a pensarla in questo modo. La Commissione intergovernativa italo-francese ha a disposizione i dati dello studio da lei stessa commissionato nel 2000. In base a questa ricerca, la nuova trasversale ferroviaria non avrà nessun effetto rilevante sul traffico autostradale attuale. Si stima infatti che essa servirà a trasferire su ferro meno dell'1% delle merci che viaggiano su strada dirette al tunnel del Frejus. A seguito di questi dati, ma anche per effetto di una continua diminuzione di domanda di trasporto lungo le direttrici transalpine tra Italia e Francia, i nostri vicini d'oltralpe hanno ridotto fortemente la propria disponibilità a investire su questo collegamento, che - sebbene si svolga per due terzi in territorio francese - sarà in gran parte a carico delle già magre finanze italiane.
"Per ridurre il traffico stradale occorrono infrastrutture che migliorino l'accessibilità alla ferrovia esistente, che dispone di immense capacità inutilizzate, ma anche credibili politiche di limitazione del traffico stradale e incentivi al suo trasferimento su ferro – fa sapere Vanda Bonardo, presidente di Legambiente in Piemonte – La Svizzera lo sta facendo, dimostrando non solo che è possibile ridurre il traffico pesante, ma anche favorire la nascita di gruppi industriali competitivi e moderni capaci di gestire con efficienza il trasporto intermodale. Il tunnel del Frejus servirà solo a chi lo costruirà e non al trasporto ferroviario. La finanziaria ha ridotto fortemente i fondi per le Ferrovie legati agli interventi ordinari di adeguamento, manutenzione e acquisto dei treni e vogliamo spendere 15 miliardi di euro per quest'opera pronta tra dieci anni?".
"Se come speriamo – sostengono ancora Roberto Della Seta e Vanda Bonardo in una dichiarazione congiunta – la lotta della popolazione della Val di Susa avrà successo, forse i soldi che il nostro paese risparmierà potranno essere finalmente investiti per attivare politiche e infrastrutture di vero sviluppo. Per questo, il conflitto sostenuto dai cittadini della Val di Susa è benefico per il nostro paese e per la sua competitività sul medio e lungo periodo". La stessa posizione si può leggere su "la Nuova ecologia" (www.lanuovaecologia.it), il mensile di Legambiente.
Allora, qual è la vera posizione di Legambiente? Quella del presidente onorario Realacci o quella del presidente effettivo Della Seta e della presidente della sezione Piemonte della più blasonata associazione ambientalista d'Italia? Per non generare equivoci, basterebbe che chi fa il deputato e ha scelto questo modo di fare politica non svolgesse anche altre funzioni, seppure ad honorem. L'autonomia tra associazioni, movimenti e partiti dovrebbe essere un dato acquisito per non generare antipatici conflitti d'interessi.
«Il cemento del potere - Storia di Emilio Colombo e della sua città» fu il pamphlet dello scrittore e storico Leonardo Sacco che nel 1982 squarciò il velo su Potenza, «città a misura di ministro», contribuendo a inquadrare in termini più politici il sacco urbanistico del capoluogo lucano. Un saccheggio certamente inserito nel disastro ambientale che la classe dirigente democristiana era andata compiendo nella penisola. Ma a Potenza la tragedia aveva anche connotati squisitamente meridionali, emanazione di un «partito dell'edilizia» che sovrastava qualsiasi altro gruppo di potere, con investimenti che diventavano sempre più fini a se stessi, e in genere lontani da indici corretti di sviluppo. Insomma, l'affermazione di una sorta di «baronato edile urbano» famelico e distruttivo dei caratteri della storia della città.
Cristo si è fermato a Matera
La Lucania però, è stata anche terreno di sperimentazioni urbanistiche d'avanguardia nell'altro capoluogo di provincia, quella Matera che la presenza di un nucleo antico di grande pregio come i Sassi, oltre allo straordinario effetto che ebbe ovunque il racconto dell'avventura di Carlo Levi, avrebbe portato all'attenzione di tutti in Italia e all'estero e ne avrebbe fatto centro di discussioni culturali e politiche. Ma soprattutto, uno dei laboratori dell'urbanistica italiana del dopoguerra. Fu così che si venne formando un'idea della città in cui gli interventi, nei tre settori in cui è possibile dividerla (centro antico-Sassi, centro storico, nuovi insediamenti), avrebbero dovuto avere un andamento armonico e razionale, l'uno in funzione dell'altro. Le cose non andarono così, ma la storia di quel passato in cui Matera divenne punto di riferimento per l'urbanistica italiana più avveduta, è fondamentale per capire quello che sta accadendo adesso in un territorio governato dal centro sinistra in tutte le sue varianti.
Il grido d'allarme che un gruppo di intellettuali da sempre attenti allo sviluppo sostenibile della città ha lanciato dalle colonne di un numero speciale di Basilicata, vecchio giornale di battaglia che ha contribuito in passato all'apertura di inchieste e dibattiti (vedi l'articolo a lato), ha urtato una classe dirigente che non sa reagire alle critiche. Prevale un mugugno tutto meridionale, mitigato da repentine e non molto credibili aperture alla società civile, nell'illusione di andare avanti come se niente fosse, quando invece è evidente che a Matera non sta scoppiando soltanto una questione locale. Perché, in modo del tutto particolare, si intravede una questione più ampia, cioè la linea che il centro sinistra in tema di urbanistica e di «nuove manipolazioni edilizie» sta portando avanti da tempo in molte città meridionali (e italiane) governate dallo stesso schieramento. Ma quali sono i punti che stanno stravolgendo ulteriormente la città lucana? Si va dai palazzoni del centro direzionale con volumetrie ingiustificate, alle operazioni speculative della zona 33 di ingresso alla città, con quello che ironicamente la popolazione ha battezzato il grattacielo, dai complessi residenziali dell'ex Mulino Padula che grava sui Sassi come un orrendo mostro, all'espansione di una città di cinquantamila abitanti che porta alle estreme conseguenze la divaricazione degli anni Settanta.
Una mirabile costruzione tufacea
Nei Sassi non va meglio. Oltre a tagliare cipressi secolari per far posto a ridicoli parcheggi, si va a tentoni con interventi spesso demandati ai privati che disaggregano un sito storico che ha valore solo nella sua interezza e nel suo rapporto con la Murgia dirimpettaia. Oltre che con il retroterra delle cave di estrazione del tufo, ancora abbandonate a se stesse quando invece potrebbero essere il «biglietto da visita» di una cultura del lavoro di grande pregio (i Sassi sono una mirabile costruzione tufacea di grande ingegneria spontanea e non una teoria di grotte). Colpisce in tutto questo l'intreccio tra imprese, tecnici del comune e politici, come se la storia del passato non avesse insegnato nulla. E mentre è difficile mettere il naso nel vespaio di ditte edili, dove spicca la solita impresa Tamburrino, più facile è indagare sull'intreccio tra politici e tecnici comunali. Nel marzo scorso la magistratura ha arrestato il capo dell'ufficio tecnico comunale, architetto Franco Gravina, che oggi è ritornato al lavoro al comune (con altre mansioni). Il tecnico è inquisito per la discutibile gestione dei «Progetti integrati di sviluppo urbano», un affare da 32 milioni di euro. Lo stesso Gravina, insieme all'ex assessore Vincenzo Santochirico, sta poi dietro alla «Eolica Craco», una società edile costituita con l'ambigua copertura delle firme delle mogli, che si propone di costruire, contrastato da un movimento di protesta, la megacentrale elettrica tra Ferrandina e Pisticci.
Racconta Leonardo Sacco, memoria storica delle forze democratiche lucane oltre che direttore di Basilicata: «Il quadro della manipolazione edilizia, sia negli antichi rioni che nella parte nuova della città, è sconcertante. Si impongono oggi riflessioni rigorose, fuori dagli attendismi fiduciosi che fino a poco tempo fa hanno caratterizzato molti convegni. Il fatto è che Matera si è distinta nel panorama dell'urbanistica italiana degli anni Cinquanta del secolo scorso per effetto di un movimento culturale che però allora non poteva riscuotere una convinta partecipazione, per il proibitivo clima politico nazionale e le chiusure della tradizionale società locale. Oggi Matera può essere compresa nella media della cattiva urbanistica nazionale, ma qui è più grave per il suo passato. I poteri locali hanno agito fuori e contro piani e progetti. Hanno avviato con enormi ritardi e maldestri interventi il risanamento degli antichi quartieri dei Sassi, e hanno manipolato fino a travolgerla la pianificazione della parte nuova della città». «Il problema - prosegue lo storico ed ex deputato comunista Raffaele Giura Longo - è che nell'ultimo decennio, dominato dal centro sinistra con tutta la sinistra parte attiva (e qui è l'amarezza per noi), si è irrobustita, non solo negli eredi dell'ex democrazia cristiana, la pratica degli affari personali delle lobby di carta, in cui l'intreccio di interessi tra imprese edili e amministratori ha avuto il sopravvento sulla politica un tempo vigile delle sinistre materane. La pubblica amministrazione, in pratica, assume un ruolo centrale nel selezionare uomini e interessi da avvantaggiare, attraverso un sapiente e mai disinteressato uso del go-and-stop, applicato in versione aggiornata: si fermano negli uffici le pratiche spesso più equilibrate e razionali per accelerare quelle più consone agli interessi lobbystici, che a conti fatti risultano essere anche le più improvvisate e rozze».
Alfonso Pontrandolfi, tecnico ed esperto di bonifica, aggiunge: «La contraddizione più appariscente dell'attuale situazione è la permanenza in posizione dominante delle tradizionali forze consolidatesi nel tempo, sia intorno alle politiche espansive urbano-edilizie, sia intorno al mai abbandonato modello clientelare e assistenziale della spesa pubblica. Il ricomposto centro-sinistra che da un decennio amministra la città, sembra così assicurare una sorta di continuità con il passato, nell'azione politica come nei metodi dell'amministrazione». La scelta di dare gratuitamente in concessione per 99 anni un immobile nei Sassi (i quartieri sono proprietà demaniale) a condizione che lo si risani con un importo a fondo perduto che va dal 40 al 60%, ha fatto sì che si ristrutturi con la più fervida fantasia, al di fuori di qualsiasi rispetto dell'unitarietà del luogo. Tommaso Giura Longo, docente di architettura oltre che autore di articoli sul nostro giornale del destino dei centri storici e dei Sassi in particolare, è come sempre puntuale: «La collocazione casuale degli immobili per abitazione e per attività produttive e la mancanza tra di loro di una rete dei servizi sociali, commerciali, di trasporto pubblico, hanno impedito che tra le persone oggi insediate nei Sassi si ripropongano quei civilissimi legami di mutuo scambio e di solidarietà umana che caratterizzavano i rapporti tra il vicinato. Perciò, oggi i Sassi non si presentano più come una parte di città abitata, ma soltanto frequentata. Suoi frequentatori sono anche coloro che li abitano e che vanno a lavorare altrove e anche coloro che vi esercitano una qualche attività di artigianale. Girando oggi per i Sassi, si può constatare che gli interventi a ruota libera dei privati, né guidati né arginati da significativi interventi pubblici, sembrano proporre spesso falsificate operazioni di presunte manifestazioni popolari».
La vittoria di Mel Gibson
Raffaele Giura Longo riprende l'analisi, cercando di mettere il dito nella piaga di questi anni: il rilancio dei Sassi come una sorta di Disneyland dell'affare e del divertimento: «Sono stati anni di grande sbando per i Sassi, con l'affiorare di vecchie tendenze oleografiche, populiste e avventuriste. Messa la mordacchia a ogni seria sperimentazione socio-culturale, quasi del tutto inascoltata è rimasta la voce di coloro che avevano proposto anni fa lo slogan virtuoso «i Sassi attirano ma la città accoglie», per dire dell'unitarietà dell'intervento tra i Sassi, il centro storico dal Settecento in poi e la parte nuova. Alla fine ha vinto Mel Gibson con il suo bisogno dell'orrido scenografico». Ma non è detto. Perché in città si respira un'atmosfera critica verso il comportamento delle amministrazioni degli ultimi anni. Quattromila cittadini hanno firmato un documento di protesta contro la politica urbanistica comunale; gli abitanti del borgo rurale di Venusio, nato negli anni Venti con i fondi dei combattenti della 1° guerra mondiale, sono scesi in piazza contro gli stravolgimenti dei nuovi insediamenti, mentre non si fa nulla per la riqualificazione del loro villaggio; nei Sassi ci sono state proteste di un comitato di quartiere contro l'uso scorretto dell'antica città. Saprà Matera essere punto di riferimento, oggi, contro un uso sconsiderato del territorio da parte di un centrosinistra che si fa scudo della politica berlusconiana sul piano nazionale per perpetrare i vecchi vizi del trasformismo sul terreno locale?
In queste ore il centrodestra ripropone, di fatto, in Finanziaria la vendita delle spiagge demaniali ai privati concedendo gli arenili pubblici più intatti a chi vi costruirà grandi alberghi. In queste ore il centrodestra va all'attacco dell'ambiente con una legge delega scandalosamente al ribasso sul piano delle salvaguardie per parchi, rifiuti, inquinamenti, valutazioni di impatto ambientale, ecc. In queste ore il centrodestra progetta un «colpo basso alla Merloni» (come ha scritto il Corriere Economia supplemento del Corriere della Sera) cancellando cioè, con decreto legislativo, le garanzie di concorrenzialità e di trasparenza negli appalti. E continuano ad essere tempi da lupi per l'urbanistica: vola sempre bassa sul cielo del Senato la minaccia della legge Lupi (Forza Italia) già passata alla Camera. Per liberalizzare? Apparentemente. In realtà per dare il governo del territorio in mano a pochi grandi detentori di aree. Il criterio di fondo è ovunque lo stesso: il patrimonio pubblico viene privatizzato, ma non per liberalizzarlo. Si tratti di ambiente, di spiagge libere, di appalti, di aree fabbricabili, il fine è quello di trasferirne il controllo a gruppi di interessi forti, a privati potenti. L'interesse pubblico viene ancora una volta abbattuto e divelto in nome di una serie di interessi privati privilegiati. Dietro queste leggi spunta, inesorabile, la logica del Berlusconi immobiliarista.
Il disegno è chiarissimo e va in un senso preciso: privilegiare e premiare non già il profitto di impresa bensì la rendita fondiaria speculativa. Il tutto a colpi di accetta o di mazza, con leggi la cui struttura e scrittura appaiono delle più rozze, delle più primordiali. Come il capitalismo del quale risultano al servizio. Prendiamo la legge Lupi per l'urbanistica. Su di essa è appena uscito un libro utilissimo, a più mani ("La controriforma urbanistica", Editore Alinea di Firenze, con contributi di Edoardo Salzano, Vezio e Luca De Lucia, Luigi Scano, Paolo Urbani ed altri, 12 euro), che consente di mettere a fuoco quel percorso di dissoluzione della pianificazione urbanistica, operata cioè in nome dell'interesse generale, sul quale si sono già messi Comuni (Milano in testa) e Regioni (la Lombardia, ma la stessa Regione Lazio con un disegno di legge molto discusso).
Con la legge Lupi, viene interrotto "il plurisecolare tentativo dell'autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare" (Salzano), in nome della più schietta cultura liberale tesa a trasferire le risorse da impieghi improduttivi (la rendita) a impieghi produttivi (il profitto). Interviene dunque un cambiamento epocale: i piani regolatori non sono più atti "autoritativi" del potere pubblico elettivo, bensì "atti negoziali". Con chi? Coi cittadini, si risponde ipocritamente. In realtà, con quanti posseggono aree e/o diritti edificabili. Ecco un altro punto essenziale (e micidiale): se un costruttore ha avuto una concessione edilizia pubblica su propri terreni, acquisisce, a vita, un "diritto edificatorio" che può liberamente commercializzare, scambiare (Luca De Lucia). Come se fosse un bene giuridico a se stante, separato dalla proprietà dell'area per cui era stato concesso. Meccanismo infernale perché, prima o poi, tutti i diritti edificatorii acquisiti dovranno essere soddisfatti, indipendentemente dall'interesse pubblico, dalla sostenibilità ambientale, dai valori paesaggistici, ecc. Quale sarà, allora, il potere dell'Ente pubblico (Regione, Provincia, Comune) nei confronti dei proprietari di aree urbanizzabili e di diritti edificatorii? Nient'altro che quello di negoziare, rinunciando così a pianificare in base a criteri di interesse collettivo.
Secondo il rito ambrosiano (che qui diventa legge dello Stato), spiega Vezio De Lucia, "progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti ad uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il PRG che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate". Conseguenze? Si cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio; si incentiva il consumo di suoli; si azzerano gli standard urbanistici nazionali; si elimina la tutela dei beni culturali, ambientali e paesistici dai PRG locali. Uno Tsunami.
Un ultimo dato fra i tanti: il consumo di suolo non urbanizzato. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, con strumenti diversi, si adottano leggi per "risparmiare" sul consumo di suolo, agricolo o comunque non urbanizzato. In quei Paesi "lo spazio rurale rappresenta nel suo complesso un bene comune" (Antonio di Gennaro), utile alla produzione agricola, al riciclo di risorse e alla ricostituzione di aria, acqua, terra, ecc., al mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio. Da noi, no. Eppure, in poco più di mezzo secolo, ci siamo "mangiati", ricoprendolo di cemento e asfalto, quasi il 40 per cento della superficie non urbanizzata del 1951. Ad un ritmo, come minimo, doppio di quello tedesco il quale sta sui 47.000 ettari l'anno. Noi superiamo i 100.000 e talora i 200.000 ettari. Un impazzimento collettivo.
Ma, mentre l'Europa più avanzata, ne discute e vara misure di "risparmio" del suolo, di riciclo delle aree già urbanizzate, ecc. noi, il Bel Paese dove il paesaggio è ricchezza anche turistica, non ci pensiamo per niente. Anzi, con la legge Lupi, il centrodestra propone di potenziare la logica di quella devastante "abbuffata" territoriale che già ora ha cancellato i confini fra città e città, facendo sparire la campagna. Fermare, battere la società Asfalto&Cemento si può, si deve. Prima che sia davvero troppo tardi.
Titolo originale: Livingstone turns screw on Stratford landowners – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra Ken Livingstone ieri ha avvertito gli interessati ai terreni destinati ai Giochi Olimpici che non verrà consentito in nessun modo di ritardare i preparativi per il 2012, e ha difeso la sua decisione di utilizzare un’ordinanza di esproprio per acquisire le proprietà necessarie al Villaggio Olimpico. Parte delle superfici in seguito saranno destinate al grande progetto di Stratford City, insediamento di residenze, negozi, alberghi e uffici che costituirà praticamente una nuova città nella fascia orientale di Londra.
Gli interessati si sono dichiarati “colpiti, stupiti, e profondamente perplessi” dal fatto che la London Development Agency del sindaco abbia acquisito i terreni usando i poteri di esproprio. Sostengono che l’agenzia abbia incamerato più del necessario, cedendo a una “frenesia di controllo”.
Ma alla sua conferenza stampa settimanale Livingstone ha detto che l’ordinanza era necessaria perché le contrattazioni si stavano muovendo troppo lentamente. “Abbiamo avvertito i proprietari che il termine ultimo era la settimana scorsa e che non ci saremmo spostati da lì. Saremmo stati lieti di concordare prima ma non potevamo evitare il CPO [ compulsory purchase order] se ci si metteva troppo”.
”In questi casi, quando diciamo che c’è una scadenza che non possiamo rinviare, la gente deve accettare il fatto che stiamo parlando seriamente, e la data non sarà cambiata. Non vogliamo mettere a rischio la preparazione dei Giochi Olimpici in tempo ed entro il budget fissato per non seguire la tabella di marcia”.
Ha poi proseguito sul tema dei tempi da rispettare. “Se non avessimo emesso il CPO saremmo stati dipendenti dalla cooperazione [dei proprietari] sulle consegne per tempo. Sarebbe stato il più grosso ricatto nella storia delle costruzioni e avremmo dovuto pagare decine di migliaia per avere l’area”.
”Non possiamo metterci in una posizione in cui possiamo essere minacciati. Non daremo ad alcun operatore privato il diritto si modificare i tempi”.
Livingstone ha affermato che le contrattazioni possono continuare per la modifica dei termini del CPO. Che il progetto di Stratford City non sarà messo in pericolo e che le proteste erano solo “una posa”. Una fonte degli interessati ha dichiarato: “Questa è semplice frenesia di controllo da parte della LDA, e tra l’altro rischiano di farsi nemiche le grosse e prestigiose imprese internazionali di cui avranno bisogno per le realizzazioni olimpiche. Se si comportano così, chi vorrà più far affari con loro?”
Un portavoce della London & Continental Railways, proprietaria di alcuni terreni destinati alle Olimpiadi, ha dichiarato che in negoziati continuano. Ha aggiunto: “Alla luce degli attuali rapporti siamo sorpresi dal linguaggio emotivo utilizzato dal sindaco”.
Anche se la LDA sostiene di essere lieta di raggiungere accordi con le imprese ed enti interessati, la questione è controversa. La prossima settimana l’agenzia terrà una riunione fondamentale con le imprese interessate che possiedono i terreni necessari allo Stadio Olimpico, a Marshgate Lane, Stratford.
Gli interessati sostengono che la LDA ha cercato di ottenere le superfici a prezzi stracciati, affermazione fortemente negata. Livingstone ieri ha ripetuto la sua contestata tesi secondo cui in alcuni casi le negoziazioni con la LDA erano finite in un vicolo cieco per sinistri motivi. “Alcune imprese hanno perseguito una vasta campagna politica tentando di convincere il Comitato Olimpico Internazionale ad assegnare i giochi a un’altra città” ha detto.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: In China, a golf community on a supergrand scale – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Shenzen – La grandeur ha sempre fatto parte della sensibilità cinese, e il complesso da golf del Mission Hill Golf Club and Resort sembra coerente con il fatto che le dimensioni contano.
Dal maggio 2004 il Guinness dei Primati ha ufficialmente inserito questo intervento, a sola mezz’ora d’automobile da Hong Kong, come il più grande complesso del mondo.
Ma anche colle sue 180 buche sparse per oltre 7.700 ettari, i costruttori ricordano che Mission Hills non è stata creata solo per battere dei primati. È pensata piuttosto per rendere più facili gli affari: una specie di ufficio all’aria aperta circondato da residenze che sono tra le più care del paese.
”Non abbiamo costruito questo complesso di dieci campi per soddisfare il nostro ego” dice Ken Chu, vicepresidente del Mission Hills Group e figlio di David Chu, il presidente dell’impresa. “È puramente una struttura di sostegno allo sviluppo economico della regione, di Shenzhen e Guangdong”.
La provincia di Guangdong è uno dei poli principali per l’esportazione in Cina sin da quando l’area è stata aperta all’investimento estero nel 1978 nel quadro delle riforme economiche di Deng Xiaoping. Concentra circa un terzo del volume d’affari con l’estero del paese.
Ma per anni ci sono state poche occasioni di intrattenimento per gli uomini d’affari, e così secondo Chu il complesso di Mission Hills è stato pensato come spazio entro ciu potessero abitare e socializzare. “Non è solo golf, o proprietà immobiliare, si tratta di costruire una città” sostiene Chu.
Se si parla di grandeur, il golf è solo uno degli elementi per misurare dimensioni e ambizioni del complesso. Mission Hills vanta parecchie cose “ top in Asia”: il maggior numero di campi da tennis, 51; il percorso da golf più difficile, disegnato da Greg Norman; la più grossa sede di club, e qullo che sarà il più grande complesso palestra una volta finito l’anno prossimo.
Le residenze, sino a 864 metri quadrati, si vendono a circa 2.500 dollari il metro: care per la Cina, ma appena un decimo delle case di lusso a Hong Kong.
Mission Hills non rende noti i dati di vendita, anche se sono state cedute più di mille proprietà e sono in corso di completamento 80 case di lusso nel primo lotto di residenze. Tutti gli alloggi sono stati acquistati prima dell’inizio delle costruzioni. Si prevedono altre tre fasi di realizzazione nei prossimi tre anni.
È comunque il golf che ha consentito a Mission Hills di conquistarsi una visibilità su scala mondiale in un tempo tanto breve. I campi sono disegnati da alcuni dei principali nomi del golf, come Jack Nicklaus, Vijay Singh, Ernie Els, Annika Sorenstam, e Norman.
E ci sono voluti solo dieci anni per realizzare tutti i dieci campi, con gli ultimi cinque completati contemporaneamente in due anni. Una crescita tanto rapida rispecchia l’incredibile velocità del progresso economico cinese, e le crescenti domande della fiorente middle-class locale.
”L’unico rivale possibile è il Pinehurst” dice Colin Hegarty, presidente e fondatore del Golf Research Group, con riferimento al complesso su otto campi del North Carolina. Ma aggiunge, “Là si costruisce un campo più o meno in quindici anni. Cinque campi in due anni è una cosa davvero insolita”.
”Nei prossimi dieci anni la gente rimarrà stupefatta dalla quantità di campi realizzati in Cina” conclude.
Il numero al momento non è noto, dato che non ci sono organizzazioni che ne tengano il conto. Ma Han Liebao, professore alla Forestry University di Pechino, sta conducendo un’indagine per conto del governo. Ritiene che ci siano 306 campi, compresi quelli in corso di costruzione. Di questi, solo due sono aperti al pubblico, ed entrambi si trovano a Shenzhen.
L’idea del campo da golf unito ai complessi residenziali è nuova, qui, e alcuni costruttori preparano terreni con le ruspe per sola “immagine”. Ma l’anno scorso, Pechino ha congelato le realizzazioni.
”La preoccupazione è che il paese continui a perdere terreni agricoli per realizzare campi da golf, il che minaccia la produzione alimentare” dice Han.
Secondo lo studio, che sarà pubblicato in novembre, solo l’8,57% dei terreni ora utilizzati per il golf sono arabili. “Il governo non capisce che raramente i campi da golf sottraggono terra agricola” dice. “La maggior parte sono costruiti su rive di fiume, zone inutilizzate, pietrose, o sabbiose”.
Altra preoccupazione del governo è l’uso di pesticidi per i campi, che secondo alcuni funzionari minaccia le scorte idriche.
Mission Hills sembra aver rispettato la proprie promesse in termini ambientali. Sono stati sradicati centinaia di alberi durante la costruzione su questi terreni un tempo inutilizzati, ma poi sono stati ripiantati lungo i margini dei percorsi. Nelle fasi iniziali è stato sviluppato un massiccio programma di fertilizzazione dei suoli per sostenere il prato, ma ora è il personale di 2.400 caddies a strappare le erbacce, per evitare l’uso di pesticidi.
Quando i Chu hanno iniziato il progetto di Mission Hills, sono stati ingaggiati statunitensi e italiani, per dare alle abitazioni un ambiente occidentale. Le case hanno interni spaziosi, con corridoi aerati e soffitti alti sette metri e mezzo; gli esterni hanno un aspetto europeo, con tetti a tegole.
Le abitazioni sono fornite senza arredi, e attico e seminterrato non sono compresi nel prezzo per unità di superficie.
”Per la gente che vive qui, si tratta di Oriente che incontra l’Occidente” dice Carol Chu, direttore esecutivo di Mission Hills e figlia del fondatore. “Molti hanno scelto di vivere in Cina, ma hanno abitato in tanti posti in tutto il mondo. Così, vogliono vivere in qualcosa che appare loro familiare”.
Degli abitanti di Mission Hills, più della metà proviene da Hong Kong, e poi da Taiwan o altre zone dell’Asia. Ci sono industriali, imprenditori, politici, tutti attratti dalle caratteristiche e dal prestigio del complesso.
Nel corso di una recente promozione, per esempio, gli acquirenti sono stati invitati a un concerto di Roberta Flack e omaggiati con anelli di diamanti da 2 carati.
Mission Hills ha anche copiato l’uso occidentale di collocare le case vicino ai campi. Gli appartamenti cinesi di norma sono realizzati in grossi complessi, e anche le case singole spesso hanno vedute limitate. Ma a Mission Hills, ogni abitazione ha una vista, almeno parziale, sul percorso da golf.
”In tutto il mondo le visuali più costose sono sul verde e sul blu; il blu vuol dire mare, corsi d’acqua, oceano, e il verde sta per giardini, montagne, o campi da golf” dice Ken Chu. E qui sta la principale differenza. Abbiamo sistemato me case in modo strategico per aumentare al massimo la visuale”.
Se Mission Hills imita l’Occidente, le sue dimensioni superano di parecchio quelle dei complessi simili di successo. Uno studio su 1.200 complessi degli USA condotto dal Golf Research Group di Hegarty, mostra che sono quelli sui campi più piccoli a dare maggiori profitti.
”Le persone accorte costruiscono con un occhio al bilancio. L’idea è di mantenere le dimensioni contenute in modo da cogliere l’aumento di valore degli immobili, senza avere un grosso carico che può affondare l’investimento” dice Hegarty.
Nota: il testo originale al sito dello International Herald Tribune (f.b.)
"Il partito di Falcone e dei ragazzini" non aveva un comitato centrale o uno stemma, ma in realtà era l'unico partito esistente in Sicilia, oltre alla mafia. Il rumore di fondo, in quegli anni, era costituito dalle dichiarazioni dei sindaci che escludevano l'esistenza della mafia nella loro città, dai giornali ad azionariato mafioso che invocavano silenzio, dalla brava gente che lavorava chiassosamente all'autodistruzione della sinistra, e dai colpi di pistola. Furono i ragazzini di Palermo a scendere in campo per primi. Il liceo Meli, l'Einstein, il Galilei, poi via via tutti gli altri. Si passava sotto il Palazzo di Giustizia e il corteo, che fino a quel momento aveva gridato a voce altissima i Nomi, faceva improvvisamente silenzio. Là dentro lavoravano i nostri magistrati. Falcone, Borsellino, Di Lello, Ayala, Agata Consoli, Conte: metà del Partito erano loro. L'altra metà, i liceali. A Catania, fra il 1984 e il 1986, furono almeno trecento i ragazzi che in una maniera o nell'altra parteciparono, da militanti, alle iniziative dei Siciliani Giovani: furono i primi a gridare in piazza i nomi dei Cavalieri e a lavorare quotidianamente - il volantino, il centro sociale, l'assemblea - per strappargli dagli artigli la città. A Gela, a Niscemi, a Castellammare del Golfo, nei paesini dove i padroni hanno la dittatura militare, essi vennero fuori e lottarono, paese per paese e città per città. "La Sicilia non è mafiosa – affermavano orgogliosamente - La Sicilia è militarmente occupata dalla mafia". La Sicilia, dove ancora nel 1969 un ragazzo fu fatto uccidere dal padre - boss mafioso - perché era iscritto alla Fgci. La Sicilia che ha combattuto, che non s'è arresa mai.
Ha combattuto, ed ha fatto politica, ha ragionato. La politica come partecipazione, come trasversalità, come società civile nasce nelle lotte palermitane e catanesi di quegli anni: oggi è common sense dappertutto. La fine del vecchio ceto politico, di tutta la vecchia storia, fu intuita per la prima volta qui. Non è un caso se il movimento studentesco, due anni fa, è ripartito da Palermo, e se là dura tuttora. Non è un caso se Palermo è l'unica città d'Italia dove sia cresciuta un'opposizione di massa, dove l'opposizione sia vincente. Non è un caso se a Catania il più totale black-out di tv e stampa non riesca - due volte in due anni - a fermare i candidati dell'opposizione. Non è un caso se a Capo d'Orlando i commercianti si ribellano, non è un caso se a Gela gli studenti restano organizzati; e non è un caso se a Palermo la gente non reagisce invocando la pena di morte ma individuando lucidamente le responsabilità dei politici di governo e prendendosela con loro. Dal 1983 - e sono ormai nove anni - in Sicilia è in atto, con alti e bassi ma con una sostanziale continuità; non ancora maggioritario ma già ben lontano dal minoritarismo. - un vero e proprio movimento di liberazione. Contro la mafia, ma anche contro tutto ciò che essa porta con sé.
Questo movimento avrebbe potuto essere esattamente l'anello che mancava alla sinistra italiana, il punto di partenza per ricostruire tutto. Invece, è rimasto solo. Solo a livello di palazzi, di comitati centrali, di radical-chic, di giornali: non a livello di ragazzini. Domani, ad esempio - ma non è una novità, perché avviene regolarmente ogni settimana - c'è assemblea dei liceali dell'Antimafia a Roma. Sono i soli, in Italia, a non avere paura dello sfascio. Perché sanno che c'è una classe dirigente pronta a prendere la responsabilità del Paese anche domattina, se fosse necessario - e non è detto che non lo sia. Orlando, Claudio Fava, Carmine Mancuso, Dalla Chiesa? Sì: ma anche - e soprattutto - Davide Camarrone del liceo Meli, Antonio Cimino di Corso Calatafimi, Fabio Passiglia, Nuccio Fazio, Vito Mercadante, Angela Lo Canto, Carmelo Ferrarotto di Siciliani Giovani, Nando Calaciura, Tano Abela, il professor D'Urso: avete mai letto questi nomi sui giornali? Benissimo. Infatti, neanche i nomi dei primi socialisti uscivano sui giornali, cent'anni fa.
Una metà del "partito" oggi non c'è più. Martelli, il giudice Carnevale, Pannella e Cossiga sono riusciti, ognuno con i suoi mezzi, a svuotare il Palazzo dai nostri magistrati e lo stesso Falcone, ben prima d'essere ucciso, era già stato messo in condizione di non essere più quello di prima. Dei "vecchi", solo Borsellino e Conte sono rimasti al loro posto. Ma nel frattempo sono cresciuti i Felice Lima, i Di Pietro, i Casson.
Care amiche e cari amici, qui di seguito, sottopongo alla vostra attenzione una mia riflessione sul tema delle periferie che tanto sta facendo discutere.
Tutt’altro che una novità, le mie parole sulle periferie e il loro malessere sono l’espressione di una mia preoccupazione antica: ne ho sempre parlato nei miei interventi in giro per l’Italia ed era un tema affrontato già nel 1995 in una delle 88 tesi per il Programma dell’Ulivo, la numero 65 intitolata “Ricostruire la città costruita: una politica per la città”. Ne cito alcuni passaggi: “occorre cambiare completamente direzione - vi si legge -…riqualificare l’esistente…valorizzare le periferie…ricostruire la città costruita , come nell’esperienza di alcune amministrazioni locali, in modo da riqualificare la città, promuovendo luoghi e spazi per la comunità. Di importanza dominante è affrontare il problema drammatico delle periferie (dove si concentra il maggior malessere di vita del nostro paese) con interventi sui servizi, le infrastrutture, il verde pubblico e privato, con la manutenzione delle zone comuni”.
In quelle poche righe, frutto del lavoro di tanti, è già indicata sinteticamente una direzione per affrontare un problema che si è progressivamente aggravato nel tempo ed è il frutto di una somma di elementi. Da quelli che hanno a che fare con la pianificazione territoriale e con un’edilizia non pensata per la comunità e per le persone che ci devono vivere e non solo dormire, a quelli della disoccupazione e della scarsità di servizi, da quelli della povertà e dell’esclusione sociale fino a quelli (più recenti per il nostro Paese) legati ai flussi di immigrazione.
So benissimo che non siamo Parigi. Ma penso che occorra cogliere per tempo, anche da noi, i segnali di disagio piccoli o grandi che siano. E i segnali ai quali mi riferisco - lo hanno detto in questi giorni diversi esperti di scienze sociali- non riguardano soltanto le situazioni più drammatiche di alcuni quartieri di alcune città soprattutto del nostro mezzogiorno (e non solo) ma anche la vita quotidiana di città ricche. Sono segnali, per esempio, le famiglie che iscrivono i figli nelle scuole di quartieri diversi da quelli in cui vivono, le persone che evitano, più o meno giustificatamente, di attraversare certe zone cittadine, caseggiati o quartieri che vengono progressivamente abitati (dati in affitto o venduti da cittadini italiani) soltanto da persone straniere. Tutti fenomeni che segnalano una comunità che si sta frantumando e nella quale gli anziani vivono in solitudine, i bambini crescono senza spazi per loro, e dove rimangono a vivere le famiglie con più problemi.
La “geografia della città”, cioè la trasformazione urbana, richiede “una regia”. Non nego che molte amministrazioni abbiano già cominciato da tempo ad affrontare il problema con anche qualche buon risultato. Ma gli equilibri raggiunti sono delicatissimi e sempre da tenere sotto osservazione. Su di essi infatti si scaricano sempre le nuove emergenze. Si può dotare un quartiere di servizi e far funzionare un centro di aggregazione sociale, illuminare le strade e rinnovare l’arredo urbano, e tanto altro. In questo modo si riesce a ridar vita a quel quartiere. Ma se, in modo non programmato (e oggi le occasioni sono moltissime), ti arrivano improvvisi insediamenti di nuclei familiari con tanti problemi, devi ricominciare da capo. Programmare una città vuol dire arrivare a capire prima (e, quindi, prevenire) ed evitare che i problemi si concentrino in una sola area. Altrimenti fai i quartieri “ghetto”.
Ecco perché condivido l’opinione secondo cui le città devono tornare al centro dell’agenda politica italiana. Sempre più spesso la città entra nel dibattito politico per le pur giustificate preoccupazioni sulla sicurezza e non come il luogo in cui crescono le persone, i nostri figli, dove dobbiamo vivere noi stessi, i nostri anziani e i nuovi cittadini. Un luogo che richiede anche innovazione amministrativa, tecnologica, sociale, ed economica.
Qualche giorno fa, su “La Stampa”, la sociologa Chiara Saraceno ha efficacemente sottolineato le diversità e le somiglianze tra la situazione francese (dove i problemi sono vissuti in particolare dalla terza generazione di immigrati) e quella del nostro Paese (dove invece il disagio riguarda tanto ancora gli italiani). E proprio sui quartieri in disagio si rovesciano quasi inevitabilmente i problemi degli immigrati. Finiamo così con il chiedere ai più deboli di farsi carico anche della convivenza con altre culture.
La politica deve dunque occuparsi primariamente delle origini del disagio che sono ancora una volta il lavoro precario o mancante, la casa che non c’è, la scarsità di servizi, una scuola che promette troppo poco.
Occorre inoltre una grande attenzione quotidiana allo spazio intorno a noi, una vera e propria “politica della manutenzione”, perché è importante vivere in luoghi “curati”. Io sono nato in una città, Reggio Emilia, in cui si è sempre teorizzato che una scuola bella è un ulteriore maestro: “l’ambiente è un insegnante in più. In ambienti migliori si apprende meglio”. Lo diceva il pedagogista che ha progettato la “celebre” rete delle scuole materne reggiane. Ed è per questo che mi dispiace che le periferie siano spesso così esteticamente brutte.
Per tutte queste ragioni, ci vuole sinergia tra politiche economiche e del lavoro, politiche dell’immigrazione, politiche sociali soprattutto finalizzate all’inclusione, politiche urbanistiche ed abitative, affinché sappiano creare case e quartieri vivi e non ghettizzanti, con verde e spazi comuni, in cui la gente possa vivere meglio. Bisogna tornare ad impegnarsi nell’edilizia sociale (siamo rimasti molto indietro rispetto agli altri Paesi europei).
E, dunque, nessun equivoco. A queste cose pensavo quando, intervenendo qualche giorno fa ad un gruppo di studio sul welfare alla Fabbrica, ho lanciato l’allarme sulle nostre periferie. Oggi prendo atto che la mia preoccupazione è condivisa da più parti, a cominciare dal ministro dell’Interno le cui parole non sono interpretate da nessuno come l’invito a provocare rivolte incendiarie in giro per l’Italia. Me ne rallegro: segno che qualche spazio di confronto, benchè faticosamente strappato a strumentali polemiche di parte, ancora sussiste.
Lo ribadisco: Parigi non è qui ma, se non agiamo per tempo, potrebbe non essere così lontana. L’ho detto anche in relazione al fatto che questa Finanziaria che interviene in un momento di grande crisi del Paese in cui si allarga sempre di più la forbice tra ricchi e poveri, taglia risorse proprio a quelle amministrazioni locali che dovrebbero aiutare le periferie più disagiate.
Io voglio luoghi in cui tutti noi possiamo vivere meglio
La tempesta che ha distrutto New Orleans si è materializzata dai mari tropicali a 125 miglia a largo delle Bahamas. Inizialmente classificata come «depressione tropicale 12» il 23 agosto, rapidamente si è intensificata diventando «tempesta tropicale Katrina»: l'undicesimo uragano cui sia stato assegnato un nome in una delle stagioni più ricche di uragani della storia. Attraversando la Florida e raggiungendo il Golfo del Messico, dove ha vagato per quattro giorni, Katrina ha subito una trasformazione mostruosa e in gran parte inattesa. Distraendo grandi quantitativi di energia dalle acque del Golfo, calde in modo abnorme (tre gradi centigradi sopra la temperatura media di agosto), Katrina è cresciuta improvvisamente diventando uno spaventoso uragano di classe 5, con venti a 290 km/h che alimentavano onde degne di uno tsunami, alte quasi dieci metri. (Come ha poi spiegato Nature, Katrina ha assorbito dal Golfo talmente tanto calore, che «dopo il suo passaggio la temperatura dell'acqua è scesa fortemente, scendendo in alcune regioni da 30 a 26 gradi centigradi»).
La mattina di lunedì 29 agosto, quando ha raggiunto la terraferma presso la foce del fiume Mississippi a Plaquemines Parish, Louisiana, Katrina era scesa alla categoria 4 (venti a 210-249 km/h): una ben magra consolazione per gli impianti petroliferi, i bacini ittici e i villaggi cajun che si trovavano sul suo cammino. A Plaquemines, e poi ancora sulla Gulf Coast in Mississippi e Alabama, Katrina ha sconvolto i bayou (zone paludose, ndt) con rabbia irrefrenabile, lasciandosi alle spalle un paesaggio così devastato che pareva una Hiroshima immersa nell'acqua.
Un calvario annunciato
La morte di New Orleans, naturalmente, era stata predetta. Anzi, nessun disastro della storia americana era stato previsto in anticipo così accuratamente.
Il segretario alla sicurezza interna Michael Chertoff ha poi dichiarato che «le dimensioni dell'uragano superavano qualunque cosa il suo Dipartimento potesse prevedere» ma questo, semplicemente, non è vero. Anche se sono stati sorpresi dall'improvvisa trasformazione di Katrina in un uragano gigantesco, gli scienziati avevano la cupa certezza di ciò che New Orleans poteva aspettarsi dall'arrivo di un grande uragano. «La cosa triste - ha detto un ricercatore dopo il passaggio di Katrina - è che l'avevamo previsto al 100%».
Sin dalla brutta esperienza dell'uragano Betsy, una tempesta di categoria 2 che nel settembre 1965 inondò molte zone orientali di Orleans Parish, ora nuovamente sommerse da Katrina, la vulnerabilità di New Orleans alle onde create dagli uragani è stata ampiamente studiata e pubblicizzata. Nel 1998, dopo un incontro ravvicinato con l'uragano Georges, la ricerca si è intensificata. Un sofisticato studio computerizzato della Louisiana State University metteva in guardia sulla «virtuale distruzione» della città da parte di un uragano di categoria 4 che si fosse avvicinato da sud-ovest. Gli argini e le barriere di New Orleans sono progettati per resistere solo a un uragano di categoria 3, ma anche questa soglia di protezione si è rivelata illusoria nelle simulazioni al computer fatte lo scorso anno dal genio militare ( Army Corps of Engineers).
La continua erosione delle isole della Louisiana meridionale, che costituiscono una barriera, e le paludi dei bayou, (una perdita annuale di fascia costiera stimata in 60-100 chilometri quadrati) fa aumentare l'altezza delle onde che spazzano New Orleans mentre la città stessa, insieme ai suoi argini, sta lentamente affondando. Il risultato è che anche un uragano di categoria tre, pur muovendosi lentamente, oggi inonderebbe gran parte della città.
L'amministrazione Bush ha reagito a queste previsioni respingendo le pressanti richieste di maggiore protezione dalle inondazioni: il fondamentale progetto Coast 2005 per recuperare zone paludose di protezione - il risultato di un decennio di ricerche e trattative - è stato accantonato e gli stanziamenti per gli argini, compreso il completamento dei baluardi intorno al Lago Pontchartrain, sono stati ripetutamente tagliati. In parte, questa scelta è stata una conseguenza delle nuove priorità di Washington che hanno compresso il budget del genio militare: un grosso taglio alle tasse per i ricchi, il finanziamento della guerra in Iraq e, ironicamente, i costi di Homeland Security, il Dipartimento per la sicurezza interna. Eppure, senza alcun dubbio, vi è anche un motivo sfacciatamente politico: New Orleans è una città solidamente democratica, è abitata in maggioranza da neri e i suoi elettori frequentemente decidono l'esito delle elezioni statali. Perché un'amministrazione così implacabilmente «di parte» dovrebbe ricompensare questa spina nel fianco autorizzando i 2,5 miliardi di dollari che, secondo le stime del genio militare, sarebbero necessari per costruire intorno a New Orleans un baluardo di protezione da un uragano di categoria 5?
I vandali della protezione civile
Oltre ad avere finanziato in modo insufficiente il ripristino della fascia costiera e l'edificazione degli argini, la Casa Bianca ha anche vandalizzato la Fema in modo irresponsabile. Sotto la direzione di James Lee Witt (che aveva il rango di membro del governo) la Fema era stata il fiore all'occhiello dell'amministrazione Clinton, guadagnandosi elogi bipartisan per l'efficienza dei suoi interventi di ricerca e soccorso, e per il pronto invio di aiuti federali dopo le inondazioni del fiume Mississippi nel 1993 e il terremoto di Los Angeles nel 1994. Quando però nel 2001 sono subentrati i repubblicani, l'agenzia è stata trattata alla stregua di un territorio nemico: il nuovo direttore Joe M. Allbaugh, ex manager della campagna di Bush, ha bollato l'assistenza nei disastri come un «programma assistenziale sovradimensionato» e ha chiesto agli americani di fare maggiore affidamento sull'Esercito della salvezza ed altri gruppi religiosi. Allbaugh ha puntualmente tagliato molti dei programmi principali che dovevano mitigare l'effetto delle inondazioni e degli uragani. Poi, nel 2003, si è dimesso per diventare un consulente pagato a peso d'oro dalle imprese che aspiravano ad avere contratti in Iraq. (Com'è nel suo stile, recentemente è riapparso in Louisiana come mediatore d'affari per le imprese che mirano ad aggiudicarsi i remunerativi appalti per la ricostruzione dopo il passaggio di Katrina.).
Così c'era ogni ragione di preoccupazione, se non di panico, quando domenica 28 agosto Max Mayfield, il direttore del National Hurricane Center di Miami, ha avvertito in video-conferenza il presidente Bush (ancora in vacanza in Texas) e i funzionari di Homeland Security che Katrina avrebbe devastato New Orleans. Eppure il direttore Brown, di fronte alla possibile morte di 100.000 persone, appariva tracotante: «siamo pronti. Ci siamo preparati a questo tipo di disastro per molti anni perché abbiamo sempre saputo di New Orleans...».
Ma mentre le acque inghiottivano New Orleans e i suoi sobborghi, era difficile trovare qualcuno che rispondesse al telefono o che assumesse il comando delle operazioni di soccorso. «Un sindaco del mio distretto - ha detto al Wall Street Journal un furibondo deputato repubblicano - ha cercato di ottenere soccorsi per i suoi concittadini, che erano stati colpiti direttamente dall'uragano. Ha telefonato per chiedere aiuto, l'hanno lasciato in attesa per 45 minuti. Alla fine, un burocrate gli ha promesso che avrebbe scritto un promemoria per il suo superiore».
Un sindaco fuori uso
Anche il municipio di New Orleans avrebbe avuto bisogno dei soccorsi: l'unità di crisi al nono piano è stata fuori uso fin dalle prime fasi dell'emergenza perché non c'era il carburante diesel per il generatore autonomo.
Per due giorni, il sindaco Nagin e i suoi collaboratori sono stati completamente tagliati fuori dal mondo esterno per il mancato funzionamento delle linee telefoniche terrestri e dei telefoni cellulari. Questo crollo dell'apparato di comando e controllo della città è sconcertante in considerazione dei 18 milioni di dollari in sovvenzioni federali che la città ha speso a partire dal 2002 in addestramento per affrontare esattamente contingenze di questo tipo. Ancor più misteriosa è stata la relazione tra Nagin e i suoi interlocutori statali e federali. Come il sindaco ha detto sinteticamente in seguito, il piano di emergenza cittadino era «far andare la popolazione in zone più elevate e farle inviare i soccorsi in elicottero dai federali e dallo stato», eppure il responsabile della sicurezza interna di Nagin, il colonnello Terry Ebbert, ha stupito i giornalisti ammettendo che non aveva «mai parlato con la Fema del piano di emergenza statale». In seguito Nagir ha cercato di giustificarsi dicendo che la Fema non aveva distribuito preventivamente aiuti.
Com'è inevitabile, molti di coloro che sono stati abbandonati ad annegare nei loro quartieri interpreteranno la negligente incoscienza del municipio nel contesto delle aspre divisioni economiche e razziali che da lungo tempo fanno di New Orleans la città più tragica degli Stati uniti. Non è un segreto che le élite affaristiche di New Orleans e i loro alleati nel Municipio vorrebbero sospingere fuori della città i segmenti più poveri della popolazione, accusati dell'alto tasso di criminalità.
Caseggiati adibiti storicamente ad alloggi popolari sono stati demoliti per fare spazio alle case di un ceto più abbiente e a un Wal-Mart. In altri insediamenti popolari, gli inquilini vengono regolarmente sfrattati per atti illeciti futili come la violazione del coprifuoco da parte dei loro figli. L'obiettivo finale sembra quello di trasformare New Orleans in un parco a tema per turisti - una Las Vegas sul Mississippi - nascondendo la povertà cronica nei bayou, nelle aree per roulotte e nelle carceri fuori città. .
Piccole pulizie etniche
Non sorprende che alcuni sostenitori di una New Orleans più bianca e più sicura vedano in Katrina un piano divino. «Finalmente abbiamo fatto piazza pulita delle case popolari a New Orleans» ha confidato un influente repubblicano della Louisiana ai lobbisti di Washington. «Noi non potevamo farlo, ma Dio lo ha fatto». Similmente, il sindaco Nagin si è vantato delle sue strade vuote e dei suoi quartieri distrutti. «Questa città è per la prima volta libera dalle droghe e dalla violenza, e abbiamo intenzione di mantenerla così». La parziale pulizia etnica di New Orleans sarà un fatto compiuto, senza che le amministrazioni locali e quella federale debbano fare grossi sforzi per dare una casa a prezzi abbordabili alle decine di migliaia di inquilini poveri attualmente dispersi nei rifugi per profughi in tutto il paese. Già si discute sulla possibilità di trasformare alcuni dei quartieri più poveri che sorgono in basso, come Lower Ninth Ward, in bacini di ritenzione idrica per proteggere le zone più ricche della città. Come il Wall Street Journal ha giustamente sottolineato, «questo significherebbe impedire ad alcuni degli abitanti più poveri di New Orleans di fare ritorno nel loro quartiere».
L'amministrazione Bush nel frattempo spera di trovare la propria resurrezione in una combinazione di rampante keynesismo fiscale e ingegneria sociale fondamentalista. Naturalmente, l'effetto immediato di Katrina sul Potomac è stato un calo talmente brusco della popolarità del presidente - e, parallelamente, dell'occupazione Usa in Iraq - che la stessa egemonia Repubblicana è improvvisamente apparsa in pericolo. Per la prima volta dagli scontri di Los Angeles del 1992, le questioni poste dai «vecchi Democratici» come la povertà, l'ingiustizia razziale e gli investimenti pubblici si sono momentaneamente imposte al dibattito pubblico, e il Wall Street Journal ha avvisato i repubblicani che devono «tornare all'offensiva politica e intellettuale» prima che qualche liberal alla Ted Kennedy possa riproporre un rimedio stile New Deal, come ad esempio una grossa agenzia federale per il controllo delle inondazioni o il ripristino della fascia costiera lungo la Gulf Coast.
Su questa linea, la Heritage Foundation ha ospitato riunioni protrattesi fino a tarda sera in cui ideologi conservatori, quadri del Congresso e fantasmi del passato Repubblicano (come Edwin Meese, ex segretario alla giustizia di Nixon) hanno presentato una strategia per salvare Bush dalle conseguenze nefaste del calo di popolarità della Fema. Jackson Square a New Orleans, illuminata a giorno ma vuota, è diventata il fondale spettrale del discorso che il presidente ha tenuto il 15 dicembre sulla ricostruzione dopo l'uragano. È stata una performance straordinaria.
Un laboratorio per il neoliberismo
Con aria radiosa, Bush ha promesso ai due milioni di vittime di Katrina che la Casa Bianca si accollerà gran parte delle spese per i danni, stimati in 200 miliardi di dollari: una spesa pubblica in disavanzo talmente alta che avrebbe fatto girare la testa persino a Keynes. (Il presidente sta ancora proponendo un altro grosso taglio delle tasse per i super-ricchi). Bush ha poi corteggiato la sua base politica con un elenco di riforme sociali cui i conservatori aspirano da tempo: buoni per la scuola e per la casa, l'assegnazione alle chiese di un ruolo centrale, una lotteria «per una casa in città», ampie agevolazioni fiscali alle imprese, la creazione di una Gulf Opportunity Zone, e la sospensione di fastidiose norme governative (come i minimi salariali nell'edilizia e le norme ambientali sulle trivellazioni off-shore).
Per i conoscitori della «Bush-lingua», il discorso di Jackson Square è stato un momento di squisito déjà vu: promesse simili non erano forse state fatte sulle rive dell'Eufrate? Come ha cinicamente osservato Paul Krugman, la Casa Bianca, avendo tentato di fare dell'Iraq «un laboratorio per le politiche economiche conservatrici» e non essendoci riuscita, può ora fare i suoi esperimenti sui traumatizzati abitanti di Biloxi e di Ninth Ward. Il deputato Mike Pence, un leader del potente Republican Study Group - che ha contribuito a scrivere l'agenda del presidente per la ricostruzione - ha sottolineato che i Repubblicani faranno della devastazione causata dall'uragano un'utopia capitalistica. «Vogliamo fare della Gulf Coast un magnete per la libera impresa. L'ultima cosa che vogliamo, dove un tempo c'era New Orleans, è una città federale ».
Significativamente, come ha scritto di recente il New York Times, attualmente il genio militare di New Orleans è guidato dallo stesso personaggio che in precedenza supervisionava i contratti in Iraq. Lower Ninth Ward potrebbe non esistere mai più, ma i proprietari dei bar e dei locali di strip-tease nel quartiere francese stanno già pregustando i guadagni che li attendono, quando i lavoratori della Halliburton, i mercenari della Blackwater e gli ingegneri della Bechtel lasceranno a Bourbon Street i loro stipendi federali. Come si dice nel Vieux Carré e alla Casa Bianca: laissez les bon temps roulez!
Nota: qui su Eddyburg vedi anche : Rimpicciolire New Orleans? di Jon E. Hilsenrath, oltre ai molti altri testi sulla ricostruzione della città (l.t.)
Dell’iniziativa della CGIL di Vicenza mi piacciono soprattutto tre cose: il titolo, il taglio, la continuità.
Il titolo “Più piazze e meno mattoni” esprime molto sinteticamente l’obiettivo vero che dobbiamo proporci: restituire la città alla società, ridurre l’edificazione allo stretto indispensabile per allargare lo spazio destinato alla fruizione di tutti. È uno slogan, e una battaglia, che si ricollegano alle grandi lotte operaie del 1969 (sono tra quelli che ricordano ancora la grande manifestazione del 19 novembre di quell’anno, quando l’Italia dei lavoratori si fermò e scese in piazza per la casa come servizio sociale,i servizi, i trasporti pubblici,il Mezzogiorno), ma si apre alla lotta contro il dissennato consumo di suolo per garantire alle generazioni presenti e a quelle future la possibilità di godere di un ambiente pulito, bello, salubre.
Il taglio di una giornata di studio nella quale si esaminano con attenzione le carte tecniche delle scelte sul territorio per valutarle nell’interesse dei lavoratori mi sembra costituire il modo giusto per uscire dalla “politica spettacolo”, dalle risse sulle parole, dalle semplificazione traditrici delle idee, dalle frasi fatte e dai luoghi comuni, dagli ideologismi che nascondono la mancanza di ideali. Studiare per comprendere, comprendere per cambiare: non è questo lo slogan implicito in tutta la storia del movimento operaio?
La continuità con un evento al quale (a differenza di questo) potetti partecipare mi sembra un dato importante. Mi riferisco al seminario che facemmo a Vicenza, all’indomani e “in attuazione” della iniziativa delle sei Camere del lavoro che si riunirono a Bologna nel 2004 per riaprire l’attenzione del sindacato sul territorio. In un’epoca di mode fuggevoli, di revisionismi continui, di altalene tra posizioni e interessi spesso divaricati, la continuità del lavoro che con questa iniziativa testimoniate mi sembra non solo un segno di serietà, ma anche di speranza.
Sulla Giornata di studio vedi Progettare partendo dai diritti dei cittadini
Titolo originale: How green is their tunnel? Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Mentre la torcia olimpica corre verso Torino, un’ombra si allunga sui vicini giochi olimpici invernali dell’anno prossimo.
La disputa sui progetti per un grosso tunnel che corre per 53 chilometri sotto le Alpi è sfociata due volte in violenze nell’ultima settimana. Giovedì, la polizia in assetto antisommossa ha usato i gas lacrimogeni contro i dimostranti, dopo che decine di migliaia di persone avevano approfittato della giornata di festa per manifestare contro i piani per la Val di Susa, che ospita molte delle principali strutture olimpiche.
Gli scontri hanno avuto luogo quando alcuni oppositori del progetto hanno cercato di raggiungere il cantiere già occupato dai contestatori e violentemente sgombrato dalla polizia. Circa venti persone, tra cui cinque poliziotti, sono stati trasportati via in ambulanza dopo gli incidenti, e le tensioni che ne sono risultate devono ancora placarsi.
A dire il vero, queste sono state ulteriormente alimentate dal ministro delle infrastrutture del governo di Silvio Berlusconi, Pietro Lunardi, ingegnere specializzato in gallerie e ardente sostenitore del progetto, il quale mercoledì ha dichiarato che la questione ha smesso di essere responsabilità del suo dicastero, diventando un “problema di ordine pubblico”.
Berlusconi, per parte sua, ha insistito che il progetto deve andare avanti, e che “dal punto di vista ambientale, ha tutte le the [necessarie] garanzie”.
Non è certo quello che pensa la maggior parte degli abitanti, o la maggior parte degli ambientalisti italiani. Essi sostengono che la linea ferroviaria, che collega Torino a Lione, rovinerà la bellezza della valle.
Affermano anche che la montagna contiene depositi sia di uranio che di amianto. Temono che lo scavo del tunnel porterà alla creazione in valle di luoghi di scarico dei rifiuti da cui i pericolosi sedimenti potranno diffondersi nell’aria.
Ma non si tratta solo di uno scontro diretto fra campioni del progresso e dello sviluppo da un lato, e amici dell’ambiente dall’altro. All’inizio di questa settimana la causa degli oppositori del tunnel ha ricevuto un duro colpo da una direzione inattesa.
Gérard Leras, leader dei Verdi nella regione Rhône-Alpes della Francia sud-orientale, ha rilasciato un’intervista al quotidiano italiano Il Corriere della Sera nella quale accusa i suoi colleghi italiani di aver imboccato una direzione sbagliata opponendosi a un progetto che ridurrà l’inquinamento da autocarri nelle Alpi.
Ha dichiarato al giornale: “Un conto è essere ecologisti, un altro essere localisti. Non si può dire sempre di NO”.
Leras sostiene che la zona di Maurienne sul versante francese del confine “non può più sostenere 5-6000 camion al giorno: gli stessi che attraversano e inquinano la Val Susa”.
Ma il progetto dell’alta velocità ferroviaria li toglierà dalla strada? I contestatori italiani sostengono di no. E all’inizio del mese si sono guadagnati il sostegno di un importante esperto di trasporti, Marco Ponti, che insegna al Politecnico di Milano.
Ha raccontato alla rivista L'Espresso di non riuscire a trovare una “motivazione razionale” per costruire il collegamento Torino-Lione. Ponti dice: “La capacità dell’attuale rete [ferroviaria] è già in eccesso rispetto alla domanda, e le merci che viaggiano su ferrovia non hanno bisogno di muoversi a 300km l’ora”.
Per quanto riguarda i passeggeri, continua, hanno già un collegamento ad alta velocità. Si chiama voli low-cost.
Il vertice del comitato olimpico ha dichiarato questa settimana di contare su una tregua, che impedisca alla protesta di riversarsi sui Giochi. Ma con la tensione ai livelli attuali, non c’è alcuna garanzia.
Nota: il testo originale in Inglese: le opinioni di Marco Ponti citate da Hooper, sono meglio argomentate con dati tecnici nell'articolo scritto in collaborazione con Andrea Boitani sul sito La Voce (f.b.)
La Biennale di Tirana cade negli anni dispari insieme alle biennali di Venezia, Valencia, Mosca, Praga e Istanbul; come se non bastasse, nel 2007 si troverà anche a coincidere con la dodicesima edizione della quinquennale Documenta di Kassel. Un affollamento che certo non contribuisce ad attirare nella capitale albanese l’ormai stremato establishment del circuito internazionale dell’arte, ma che in compenso impone alle manifestazioni più “periferiche” un orientamento fortemente site-specific.
La ricerca di una relazione osmotica con il territorio e la popolazione di un paese o di una determinata area geografica rappresenta di fatto uno dei modi più efficaci di arginare la serialità delle biennali: non ci si limita a passare in rassegna le nuove tendenze o le punte eccellenti della produzione artistica internazionale, ma si organizza un tipo di evento in cui gli artisti sono invitati a reagire criticamente alla situazione sociale e politica del luogo, a intervenire nel contesto ambientale e a interloquire con gli abitanti. Cinicamente, si potrebbe persino ipotizzare che la ragione del successo di questa formula sia un interesse voyeuristico nei confronti di regioni di cui si sa poco, un nuovo genere di esotismo.
L’operazione che ha dato notorietà a Tirana e alla sua biennale risale al 2003, quando gli artisti ridipinsero un numero consistente di palazzi con i colori più chiassosi, concordandoli con i residenti: si trattava di un’opera pubblica partecipata, e per di più con una chiara valenza simbolica (spazzare via la grigia impronta dell’era comunista), che non poteva mancare di suscitare l’entusiasmo generale.
La terza edizione della mostra, Sweet Taboos (10 settembre-10 novembre 2005), scaglionata in cinque episodi, continua a riflettere sul postcomunismo. Gli edifici che ospitano la mostra, la Galleria Nazionale d’Arte, di epoca comunista, e il Kompleksi ‘Vila Goldi’, un enorme centro commerciale ancora in costruzione, sono metafore fin troppo didascaliche del passaggio brusco da un sistema rigido a un vuoto di regole che non accenna a essere colmato.
Il terzo episodio, Democracies, curato dalla slovena Zdenka Badovinac, è quello più strettamente politico. Le opere raccolte mettono in questione il tabù che le economie parallele (dalla privatizzazione selvaggia al traffico di donne, agli insediamenti e mestieri informali) rappresentano per i modelli europei di democrazia. La sezione di Hou Hanrou è focalizzata sul confronto con l’arte del realismo socialista all’interno della galleria (Go Inside), mentre Bittersweet, della svedese Joa Ljungberg, esplora le relazioni tra sesso e potere. I due direttori della biennale, Edi Muka e Gëzim Qëndro, hanno curato Temptations, sul potere come tabù, che mostra in primo piano, tra le infinite interpretazioni del tema, un quadro del 1974 raffigurante il Congresso degli 81 partiti comunisti di Mosca, una sorta di palinsesto della censura: la fitta trama delle cancellature, delle distorsioni e delle segregazioni che ha subito racconta la storia dell’isolamento politico dell’Albania.
Dalle fotografie perturbanti di Annee Oloffson, autoritratti deformati dall’intrusione delle mani del padre o della madre, alle installazioni di Platforma 9.81 o di Rubin Mandija che denunciano l’appropriazione dello spazio pubblico, sono molte le opere interessanti.
Tuttavia l’eccezionalità di questa biennale, l’elemento che la rende un’esperienza del tutto atipica, non è il frutto di una scelta deliberata dei curatori. È, al contrario, un fenomeno di resistenza da parte della città, un’opposizione sorda che impedisce allo spettacolo di realizzarsi. I colori dei palazzi, orgoglio dell’amministrazione del sindaco-artista Edi Rama, sbiadiscono inesorabili, il proiettore del cinema Agimi si inceppa, i lavori stradali rendono impraticabile il viale d’accesso alla Galleria Nazionale il giorno del vernissage, la performance di Regina Galindo – che si fa appendere nuda, in attesa di mestruazioni chimicamente indotte, nel garage del kompleksi Goldi, davanti a operai che sbalorditi continuano a lavorare – fallisce, mentre un guardiano si apposta in una saletta video qualche metro più in là, nella sezione Bittersweet, per molestare le donne sole che gli capitano a tiro.
Roberto Pinto, che nell’episodio To Loose Without Being a Looser propone un’idea della sconfitta come rifiuto di partecipare all’ideologia della competizione e della vittoria a ogni costo, è fortemente tentato di appropriarsi di questa rugosità del reale, di farla sua, ma la specificità di Tirana sfugge anche alla sua presa. Uno spiritello situazionista si aggira per le vie, senza che peraltro nessuno lo abbia chiamato.
Quello che la biennale non coglie, se non in minima parte, è la dialettica tra il rifiuto iconoclasta nei confronti di qualunque spazio, uso od oggetto associabile alla dittatura comunista, condizione comune a tutta l’area postcomunista, e il pensiero che alcune componenti di questo rifiuto appartengano alla sfera degli stereotipi. Uno di questi è certamente lo squallore attribuito alla città comunista: pur non avendo un vero e proprio centro storico, Tirana (e anche una parte di Bucarest, come si evince dall’appassionante libro di Giuseppe Cinà sull’argomento appena pubblicato da Unicopli) possiede un bell’impianto urbano, strade alberate e palazzi di epoca comunista che nonostante l’aspetto scalcinato mostrano un buon design, e l’insieme di questi elementi non ha prodotto solo una città civile, ma anche piena di fascino, in cui i caffè, i locali e i negozi aperti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha si sono inseriti nel modo più naturale. Bar e ristoranti sono però solo uno degli aspetti della liberalizzazione: circa un terzo della popolazione rurale si è riversato su Tirana, raddoppiandone la popolazione e trasformandola in una sorta di laboratorio di urbanizzazione accelerata. Nel giro di un decennio la città è stata sommersa prima da baracche e chioschi abusivi – in parte rasi al suolo dal sindaco – poi da una speculazione selvaggia che respinge i poveri ai margini. L’energia convulsa di queste migliaia di persone e automobili in lotta per l’accaparramento dello spazio vitale si osserva ancora meglio dall’alto, dove la prospettiva, invece di aprirsi come di consueto, viene soffocata da alti palazzi color pastello, pieni di archetti e timpani postmoderni, a distanza di cinquanta centimetri l’uno dall’altro.
Di fronte a questo scenario di prevaricazione viene da pensare che il vero tabù, ciò di cui è più difficile parlare e proprio per questo bisogna parlare, sia quel conglomerato di desideri e aspirazioni a una “buona vita”, a un uso pubblico, razionale e condiviso della propria esistenza che, a prescindere dalle sue realizzazioni storiche novecentesche, si è sempre celato e insieme rivelato nella parola “comunismo”.
Titolo originale: The Virtues of Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Dalla Pasco County appena fuori Tampa, alle zone dei ranch a nord di Dallas, fino a Phoenix, e Las Vegas e Boise, i chilometri di lottizzazioni appena costruite sono la scelta ufficiale di milioni di americani. I demografi utilizzano oggi il termine “esurbano” a descrivere questo tipo di localizzazione, in zone aperte nelle fasce più esterne alle zone già suburbane, dove è completamente assente qualunque tipo di relazione tradizionale con una grande città. Pianificatori, ambientalisti, architetti, chiamano tutto questo lo spreco dello sprawl, e spingono per un tipo di urbanizzazione più compatta.
Ma nonostante i prezzi della benzina in crescita, che rendono sempre più costoso accedere a questi paesaggi diffusi, alcuni studiosi e commentatori sostengono che lo sprawl, a dire il vero, non è tanto male.
Alcune realizzazioni recenti fuori Los Angeles, Phoenix, e Dallas sono lontane, ma abbastanza dense, ad esempio, e fanno pensare a qualche tipo di strisciante efficienza che si insinua nella continua suburbanizzazione d’America. Una ricerca della Brookings Institution sull’area di Los Angeles ha rilevato una media di venti abitanti ettaro nelle zone di nova urbanizzazione (1982-1997), ovvero tre volte le quantità dell’area metropolitana di New York. Se si guarda alla popolazione per chilometro quadrato, Los Angeles – che per quanto sia ampia è delimitata dalle montagne e dall’oceano – è più densa di Chicago, secondo il Census Bureau. E le immagini delle case unifamiliari stipate tutte insieme, hanno provocato qualche brontolio sul fatto che questa nuova generazione di suburbi non offra abbastanza spazio.
La densità è solo uno dei fattori, nell’analisi dell’insediamento disperso. Dato che tutte le funzioni della vita quotidiana – case, negozi, divertimenti, posti di lavoro – sono rigidamente separate e diffuse, tutti hanno bisogno dell’auto per muoversi. Ciò significa lunghi spostamenti pendolari, ingorghi stradali, meno tempo da passare con la famiglia. Le amministrazioni locali rischiano la bancarotta tentando di estendere le reti idriche e fognarie o alte infrastrutture verso le aree esterne, anche se poi sono dense, una volta che ci si arriva. Lo sprawl si mangia terre agricole e spazi aperti, e l’investimento verso le zone di insediamento diffuso è avvenuto a spese delle zone centrali urbane, peggiorandone la frammentazione sociale ed economica.
Ma è tutta una storia negativa? Può anche darsi, dice Robert Bruegmann, professore di storia dell’arte, architettura e urbanistica alla University of Illinois di Chicago, che individua alcune buone cose riguardo allo sprawl. “Non è meglio o peggio di altri modi di urbanizzazione” sostiene Bruegmann. “Funziona, perché soddisfa molti bisogni. Quando se lo può permettere, la gente esce dalle città. Ora ci sono decine di milioni di persone che possono fare quello che un tempo era consentito solo a una piccola minoranza.
Bruegmann, il cui nuovo libro Sprawl: A Compact History (Chicago), sarà pubblicato alla fine del mese, si aggiunge allo scrittore e consulente Joel Kotkin, all’editorialista del New York Times David Brooks, e ad altri, nel trovare ispirazione nelle lottizzazioni, quasi fossero delle Jane Jacobs di suburbia. Il sostegno all’insediamento disperso segue una lunga tradizione, iniziata da Thomas Jefferson e proseguita da Frank Lloyd Wright. Oggi, Bruegmann e gli altri sentono come importante individuare ciò che di buono esiste nell’urbanizzazione diffusa, perché lo sprawl è stato martellato per oltre vent’anni da attivisti che auspicano una smart growth, o un New Urbanism, quest’ultimo un movimento architettonico che promuove la progettazione di quartieri tradizionali compatti.
Lo sprawl ci da’ “decentramento e democrazia” sostiene Bruegmann says: un tipo di uso ordinato dello spazio che avvicina classe lavoratrice e ceti medi, consentendo un avanzamento economico e sociale. Le abitazioni nei nuovi insediamenti, nel Sud e nell’Ovest, di solito partono da 120.000 dollari. Tentare di arginare lo sprawl significa mettersi di traverso allo sbocciare del sogno americano.
”È un modo per avere cose un tempo riservate solo a pochi”, prosegue Bruegmann. “ Privacy, mobilità – fisica e sociale – possibilità di scelta”.
E lo sprawl non è un fenomeno nuovo. Dalle antiche Roma e Cina, alla Londra del XIX secolo, a Parigi o Los Angeles oggi, la società si è diffusa sul territorio nei fasi positive dell’economia. “Appena le persone possono permetterselo, si verifica una massiccia migrazione verso le zone esterne” dice Bruegmann. Quindi, può darsi che dovremmo tutti smettere di preoccuparci, e imparare ad amare le lottizzazioni.
Naturalmente, altri osservatori del panorama nazionale di insediamento diffuso vedono un futuro più nero. James Howard Kunstler, campione del New Urbanism e autore di The Long Emergency: Surviving the Converging Catastrophes of the 21st Century (2005), sostiene che quando non sarà più disponibile petrolio a buon mercato, l’economia suburbana collasserà: l’organizzazione fisica che richiede lunghi spostamenti per recarsi ovunque si rivelerà una follia. Kunstler prevede solo erbacce secche rotolanti nelle lunghe strisce commerciali davanti ai Wal-Mart.
”Le nostre città in genere sono organismi ipertrofici: sono diventate troppo grandi nel secolo scorso, grazie alla crescita consentita dall’energia a buon mercato” dice Kunstler. “Qualunque cosa siano oggi, certamente dovranno contrarsi nel XXI secolo. Il processo probabilmente comporterà una densificazione dei vecchi centri o sulle sponde, nella generale contrazione”. L’organizzazione attuale delle nostre vite, sostiene Kunstler, “segue l’incessante logica del cancro, dell’ipertrofia, e si dimostrerà auto-limitante, dato che consuma e distrugge il portatore”.
La gran parte degli attivisti smart-growth oggi non occupa il proprio tempo a criticare lo sprawl o a prevedere la caduta del suburbio. L’attenzione principale è rivolta all’offrire una scelta più ampia a chi non desidera abitare nello sprawl: modificando norme di zoning superate che impediscono insediamenti a funzioni miste vicino a stazioni ferroviarie, per esempio.
”La smart growth non afferma che tutto lo sprawl sia orribile” dice John Frece, direttore associato del National Center for Smart Growth Research all’Università del Maryland. “Non si tratta di impedire la possibilità di costruire sprawl: solo di aggiungere quella di fare cose diverse, e metterla sul medesimo piano. Poi deciderà il mercato”.
Bruegmann sostiene di essere piuttosto aperto all’idea che gli americani scelgano diversi modi di vita in diversi momenti dell’esistenza. E, giusto a complicare ulteriormente le idee di tutti, prevede anche che con l’aumento della ricchezza nelle società, più persone desiderano tornare in città. Si tratta solo di capire in che modo l’agiatezza condiziona la domanda di vari ambienti fisici.
”Se si hanno soldi a sufficienza, la vita nell’alta densità può essere molto attraente” dice. “Credo che ci sarà sempre qualcuno che desidera vivere in spazi di tipo suburbano, comunque. Ma se si ha un appartamento spazioso sulla Fifth Avenue con un portinaio, e se si può prendere un taxi o camminare fino al Metropolitan Museum of Art ... ci sono milioni di persone che adorerebbero farlo”.
In definitiva, sostiene Kotkin, autore di The City: A Global History (2005), “I problemi dello sprawl dovranno essere risolti nel contesto dello sprawl. Non si può fermarlo. Non si può riprogrammare la società facendo tornare tutti a Boston. Dimenticatevelo. Non succederà”.
Lo sprawl sta migliorando, dice Kotkin says: più denso, e alla fine con una migliore combinazione funzionale, e negozi e posti di lavoro più vicini alle abitazioni. Kotkin prevede una crescita di questi villaggi suburbani, che chiama “ new suburbanism”, riecheggiando deliberatamente il New Urbanism. Con l’aiuto della tecnologia, più persone saranno in grado di lavorare da casa, o comunque più vicino a casa. Gli spostamenti in auto saranno ancora necessari, ma potranno essere più brevi, e fatto usando veicoli ibridi e ad uso efficiente dell’energia.
”Nella California meridionale diciamo queste cose da anni: semplicemente, è un nuovo tipo di città” sostiene Kotkin. “È come se qualcuno dalla Firenze rinascimentale arrivasse nella Manchester del XIX secolo. Direbbe: dov’è la chiesa nel mezzo? È semplicemente diverso. L’urbanizzazione di suburbia è la grande sfida della pianificazione all’inizio del XXI secolo in America”.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe (f.b.)