Titolo originale: In Spain, a Tide Of Development – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
BENISSA, Spagna - Lieve de Cleippel e Hubert van Bel, belgi, sono fa vent’anni proprietari della loro casa vecchia di 150, affacciata sul Mediterraneo spagnolo. Appollaiati in cima a una collina, circondati da palme e tre ettari di terrazze a vite e ulivi, sono a lungo restati isolati dall’infermale urbanizzazione che ha devastato lunghi tratti della costa.
Lo scorso novembre, avvisati che l’amministrazione locale aveva approvato un nuovo insediamento nella loro zona, sono andati in municipio a dare un’occhiata. E sono rimasti esterrefatti da quanto hanno scoperto.
“Vogliono demolire tutto” sulla loro proprietà, racconta van Bel, 59 anni. “Perderemo più di metà del nostro terreno, e inoltre ci faranno pagare 700.000 euro”, in contributi per nuove strade, fogne, illuminazione e altri servizi. “Siamo orripilati”.
Van Bel sostiene di non essere stato informato della variante al piano regolatore – destinata alla realizzazione di diciassette case – e di non aver avuto la possibilità di presentare opposizione. E questo è illegale per le norme urbanistiche locali.
L’incubo giudiziario, ancora in corso, è solo un esempio della rampante pressione edificatoria lungo gran parte dei quasi cinquemila chilometri di coste spagnole. Gli ambientalisti dicono che questo boom edilizio che dura da dieci anni sta alimentando la corruzione e le attività mafiose, distruggendo gli ecosistemi e trasformando la costa in una bruttura.
Sono state realizzate o iniziate circa tre milioni di case in Spagna negli ultimi quattro anni, di cui 812.000 nel 2005, e circa la metà di queste si trovano lungo la costa. Secondo alcune stime, nel paese avviene il 40% di tutta l’attività costruttiva europea.
Il boom è alimentato in parte dalla domanda degli europei del nord per case in cui ritirarsi da pensionati sul Mediterraneo. Attirati dal clima mite, dalle abitazioni relativamente economiche, dalla facilità di aggirare le tasse conducendo le operazioni in nero, gli stranieri in alcuni piccoli centri costituiscono fino al 70% della popolazione.
“Stanno legalizzando l’edilizia illegale, urbanizzano l’intera area. E adesso stanno occupando direttamente il mare” con l’ampliamento delle darsene e attracchi in zone ambientalmente sensibili, spiega Miguel Angel Garcia, portavoce del World Wildlife Fund. “Oggi non si fanno più piani. Semplicemente si costruisce”.
Un rapporto a luglio del gruppo ambientalista Greenpeace ha rilevato che centinaia di migliaia di nuove case e stanze d’albergo, 40.000 nuovi approdi e centinaia di campi da golf, vengono progettati in zone che stanno soffrendo della peggiore siccità da 50 anni. Nelle quattro regioni della Spagna che abbracciano la costa del Mediterraneo, ci sono 273 centri con 4,3 milioni complessivi di abitanti senza impianto di depurazione dell’acqua.
Di fronte alle rimostranze della Commissione, braccio esecutivo dell’Unione Europea, perché le spiagge pubbliche del paese erano troppo inquinate, la Spagna ne ha tolte 365 dall’elenco delle zone balenabili approvate, anziché risolvere il problema.
Sono in corso decine di indagini di reato. Nella cittadina vacanze di Marbella, circa cinquanta chilometri di costa da Gibilterra, sono in corso processi riguardanti 30.000 case accusate di essere state edificate illegalmente, delle quali 1.600 in zone a parco.
Qualche mese fa, la polizia ha lanciato un’operazione in profondità, congelando 1.000 conti correnti bancari e sequestrando oltre tre miliardi di dollari in varie forme –da ville di lusso, a cavalli purosangue, a tori da combattimento e 275 opere d’arte – a politici, avvocati, funzionari pubblici degli uffici tecnici, tutti accusati di aver accettato denaro in cambio del rilascio di autorizzazioni edilizie e varianti urbanistiche. Sono stati arrestati il sindaco e altre dieci persone, tra cui due ex sindaci, giudicati colpevoli di corruzione.
Il boom edilizio ha contribuito a creare un’economia sommersa tale da attirare miliardi di euro in finanziamenti illeciti, sostengono gli esperti. Oggi, in Spagna circola il 26% di tutte le banconote da 500€ dell’Unione Europea, secondo il Ministero delle Finanze, in gran parte per riciclaggio e corruzione nell’ambito del settore edilizio, si ritiene. Gli spagnoli hanno soprannominato queste banconote “ Bin Laden” perché si sa che esistono, ma nessuno riesce a trovarle.
“Essenzialmente, i trafficanti di droga del sud della Spagna hanno investimenti nell’edilizia e immobili perché è un modo facile di ripulire il denaro senza troppe domande” spiega Alejandra Gomez-Cespedes, lettrice all’Istituto di Criminologia dell’Università Andalusa di Malaga.
A Altea, cittadina di mare poco meno di cento chilometri a sud di Valencia, è stata ricoperta di cemento un’intera scogliera, e via via nuovi edifici ad appartamenti hanno scavalcato i vecchi fino al margine dell’acqua.
Si sta allungando un nuovo molo, attraverso una foresta sommersa di 5 ettari di alga Posidonia, per raddoppiare la capacità di attracco a 1.064 imbarcazioni. Il governo ha ordinate di trapiantare le alghe altrove, ma l’85% della foresta traslocata è morto, secondo Garcia del World Wildlife Fund.
Alcune delle critiche più aspre hanno riguardato la cosiddetta legge arraffaterreni dell’area di Valencia, che ai costruttori di controllare le proprietà private, conferendo loro mezzi legali per obbligare i proprietari a rinunciare ai terreni o a ricomprarli.
“Se esiste una motivazione sociale per la trasformazione del territorio, questa prevale sul diritto fondamentale europeo: quello della proprietà privata”, spiega Charles Svoboda, diplomatico canadese in pensione presidente di Abusos Urbanisticos NO, gruppo con 30.000 associati formato allo scopo di tutelare i proprietari.
La legge è stata esaminata dal Parlamento Europeo dopo che 15.000 persone, di cui molti pensionati da altre zone d’Europa, avevano firmato petizioni chiedendo un intervento. La Commissione ha chiesto alla Spagna di modificare la legge.
“Chiamiamola col suo nome: furto di terreni” dice Michael Cashman, deputato britannico al Parlamento Europeo che ha guidato un gruppo di lavoro e indagine sulle leggi edilizie di Valencia. “Quello che abbiamo rilevato sono 18-20.000 casi di mancato rispetto dei diritti individuali”.
L’amministrazione di Valencia ha chiesto alla Washington Post di presentare le proprie domande sulla legge per iscritto, ma non ha risposto.
In un incontro a Madrid, la vicepresidente spagnola María Teresa Fernández de la Vega ha spiegato che il governo federale ha poco controllo sulle materie urbanistica e edilizia, che, dice, sono responsabilità delle amministrazioni locali. Ma ha aggiunto che il governo sostiene nuove norme urbanistiche per combattere la speculazione sui terreni e ha messo in bilancio 77 milioni di dollari per acquisire aree ecologicamente sensibili e tutelarle dall’edificazione.
A Benissa, centro di 12.000 abitanti ottanta chilometri a sud di Valencia, il caso di Lieve de Cleippel e Hubert van Bel è rimasto sospeso per qualche mese. Ma il sindaco Juan Bautista Rosello dice che verrà riesaminato, secondo una norma rivista che eliminerà le minacce di demolizione della casa della coppia, ma ha pronti progetti per “urbanizzare” gran parte della proprietà secondo il piano regolatore cittadino.
Dice che non è vero, che la legge di Valencia consenta alle amministrazioni di prendersi i terreni. Invece, spiega, le città “convertono i terreni agricoli in edificabili”, e poi fanno pagare ai proprietari i costi di urbanizzazione.
Nel caso della coppia belga e dei suoi tre ettari, dice Rosello, verrà loro garantita una superficie di circa un ettaro attorno alla casa, mentre quella rimanente verrà classificata urbana. Secondo le nuove norme, verranno tassati circa di un milione di dollari in oneri di urbanizzazione, spiega.
Se la coppia non vuole che quella superficie venga edificata, dice Rosello, deve pagare quanto calcolato, come chiunque sia proprietario di aree destinate all’edificazione nel nuovo piano. L’altra possibilità che hanno, è di vendere il terreno a un costruttore.
“Non lo vedo come uno scontro” fra interessi pubblici e privati, spiega Rosello, ma piuttosto come un equilibrio fra i due aspetti. “Non viene sottratta una proprietà senza dar niente in cambio … In cambio ottengono un terreno edificabile” che, dice, sarà di valore più elevato.
“Noi non abbiamo comprato per investimento, volevamo abitarci” racconta la de Cleippel, 56 anni, mentre passeggia all’esterno della casa in stile coloniale con ampi portici, giardino lussureggiante e veduta mozzafiato sul mare a un chilometro di distanza. “Vogliamo soltanto tenere la nostra proprietà, non vederci costruire sopra diciassette case”.
Alla redazione dell’articolo ha contribuito la corrispondente da Madrid Molly Moore.
Dopo mezzo secolo di convivenza con gli americani, Vicenza rivive oggi la
"sindrome del barbiere Eolo" raccontata da Goffredo Parise nel 1956. E stasera lo psicodramma, scandito da una manifestazione di protesta politicamente trasversale nella piazza palladiana che solo cinque giorni fa ha inneggiato agli anatemi di Berlusconi contro Prodi e fischiato l´inno nazionale, si consuma in un Consiglio comunale arroventato.
Nella Sala Bernarda dovrà decidere se dare o no l´aeroporto Dal Molin alla 173esima Brigata paracadutisti, facendo di Vicenza la più potente base militare americana d´Europa.
Il barbiere Eolo vedendo arrivare mezzo secolo fa in piazza dei Signori un italo-americano di nome Roy de Ciccio sospettò che fosse una staffetta spedita in città per i primi contatti con la popolazione alla vigilia dell´installazione delle truppe Setaf. Di lì a poco giunsero le truppe americane. Aveva ragione Eolo. Ma stavolta il Roy de Ciccio non s´è visto, perché a preparare a dovere il terreno del nuovo sbarco americano, già concordato dal governo Berlusconi, c´era il sindaco forzista, grande amico dell´ex premier, il quale è stato testimone delle sue seconde nozze. Ex fascista, o post, poi deputato leghista nel 1994 e infine approdato a Forza Italia, Enrico Hullweck, un medico pediatra che la sua ex avversaria elettorale Laura Fincato, deputata ulivista vicentina, definisce sorridendo «mellifluo», trattava in segreto almeno da un paio d´anni la superfetazione della presenza militare americana a Vicenza e la concessione dell´aeroporto Dal Molin. Operazione strategica per gli Stati Uniti, che ai bordi di quella pista, distante solo un paio di chilometri dalla basilica palladiana, hanno progettato un nuovo villaggio per due o tremila soldati americani provenienti dalla Germania, dove non li vogliono più, che si aggiungerebbero ai 3000 già in città, riunificando i quattro battaglioni e il comando della 173esima brigata paracadutisti, il team di combattimento, la brigata aviotrasportata d´élite destinata ad operazioni «chirurgiche» in Medioriente. Tanto che a presentare l´operazione, accolto più o meno con gli onori che spettarono a Orson Wells e a Olivia de Havilland nel 1955, giunse il 27 gennaio 2004 alla Caserma Ederle, sede delle truppe americane di stanza a Vicenza, il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney. Hullweck sapeva. Ma non l´ha detto alla città, finché la città non l´ha scoperto.
Così i tranquilli vicentini, quasi tutti occupati normalmente a far tre volte il segno della croce e a contar schei, non l´hanno mandata giù e stasera, senza distinzione di colore, andranno a urlarlo sotto la Sala Bernarda.
«La protesta è nata dai comitati spontanei, i partiti sono arrivati dopo», giura Laura Fincato che, con Lalla Trupia, ha raccolto alcune decine di firme di parlamentari ulivisti per il «no» al progetto americano. Un bel problemino per il ministro della Difesa Arturo Parisi, che si trova in mano impegni del precedente governo, l´opposizione di parte cospicua della maggioranza e Rifondazione Comunista che minaccia addirittura di «negare il sostegno all´esecutivo», al momento per bocca del segretario veneto e deputato Gino Sperandio e del segretario cittadino Ezio Lovato, se il prevedibile «sì» del Consiglio comunale vicentino venisse avallato dal governo senza che prima si svolga almeno un referendum.
Uno dei leader dei comitati spontanei, che si chiama Albera, snocciola i mille e uno motivi, a parte i silenzi menzogneri di Hullweck, per dire no a Camp Ederle 2: l´aeroporto Dal Molin è in piena zona residenziale, sul fiume Bacchiglione, a un paio di chilometri dal centro di Vicenza, patrimonio Unesco dell´umanità, ed è l´unica area verde da Vicenza a Schio e Thiene; l´impatto ambientale e per la mobilità sarebbe devastante, non meno della perdita di valore delle case e della definitiva americanizzazione della città, che già di problemini ne dà non proprio da niente. Ma il vero argomento lo coglie Marino Quaresimin, ex sindaco di Vicenza della Margherita: «Perché gli americani vogliono proprio l´aeroporto Dal Molin e non le altre migliori localizzazioni che si sono proposte? Chiaro, perché gli interessa la pista. Lo dice la logica: da dove volete che si buttino i paracadutisti della 173esima, dal campanile della basilica? «Il generale Frank Helmick giura che non useranno la pista dell´aeroporto e che in città non ci saranno armamenti pesanti, già custoditi a pochi chilometri di distanza a Longare e Tormeno e in altri siti di stoccaggio segreti sparsi nei dintorni. Ma possibile che la brigata d´élite debba fare 150 chilometri di autostrada in camion o in pullman, attraversando il passante di Mestre, per partire verso una missione "chirurgica" in Medio Oriente o anche per andare ad addestrarsi? O i paracadutisti si lanceranno dal campanile?
Lecito allora pensare che la pista sia l´oggetto del desiderio. Se è così, sarebbe come autorizzare una caserma da 600 mila metri cubi più pista d´atterraggio a Villa Borghese a Roma o al Valentino a Torino.
«Uscivano alle prime ore del mattino, pochi potevano vederli», scriveva Goffredo Parise nel racconto «Americani a Vicenza», che avrebbe voluto essere un reportage, ma, come lui dice, «è piuttosto una intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti americani (uomini e cose) che vidi cinque anni dopo in America, carichi del loro falso splendore».
Anche oggi escono alle prime ore del mattino dalla caserma Ederle, per il jogging d´addestramento in gruppo verso il Monte Berico, con gli zaini affardellati. O, più o meno verso la stessa ora, escono dalle discoteche di lap-dance, dalle periferie del sesso a pagamento. E sono questi, spesso ragazzi che tornano da missioni in Iraq, che angosciano la città serena e produttiva che ha introiettato la democristianità dei Rumor e dei Bisaglia, il culto dei papi. E´ l´angoscia dei tassisti del primo turno, dei vicentini faticatori e mattinieri che ne vedono qualcuno pisciare ubriaco sulle pietre del Palladio o, peggio, a far rissa tra loro, come mezzo secolo fa capitò a Parise, sgomento per un lago di sangue che usciva da un occhio accoltellato.
Interviene, efficiente, la Military Police e il generale garantisce che i controlli saranno persino più severi. Ma come frenare ragazzi che tornano dalle missioni di guerra?
Quelli che hanno famiglia stanno nel loro «Villaggio della pace», se non sono di turno escono col loro immenso Suv targato «ZA», cui nessun vigile fa le multe, ma la spesa si fa dentro, il pane arriva dalla Germania. Dentro la caserma e dentro il villaggio ci sono il supermercato, la scuola, il campo di basket e baseball, le piscine, i centri ricreativi, adesso pure l´ospedale, in base ad un accordo con la Usl numero 6, di cui si dice informato l´ex sindaco Quaresimin. Sono forse quindicimila in tutto, con le famiglie, più del dieci per cento dei vicentini.
Trecentosei milioni di dollari è l´investimento previsto per il raddoppio della base, che potrebbero salire al doppio. I costruttori locali, Ingui, Maltauro e gli altri, sono lì ansiosi per la nuova americanizzazione cementiera, ma non tutta la locale Confindustria presieduta dal capo di Federmeccanica Massimo Calearo. Il sindaco e i suoi, come il consigliere di An Francesco Rucco, che pur si dichiara fortemente «antiamericano», dicono che l´economia potrà giovarsene e anche l´occupazione di personale vicentino nella base, che è già di qualche centinaio di persone.
La Camera di commercio e gli enti locali hanno partecipato a sponsorizzare un libretto intitolato The american heart of Vicenza che è un piccolo peana americanista, teso a dimostrare che, dopo cinquant´anni di coabitazione, gli americani a Vicenza vivono «like ordinary citizens». Ma il 62 per cento dei vicentini, secondo un sondaggio condotto dal professor Ilvo Diamanti su un campione rappresentativo di 1500 persone, è fieramente contrario a Camp Ederle 2. Addirittura l´85 per cento pretende un referendum. Il vicepremier Francesco Rutelli l´ha promesso, qualunque sia stanotte l´esito della Sala Bernarda.
Poi c´è la questione più generale, che è stata posta dal vecchio liberale Sergio Romano: se l´America fa una politica estera non conforme ai nostri interessi, perché mai l´Italia dovrebbe ospitare basi che sono strumenti di quella politica? Si chiudano, semmai, anche quelle esistenti, in ossequio alla sovranità nazionale.
Brutta serata, dopo Sala Bernarda, per Arturo Parisi, che non potrà più fare a scaricabarile, e per Prodi. L´American heart of Vicenza rischia di diventare per loro un altro incubo.
Non solo la Biennale Architettura, ma anche le ricorrenze sottolineano i problemi della città e del territorio. È da poco passato il quarantennale della frana di Agrigento, il disastro urbanistico che travolse una parte rilevante della città siciliana provocando riflessioni e tentativi di riforme, e le immagini offerte dai vari «paesaggi italiani» ci dicono che anche oggi - a fronte della crescita disciplinare e culturale che pure si è registrata a partire da quell'avvenimento - la situazione delle politiche e delle pratiche urbanistiche resta molto problematica, a indicare azioni inadeguate e, forse, nuovi rischi di evanescenza civile della disciplina.
Il ripetersi di calamità naturali come frane e alluvioni rivela un ambiente sempre più fragile di fronte ai cambiamenti climatici: un mondo «in cottura» - come lo ha definito Jeremy Leggett - che trova un territorio indebolito dalla rottura delle più elementari regole di organizzazione idrogeologica, oltre che delle strutture principali degli apparati paesistici. D'altra parte, il paesaggio soffre della ormai abnorme pervasività della «città diffusa». A distanza di qualche anno dall'analisi, ancora oggi utile, di Arturo Lanzani nel suo Paesaggi italiani (Meltemi 2002), che riusciva a cogliere prospettive nell'inviluppo tra «morfologie sociali, trame insediative e quadri ambientali», gli stessi contesti appaiono spesso rozzamente stravolti dalla inarrestabile crescita del costruito.
Macchie scure sulla pianura padana
Di questi fenomeni la disciplina urbanistica offre interpretazioni profonde quanto brillanti. È il caso, recentissimo, degli studi contenuti nel Rapporto «Itater 2020», L'armatura infrastrutturale e insediativa del territorio italiano del 2020, concluso da poco per il Ministero delle Infrastrutture da un gruppo della Società Italiana degli Urbanisti. I luoghi del «Belpaese», così come ci vengono restituiti dal rapporto, appaiono da nord a sud stravolti dalla diffusione insediativa. La «Grande Torino» si è sparsa oltre la collina, nella campagna piemontese. L'area metropolitana milanese si rivela - vista dal satellite - come un «macchione grigio» che si estende dalle Prealpi varesine, alla Brianza, alla Orobia, fino all'Oltrepo pavese, con una megaconurbazione che lascia solo qualche isola di verde, agricolo o forestale e lambisce sempre più le rive del Po. Più a est, oltre il Garda e Verona, la «marmellata insediativa veneta», basata su tre tipi di abuso, fiscale, sociale e ambientale, sconvolge il paesaggio storico ecorurale («nella campagna, interrotta da piccoli villaggi, per ogni campanile c'è una ciminiera»). È un prezzo che non basta a evitare l'incipiente crisi dell'economia del Nordest, dovuta all'esaurimento di spazi e risorse territoriali, ma anche alle spietate regole della globalizzazione (i distretti dovrebbero diventare «dislarghi» per affrontare le sfide della competizione con le tigri asiatiche e le bizzarie di un mercato sempre più oligopolistico, come sostiene fra gli altri Luciano Gallino).
Restano così gli ingombri territoriali del «modello Nec», ormai in crisi: la megacittà lineare della costiera adriatica che, alimentata da turismo e terziario, dal Veneto prosegue in Romagna, Marche e Abruzzo, fino al Gargano, sostanzialmente senza soluzioni di continuità. Nel basso adriatico, emergono ancora le urbanizzazioni allargate di Bari e del Brindisino. Dall'altra parte, Bologna che si allunga sulla via Emilia, e, superato ad «alta velocità» l'Appennino, la «media città toscana» (la piana Firenze-Prato-Pistoia che, attraverso l'Arno, tende a saldarsi con la urbanizzazione tirrenica che si estende ormai dalla Versilia a Livorno). Ancora, la nuova centralità della «grande Roma» da ricercare nella campagna romana. Verso Sud la «megalopoli campana» che va da Napoli a Caserta: un continuum insediativo che colpisce per la sua irrazionalità, quasi voluta (rifiuti prossimi e interni a campi coltivati, addirittura anche a servizi sanitari, talora a fungere da barriera tra aree residenziali e attrezzature di servizi).
Chiudono lo stivale gli ottocento chilometri di città costiera calabra, jonica e tirrenica, dove si affolla l'ottanta per cento di popolazione calabrese che svuota un interno ecologicamente tanto prezioso quanto fragile. Di fronte, la Sicilia dal paesaggio ambivalente, dove si alternano episodi dai valori paesistici altissimi a grandi ambiti di costruito, città ormai molto più grandi delle proprie armature ambientali ed economiche, degradate e congestionate. In Sardegna, infine, alle minacce di resa nei confronti della diffusione urbana costituita dalle conurbazioni cagliaritana e di Sassari-Alghero e ancora dalla città turistica della Costa Smeralda, sembrano voler rispondere le politiche di tutela del paesaggio e di sviluppo sostenibile del territorio proposte dal governo regionale di Renato Soru.
A queste analisi così precise, però, non sempre corrisponde un fertile rapporto tra disciplina e politiche urbanistiche, anche se proprio su scala regionale, e a livello normativo, si avverte probabilmente l'unico tentativo di un qualche rilievo di reazione rispetto al quadro descritto. Difficile però cercare soluzioni singolari, pure nell'ambito delle architetture sostenibili rappresentate alla Biennale. Ma se le istituzioni del settore soffrono spesso per inadeguatezza culturale e programmatica, è la disciplina urbanistica stessa oggi a mostrare grandi disagi, poiché la forte crescita di alcune aree di problemi ha ulteriormente complicato un quadro già confuso.
Innanzitutto la domanda sociale, già in dissolvenza, si è ulteriormente dispersa fin quasi a «liquefarsi». Nei confronti di quello scivolamento verso una «società di scarti», capace di esprimere «grumi di identità» solo attraverso «le nuove dimensioni del consumo», descritto da Zygmunt Bauman in Vita liquida, la disciplina ha manifestato una eccessiva rigidezza, che si è accompagnata alla «crescente difficoltà a implementare politiche pubbliche di gestione della città e del territorio», come ha scritto Luigi Mazza in Prove parziali di riforma (Franco Angeli, 2004). Un tema, questo, che tocca un nodo critico, forse «ideologicamente» enfatizzato negli ultimi anni dalla «ubriacatura di mercato» e dalle «magnifiche sorti e progressive» delle privatizzazioni che hanno segnato ampi strati della cultura progressista e di sinistra.
Abitanti stanziali e abitanti nomadi
Altri problemi sono derivati di recente dalla necessità di comporre dinamiche socioculturali sempre più complesse con le crescenti esigenze di tutela dell'ambiente e del paesaggio. Tutto ciò ha portato a escludere, di fatto, dalle scelte urbanistiche istituzionalizzate, gli «abitanti». In realtà questi problemi - magari in forme meno marcate rispetto agli anni recenti - si erano già avvertiti già dalla fine della fase «riformista» della politica urbanistica, all'inizio degli anni '80, e avevano contribuito a far considerare forse irrimediabilmente obsolete le diverse tipologie di piano che costituivano il dispiegamento del «progetto moderno».
In Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli 2004) uno dei più raffinati interpreti delle vicende urbanistiche non solo italiane, Pier Carlo Palermo, preside della facoltà di Architettura e Società di Milano, individuava nell'esperienza di «progettazione urbanistica» (legata direttamente o indirettamente alle elaborazioni di Bernardo Secchi) e nelle versioni più recenti dell'urbanistica «razional-riformista» (ruotante attorno all'Inu, con Giuseppe Campos Venuti tra le figure di maggior rilievo) gli estremi tentativi di superamento dei modelli trascorsi e di riproposizione della «pianificazione e governo del territorio» come strumento risolutivo dell'organizzazione socio-spaziale delle città. Questi progetti prefigurano nuovi meccanismi di interazione con un quadro sociale assai più dinamico e complesso del passato (compresi gli «abitanti nomadi» di Deleuze e Guattari, quando esistono) e provano a disegnare gli apparati fondativi dello strumento per dispiegarne le ulteriori elaborazioni, tecniche e politiche, culturali e programmatiche.
Quello che viene in luce è una centralità del ruolo dell'istituzione territoriale ai diversi livelli, che spesso costituisce il momento più debole del meccanismo. Le crisi delle istanze politico-istituzionali finiscono infatti per riversarsi sul processo di piano, condizionandolo progressivamente. Lo scarto tra un programma fondato soprattutto sulla domanda di innovazione sociale e un quadro istituzionale ormai espressione di interessi tesi a trasformare o usare città e territorio secondo logiche appartenenti a mercati anche diversi (ma certamente estranee alle istanze degli abitanti) diventa un nodo critico pressoché insormontabile, capace di mettere in crisi anche i «progetti di territorio» basati sulla programmazione concertata.
Emergono dunque due piani di problemi, che già si erano profilati rispetto ai «vecchi» arnesi disciplinari, ma che ora esplodono clamorosamente a fronte dei tentativi di rinnovo. Non importa che questi si trovino nel solco della pianificazione «virtuosamente» aperta alla domanda sociale o nelle proposte di svolta drastica, di nuova azione dall'alto, interrelata alla capacità di offerta trasformativa (la «programmazione concertata»). In estrema sintesi, possiamo affermare che nelle ultime fasi siamo stati di fronte a un'azione sul territorio talmente incapace o nolente di tener conto dei suoi valori da produrre - nel negarli - problemi crescenti, problemi che dallo specifico delle sensibilità ambientali, paesaggistiche e socio-culturali, sono diventati fatti critici nel quotidiano di ciascuno.
La cesura tra istituzioni decisionali e partecipazione sociale costituisce peraltro oggetto di numerosi studi. Sono molti i temi a proposito dei quali il disagio urbano si è già «rivoltato» in proposta progettuale, fino a produrre addirittura forme di autogoverno, sia pur limitate ad aree tematiche spesso fortemente contestualizzate, che riguardano tuttavia diverse questioni. Valga per tutti l'esempio di Firenze, dove l'amministrazione - certo di salde tradizioni democratiche e riformiste - spinge i rappresentanti di associazioni e movimenti a programmare, insieme ai professori del Laboratorio per la Democrazia, agli urbanisti più avanzati, ambientalisti e sinistra radicale, una lista alternativa a quella dell'Unione. Di questa esperienza, del resto, aveva già parlato Giancarlo Paba nel suo Insurgent city. Racconti e geografia di un'altra Firenze (Mediaprint, 2002).
Alberto Magnaghi ha tentato di affrontare il nodo critico istituzioni/partecipazione fin dall'avvio del programma di ricerca «territorialista». La sua indagine sulle formazioni sociali dei «nuovi abitanti» muoveva dalla crisi, per certi versi irreversibile, del concetto di «comunità», almeno nelle formulazioni più consolidate tra sociologi e urbanisti. Il luogo, tuttavia, restava un concetto distintivo per riterritorializzare contesti troppo spesso degradati, dequalificati, disastrati nella negazione dei valori del patrimonio territoriale. In effetti il filone cresciuto attorno a quelle esperienze di pianificazione «ambientale», «territorialista» o «autosostenibile» si è molto ampliato. Una parte prevalente del campo disciplinare oggi assume il riferimento della «sostenibilità» - come si nota fra l'altro nel volume Complessità del territorio e progetti ambientali, a cura di Maurizio Imperio e Manlio Vendittelli, da poco uscito per Franco Angeli - anche se i più tendono a declinare troppo disinvoltamente tale termine, trascurando i criteri-guida del progetto «territorialista»: critiche al modello di sviluppo globalizzato, affermazione da parte dei nuovi abitanti dei valori tipici del contesto locale, interazioni tecnici-abitanti-istituzioni, azioni dal basso per la costruzione di «scenari di futuro», riterritorializzazione come recupero e riqualificazione del paesaggio e vincoli a ulteriori urbanizzazioni.
Dentro le articolazioni leggere
Il concetto di scenario, visione di futuro, disegnato dagli attori locali per tutelare e affermare il quadro di valori patrimoniali presenti, costituisce oggi un motivo distintivamente innovativo dell'elaborazione territorialista, così come emerge nella raccolta di saggi curata da Magnaghi La rappresentazione identitaria del territorio (Alinea, 2005): esso, infatti, nella sua possibilità di «articolazione leggera» può rispondere ad alcuni dei nodi critici ricordati sopra; è costruito dal basso e favorisce processi di self-governance, anche oltre la partecipazione; permette di interagire - in maniera positiva, dialettica o conflittuale - con il quadro istituzionale fino a determinarne la posizione; costituisce una griglia di valori «costruttivamente interpretati» tali da semplificare la valutazione strategica o più semplicemente di compatibilità delle istanze, pubbliche o private, che eventualmente «dall'alto» si proponessero per quel contesto; è costruito «comunicativamente» per allargare la partecipazione e l'interazione; costituisce una prospettiva dal basso, dal punto di vista dei valori di «quell'ambiente» per l'azione. La rete dei «Laboratori Territoriali», forum composti da studiosi, movimenti e abitanti, è molto cresciuta ed è diventata oggi una trama ampia, che si gioca soprattutto sul piano socio-politico e si distingue armai dall'ambito della ricerca scientifica, anche se mantiene con essa solide relazioni culturali.
La risposta «dal basso» all'incapacità politica di affrontare nodi e temi di un territorio sempre più complesso si è allargata: accanto agli studiosi, ai movimenti, ai soggetti locali che animavano i laboratori ci sono oggi molte istituzioni territoriali. La «Rete» è diventata «Nuovo Municipio», perché vede l'adesione di molte istituzioni che provano a costruire politiche urbanistiche, del paesaggio, dei servizi, dell'accoglienza, dell'educazione: sono insomma quei Percorsi condivisi che hanno dato il titolo a un recente volume di Giovanni Allegretti e Maria Elena Frascaroli, uscito per Alinea.
Qualche tempo fa sembrava che le condizioni per un «laboratorio territoriale», spesso primo passo verso il «Nuovo Municipio», fossero in qualche modo «eccezionali», dato che richiedevano convergenze rare tra attori sociali e quadro istituzionale. Oggi, degrado, invivibilità, deterritorializzazione, perdita di senso dei luoghi, allargano le occasioni di un cambiamento che si proietta verso visioni realmente diverse.
LANUSEI. Con sei etti e mezzo di esplosivo da cava le hanno detto «Vattene!» per la terza volta, e Maria Laura Del Rio, 37 anni, capo dell’ufficio tecnico del Comune di Lanusei, ha deciso di ascoltare il consiglio e di chiedere il trasferimento a un altro ente.
Nella città in cui non si potrà costruire neppure con i mattoncini del Lego finché non saranno prese tutte le precauzioni contro alluvioni e frane, i professionisti della dinamite attaccano i professionisti dell’urbanistica e dell’edilizia. Giovedì sera, rientrando a casa, l’architetto Del Rio ha trovato appeso al cancello un candelotto di Tutagex dentro un sacchetto nero. Due notti prima una bomba era esplosa davanti all’abitazione dell’ingegner Antonello Sulas, 33 anni, ex dirigente regionale dell’Udeur.
«Se qualcuno pensa che sia impossibile costruire a Lanusei per colpa dei politici o dei tecnici locali, sta sbagliando mira», dice il sindaco Tonino Loddo, 56 anni, ex deputato della Margherita, in carica dalla primavera del 2005 e ora dimissionario a causa dello stato confusionale della maggioranza di centrosinistra che dovrebbe sostenerlo.
«Ripeto quello che ho già spiegato e rispiegato ai miei concittadini in diverse assemblee popolari - continua Loddo -. L’intero centro abitato è zona HG3, ad alto rischio di frane, e finché non sarà entrato in vigore il Pai (Piano di assetto idrogeologico) non si potrà costruire nulla. Ma queste sono cose che si decidono a Cagliari, non a Lanusei: al Genio civile e all’assessorato regionale ai Lavori pubblici. Secondo punto: nelle campagne ci sono almeno trenta licenze edilizie bloccate, ma questo dipende dal piano paesaggistico regionale, non dal Comune di Lanusei. Un agro spezzettato come il nostro, con proprietà piccole o piccolissime, è inedificabile».
Il sindaco è stato più volte a Cagliari con il capo dell’ufficio tecnico per sbloccare almeno il Pai: «Ci hanno promesso risposte in tempi brevi, quindici/venti giorni», dice Tonino Loddo.
Intanto Lanusei (circa seimila abitanti, capitale della Provincia Ogliastra in coabitazione con Tortolì) ha accolto l’invito del sindaco a manifestare per Maria Laura Del Rio e per gli altri bersagli degli attentati. Solidarietà silenziosa, «evitando - dice Loddo - quelle assemblee popolari in cui intervengono sempre le stesse venti persone», ma efficace: negozi chiusi e città praticamente ferma dalle 12 alle 13.
Maria Laura Del Rio non vuole fare commenti. Le forze dell’ordine per la terza volta le hanno dovuto chiedere se abbia sospetti, se sappia spiegarsi chi la vuole cacciare a tutti i costi da una poltrona che sarà anche prestigiosa ma che in questo momento, insiste il sindaco, «non conta niente». Ed è probabile che per la terza volta l’architetto abbia detto di non sapersi spiegare tanto accanimento. Quel candelotto inesploso le ha fatto molto più male degli incendi che le hanno distrutto due macchine, la prima un anno fa, la seconda nel maggio scorso.
L’esplosivo, infatti, è stato lasciato davanti alla casa che Maria Laura Del Rio ha progettato e in cui è appena andata ad abitare con il marito Mario Marongiu, titolare di alcuni supermercati a Lanusei. Chi conosce bene l’architetto Del Rio la definisce una «minimalista» e riconosce il suo gusto negli interni austeri e nelle pareti nude di quella casa candida e quasi nascosta a Pizz ’e susu, in cima alla città.
L’ingresso nel nuovo nido familiare, il ritorno al lavoro in municipio dopo tre mesi di pausa seguiti al secondo attentato: una fragile felicità, quella di Maria Laura Del Rio. Un equilibrio facile da incrinare con il terribile sottinteso di una bomba non innescata: «Questa casa te la possiamo distruggere quando vogliamo». Giovedì sera, mentre i poliziotti diretti dal commissario Salvo Siracusa esaminavano l’esplosivo e cercavano tracce degli attentatori, il capo dell’ufficio tecnico già confidava al sindaco il proposito di mettersi in mobilità e di cercare un posto di lavoro meno pericoloso.
Tonino Loddo cerca una spiegazione agli attentati: «Viene da pensare che siano attacchi provenienti dall’esterno, da qualcuno che vuole screditare Lanusei». Il sindaco raccoglie gli appelli a combattere l’omertà lanciati dal procuratore della Repubblica, Bruno Alfonsi, e dal comandante provinciale dei carabinieri Salvatore Favarolo: «Chi sa cominci a parlare. Quando sono al bar, tutti sanno tutto. Appena escono, zitti. Questo non è più tollerabile». Un muro contro il quale gli investigatori - gli uomini del commissariato di polizia e quelli della compagnia carabinieri di Lanusei, diretti dal capitano Vincenzo Barbanera - sperano di non scontrarsi anche questa volta.
«Altro che mettere le bombe, a noi tecnici dovrebbero dare le medaglie per come abbiamo tutelato i nostri clienti cercando di sbloccare almeno qualche singola opera», dice l’ingegner Antonello Sulas, penultima vittima degli attentatori. La bomba davanti a casa è stata un fulmine a ciel sereno: «Non ho mai avuto segnali negativi, né per la mia attività professionale né per il mio impegno politico nell’Udeur, durato fino a un anno fa. Posso soltanto dire che a Lanusei si assiste a un progressivo degrado della vita sociale. C’è tanto pessimismo e noi giovani abbiamo una gran voglia di cambiare aria».
Ieri pomeriggio pioveva fitto, e da Pizz’ e susu, dove c’è la casa dell’architetto Del Rio, l’acqua veniva giù trasformando in minacciosi torrenti le strade a serpentina. Ogni temporale è il preannuncio di una possibile alluvione, come quella che nel 2004 portò distruzione e morte in Ogliastra. «Da allora è tutto bloccato - dice il sindaco -. Il Genio civile ci pensa diecimila volte prima autorizzare qualcosa. Abbiamo diverse lottizzazioni pronte a partire, due delle quali sbloccate dalla nostra giunta dopo vent’anni: bene, senza il piano idrogeologico non si può far nulla. Ma di tutto questo il capo ufficio tecnico, che è giovane e brava, non ha la minima colpa».
Maria Laura Del Rio, laureata in architettura a Firenze, lavora in municipio da pochi anni: prima un contratto a termine, poi la responsabilità del settore urbanistica, infine, con l’arrivo di Tonino Loddo, la nomina a capo dell’ufficio tecnico. Con lei lavorano tre geometri, un amministrativo e due ingegneri assunti a tempo determinato. È possibile che una carriera così brillante abbia suscitato invidie? O che i tre attentati contengano un messaggio trasversale diretto non a Maria Laura Del Rio ma al marito, uno degli imprenditori più in vista della città? Sono ipotesi che quasi nessuno prende in considerazione. E nell’attesa di capirci qualcosa, Lanusei resta in ostaggio delle bombe e della sua precarietà geologica.
Un commento di
Sandro Roggio
Non sono da sottovalutare le gravi e reiterate intimidazioni alla dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Lanusei, capoluogo dell’Ogliastra, regione bellissima tra mare e montagna della Sardegna meno conosciuta. Le notizie di stampa dicono che le minacce sono in relazione a mancate autorizzazioni per case in agro. Tutto farebbe pensare che si tratta di piccole cose, reazioni di balordi alle regole che il Piano paesaggistico e il Piano di assetto idrogeologico hanno introdotto di recente in Sardegna. Ma così si comincia. Una minaccia tira l’altra. E si sa come vanno le cose in questi casi, quale è il rischio quando le istituzioni non replicano tempestivamente e adeguatamente. Lo ha fatto il sindaco del Comune ed è sembrato un po’ isolato. E l’impressione è che la cosa possa finire nei prossimi giorni nell’archivio delle notizie di secondo piano. Così è normalmente. A fronte di brutte storie non mancano le repliche nell’immediato, ma lo sdegno dura poco. In Sardegna ci sono stati brutti segnali negli anni scorsi. Più volte sono stati denunciati interessi della mafia nelle zone più belle. Il magistrato della Procura di Tempio Valerio Cicalò ha da poco riferito di investimenti sospetti in Gallura in immobili di pregio; “ ma sinora non siamo riusciti a capire – ha detto il magistrato – da dove arrivano i capitali. E siccome il presupposto fondamentale è che si individui la fonte, e la fonte e all’estero, per ora non abbiamo chiuso il cerchio. Indagando su alcune persone, siamo solo riusciti a trovare collegamenti con ambienti russi […]”. Che cosa dire ? La Sardegna è una regione povera ma la democrazia qui è un valore, la gente è onesta eccetera. Ma c’è da tenere alta l’attenzione, credo.
PS. Le cose che ha detto Briatore oggi a Lucia Annunziata della Sardegna fanno sorridere ma un po’ mi preoccupano.
13 ottobre 2006
Piano da 300 milioni per trasformare lo scalo veneziano in Marco Polo City
Il master plan della Save prevede il raddoppio del sistema aeroportuale - Una porta d’eccellenza per il Nordest - Previsto nel 2020 un traffico passeggeri di 15 milioni sorretto da un moderno centro intermodale
VENEZIA. I numeri condensano gli obiettivi di Save. Il master plan dell’aeroporto di Venezia indica il sostanziale raddoppio dell’infrastruttura attuale, in funzione di un traffico di passeggeri stimato in 15 milioni al 2020.
Lo scorso anno il sistema aeroportuale veneziano ha fatto volare 7,1 milioni di persone. Il master plan al 2020 prevede una seconda pista lunga 2,3 chilometri e distante 1,7 chilometri dall’attuale (oltre la strada statale Triestina), 74 aree di parcheggio per aeromobili su circa 1,1 milioni di metri quadrati di piazzale, un terminal passeggeri con superficie di 130mila metri quadrati integrato alla nuova stazione ferroviaria Tav, parcheggi per oltre 11mila auto. Una cifra ancora: la realizzazione di questi piani implica un investimento di 300 milioni di euro. Numeri che sintetizzano la portata della sfida racchiusa in questo master plan, di cui in queste pagine anticipiamo alcune tavole progettuali. L’aeroporto Marco Polo è candidato a divenire la porta per eccellenza nella rete di mobilità del Nordest, collegato con tutte le modalità di trasporto lungo il Corridoio transeuropeo numero 5.
L’arco temporale sul quale è cadenzato il piano può apparire remoto. Non è così. In materia di infrastrutture, la pianificazione su base 10-15 anni è del tutto ragionevole data l’estenuante lentezza del processo autorizzativo e dati i tempi di elaborazione di un dossier progettuale estremamente complesso. Non di meno, è necessaria una analisi approfondita delle tesi di Save, anche in relazione al delicato contesto ambientale e urbanistico in cui l’aeroporto è sorto.
Al netto del dialogo necessario con le istituzioni e con la popolazione locale, il potenziamento del quartiere aeroportuale può includere una importante chance di sviluppo. Naturalmente per Save il raddoppio dell’infrastruttura e dei traffici è uno dei principali drivers di sviluppo della società, quotata in Borsa due anni fa e da allora al centro del risiko del settore su scala nazionale e internazionale. Ma la presenza di un forte e strutturato polo aeroportuale può essere un fattore di spinta dell’economia del territorio nel suo insieme. In una stagione segnata da reti di relazioni sempre più «lunghe» in economia, laddove la produzione è dislocata anche a migliaia di chilometri dal quartier generale dell’azienda, la disponibilità di efficienti servizi di collegamento aereo è un plus di primario rilievo. Specularmente, l’economia turistica del territorio veneto può avere un notevole vantaggio dalla presenza di un esteso network di rotte aeree. Particolarmente significativo, al proposito, è il volano costituito dallo scalo di Tessera rispetto all’attività crocieristica basata a Venezia. Da ultimo, ma non per ultimo, va pure ricordato un dato statistico che il presidente di Save cita di frequente: Enrico Marchi sottolinea che per ogni milione di passeggeri, cresce di mille unità il numero dei lavoratori dipendenti di Save. A questa cifra va poi aggiunto l’indotto (ossia le attività di coloro che, dai taxi ai ristoranti, hanno relazione con la vita del Marco Polo).
Lo scenario non è tuttavia per nulla sgombro di problemi. Il principale aspetto critico ha a che fare con la negazione stessa - attualmente - di Tessera quale nodo infrastrutturale. Non esiste aeroporto intercontinentale degno di tal nome che sia raggiungibile, e di frequente con estrema difficoltà, solo in auto. Su scala internazionale, l’aeroporto di Parigi «Charles De Gaulle», per esempio, è interconnesso direttamente con la rete dei treni ad alta velocità (Tgv).
La progettazione delle Ferrovie dello Stato prevede a Tessera una gigantesca stazione ferroviaria per i treni ad alta velocità. Stazione che sarà interamente interrata, sulla linea tra Mestre e Trieste. Ma i disegni sono poco più che schizzi, di finanziamenti nemmeno l’ombra. Le Fs soffrono una crisi finanziaria di straordinaria gravità (seconda solo a quella di Alitalia). Ma occorrerà pure che il governo dica una parola chiara sulla linea Tav Transpadana, di cui a Ovest di Verona non esiste nemmeno un tracciato condiviso dagli enti locali. E’ in avanzata fase di costruzione la tratta Padova-Mestre, nulla di più. Quanto al nodo di Mestre, non è neppure stato abbozzato un dibattito sul dislocamento della stazione Tav a Mestre piuttosto che a Tessera. Di sicuro non è ipotizzabile che di stazioni Tav ce ne siano due a una manciata di chilometri di distanza. Tutta da capire è poi la posizione della Regione Veneto riguardo al tracciato della linea Tav Mestre-Trieste, che il Cipe nel 2003 ha voluto affiancata al percorso dell’autostrada A4. La Regione Veneto non esclude che i treni Tav corrano lungo nuovi binari posti sulla costa.
Restando ai binari, è sempre di là da venire il finanziamento di una idea ormai antica chiamata Sistema ferroviario metropolitano regionale. L’idea consiste in una bretella che si stacchi dall’attuale linea Fs Mestre-Trieste e, affiancata al raccordo autostradale, consenta un agevole accesso al Marco Polo ai clienti veneti e friulani.
Rimane da dire un altro fattore critico. Nemmeno per chi raggiunge Tessera in auto è facile stimare i tempi di percorrenza. La tangenziale di Mestre è una incognita imponderabile. E qui viene in causa la questione del Passante autostradale Dolo-Quarto d’Altino. Il primo lotto del Passante, tra A4 (Quarto) e A27 (Mogliano) dovrebbe essere inaugurato nell’estate del prossimo anno. Ma le risorse finanziarie fino a oggi disponibili sono in via di rapido esaurimento: nell’arco di 2-3 mesi i 113 milioni stanziati dallo Stato e i 174 milioni anticipati dal general contractor Impregilo saranno terminati.
Sta al governo indicare, nella complicata vertenza che oppone il ministro Antonio Di Pietro e le concessionarie autostradali, come è possibile che i pedaggi riscossi alle barriere di Venezia siano finalizzati alla costruzione del Passante. Ne va di mezzo, tra l’altro, anche l’efficienza del polo aeroportuale. (p.pos.)
13 ottobre 2006
Il «quadrilatero d’oro» intorno all’aeroporto cambierà volto
di Alberto Vitucci
Un puzzle con Casinò e stadio abbellito dalla firma di Gehry
VENEZIA. Il quadrilatero d’oro prende forma. Da scalo aeroportuale, il Marco Polo si candida a diventare «il primo gate dell’Euroregione del Nord Est». Non soltanto un aeroporto, dunque, ma un grande nodo intermodale, unico punto di arrivo per le reti ad Alta Velocità, i nuovi collegamenti ferroviari e autostradali. Un’area destinata a cambiare volto nei prossimi anni, con investimenti di miliardi. E’ questo l’ambizioso progetto («Master plan») realizzato dall’architetto Giulio De Carli per conto di Save. Un piano che prevede accanto all’ulteriore ampliamento dell’aerostazione la seconda pista, infrastrutture, alberghi e centri commerciali. E nelle aree vicine, il nuovo stadio, il terminal di Gehry e la nuova sede del Casinò. Un puzzle che prende forma e che in alcune parti è già definito. Restano sullo sfondo le diversità di vedute tra enti locali e la società aeroportuale, Provincia e Comune hanno ritirato i ricorsi al Tar che avevano portato due anni fa a un’aspra polemica con Save. Un segno di disgelo che dovrebbe essere accompagnato dalla nomina nel Cda della società aeroportuale dei due consiglieri «politici», in sostituzione dei due funzionari nominati ai tempi della guerra legale. In cambio del ritiro dei ricorsi, dovrebbe arrivare l’accordo sulle nuove localizzazioni di stadio e casinò. E il via libera al futuristico terminal da 130 mila metri quadri progettato dall’architetto canadese Gehry. Un sogno dello scomparso presidente Gianni Pellicani, e la porta sull’acqua che ancora manca al terzo aeroporto d’Italia. Dove ancora oggi chi arriva da Venezia con il motoscafo deve percorrere un chilometro a piedi per andare agli aerei, senza navetta e senza tapis roulant.
Il master plan disegna Tessera come dovrebbe essere nel 2020, quando l’aeroporto nato sulle barene in mezzo alla laguna potrebbe raggiungere la soglia dei 15 milioni di passeggeri l’anno. Un piazzale da un milione e 100 mila metri quadrati che può ospitare 74 aerei, parcheggi per 11 mila auto, alberghi e spazi per la logistica, le stazioni dell’Alta velocità e della linea Sfmr regionale. E poi il nuovo stadio con servizi e attività ricettive e commerciali collegate, la sede del Casinò per cui l’Urbanistica sta trattando con gli architetti di Save. E infine, la terza pista. La contestata infrastruttura che gli abitanti della zona non vogliono. 2300 metri di lunghezza, poco più di un chilometro a nord est di quella esistente nell’area fra la bretella autostradale e il fiume Dese.
Nel futuro dell’aeroporto c’è anche la sublagunare. Il contestato progetto, bocciato dai tecnici di Comune e Provincia un anno fa, giace in qualche cassetto. Ma nel master plan del nuovo aeroporto è segnato sulla cartina come una struttura già realizzata, collegata allo scalo.
Infine, l’area sud. Qui Save non ha ancora trovato un accordo con i fratelli Poletti, imprenditori trentini e nuovi padroni del Venezia calcio, proprietari delle aree strategiche che affacciano in laguna dove è prevista la nuova strada di accesso all’aerostazione. Con loro ci si dovrà accordare.
13 ottobre 2006
Appuntamento oggi e domani alla Fondazione Cini
Due giorni di «Stati generali» con Cimoli e il ministro Bianchi
VENEZIA. Sarà il presidente di Save, Enrico Marchi ad aprire gli Stati Generali questa mattina alle 9.15 alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia. Seguiranno gli interventi del sindaco Massimo Cacciari, del presidente della Provincia Davide Zoggia e quello del governatore regionale Giancarlo Galan. Gli Stati Generali sono suddivisi in quattro sessioni su quattro temi. I primi due - il business e i sistemi di collegamento e mobilità - saranno affrontati oggi; gli altri due - le funzioni urbane e le prospettive strategiche - saranno affrontati domani. Nell’arco dei due giorni di discussioni interverrano tra gli altri il presidente dell’Enac, Vito Riggio, l’amministratore delegato di Unicredito Italiano, Alessandro Profumo, l’amministratore delegato delle Generali, Giovanni Perissinotto, l’amministratore delegato delle Ferrovie, Marco Moretti, il presidente di Alitalia, Giancarlo Cimoli, il presidente di Assaereo, Fausto Cereti, il vicepresidente della Delta Air Lines, Doug Blissit, l’amministratore delegato di Hapag-Lloyd Express, Roland Keppler, il presidente dell’Enav, Bruno Nieddu, il presidente di Copenaghen Airport, Niels Boserup, il presidente degli Industriali veneti, Andrea Riello, il Ceo del Vienna International Airport, Herbert Kaufmann. E’ previsto anche un intervento in video di Frank O. Gehry, architetto e progettista del «Venice Gateway». Interverranno inoltre il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, il viceministro Cesare De Piccoli, il presidente della commissione Trasporti e Turismo Paolo Costa e il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Riccardo Illy. La seconda sessione su «sistemi di collegamenti e mobilità» sarà coordinata dal direttore de La Nuova di Venezia e Mestre Paolo Possamai.
14 ottobre 2006
Marco Polo, ponte europeo in un corridoio bloccato
di Alessandra Carini
Al mega-aeroporto veneziano del futuro mancano infrastrutture stradali e ferroviarie - Per ora vinta sulla carta la sfida lanciata da Marchi. Denunciati i gravi ritardi italiani sul Corridoio Cinque
VENEZIA. La sfida del Marco Polo per diventare la piattaforma aeroportuale del Nordest è, almeno sulla carta, vinta. Il master plan è fatto, gli accordi con Treviso quasi, quello con Ronchi dei Legionari è nelle cose. Sarà un polo sostanzialmente privato. Il presidente della Regione, Giancarlo Galan annuncia che venderà le sue quote che, per patti già scritti, entro il novembre del 2007, finiranno a Enrico Marchi e soci, Generali comprese, facendo raggiungere ai privati la maggioranza. Ma senza un contorno di infrastrutture ferroviarie e stradali che facciano del Marco Polo un punto di snodo infrastrutturale quella sfida rischia di essere persa, non solo per Venezia e tutto il Nordest ma anche per l’Italia. Perchè significa che il Paese avrà perso l’occasione per far passare a Sud delle Alpi il Corridoio Cinque sul quale le decisioni dell’Europa sono imminenti e i ritardi accumulati dal sistema italiano enormi.
Dice sconsolato Riccardo Illy, presidente della Regione Friuli: «Il sistema aeroportuale del Nordest non parte se non c’è la Ferrovia che vada a est e per adesso non c’è neanche il progetto. Purtroppo in questo settore facciamo un passo avanti e due indietro, come i gamberi e pensiamo sempre ai costi della realizzazione e non a quello che paghiamo se le opere non si fanno». E conclude sfiduciato: «Visto che è un Corridoio europeo perchè non deleghiamo all’Unione il compito di realizzarlo?». Ribatte un concretissimo ma amaro Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie: «Scontiamo tagli pazzeschi fatti l’anno scorso e un’incapacità cronica di stabilire priorità sul territorio e di valutare i costi: l’alta velocità non si può fermare dapertutto». E sparisce ad est la litania di date, anche se sempre disattese, che spesso davano la speranza. L’alta velocità si farà sì, ma chissà quando.
La prima giornata degli Stati generali dell’Aeroporto di Venezia, convocati da Marchi per segnare il punto sul suo progetto, uno dei più importanti oggi in campo aeroportuale, si è concluso così con una sorta di «vittoria mutilata». Vittoria perchè Marchi incassa un’adesione sostanziale di Massimo Cacciari al suo progetto (anche se la seconda pista è ancora in contestazione), l’impegno formale di Galan a vendere, l’adesione del viceministro dei Trasporti Cesare Piccoli a rivedere le norme sui requisiti di sistema e quelle della finanziaria che impongono il passaggio al demanio delle aree non destinate al servizio aeroportuale. E, infine, un primo sì da parte di Renato Chisso alla stazione dell’alta velocità a Tessera. Mutilata perchè nel corso degli interventi che si sono susseguiti è emerso che tutto il resto del sistema, sul quale soprattutto l’Italia si gioca la sua credibilità, rischia di franare sotto i macigni dei ritardi e dell’incapacità di decisione strategica.
Paolo Costa, presidente della commissione Trasporti del Parlamento europeo, non ha avuto difficoltà a mostrare quanto sia strategico ai fini dell’Europa, lo snodo aeroportuale nordestino che fa perno sul Marco Polo. Le slides presentate a illustrazione della sua posizione nell’Europa dei Corridoi mostrano una fitta rete che passano proprio nel tratto che va da Verona a Trieste con una tendenza, dice, «di un’asse che è destinato a spostarsi sempre più a Est». «Ma le scelte non sono più dilazionabili», aggiunge.
Entro l’anno l’Europa stabilirà le regole finanziarie. Prima dell’estate dove allocare i soldi. Per sapere in quali «tasche» potrebbero finire sono indispensabili tre condizioni: che sia firmato il trattato internazionale, che il progetto tecnico sia approvato, che ci sia l’impegno dei governi a finanziarlo». Ma il trattato italo-sloveno non c’è, anche se Illy ha annunciato per il 16 ottobre una riunione tra i rappresentati dell’ arco sud europeo.
Un pugno di mesi separa l’Italia da queste decisioni, è un abisso se si tiene conto dei tempi e della coerenza delle delibere italiane. Dalle risposte alle domande poste dal direttore della Nuova Venezia, Paolo Possamai, sono emersi così interrogativi che per ora non trovano risposta. Da quelli sollevati da Alessandro Profumo che dice che le banche sono disposte a finanziare progetti e investimenti ma che vogliono certezze di introiti e di tempi. E che conclude: «Mi domando perchè nel 1864 si trovarono i soldi per il Frejus e oggi non ci sono per la Torino-Lione». A quelli di Moretti che dopo avere ricordato con orgoglio che le Ferrovie sono diventate tra i più grossi investitori europei e non sono più un carrozzone di residui passivi è passato all’enumerazione delle difficoltà: «L’anno scorso sono “spariti” 6 miliardi di euro di finanziamenti, abbiamo fatto miracoli per non chiudere i cantieri. Ecco perchè il progetto Mestre-Ronchi non c’è». Ma non c’è solo questo a tormentare il percorso dell’Alta velocità ferroviaria. Ci sono i costi pazzeschi imposti dalle richieste, il passaggio di Vicenza, e poi Padova, il quadruplicamento della linea: chi mai li finanzierà? E perchè si dovrebbero spendere tutti questi quattrini per fare queste opere anzichè collegare Bari e Napoli che costa molto meno e rovescerebbe la situazione di una gran parte del Sud? E poi c’è un territorio che non vuole stabilire priorità e si illude che l’ alta velocità possa essere fermata ad ogni campanile: «Ci vuole un’ autorità che stabilisca le priorità e che pensi ai collegamenti fra le grandi aree metropolitane». Merce rara in un Paese poco incline alle decisioni e troppo attento a contemplare le risse tra gli enti locali. Comunque nel 2008 sarà fatta la Bologna-Milano, nel 2009 la Firenze-Bologna, poi la Torino-Novara. Ad est c’è la certezza, tra poco, della Padova-Mestre. E un piano per la Treviglio-Verona che però costa 5 miliardi e mezzo di euro. Tutto il resto e in mente dei.
14 ottobre 2006
Confronto pubblico sul futuro dell’aeroporto
Oggi e domani si svolgono nell’isola di S. Giorgio, promossi da Save, i cosiddetti stati generali dell’aeroporto, per i quali s’è fatto ricorso al presuntuoso conio di Marco Polo City. Nelle dichiarazioni del presidente di Save, Enrico Marchi, questo evento servirebbe a presentare i piani di sviluppo dell’infrastruttura aeroportuale e a condividerli con la «società civile». Le dichiarazioni del presidente Marchi sono senz’altro significative, consentono di penetrare nella forma mentis di chi, in quest’ultimo anno, si è nei fatti sottratto a quel confronto pubblico che nel buon ritiro di S. Giorgio dovrebbe essere praticato. Premesso che le forme e gli stili della condivisione sono quelli dei luoghi pubblici e degli organismi rappresentativi e democratici, e che la figura claustrale prelude piuttosto alla separatezza e alla divisione del decisore dagli astanti, le interviste che Enrico Marchi ha rilasciato in questi giorni rappresentano la più radicale contraddizione con il nobile scopo cui gli stati generali si votano, e dimostrano tutta la distanza che intercorre tra il predicato e il praticato da parte di Save. Stupisce che Enrico Marchi si periti di affermare che il nuovo Master Plan dell’aeroporto «è stato presentato alla Provincia e al Comune» e che qui ritenga di avere assolto il proprio ruolo. Dovrebbe rammentare, il presidente di Save, che le scelte sull’evoluzione di un territorio, l’atto della pianificazione, gli indirizzi su come le comunità territoriali possono evolversi e trasformarsi, hanno un carattere radicalmente pubblico, rappresentano cioè uno degli elementi per i quali una società può davvero dirsi democratica e aperta. Nei fatti e negli atti fin qui compiuti, il presidente di Save ha eletto sé e i propri partners quali soggetti attivi della pianificazione, pretendendo di imporre le volontà dei privati ai decisori istituzionali che, a differenza del patto di potere che ha consegnato a Marchi la società Save, sono retti da un patto civile che ha nella legittimazione popolare l’intima e originale sua natura.
Ancor prima che nel merito delle scelte proposte dagli stati generali, è quindi il percorso che pone capo alla decisione che appare viziato da una stortura colossale e insanabile. Perché, se si sostituisce al decisore pubblico sulla pianificazione e sulla composizione dei diversi e legittimi interessi coinvolti il decisore privato che rappresenta proprio uno o alcuni di quegli interessi (magari con il complice silenzio degli attori istituzionali), è evidente che ogni possibile garanzia che le scelte sui territori avvengano contemperando tutte le sensibilità e vocazioni degli stessi è destinata a venire meno. Nel momento in cui le scelte sul futuro dell’aeroporto di Venezia possono modificare in modo determinante i pesi e gli equilibri urbani della città, sul piano delle nuove economie delle reti di mobilità su rotaia e di interscambio piuttosto che sulla possibile espansione di attività commerciali o della logistica, è la città stessa a doversi riappropriare, mediante le forme rappresentative che ne incarnano la volontà, del ruolo dirigente dei nuovi processi di espansione. Ciò cui pensiamo è del resto quel che le migliori democrazie europee praticano da tempo, interpretando il pubblico appunto come il soggetto prediletto della governance dei grandi disegni metropolitani, di soggetto direttore in grado di coinvolgere in legame di partnership i grandi attori economici e sociali che ogni comunità esprime.
Ciò cui invece pensa Marchi, nel solco di una troppo consumata abitudine italica, è il depauperamento di quell’altissimo valore economico e sociale rappresentato dal cuore dell’infrastruttura aeroportuale, dal suo snaturamento utile a spingere la società nel pelago pericoloso delle speculazioni finanziarie, lasciando sempre più alle spalle il suo fondamento industriale. Se la contemporaneità impone agli universi urbani il modello della rete tra soggetti come unica via per una pianificazione delle grandi funzioni urbane davvero praticabile (soprattutto in un tempo che deve misurarsi con la sostenibilità e il limite di ogni territorio), Marco Polo City si attarda invece tra le peggiori esperienze novecentesche di concentrazione massiva degli insediamenti, use a ricercare il profitto dei pochi piuttosto che quello dei molti.
Ciò cui occorre invece tendere è l’integrazione dei sistemi urbani con le reti di trasporto e mobilità, con la valorizzazione del capitale ambientale inteso come soggetto propulsore di sviluppo economico (del tutto inesplorato per la nostra città è il ruolo ad esempio del bosco di Mestre e della linea di gronda come incubatori di nuova intrapresa), in una prospettiva che non concepisce Venezia come un solum isolato, ma la inserisce in una tramatura urbana e sociale che giunge almeno fino a Trieste e la inserisce al centro dei grandi corridoi europei. In fondo, ciò a cui pensiamo, ciò cui vogliamo ritornare (e, se riusciamo a farlo, è perché assumiamo il concetto dell’interesse pubblico come paradigma dell’azione e della scelta) non è altro che quell’«apertura al mondo» e alle sue opportunità che, a partire dal ’300, fece di Venezia una delle capitali d’Europa e del mondo.
Andrea De Pieri, Silvia Falchi, Alessandro Ruffini, Carla Falchi, Emanuele Rosteghin, Nicola Da Lio, Marina Dragotto, Francesco Fracassi, Gabriele Scaramuzza, Gianluca Trabucco, Carmela Tarantino, Massimo Ongaro, Matteo Ribon, iscritti ai Ds di Venezia
14 ottobre 2006
«Il masterplan? Sarà un’altra Val di Susa»
Il presidente Scaramuzza è furibondo «Quell’aeroporto futuro è uno scandalo» - «Il territorio così sarà distrutto Cacciari ha il dovere di fermare questo scempio»
FAVARO. «Siamo stati invitati ma tra il pubblico, non certo a dire la nostra». Il presidente di Favaro Gabriele Scaramuzza ieri era a Venezia, all’isola di San Giorgio, ad assistere alquanto allibito alla presentazione del nuovo master plan di Save e immaginare nel frattempo, la distruzione delle aree ancora libere e da salvaguardare del territorio della Municipalità. «E’ uno scandalo» commenta lapidario. Alta Velocità, nuovi collegamenti ferroviari e autostradali, l’ampliamento dell’aerostazione e soprattutto la seconda pista, infrastrutture, alberghi e centri commerciali.
Fino ad un anno fa un master plan dai contorni sfuocati ma pur sempre di portata che dire mastodontica non rende l’idea, pubblicato quasi in sordina nel sito dello scalo veneziano. Invece ora, le più meste e grigie previsioni della Municipalità prendono forma. E la polemica si accende nuovamente. «Abbiamo ricevuto un invito, ma non certo a rappresentare le istanze del territorio - spiega il presidente Gabriele Scaramuzza -, e il sindaco di Venezia non ha sicuramente difeso i cittadini, ha spiegato che condivide le linee strategiche del master-plan di Enrico Marchi, parlando anche di scali integrati, ma bisogna scegliere, o l’una o l’altra soluzione, non certo entrambe». Insomma, il «cerchiobottismo» in questo caso non è apprezzato dall’ente locale. «Siamo stati ottimi profeti - continua Saramuzza -, anzi lo sviluppo prospettato è ancora peggiore di quello che immaginavamo». Ancora una volta il presidente di Favaro attacca sindaco e giunta. «Fino ad ora sono stati inadempienti, bisogna capire se questa città ha deciso di spogliarsi definitivamente del ruolo di pianificazione dello sviluppo del suo territorio e lasciarlo al presidente di Save, il Comune deve dire «no» al master plan, adesso Cacciari deve dirci se la sua scelta è quella di massacrare i territori per favorire gli interessi del privato, oppure se attuare una seria politica industriale dei gruppi aeroportuali mediante l’integrazione degli scali». Ancora: «Deve venire a Tessera e a Ca’ Noghea, a dirlo davanti a tutti i cittadini e spiegare perché espropria in modo scandaloso il territorio del principio democratico che rende una città una comunità viva, quello di scegliere del proprio futuro». Aggiunge il presidente: «Il sindaco non ha il mandato per concludere accordi con Save perché non è legittimato a farlo così come non può violentare il territorio». Conclude Scaramuzza: «L’esasperazione può portare anche alla Val di Susa». Una dichiarazione di guerra. Sulla stessa linea il capogruppo della Margherita: «Lo spazio ragionevolmente accettabile - commenta Fiorenzo Bison -, è il limite della Triestina, tutto il resto avrebbe delle conseguenze disastrose, altri aeroporti ce ne sono, l’Alta Velocità consente l’integrazione con lo scalo friulano, al resto ci opponiamo».
(Marta Artico)
15 ottobre 2006
Il ministro «benedice» Marco Polo City
di Matteo Marian
Bianchi: «Buon piano, può essere sostenuto» Generali pronte ad aumentare la quota in Save - L’esponente del governo «Venezia è zona chiave per i rapporti con l’Est»
VENEZIA. «La scarsità di risorse impone delle scelte. I progetti di sviluppo infrastrutturale sono centinaia, per tutti i soldi non ci sono. Questo significa che un buon progetto potrà essere sostenuto, a discapito di altri, come il ponte sullo Stretto, che non dimostrano altrettanta qualità. A me, Marco Polo City sembra un buon progetto». Il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi «benedice» il master plan di sviluppo del Marco Polo presentato da Save. Non manca di sottolineare come, nella sua crescita, la società veneziana debba coinvolgere la comunità - «è un rapporto indispensabile», sottolinea - e come ci siano alcuni aspetti del piano «che non mi hanno convinto». Ma la struttura portante del progetto, che guarda al 2020, viene ritenuta intelligente e di alto respiro. Tanto da poter essere «un esempio a cui rifarsi».
Certo, va fatta la tara su interrogativi di non poco conto (alta capacità, Sistema ferroviario regionale e Passante) e, forse, sulla «convenienza» di non far scattare altri allarmi in un territorio dove si scende in piazza contro la Finanziaria. Ma Bianchi è apparso «competente e serio», il commento a microfoni spenti colto in uno scambio tra Enrico Marchi e Andrea Riello. E anche sincero, e rassicurante, nel rispondere ai temi cari al presidente di Save. «I beni demaniali aeroportuali inseriti nella Finanziaria? Non me ne sono accorto, ripareremo al malfatto» ha ammesso il ministro che ieri è intervenuto alla giornata conclusiva degli stati generali su Marco Polo City. Mentre sui requisiti di sistema ha precisato che «la cosa da fare non è cancellarli, ma riformarli profondamente riunendo i diversi soggetti coinvolti».
Tornando al cuore del progetto Save, Bianchi ha avuto parole lusinghiere per il progetto. «Ho molto apprezzato il modo di proposione, c’è una visione alta e a lungo periodo, cosa che è mancata a questo Paese. Un’idea che stiamo reintroducendo nel piano generale della mobilità. Inoltre, ho guardato con interesse all’attenzione posta all’intermodalità, un’idea avanzata e vincente. Ma anche alla visione della città aeroporto, e cioè al trasferimento di funzioni urbane nell’ambito di una struttura tradizionalmente considerata solo come uno scalo». A tutto questo, ha spiegato il ministro, «si aggiunge la carica simbolica enorme che ha Venezia e l’opportunità di creare una porta importante in una zona strategica per i rapporti con l’Est».
La città aeroportuale ha raccolto, quindi, consensi trasversali. Da quelli del governatore Galan, l’altro ieri, a quelli dell’urbanista e docente universitario entrato nella squadra del governo Prodi in quota Pdci. Un aeroporto visto come «motore di sviluppo», come prima porta nella rete della mobilità del Nordest, collegato con tutte le modalità di trasporto lungo il Corridoio V. Rimane ora da capire come accendere questo motore, trovando, allo stesso tempo, un interlocutore istituzionale in grado di rispondere a una richiesta, come ha rivelato Massimo Colomban, giunta recentemente da Frank Gehry: «Chi mi promette che la Venice Gateway sarà realizzata?».
I buoni progetti, è la convinzione di Marchi, trovano i finanziamenti necessari. E, in questo senso, le Assicurazioni Generali (azioniste di Save) si sono dette pronte a fare la loro parte. «Le compagnie assicurative, operando come investitori istituzionali, potrebbero contribuire maggiormente alla crescita economica del Paese - ha commentato l’amministratore delegato del Leone, Giovanni Perissinotto -. La speranza è che il decollo della previdenza permetta la creazione di veicoli in grado di supportare queste operazioni. Noi siamo pronti a impegnarci, ma servono norme adeguate per poterlo fare. Se la legislazione lo permettesse, le assicurazioni potrebbero destinare una parte delle riserve tecniche (accantonamenti effettuati a fronte di obblighi futuri verso i propri assicurati) in strumenti finanziari per lo sviluppo di nuove infrastrutture. Oggi questo accade solo in parte».
Rispetto all’annunciata cessione di parte della quota della Regione Veneto in Save (volontà ribadita venerdì dal presidente Galan) Perissinotto ha dichiarato che alle Generali «non dispiacerebbe aumentare la partecipazione in Save, ma, allo stesso tempo, non sarebbe male un allargamento ad altri soci qualificati». Per Marchi la quota sarà riassorbita dal Leone e da Finint.
15 ottobre 2006
«Un polo espositivo unico? A Tessera»
Olivi (PadovaFiere): «Per noi Veneto City è un’alternativa astratta»
VENEZIA. L’integrazione delle funzioni urbane nella città aeroportuale ha fatto breccia. Casinò, sedi di società multinazionali, stadio, commercio e fiere, secondo il piano di Save. E proprio sul sistema fieristico tornano a farsi strada vecchi sogni. «Pensando a un polo regionale, non si può che immaginarlo vicino all’aeroporto» ha sottolineato dal palco della Fondazione Cini Andrea Olivi, amministratore delegato di PadovaFiere. «Venezia ha una formidabile capacità evocativa: quando vado all’estero per spiegare da dove arrivo parlo di Venezia». I se e i ma, nonostante il tema sia tornato d’attualità a palazzo Blabi, però non mancano. «La politica si dovrebbe ritirare da questa attività» ha precisato Olivi tornando a ricordare come la società padovana sia l’unica interamente privatizzata in Italia. «Invece di preoccuparsi di tutelare rendite locali la questione dell’unico polo fieristico andrebbe affrontata con logica imprenditoriale. Ci sarà un perché al fatto che un’area metropolitana più piccola di Los Angeles (il riferimento è alle province di Padova, Venezia e Treviso, ndr) non riesca ad esprimere un’unica realtà dove organizzare grandi manifestazioni fieristiche».
Non è un mistero che PadovaFiere ha la necessità di trovare una sede più adeguata a un business che deve porsi in un’ottica di mercato internazionale. «Quando parlo di un polo vicino all’aeroporto non intendo Veneto City - aggiunge Olivi -. A oggi questa è un’alternativa molto astratta, quella di Save è più chiara». Il manager chiamato a coordinare tutti gli eventi fieristici del gruppo Gl Events (azionista di riferimento di PadovaFiere) non scorge, comunque, elementi di novità rispetto al vecchio e infruttuoso dialogo sul polo veneto. «Verona è difficilmente coinvolgibile, nelle vicinanze dell’aeroporto potrebbe insistere un’unione fra Padova, Venezia e Treviso. Ma accanto alle grandi idee servono, anche, i numeri. Ovvero l’unico elemento che permette una valutazione sulla convenienza, imprenditoriale, di un’operazione di questo genere. Senza dimenticare che serve l’accordo di tutti: dalla nostra parte serve l’assenso del Comune di Padova. Resta il fatto che costituire un polo a Venezia darebbe la possibilità anche di attrarre investimenti diretti dall’estero».
Per Olivi, lo spostamento di PadovaFiere in quella che dovrebbe essere Veneto City a oggi non è un’ipotesi concreta. «Nessuno ci è mai venuto a parlare di area e affitti» sottolinea. Ma anche la prospettiva di Marco Polo City, «pur essendo più chiara», sconta un problema. «Pensare di realizzare un’intesa fieristica tra Padova, Venezia e Treviso con un orizzonte di tempo che guarda al 2020 non serve a nulla - spiega -. Altro che 14 anni, al massimo bisogna ragionare nell’arco di due anni. Le fiere italiane che possono essere competitive a livello internazionale sono due o tre. E invece lo Stato butta centinaia di milioni in quartieri fieristici inefficienti. Penso a Roma a Bari, sono soldi buttati dalla finestra. Così hanno fatto tanto la destra che la sinistra. E questo per tutelare vere o presunte rendite locali». (m.mar.)
Andrea Zanzotto, straordinario poeta veneto, in occasione di una festa per il suo ottantacinquesimo compleanno ha detto: «Il paesaggio sfregiato rimane il mio dolore». Bisogna fare attenzione; per lui il paesaggio non è un «belvedere», un panorama alberato, uno sfondo da cartolina, ma l'interazione vivente dell'uomo con la natura, il contesto empatico della coevoluzione della cultura del genere umano e della storia naturale del pianeta. Piero Bevilacqua, storico meridionalista, ha studiato per lungo tempo le trasformazioni del paesaggio operata dalle diverse pratiche agricole e ha in questi giorni ha pubblicato un libro che si intitola «La terra è finita. Breve storia dell'ambiente».
Con meno fascino letterario e senza grandi studi storici alle spalle, sulla semplice scorta di esperienze dirette di vita, i cittadini, gli abitanti, i lavoratori che si ritroveranno a manifestare oggi a Roma sono giunti alle medesime conclusioni: le ragioni dello Sviluppo, del Progresso, della Produttività... non possono compromettere le condizioni del buon vivere e del bene stare delle comunità umane nell'ambiente naturale. Quando le logiche dell'economia entrano in conflitto con quelle della salute, fisica e mentale, dei suoi «beneficiari» vuol dire che qualcosa non ha funzionato negli equilibri delle forze in campo. Vuol dire che qualcuno (pochi) è riuscito ad accumulare tanto potere da ricattare grandi masse di persone, così da costringerle ad accettare condizioni di vita e di lavoro non volute, non desiderate, non scelte. E non ci si venga a dire che può esserci uno scambio utile, reciprocamente valido tra i due interessi in campo; un patto leonino può al massimo generare un mercimonio alienante, mai vera equità. Come un tempo in fabbrica si pensava che la «nocività» potesse essere compensata con un «premio» in denaro (poi li hanno chiamati «lavori usuranti» che aspettano ancora un riconoscimento nel pensionamento), c'è oggi chi crede che le popolazioni locali possano essere risarcite per i disagi imposti da grandi cantieri, grandi forni, grandi infrastrutture, grandi antenne... concedendo sconti sulla bolletta elettrica e qualche finanziamento ai comuni di residenza. (C'è un articolo della Finanziaria 2007 che prevede esattamente questo trattamento agli enti locali «interessati» da nuovi impianti energetici). Non scherziamo con l'intelligenza di noi tutti! Non si vuole capire che i comitati dei cittadini inquinati non sono mossi da inconfessabili logiche egoistiche e proprietarie, ma dalla volontà di esercitare un diritto universale all'abitare nella salubrità. Essi affermano: «Né qui, né altrove». Se una cosa fa male a me fa male a tutti. L'atmosfera, le acque, le foreste... sono beni indivisibili, interdipendenti. Come la pace e la sicurezza. Né vale contrapporre a queste verità l'abusata argomentazione secondo cui l'età media delle popolazioni dei paesi più sviluppati è enormemente aumentata proprio grazie ai ritrovati della scienza e della tecnica che sono figlie del libero mercato, della libera ricerca, della libera impresa capitalistica. Quante volte ci siamo sentiti dire che «non è possibile mangiare la polpa senza sbucciare la scorza»? Un modo per dire che qualcuno pure si deve sacrificare in nome di «interessi generali» sovraordinati. Costoro non comprendono che la sfida che la nuova generazione dei movimenti ambientalisti (quelli nati con il rifiuto del nucleare e per il solare e che sono giunti fino alla straordinaria mobilitazione popolare della Val di Susa) hanno lanciato al mondo della scienza e della politica sta proprio nel pretendere una capacità di innovazione tecnico-scientifica tale da non provocare effetti indesiderati, da scongiurare conseguenze impreviste, da non impoverire inutilmente le risorse del pianeta. E' la sfida intelligente che la modernità consapevole ha di fronte a sé.
La manifestazione di domani a Roma contro le Grandi opere, inutili e dannose, e per un nuovo piano generale dei trasporti che parta dal superamento della Legge Obiettivo, chiede anche una svolta nel governo sui temi della mobilità, dei trasporti, del paesaggio, dell'ambiente e dell'energia: in generale di quel grande bene comune, oggi in grave pericolo, che è il territorio del Belpaese.
Poche giorni fa era il decennale della morte di Antonio Cederna, l'antesignano della concezione, adesso assai diffusa, che lega l'urbanistica alla difesa del territorio e del paesaggio. Nelle appassionate denunce dell'ambientalista c'erano elementi che si sono rivelati drammaticamente evidenti negli anni più recenti, come l'incapacità di modernizzare il Paese in ossequio alle regole dettate dai caratteri di quei beni finiti e deperibili che sono il territorio, l'ambiente e il paesaggio. Con l'aggravante che spesso ciò - già di per sé inaccettabile - non avveniva di fronte a reali istanze di sviluppo emergenti dalla società italiana, ma per privilegiare gli interessi (e le disinvolte politiche gestionali, errori macroscopici compresi) delle lobby monopolistiche che dai centri di potere del sistema industriale e, adesso soprattutto, bancario, privato e pubblico, controllavano (come continuano a fare) alcuni settori chiave dell'economia, tra cui l'auto, l'energia, la chimica, la termomeccanica e principalmente le costruzioni.
Se guardiamo ai proponenti e ai gestori delle grandi opere previste dalla Legge Obiettivo di Berlusconi (attorno alla quale sono riproliferate anche le holding di progettisti, cui oggi neppure la mafia è estranea: «Per il ponte non c'è bisogno di aspettare appalti che forse non arriveranno mai», si diceva), o quelli che stanno dietro il Mose o gli impianti a gas, centrali e rigassificatori o i termovalorizzatori, troviamo questa tipologia di soggetti. Non meraviglia che Antonio Di Pietro, allorché si tratta delle opere pubbliche, metta da parte i Valori dell'Italia e sostenga che «fosse per lui, realizzerebbe tutto il programma del precedente governo» se solo gli «avessero lasciato qualche euro» (e meno male!): visto che tra l'altro continua ancora ad essere attorniato dagli stessi dirigenti promotori e titolari del «fantasmagorico» programma infrastrutturale di Lunardi. E tra l'altro nell'ambito di un governo in qualche modo costretto all'efficienza da problemi di budget, ma che sembra incapace di prospettare logiche diverse. Così, se il Ponte viene accantonato, ma solo come «non priorità», il Mose rallenta, ma non si ferma, perpetuando le spese per un progetto dai mille problemi irrisolti, le cui risorse potrebbero essere più utilmente destinate alle urgenze, per esempio dei Comuni o dell'Università. Neppure l'Alta velocità Torino-Lione viene ufficialmente bloccata, anche se la sua unica utilità acclarata sembra quella di far sfrecciare merci a trecento all'ora in Val Susa: si riesce, forse, al massimo a concedere la procedura integrale di Via. Ma per i problemi enormi di molte altre situazioni, dal nodo fiorentino del primo tronco dell'alta velocità agli stessi sfasci dei cantieri del Mugello, ai rigassificatori, agli inceneritori, cambia poco o nulla.
Ebbene, a Roma si manifesta per una svolta rispetto a tutto questo. I sindaci, i comitati, le associazioni ambientaliste e non, che arrivano dalla Val Susa e dalla Sicilia, da Venezia e da Brindisi, da Civitavecchia e dalla Brianza, chiedono che il governo colga, interpreti e finalmente assuma l'innovazione politica, sociale, culturale e scientifica che arriva dai territori del Belpaese. I quali denunciano che, nell'era dell'infotech e della sostenibilità, non si può tollerare oltre il saccheggio di quello che resta del territorio italiano ad ipotesi di sviluppo obsolete e speculative che propongono attrezzature spesso inutili, senza domanda sociale, insostenibili; e che alimentano, tra l'altro, un'urbanizzazione infinita, pervasiva, inarrestabile, che cancella ecologie, storia, natura, economie dei diversi «cortili d'Italia».
Si mettano da parte le infrastrutture della Legge Obiettivo e le altre opere dannose. Si proceda ad un nuovo piano dei trasporti, basato sulla reale domanda sociale di mobilità, partecipata e sostenibile.
Analogamente, Regioni, Province, Municipi disegnino dal basso i propri nuovi scenari territoriali e paesaggistici, energetici e trasportistici. Anche per promuovere uscite intelligenti dalla crisi economica, basate sulla tutela e valorizzazione dei beni comuni.
Chi, venendo da Verona e prima di attraversare il ponte sul Mincio, si ferma di fronte alla sagoma della città di Mantova resta impressionato per come una serie di elementi architettonici che vanno dal tardo Medioevo al Rinascimento riescano a comporre un paesaggio urbano armonico per compattezza e decoro, con la mole del Castello di San Giorgio e le mura del Palazzo Ducale. Ora questa percezione, che nei secoli si è consolidata, potrebbe essere seriamente intaccata.
Le mura mantovane traggono molto del loro significato estetico dal contesto - il Lago di Mezzo, innanzitutto. E poi dal verde dei pioppi che, sull´altra sponda rispetto alla città, si spinge fin quasi nell´acqua. È qui, in un´area pianeggiante di poco più di 30 ettari - Strada Cipata, si chiama - che dovrebbe sorgere un grande insediamento, villette e palazzine, soprattutto, ma anche parcheggi ed edifici per uffici. Mitigati, stando alle intenzioni dei progettisti, da un parco di 10 ettari che, si dice, rivaluta tutta la zona. In totale, secondo alcune stime, la volumetria dell´intero complesso ammonterebbe a 320 mila metri cubi, che dovrebbero ospitare intorno a 1.200 persone ("tre Hilton", sarebbe sbottato Antonio Cederna, che usava l´albergo romano con i suoi 100 mila metri cubi come indice di imponenza e di bruttura edilizia). Un quartiere residenziale, insomma, che si specchierebbe nel lago, ma che si squadernerebbe proprio davanti alle possenti torri del Castello di San Giorgio e davanti agli occhi di chi si affacciasse dal Cortile della Cavallerizza, alle spalle del Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna, Pisanello, Giulio Romano e quindi l´essenza del Rinascimento italiano.
In realtà il panorama intorno a Mantova venne già alterato quando furono issate le ciminiere del grande polo petrolchimico. Ma la nuova lottizzazione viene vista da chi la contesta come una gravissima deformazione della prospettiva di cui Mantova ha goduto da sempre. In prima fila fra gli oppositori è l´attuale sindaco della città, la diessina Fiorenza Brioni, sindaco da un anno e mezzo. E qui si inciampa in un paradosso: la Brioni è alla guida di un´amministrazione di centrosinistra subentrata ad un´altra amministrazione di centrosinistra - sindaco sempre un diessino, Gianfranco Burchiellaro - che quel progetto approvò e sostenne in modo convinto.
È una storia complessa. Il progetto, firmato dalla società immobiliare Lagocastello, venne presentato alla fine del 2004, ma per approvarlo era necessario varare un piano urbanistico ad hoc. Cosa che il consiglio comunale fece a tappe forzate: le elezioni erano fissate per la primavera del 2005. Si racconta che all´ultima seduta utile i consiglieri della maggioranza vennero blindati purché andassero a votare. Un esponente dei Ds, in ospedale per assistere un parente, fu mandato a prendere da un auto dei vigili. Più volte mancò il numero legale che poi venne raggiunto grazie a due esponenti del centrodestra. E così il piano venne approvato.
In campagna elettorale il nuovo candidato sindaco non ha fatto mistero di voler cancellare quel progetto. E non è stato semplice chiedere agli elettori di votare in nome della continuità politica, distanziandosi però da una scelta urbanistica fra le più rilevanti nella storia recente della città. Fiorenza Brioni ha vinto al ballottaggio con un largo margine e appena si è insediata in Comune ha cercato il modo di fermare la cementificazione. Si è accorta subito, però, che la strada non era in discesa. Il consiglio comunale aveva dato il suo assenso. E tutto sembrava in regola. Intanto era subentrato un altro problema. I sei consiglieri dei Ds hanno minacciato di voltare le spalle al nuovo sindaco se non fosse stato confermato l´assessore all´urbanistica della precedente giunta, grande sostenitore dell´insediamento di strada Cipata. La Brioni ha tenuto duro, pagando però un prezzo in termini politici molto alto: la sua maggioranza è apparsa subito molto incerta e tale resta.
La lottizzazione aveva comunque un punto debole, balzato agli occhi di un consigliere di Rifondazione, Matteo Gaddi, e a quelli di Paolo Rabitti, ingegnere, esperto di normative urbanistiche: l´intero progetto avrebbe dovuto essere sottoposto alla Via, la valutazione di impatto ambientale. Perché superiore, spiega Rabitti, ai 10 ettari e perché compreso dentro il perimetro del Parco del Mincio, una zona delicatissima. Ma c´è un altro punto preoccupante. L´insediamento confina con l´aera del petrolchimico, che in base alla cosiddetta Legge Seveso, è considerata «a rischio di incidente industriale rilevante». Quell´area è soggetta a bonifica, perché gravemente inquinata da una serie di componenti chimiche che vanno dal mercurio ad altri clororati cancerogeni.
Fiorenza Brioni ha quindi firmato un´ordinanza con la quale si sospendono i lavori del cantiere, che nel frattempo erano stati avviati. Anche la Regione Lombardia ha emesso un decreto per imporre una Via. Entrambi i provvedimenti, però, sono stati impugnati dalla proprietà, che ha ottenuto dal Tar la loro sospensione. Contemporaneamente il sindaco si è anche rivolto al Ministero, chiedendo se il Parco del Mincio rientra o meno fra i parchi nei quali gli interventi edilizi devono essere sottoposti alla Via. La lettera è stata scritta nel novembre del 2005. Altero Matteoli, ministro del governo Berlusconi, non le ha mai risposto. Ma neanche Alfonso Pecoraro Scanio, titolare del ministero con il centrosinistra, si è fatto vivo.
Gli sbancamenti sono in corso. Ma il sindaco spera che il ministero si esprima al più presto. E che si possa salvare, nell´anno in cui si celebra Andrea Mantegna, la cornice paesaggistica nella quale Mantova ha sempre vissuto e che è il naturale contesto dei suoi gioielli.
Titolo originale: Urban design: the issue explained – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Della progettazione urbana [ urban design] quasi nessuno aveva sentito parlare, fino a dieci anni fa. Ora è considerata un aspetto centrale dell’iniziativa del governo per le città sostenibili: creazione di vitali quartieri popolari con buoni servizi pubblici e una specifica identità spaziale [ sense of place]. Ma restano parecchi dubbi su quanto la realtà possa corrispondere alla retorica.
La progettazione urbana, a cui talvolta ci si riferisce definendola “arte di costruire luoghi” coinvolge molte professioni, come architetti, urbanisti, paesaggisti, e anche ingegneri stradali. Si occupa dello spazio pubblico, degli interstizi fra gli edifici, e contemporaneamente anche dell’aspetto degli edifici stessi.
Uno dei suoi obiettivi principali è la pianificazione generale: una supervisione delle caratteristiche fisiche dei grandi spazi destinati per il futuro a urbanizzazione o trasformazione. I masterplans mostrano in che modo i nuovi interventi si adattino agli edifici esistenti e offrono una cornice alla progettazione di quelli nuovi nell’area.
La prestigiosa Urban Task Force, presieduta dall’architetto Lord Rogers, afferma nel suo rapporto del 1999 che le città britanniche sono “molto indietro” rispetto a quelle dell’Olanda, della Germania, della Scandinavia, in termini di qualità della vita urbana e dell’ambiente costruito.
Si afferma, nel rapporto, che un miglioramento delle forme di progetto è vitale per un “rinascimento urbano” che inverta la tendenza all’abbandono delle zone più interne e tuteli la campagna dall’insediamento diffuso.
Il governo ha risposto dando il proprio sostegno ufficiale allo urban design nel 2003, con la pubblicazione del piano Sustainable Communities del vice primo ministro John Prescott, e il suo impegno a costruire centinaia di migliaia di nuove abitazioni entro il 2016.
Si afferma: “Desideriamo vedere un cambiamento netto nella qualità della progettazione. Ad essa si deve affiancare e integrare un appropriato masterplanning per tutti i principali insediamenti”.
In molti dei suoi discorsi, Prescott ha anche auspicato ripetutamente una maggior quantità di edifici che possiedano quello che lui chiama “ fattore WOW”.
Questo auspicio ovviamente è molto sostenuto dall’ambiente degli architetti, ma molti di loro sottolineano come le politiche pubbliche stiano rendendo sempre più difficile realizzare una buona progettazione. La maggior parte degli edifici pubblici si realizzano tramite i progetti di iniziativa privata, che tendono ad emarginare architetti e architettura.
La qualità media di molte realizzazioni finanziate privatamente, in particolare gli ospedali, è stata criticata dall’osservatorio governativo della Commission for Architecture and the Built Environment.
C’è anche la preoccupazione che in Gran Bretagna non esistano le competenze per creare create nuovi quartieri ben progettati, soprattutto negli enti locali. Per affrontare il problema, è stata istituita una nuova “ academy for sustainable communities” a Leeds.
Si teme che la realizzazione di abitazioni di iniziativa pubblica sacrifichi la qualità per la quantità, come già accaduto nel boom edilizio degli anni ’60 e ‘70. Queste paure sono aumentate dalla volontà del governo di costruire case con sole 60.000 sterline.
Ma i ministri insistono sul fatto che si può ottenere qualità anche a basso costo. Nel tentativo di fissare standards migliori, hanno sostenuto i discussi criteri progettuali utilizzati a Poundbury, il villaggio finto del Principe Carlo, e a Seaside in Florida, lo sfondo del film satirico The Truman Show.
Questi criteri sono proposti dall’influente movimento del new urbanism, un gruppo anti- sprawl nato in America a difendere un tipo di vita urbana orientato alla pedonalità e alle zone centrali.
Ma molti, negli ambienti della progettazione, sostengono che questi criteri soffocano l’innovazione, e impongono uno stile.
Il gruppo coordinato da Lord Rogers afferma che entro il 2021 si spera l’Inghilterra possa “godere di una fama mondiale nel campo dell’innovazione nel progetto urbano sostenibile ad alta qualità”. Un obiettivo che pare piuttosto lontano, ma almeno è nato un dibattito, in Gran Bretagna, sulla progettazione urbana.
Nota: il testo originale al sito del Guardian (f.b.)
Titolo originale: Livingstone promises green Olympics – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il sindaco di Londra, Ken Livingstone, oggi ha promesso che le Olimpiadi del 2012 saranno i giochi più orientati all’ambiente che si siano mai tenuti.
Presentando una bozza di linee guida da seguirsi nella realizzazione delle strutture olimpiche, Livingstone ha fissato una serie di ambiziosi obiettivi riguardo alla rigenerazione che l’evento porterà nella zona orientale di Londra.
Ha affermato che tra gli impegni dei contractors ci sarà molto più che non assicurare il completamento in tempo utile ed entro i limiti di bilancio delle opere previste.
”I Giochi di Londra dovranno essere i più sostenibili di tutti i tempi: lasciare un’eredità in termini di posti di lavoro stabili, abitazioni, miglioramenti ambientali per l’est di Londra, il resto della città e tutta la Gran Bretagna” ha detto.
Le linee guida si soffermano sul fatto che le strutture abbiano le migliori caratteristiche progettuali possibili. Verranno utilizzati i concorsi di architettura per scegliere i progettisti degli stadi e degli altri edifici principali del complesso di Stratford.
L’intero documento di intenti mira ad assicurare che le strutture olimpiche possano essere utilizzate anche dopo i giochi. Si afferma che le Olimpiadi non devono creare “ elefanti bianchi”.
Si ammette che la rigenerazione della città sede dei giochi non è conseguenza automatica del fatto di ospitarli. Letteralmente: “La storia delle scorse edizioni mostra chiaramente che questo risultato non si verifica come naturale effetto dei Giochi”.
Si afferma che gli organizzatori sono intenzionati a unire risultati ambientali come quelli dell’edizione di Sydney, ad una rigenerazione urbana come quella realizzata a Barcellona.
Secondo le proposte nuove regole, i potenziali contractors devono dimostrare il proprio impegno a rapporti di lavoro etici, o all’uso di materiali riciclati. Si ricorda anche che l’intero processo sarà sottoposto alle nuove norme sulla libertà di informazione.
Si suggerisce anche, che nel quadro dei posti di lavoro generati dai Giochi, si dia la precedenza ai residenti locali. Sarà sviluppato un programma di formazione professionale, per dare maggior possibilità di inserirsi ai vari livelli dell’offerta.
Livingstone ha aggiunto: “Una delle priorità dei prossimi setta anni sarà quella di assicurare a popolazione e imprese locali i massimi benefici”.
Il sindaco ha anche annunciato l’avvio di un progetto da 70 milioni di sterline per interrare le linee elettriche nell’area del Villaggio Olimpico.
Nota: il testo originale al sito del Guardian; di un certo interesse anche il discorso programmatico del Sindaco sulle Olimpiadi, di oltre due anni fa ; su Eddyburg vari articoli sull’argomento, come questo sul problema della trasparenza negli appalti (f.b.)
Ci siamo dati sette mesi, scadenza fine aprile 2007. Sette mesi per riuscire a convincere il governo Prodi di fare del vivere insieme, della promozione dei beni comuni, l'orientamento nuovo, marcante, dell'agenda politica italiana e - se possibile - europea dei prossimi cinque anni. Per questo, i sette mesi serviranno per far prendere le decisioni di principio che consentiranno la realizzazione dell'obiettivo res publica sull'arco di tempo 2006-2010. L'obiettivo è quello di far sì che il governo Prodi si impegni ad operare per l'inversione dei processi attuali di mercificazione della vita, di finanziarizzazione dell'economia e di privatizzazione del politico, ridando la priorità alla giustizia sociale fondata sui diritti umani e sulla sicurezza, ad una vita umanamente degna per tutti i cittadini, attraverso la promozione (e finanziamento) dei beni comuni essenziali ed insostituibili alla vita, al vivere insieme, al miglioramento qualitativo delle condizioni di esistenza, anche nell'interesse delle generazioni future.
In che modo? Cercheremo di ottenere entro aprile 2007 la creazione di un Segretariato di coordinamento nazionale dei beni comuni sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio, come primo passo fondatore - sul piano politico-istituzionale e simbolico - del cammino di reinvenzione della res publica. Il compito del segretariato sarà quello di stimolare e coordinare le iniziative delle istituzioni pubbliche (governo, regioni, province e comuni) e degli operatori economici e sociali (imprese pubbliche, terzo settore, sindacati, movimenti ed associazioni) rivolte a promuovere i beni comuni, al fine di identificare, valutare e proporre gli strumenti giuridici, istituzionali e finanziari più idonei alla loro realizzazione e sviluppo. Si pensa, fra altre azioni che dovrebbero essere promosse dal Segretariato, all'organizzazione di Conferenze programmatiche regionali sui Beni comuni e ad Ateliers di progettazione.
Considerato lo stato attuale delle cose, proponiamo di concentrare i percorsi da compiere sul cammino della nuova res publica su quattro direttrici: 1) l'acqua, valorizzando l'eccezionalità conferitale dal governo Prodi nell'escludere i servizi idrici dai processi di liberalizzazione e far sì che non passi la sua privatizzazione e mercificazione attraverso altre disposizioni. Quel che è in gioco, attraverso l'acqua, è la sacralità della vita; 2) l'energia e l'ambiente, i due grandi campi del vivere insieme sui quali si sta giocando il futuro delle nostre economie e della civiltà urbana; 3) la conoscenza, «spirito» dell'essere umano e cultura di ogni comunità, non essendo più accettabile la sua attuale appropriazione privata e mercificazione. Ne va dell'educazione. L'università sta diventando, anche in Italia, una impresa di produzione, vendita e distribuzione di saperi mercificati. La mercificazione della conoscenza significa quella della salute e, quindi, la sparizione del diritto alla salute; 4) la bellezza, o quel che resta del Bel Paese che non è stato ancora fagocitato da una logica finanziaria di valorizzazione turistica puramente commerciale, sia di lusso che di massa.
Due i nostri alleati principali. I membri oggi al Governo ed in Parlamento. Non è saggio né giustificato pensare che i nostri amici al governo ed in parlamento siano oramai dall'altra parte. Anzi, queste settimane dimostrano il contrario, malgrado certi limiti e certe contraddizioni. Sta anche a noi non abbassare la guardia e fornire proposte e contenuti innovativi nonché sostegno popolare, mantenendo una forte capacità critica costruttiva. L'altro alleato sono le reti dei movimenti impegnati in particolare lungo le direttrici menzionate (acqua, energia/ambiente, conoscenza/educazione/salute, bellezza). Si continuerà nei prossimi giorni a promuovere l'iniziativa res publica già lanciata grazie a il manifesto e a Carta.
Milano, la capitale della deregulation urbanistica, fucina di immensi livori nei confronti di qualsiasi forma di pianificazione, la «città del pragmatismo» che ha gestito la trasformazione postindustriale degli ultimi decenni giustapponendo allegramente i progetti parziali man mano che venivano proposti, comincia improvvisamente a emettere segnali sovversivi. Con il progetto di una cintura di bosco intorno a Milano, promosso da provincia, regione e comune Stefano Boeri sdogana un modo di pensare la città, fondato su una visione unitaria a lungo termine e sulla comprensione della complessità, oramai desueto tra gli intellettuali e gli amministratori milanesi e più in generale italiani.
Dopo anni di muro contro muro, le rivendicazioni dei facinorosi abitanti dell'Isola, il quartiere simbolo delle battaglie civiche contro la speculazione e il fenomeno della gentrification, vengono accolte nell'insperata revisione del progetto originale Isola-De Castilla, anch'essa affidata allo Studio Boeri. E il nuovo sindaco (Letizia Moratti! Tant'è) assesta un colpo ferale alla monocultura dell'automobile, associata inevitabilmente alla sete di parcheggi e alla fuga nelle villette in campagna, lottando per l'introduzione del ticket anti-inquinamento per i mezzi di trasporto dei non residenti. A questo punto diventa lecito chiedersi che cosa stia succedendo, se gli elementi di questo puzzle rappresentino i germi plausibili di una rivoluzione copernicana o una triste apertura al politically correct.
Nonostante l'evocativa analogia con la Congestion Charge e la Green Belt, il paragone con le felici vicende urbanistiche di Londra non è pertinente, perché le soluzioni inglesi fanno parte di una strategia complessa enunciata nel London Plan, a sua volta espressione di una volontà politica ben precisa, mentre quelle lombarde sono di fatto episodi concepiti in momenti e contesti diversi, frutto di istanze eterogenee e persino contraddittorie.
Il Metrobosco progettato da Boeri è una fascia boschiva di profondità variabile che non si limita a collegare il sistema di parchi e cascine localizzato nelle aree perimetrali della città - Parco Nord, Parco Lambro, Forlanini e a ovest Bosco in città, parco delle Cave, Cascina di Prezzano e Parco dei Fontanili, fino a Parco Sud - ma prevede l'integrazione di aree agricole e soprattutto un'imponente opera di riforestazione, in parte anche da destinare a bosco produttivo, per un totale di 3 milioni di alberi su un'estensione di 30.000 ettari. La sua realizzazione comporterebbe, oltre ai prevedibili benefici nei termini di quantità di ossigeno, qualità paesaggistica, tutela del territorio, un grande vantaggio strategico: «Guardare Milano dal punto di vista degli spazi aperti - afferma Boeri - significa capovolgere la prospettiva del policentrismo edilizio e delle concentrazioni funzionali, puntare l'attenzione sulle relazioni sociali e sui flussi vitali di una metropoli. Significa ragionare sul senso di una città progettandone prima di tutto gli spazi collettivi, i luoghi di incontro, i punti di condensazione della vita sociale e i nodi di scorrimento delle folle metropolitane».
Si tratta dunque di un piano sviluppato a partire dai vuoti invece che dai blocchi edilizi, una novità assoluta nella prassi milanese e al tempo stesso un'idea che ha ossessionato a lungo Giancarlo De Carlo - e del resto il suo modello della città-turbina, elaborato negli anni '60 nel contesto dei dibattiti sul Piano Intercomunale Milanese è uno degli archetipi del Metrobosco. Tuttavia l'aspetto più dirompente dell'anello verde è costituito dal fatto che la sua presenza assume di necessità lo status di confine: «È un confine poroso, naturalmente, permeabile, da attraversare lentamente a piedi o in bicicletta o a tutta velocità percorrendo le arterie radiali di Milano», aggiunge Boeri. Il suo valore è soprattutto simbolico, rappresenta un argine contro il continuo urbano esteso da Torino a Venezia, e una discontinuità rispetto a quel filone di pensiero, finora dominante, che ne elogia la produttività.
L'eliminazione di una barriera reale è invece uno dei punti fondamentali della revisione del progetto Isola-Lunetta, parte della ricchissima opera di sistemazione dell'area Garibaldi-Repubblica con annessi Giardini di Porta Nuova, Città della moda e nuova sede della regione. Il popolare quartiere Isola, tuttora circondato da infrastrutture e aree abbandonate che lo rendono poco accessibile dall'esterno, è sempre stato considerato la pecora nera del piano. Tutti i progetti e i concorsi che si sono avvicendati sull'area (il masterplan, redatto da Pierluigi Nicolin, risale a vent'anni fa) hanno mantenuto il quartiere rigorosamente separato dal prestigioso parco per mezzo di una nuova strada a scorrimento veloce e di un'enorme quantità di cubature date in permuta ai proprietari dei terreni su cui sorgerà lo stesso parco. Gli abitanti hanno ricambiato con una mobilitazione accanita che ha prodotto un caso «scomodo».
La revisione dello Studio Boeri prevede un pesante ridimensionamento e la redistribuzione delle cubature, la soppressione della strada-barriera e la creazione di un nuovo giardino pubblico contiguo al parco, oltre alla conservazione di alcuni edifici del tessuto storico: un buon risultato, ottenuto anche grazie al recupero dello straordinario lavoro di progettazione partecipata svolto dal gruppo coordinato da Giancarlo De Carlo per il concorso (perso) dei Giardini di Porta Nuova (documentato nel libro La costruzione di un progetto, Alinea editrice, 2004).
Verrebbe naturale pensare che il committente della revisione sia l'amministrazione pubblica, decisa a porre rimedio - seppure tardivamente - allo scempio programmato e a farsi carico delle esigenze di un esasperato gruppo di cittadini. Invece a chiamare Boeri è stato Manfredi Catella, amministratore delegato dell'immobiliare Hines, e per giunta, con un totale ribaltamento dei ruoli, è toccato a lui porre dei vincoli qualitativi all'indifferente Comune. Non è stato un oscuro progetto di riforma sociale a indurre una società immobiliare a un comportamento apparentemente tanto anomalo, ma la constatazione che la qualità di un progetto del genere doveva necessariamente tenere conto dell'aspetto sociale, oltre che delle soluzioni tecniche ed estetiche. In altri casi, per ragioni più o meno legate alla promozione d'immagine, le società offrono tecnologie ecosostenibili o spazi pubblici, ma la committenza pubblica sembra sempre più confinata al ruolo di passacarte.
Gli abitanti delle villette brianzole e gli sviluppatori possono dormire sonni tranquilli, per ora non ci sono elementi sufficienti per una svolta radicale: la rendita fondiaria resta il motore principale della trasformazione e la conurbazione Milano-Torino è oggi considerata uno degli agglomerati economicamente più efficienti d'Europa, e come tale è rappresentata anche in Biennale. Tuttavia il fatto stesso che questi progetti abbiano potuto essere concepiti e diffusi e che raccolgano consensi è tutt'altro che irrilevante. Sono i primi, importanti colpi inferti a un mondo culturale che per anni ha sostenuto le ragioni del buonsenso ambrosiano, della prospettiva a breve termine, della «mancanza di visione».
Nota: su Mall anche un breve dibattito sugli aspetti effettivamente " ambientali" di Metrobosco (f.b.)
Maria Novella De Luca "Allarme abusivismo e incuria" l´Unesco boccia i siti italiani
Vedremo qualche segno di civiltà dal centrosinistra al centro e in periferia, oppure continueranno a cercare le grandi firme? Da la Repubblica del 13 settembre 2006
ROMA - «Sapete quale è l´ultima beffa? Case costruite su terreni vincolati, in aree definite patrimonio dell´umanità, e poi vendute con il marchio Unesco come valore aggiunto. Senza vergogna...». Scherza amaro il professor Giovanni Puglisi, presidente della commissione italiana per l´Unesco, riferendosi alle nuove speculazioni edilizie della Val D´Orcia, alla fine di un´estate dove gli allarmi sul degrado dei siti inseriti nelle liste del world heritage, sono diventati una vera e propria emergenza. Dai centri storici snaturati dal turismo di massa come San Gimignano, che ad agosto ha registrato un tale incremento di presenze "mordi e fuggi"da far temere per la sopravvivenza del borgo stesso, alle 42 villette con piscina pronte ad essere edificate a Corniglia, nelle Cinque Terre, in quel fragile lembo di Liguria ancora immune (quasi) dagli sfregi del cemento, l´intera lista italiana dei 41 siti che vantano il marchio di patrimonio dell´umanità gode di cattiva salute. L´ultima notizia, in ordine di tempo, arriva da Matera, dove Legambiente ha denunciato la costruzione di un parcheggio sotto i Sassi, inseriti nella lista Unesco nel 1993, recuperati, restaurati, ora di nuovo in pericolo.
Ma questi sono solo gli ultimi esempi, perché ricorda Giovanni Puglisi, «ci sono luoghi non soltanto a rischio ma che potrebbero essere espulsi dalle liste del patrimonio mondiale, come Lipari, dove tuttora non è risolta l´annosa questione delle cave di pomice, o l´area delle Ville Palladiane, se verrà approvato il progetto di un´autostrada che dovrebbe tagliare in due tutta la zona, e quindi distruggere giardini e paesaggi». E perdere il "marchio" Unesco non è cosa da poco se si pensa che poter scrivere su un depliant che quel borgo, quel castello, quel centro storico, quell´isola fanno parte del world heritage, fa aumentare del 30% i flussi turistici. E invece è proprio a ridosso di quei siti che si concentra la corsa al mattone, si continua a costruire attorno, vicino, a ridosso all´opera d´arte, per riuscire a portare il turismo dei pullman e dei grandi numeri proprio sul luogo, quasi dentro l´area archeologica, incuranti di vincoli e bellezza, come è avvenuto nella Valle dei Templi ad Agrigento. Ma che cosa può fare l´Unesco? Puglisi è realista: «Io sono sommerso da un martellamento costante di segnalazioni di abusi e violazioni, che possono portare anche all´espulsione dalle liste. Eppure questo non sembra essere un deterrente abbastanza forte, perché in realtà si continua a costruire dappertutto, ad ogni condono edilizio c´è un pezzo di Italia che scompare. Attenzione, non è giusto museificare i luoghi artistici e storici, ma so deve fare una tutela vera, a cominciare da un turismo di flussi programmati, quella che io chiamo versione omeopatica del numero chiuso».
In realtà quello che sta succedendo è che si cominciano a vedere gli effetti del condono approvato dal governo Berlusconi, l´edilizia sembra avere un nuovo boom, una valanga di cemento che non risparmia neppure, appunto, i siti patrimonio dell´umanità. Ma l´attacco al Belpaese non è appannaggio soltanto del centrodestra. A Monticchiello è un sindaco Ds a difendere il nuovo insediamento abitativo di 95 villette già in costruzione alle porte del minuscolo borgo di 150 abitanti, affermando che si tratta di case per le giovani coppie del paese, altrimenti costrette ad emigrare. E forse era questo il progetto iniziale, eppure le vendite sul mercato locale sono state pochissime, e le abitazioni vengono invece cedute a stranieri e forestieri anche, come raccontava Giovanni Puglisi, con la segnalazione che si tratta di appartamenti che «sorgono in una zona definita patrimonio dell´umanità». A Corniglia la battaglia sui seimilacinquecento metri quadrati di villaggio turistico che dovrebbe essere costruito su un pezzo di costa a ridosso di una collina franosa, è tutta interna alla sinistra, che difende il progetto, e gli ambientalisti che, in parte, cercano di impedirne l´attuazione.
Sono soltanto alcuni casi. Perché si dovrebbe parlare di Ercolano, del Cilento, della Costiera Amalfitana... «Il marchio dell´Unesco - conclude Puglisi - ha una forte valenza culturale e simbolica, e la commissione può decidere di espellere dalla lista i siti non adeguatamente tutelati, ma sugli abusi devono intervenire le soprintendenze e le procure della Repubblica, e ci vogliono sanzioni forti». Chissà. Per adesso tra le "vestigia" dell´umanità spuntano residence, alberghi, casette a schiera e campi da tennis.
SALTI sulla sedia chi credeva che col centrosinistra si cambiasse musica in tema di beni culturali: fra le idee "nuove" che il governo Prodi avanza sulla "modernizzazione" del Paese (nel disegno di legge presentato dal ministro Nicolais il 5 settembre), rispunta, impudicamente scopiazzata dal peggior Tremonti d’annata, l’idea sgangherata e perversa del silenzio-assenso in materia di beni culturali.
Sarà bene ricordare che negli anni del centrodestra il principio del silenzio-assenso fu introdotto, calpestando la Costituzione, prima a proposito delle alienazioni di beni culturali pubblici, e poi per favorire i costruttori privati. Ripercorriamo quei due momenti prima di valutare la brillante idea (si fa per dire) del ministro della Funzione pubblica.
Nella scorsa legislatura si cominciò con il D. L. 269/2003, affiancato dall’emendamento Tarolli alla Finanziaria 2004. Il Codice dei Beni Culturali era allora in dirittura d’arrivo, e prevedeva in caso di vendita di beni pubblici la prevalenza dell’accertamento dell’interesse culturale senza iugulatori limiti di tempo; ma prima ancora dell’approvazione del Codice quel principio fu vergognosamente capovolto in silenzio-assenso, secondo cui se di qualcosa non si dichiara velocissimamente l’interesse culturale, vuol dire che non ne ha affatto, che non ne avrà mai più, che si può vendere impunemente. Sia la Commissione Cultura del Senato che quella della Camera, entrambe con maggioranza di centrodestra, osservarono l’incoerenza fra il dettato della Finanziaria e quello del Codice, raccomandando al governo che avesse la meglio il Codice in quanto rispondente ai principi della Costituzione; ma il Consiglio dei ministri fece l’opposto, e secondo il dikat di Tremonti inserì il silenzio-assenso nel Codice. Cominciò allora una battaglia contro il silenzio-assenso, universalmente deprecato dalla sinistra allora all’opposizione. Alla fine, su proposta di una commissione insediata dal ministro Buttiglione, il governo cancellò il silenzio-assenso dal Codice con un decreto di fine legislatura (156/2006).
Nasceva però intanto un’altra applicazione del silenzio-assenso, stavolta in beneficio di chi voglia edificare presentando una DIA ("dichiarazione di inizio attività"), e cioè un’autocertificazione che sostituisce il nullaosta amministrativo (a meno che l’amministrazione competente non vi si opponga entro 90 giorni). La legge 537/1993, in ossequio alla Costituzione, escludeva espressamente i beni culturali dall’ambito di applicazione, ma nel febbraio 2005 il centrodestra, contrabbandando il provvedimento come "semplificazione della regolamentazione", provò a sopprimere l’eccezione: per la prima volta nella storia d’Italia, in tal modo, l’intero sistema della tutela non sarebbe stato governato né dalla Costituzione né dalle apposite leggi, bensì da autocertificazioni e dal pessimo principio del silenzio-assenso. Anche allora, grande mobilitazione della sinistra, delle associazioni, dell’opinione pubblica contro quella proposta, caldeggiata dall’allora ministro della Funzione pubblica, Baccini. E anche quella volta, il governo Berlusconi dovette fare marcia indietro: secondo la L. 80/2005 furono esclusi dal silenzio-assenso «gli atti e i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l’ambiente», oltre a quelli sulla sicurezza nazionale, la difesa, la sanità.
Inutile battaglia. Inutile cambiare governo e colore politico, visto che il "silenzio-assenso" proposto da Nicolais è identico a quello di Baccini: ora come allora, vuol dire che se la risposta all’autocertificazione di un costruttore non giunge "entro il termine perentorio di 90 giorni dal ricevimento della richiesta", la richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione (ovviamente irreversibile) di un’area archeologica o di un paesaggio, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia protetta. E questo mentre le Soprintendenze sono ormai coperte per circa il 40% per reggenza a causa della cronica mancanza di assunzioni; mentre l’età media del personale è intorno ai 55 anni; mentre mancano in musei e soprintendenze il tempo per l’ordinaria amministrazione, i soldi per pagare la luce e il telefono. La ridicola foglia di fico della proposta Nicolais, secondo cui in un indeterminato futuro si potrà forse stabilire (con regolamenti di là da venire) quali atti sul patrimonio culturale e paesaggistico potrebbero sfuggire al silenzio-assenso, non ingannerà nemmeno i più ingenui.
Scopriamo adesso, grazie al ministro Nicolais, che il silenzio-assenso sui beni culturali, pessima barbarie se fatta dal centrodestra (che peraltro lo ha, seppur tardivamente, abolito), in mano al centrosinistra diventa modernizzazione progressista. Andando avanti di questo passo, diventerà di sinistra vendere i beni del demanio culturale, cosa orripilante quando voleva farlo la destra? Ci convinceremo che i tagli ai beni culturali, ma anche alla ricerca, all’università, al teatro e alla musica, se fatti dalla destra sono deplorevoli, se li fa la sinistra vanno accolti con giubilo? Che i musei di Stato vanno privatizzati, purché sia la sinistra a farlo? Che il saccheggio del territorio e la distruzione del patrimonio culturale e del paesaggio sono diventati "di sinistra"?
Il silenzio-assenso in tema di beni culturali è contrario all’art. 9 della Costituzione, come espressamente dichiarato dalla Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia "il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso" (sentenza 404/1997). Come ha ben spiegato un eccellente giurista, Silvio Martuccelli, sul Sole-24 ore del 9 maggio 2004, è questo uno strano modo di utilizzare il silenzio-assenso. Nato per tutelare il cittadino dinanzi all’inerzia della pubblica amministrazione, per una sorta di eterogenesi dei fini diventa un espediente tecnico attraverso il quale lo Stato, a danno della collettività, elude i vincoli della tutela dei beni culturali. Il silenzio, continua Martuccelli, non ha di per sé alcun significato giuridico. È il legislatore che sceglie se attribuirgli un significato, e quale. Se (nel caso della tutela dei beni culturali, paesaggistici, ambientali) il legislatore vuol privilegiare l’interesse a tutelarli, allora attribuirà all’eventuale silenzio dell’amministrazione il valore di un diniego; se - come vuole Nicolais in piena sintonia con Tremonti e Baccini - gli dà invece valore di assenso, è chiaro che ritiene secondario l’interesse pubblico della tutela rispetto a quello privato di chi voglia spianare dune, devastare boschi e coste, annientare zone monumentali e archeologiche. Perciò va denunciata con forza, col centrosinistra proprio come col centrodestra, l’assoluta illegittimità costituzionale di questa norma, scritta in totale spregio dell’art. 9 della Costituzione.
Contro il silenzio-assenso di Tremonti e contro quello di Baccini, l’allora ministro Urbani provò a battersi, perdendo la prima battaglia ma vincendo la seconda; l’allora presidente Berlusconi non rispose nemmeno alle proteste di associazioni, stampa, società civile. In questo che rischia di essere il primo atto significativo del governo Prodi sui beni culturali, sia lecito sperare che il presidente del Consiglio blocchi una manovra indegna della sua cultura e del suo governo; e che il ministro Rutelli (che è anche vicepresidente del Consiglio) voglia battersi con decisione, e sappia vincere.
Occorre una buona dose di immaginazione per far credere di fondare una città tra Verona e Mantova, nominarla «Vema» e pensare che lì possano andare a vivere trentamila persone. Tra quelle due città, dove ancora l'agricoltura convive con un'industria aspramente ristrutturata, chi lì investe i proventi delle sue attività imprenditoriali nella rendita immobiliare, lo fa senza troppa enfasi e «Vema» sarebbe considerata semplicemente un'estesa lottizzazione. Purtroppo una parte della cultura architettonica italiana sembra preferire questi mezzi per affermare la sua vitalità, quando non è in difesa e grida sui giornali allo scandalo per i troppi incarichi assegnati agli architetti d'oltralpe o all'attacco del ministro Bersani per opporsi alla concorrenzialità dei loro servizi professionali.
Di «speranze progettuali» se ne producono molte, ogni giorno di inutili, e passerebbe inosservata anche quest'ultima se a promuoverla non fossero il ministero dei beni per le attività culturali, attraverso il Darc, la Direzione generale per le arti e l'architettura contemporanee, e la Biennale di Venezia che espone in una parte dell'Arsenale questo anacronistico quanto sterile esercizio accademico. Un'operazione vuota di significato che però contribuisce ad avvalorare la tesi che si può fare a meno di tutta la cultura urbanistica che fino ad oggi è stata prodotta per assegnare all'opera di un architetto-fondatore la costruzione in vitro di un luogo-modello per il nostro abitare prescindendo da qualsivoglia fattibilità sia tecnica sia economica. Nessun interesse ha la storia della città che può essere facilmente sintetizzata e svolgersi in schemi planimetrici sulla lunga parete davanti al plastico e agli stands dei giovani architetti selezionati per elaborare ognuno una porzione o funzione di «Vema». Dalla città futurista di Sant'Elia a quella «analoga» di Rossi, dalle «città nuove» del fascismo a quella megastrutturale del gruppo romano Metamorph (1963), dagli insediamenti dell'edilizia popolare del dopoguerra alle prove dell'urbanistica razionalista, la storia si riduce ecletticamente a un inventario indifferente di figure e modelli oppure a evocazione mitica, come nel caso della celebrazione del centenario del «Gruppo 7» da far coincidere tra vent'anni con l'esecuzione di «Vema». Tutto a un tratto è come se fossero transitate invano in questo mondo figure come Piccinato o Astengo, Michelucci o Rogers, evaporate nel nulla le indagini storico-critiche sulla metropoli compiute proprio nell'università del capoluogo lagunare da Tafuri, Cacciari, Manieri-Elia, Dal Co, in una stagione felicissima di studi intorno il pensiero filosofico e sociologico di Benjamin, Simmel, Sombart, Endell. Insomma sembra che il progetto urbanistico, fatto di riflessioni, studi, analisi, redatte per i numerosi piani regolatori delle più importanti città italiane, da Campos Venuti, Secchi, Indovina, Benevolo, non sia mai esistito, che la storia urbana e urbanistica del nostro paese si sia occultata, suggestionati dalle parodie del moderno, per dare spazio allo shock mediatico della città-ideale.
Eppure ci aveva già avvertito alla fine degli anni trenta Lewis Mumford che la «salvezza» delle nostre città risiede, allora come oggi, nello «spalancare un nuovo campo di vita e di attività nelle stesse aree metropolitane» e non di «progettare unità chiuse» perché è un «compito senza speranze di riuscita». Invece di riflettere per dare soluzioni immediate agli errori causati da programmi urbanistici sbagliati che hanno prodotto periferie con tipologie edilizie banali, scarne di funzioni sociali e assenti di ogni interesse estetico, c'è chi preferisce allontanarsi dalla città pensando di ricreare dall'origine le condizioni di un abitare migliore, più idoneo di quello prodotto anche dalle più recenti generazioni di piani urbanistici. Del quartiere «Lunetta» a Mantova o delle aree di Verona-sud è bene che se ne occupino gli assessorati per riqualificarli, nei casi di più alto disagio sociale, l'assistenza pubblica, se c'è qualche possibilità di profitto il mercato. Per i giovani gruppi di architetti italiani scelti da Purini per progettare «Vema» - di alcuni ne seguiremo con interesse il percorso - l'architettura non ha necessità di confrontarsi con un programma e un committente, se non con l'autoreferenzialità di un tema, non possiede finalità di risultato, né intende misurarsi con la società e la storia: è «architettura per l'architettura» per usare una definizione di Ernesto N. Rogers e come tale «non ha senso, come non ha senso nessuna azione umana che si chiude in una tautologia».
Cos'è restato del progetto di Aldo Rossi per l'area mantovana di «Fiera Catena» e di quelli dei partecipanti al concorso internazionale del 1982? In una delle poche aree pregiate della città è stata edificata una «insensata» lottizzazione eseguita pragmaticamente da alcune società immobiliari a dispetto dell'architettura e delle sue scuole. Forse, sarebbe stato utile in quegli anni avere investito meno in poetica e un po' di più nel mestiere. Oggi non assisteremo a questo mediocre spettacolo sul Mincio. Conosciamo bene il paesaggio agrario industrializzato e i centri minori che si dispiegano lì dove «Vema» si vuole fondare e non possiamo che augurarci che la riflessione degli architetti si orienti, dopo la kermesse veneziana, alle questioni urgenti di quei luoghi evitando le inutili e ambigue prove di estetizzazione che già omologano e pervadono le città e il territorio.
L'immagine è di Giuseppe Scalarini: "Un braccio per dare, cento per prendere". Ecco una biografia del mantovano Scalarini
«Città. Architettura e società» è il cuore della decima Biennale, l'esposizione a cui la mostra veneziana si affida per ritrovare un'identità culturale e un ruolo nella discussione internazionale sull'architettura dopo tre edizioni un po' discusse, accusate da alcuni di essere troppo incentrate sulla pura spettacolarità. Il tema, ufficialmente «assegnato» dal consiglio di amministrazione della Biennale, è quello della «questione megalopolitana», dell'inarrestabile flusso che continua a portare persone e comunità intere dentro ambiti urbani sempre più difficili da gestire, di cosa debbano imparare e poi elaborare gli architetti e gli urbanisti per affrontare il problema. Richard Burdett, anglo-italiano cresciuto alla scuola del pragmatismo architettonico inglese, ha svolto un compito su cui era evidentemente già preparato in modo egregio, dipanando alle Corderie un percorso chiaro e didattico attraverso l'illustrazione delle sedici megalopoli studiate, e raccogliendo al Padiglione Italia materiali più diversi e interpretativi, aperti da un lato alle visioni di artisti e fotografi e dall'altro pazientemente impegnati a raccontare ricerche e studi disciplinari già avviati.
Abbiamo visitato la mostra il giorno 6, approfittando di una pre-vernice riservata a chi aveva lavorato ai vari eventi. La prima impressione è stata strana e inusuale, legata al flusso inaspettatamente rado di visitatori privilegiati e ai rarissimi ritardatari ancora al lavoro nel loro spazio espositivo. Novità assoluta. La ragione è stata chiara quasi subito, dopo il primo sguardo ai pannelli e alle immagini: la biennale praticamente non ha espositori, quindi a mostra semi-aperta non ci sono le solite tribù. Non ci sono le frotte di architetti e affini impazienti di mostrare i propri gioelli, non ci sono le superstar assediate da giornalisti e ammiratori come al Lido. Si girava quindi per padiglioni semivuoti, approfittando per guardarsi in pace un materiale che sopratutto alle Corderie si presenta in modo del tutto inedito per la Biennale: una sequenza unitaria e coerente di pannelli pieni di testi, cifre, informazioni e immagini (ferme e in movimento) relative alle sedici città esposte. Insomma, la Biennale trasformata in una splendida mostra didattica, una cosa non da poco.
L'impressione di novità non finisce qui. Per la prima volta dopo la visita alla mostra si sente una strana impazienza di consultare il catalogo, che invece alla Biennale è in genere un ammasso un po' frettoloso di immagini relative agli autori esposti, quasi sempre del tutto differenti rispetto a quanto esposto (che infatti è stato completato la notte prima). In questo caso, data la materia e l'approccio scelto, il catalogo della mostra va considerato come un vero e proprio libro, che permette di espandere e approfondire quanto vediamo nei grafici e nei pannelli appesi alle Corderie.
Le differenze rispetto alle edizioni precedenti non sono finite, ma sembrano anzi consolidarsi come un elemento preciso e consapevole del programma, anche se il tema delle megalopoli non è certo una novita assoluta per la biennale. Sei anni fa, infatti, Massimiliano Fuksas lo aveva affrontato nella sua Less Aesthetics More Ethics, giocando proprio sulla contraddizione tra il titolo edificante e il contenuto iperestetizzante della mostra. Dalla sua mostra erano usciti pochissimi problemi delle città contemporanee e molta cultura dell'immagine, grazie anche all'indimenticabile megavideo di Studio Azzurro alle Corderie. Non che Burdett rifiuti la cultura visiva del terzo millennio, la fotografia e lo stile «google earth» dominano gli spazi, però anche in questo caso la sensazione è opposta. Il tutto è tenuto insieme con sobrietà e rigore, quasi fosse davvero - come in effetti è - la sezione critica di un corpus di dati e riflessioni molto importanti.
Altra novità che non può non saltare agli occhi, rispetto alle edizioni-parata di Sudjic e Forster, l'assenza totale dello star system internazionale. Non ci sono le ultime fatiche di Gehry e Calatrava (a proposito, che fine ha fatto il ponte di piazzale Roma?), non c'è Eisenman né Libeskind, non c'è Rem Koolhaas e non c'è Zaha Hadid. Anzi Rem e Zaha e pochissimi altri altri ci sono, ma sobriamente inseriti in un ciclo di incontri con il pubblico. Non è difficile prevedere che questa sarà une delle ragioni del «successo di critica» della mostra, soprattutto presso gli addetti italiani. Le ragioni in realtà saranno diverse. Alcuni apprezzeranno la sottintesa consapevolezza, da parte del curatore, che ormai l'informazione in architettura viaggia altrove e in tempo reale. Altri, con un ragionamento un po' meno limpido e forse un po' troppo consolatorio, apprezzeranno l'assenza dell'imperialismo architettonico globalista e di tutto ciò che in genere ci ricorda la difficile condizione dell'architettura in Italia. Diranno che «finalmente l'effetto Bilbao è finito», ed eviteranno di rilevare che le archistar non ci sono, ma che non ci sono neanche i progettisti un po' meno alla moda, né quelli emergenti. Non ci sono i progetti di architettura e basta, salvo pochissime eccezioni, piegate da Richard Burdett all'esigenza di esemplifiare una strategia o una politica urbana.
Ultimo cambio di rotta evidente, rispetto a Forster e Hani Rashid, l'assoluto understatement dell'allestimento. Che la volta scorsa era una mostra nella mostra, enensimo pezzo d'autore teso a dare una chance all'«architettura digitale». E che in questa edizione è ben curato dallo studio Cibic & partners, quasi perfetto nella gestione degli spazi, sobrio e paziente nel distribuire l'enorme mole di dati, immagini e schermi nel corridoione delle Corderie.
L'impressione generale, comunque, è che sia una bella mostra, di quelle che in genere piacciono molto a noi appassionati di rapporti tra la cultura urbana contemporanea e l'architettura ma che piacciono meno ai dirigenti della Biennale. Quindi complimenti a Burdett, che probabilmente è riuscito a realizzare questo progetto grazie alla possibilità di sviluppare una grande ricerca con i mezzi della London School of Economics, al sostegno dei più importanti architetti inglesi e alle relazioni che ha costruito in questi anni, grazie al Forum globale che ha istituito, con le classi dirigenti di alcune delle città coinvolte. E complimenti al consiglio, che ha sostenuto un progetto fondato sui contenuti.
Rispetto a una biennale standard, in cui si scorrono elenchi chilometrici di nomi lambiccandosi su quale valga veramente la pena di citare nello spazio piccolissimo di una recensione, in questo caso il compito è semplice. La mostra è un'opera poco estrosa ma compatta e coerente, dalla quale si fa fatica a staccare «pezzi» sublimi. A parte l'inevitabile scorpacciata di planimetrie e foto aeree, alcune cose da ricordare però ci sono. Per esempio le tavole in bianco e nero di alcune parti comparabili del tessuto urbano delle sedici città messe a confronto con il vecchio metodo à la Colin Rowe del pieno/vuoto. Il nudo profilo degli edifici, come ci insegnava Rowe, si rivela un lettore acutissimo delle differenze di densità e dei modi di occupare il suolo, e in fondo anche l'unico omaggio agli strumenti specifici della disciplina architettonica. Poi gli istogrammi tridimensionali delle densità campione delle città, raccolti intelligentemente in un'unica stanza, gotici e impressionanti come una gypsoteca del sovraffollamento urbano. Infine alcuni lavori dei fotografi e artisti visivi più bravi e interessanti, le immagini di Francesco Jodice e di Olivo Barbieri, l'ermetica scatola magica (video) di Andrea Cavazzuti su Shangai, e soprattutto la mostra al Padiglione Italia, con alcuni artisti davvero shocking e profondi (memorabili alcune fotografie di Robert & Shana Parkeharrison).
Non mancano ovviamente punti meno appassionanti, o scelte discutibili (il mito perduto di MiTo?), ma la visita alla mostra ci restituisce comunque un punto di vista solido e chiaro, ed è certamente meno estenuante di molte altre biennali.
Nota: per un confronto, le opinioni sulle stesso (?) tema di Paolo Vagheggi e Vittorio Gregotti e l'intervista al direttore Richard Burdett; manca ancora un commento dei sociofagi della "città infinita" (f.b.)
L’ombelico del mondo è a Venezia, tra l’Arsenale e i giardini di Castello. Qui è stata allestita la decima edizione della Biennale di architettura che ha per titolo Città. Architettura e società e qui sfilano le megalopoli, le città dove, come ripete in continuazione il direttore, l’inglese Richard Burdett, vive più della metà della popolazione mondiale. E la presentazione è da megalopoli: ai giardini una gigantesca fotografia di Shangai realizzata da Olivo Barbieri avvolge e stravolge magicamente l’intera facciata del Padiglione Italia, alle Corderie, un anfiteatro carico di filmati e di dati bombarda il visitatore (da ieri il vernissage, apertura al pubblico dal 10 settembre al 19 novembre, catalogo Marsilio).
Eppure questa Biennale rispetto alle passate stagioni è meno sensazionalista e visionaria, punta sull’urbanistica, la sociologia, l’economia, la statistica, la ravvicinata visione della città, messe in scena nell’antico corridoio delle Corderie attraverso il continuo confronto tra i dati di San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Il Cairo, Johannesburg, Istanbul, Berlino, Londra, Barcellona, Tokyo, Mumbai, Milano e Torino, Shangai.
Sedici giganti mostrati in sequenza con filmati, grafici, fantastiche fotografie satellitari e foto d’artista. E’ un universo colorato dai rossi e dai gialli delle case, dal verde dei parchi, presentato da grandi didascalie, quasi un National Geographic tridimensionale, con la perfezione e la ricercatezza tipicamente anglosassone. «E’ una Biennale da leggere oltre che da vedere», dice il presidente, Davide Croff, una scelta «un rischio» calcolato. E non mancano le polemiche, più o meno sotterranee, nazionali e internazionali. Su Internet c’è chi raccoglie firme contro il padiglione israeliano perché è dedicato a 15 edifici che commemorano sia l’olocausto sia i soldati israeliani caduti in guerra. Il padiglione americano che espone una serie di progetti per rivitalizzare e ricostruire New Orleans distrutta dall’uragano Katrina (After the flood) viene letto pro Bush e contro Spike Lee, che proprio a Venezia e proprio in questi giorni ha presentato un film di segno opposto. Genova, che l’Herald Tribune ha proposto come simbolo del pessimo futuro europeo, alla Biennale diventa l’esempio di una città che cambia e che riesce a entrare nell’era post industriale con i progetti, in parte realizzati, di ristrutturazione del porto.
La questione più delicata e sottile riguarda però l’architettura italiana del Novecento, soprattutto quella degli anni Trenta, la voglia di separare l’architettura dal fascismo, di dividerne il destino, buona la prima cattivo il secondo, pensiero che attraversa anche la classe politica. Le Artiglierie dell’Arsenale ospitano Città di pietra. Nuove possibilità di impiego strutturale di questo materiale antico con lo spettatore salutato da un obelisco alto 15 metri e da una volta a botte di 6 metri di diametro. Ma una sezione di questa mostra curata da Claudio D’Amato Guerrieri ha per titolo L’altra modernità ed è una rievocazione della stagione d’oro dell’architettura anni Trenta con un occhio di riguardo al Dodecanneso, alle città di fondazione italiana in Albania e in Libia, nonché a Roma, con lo stadio dei marmi.
Ma fu davvero indipendente dal regime l’architettura? Della «specificità» dell’architettura italiana del Novecento è convinto l’architetto Franco Purini, curatore del nuovo padiglione italiano appena costruito alle ex Tese delle Vergini, semplice e funzionale, pulito ed essenziale, dove è esposto il progetto di Vema, la città da edificare tra Verona e Mantova, padiglione destinato poi alle arti visive ma assai più piccolo del Padiglione Italia. Troppo? E’ una questione, come quella dell’architettura fascista, sicuramente destinata a infiammare gli animi. Ma è una questione «locale» di questa Biennale che vuol essere globale, che mette a confronto i modelli di densità delle 16 metropoli, che risponde a mille domande: Londra è una città a bassa densità e può crescere in modo sostenibile, Tokyo con 36 milioni di abitanti è la più grande, gli abitanti del Giappone hanno l’aspettativa di vita più lunga (75 anni), i bambini della Sierra Leone la più bassa, il tasso di crescita del Pil del Turkmenistan è il più alto, 16, 8 per cento.
Sono cifre che narrano la vita delle città, i problemi che i sindaci e i rappresentanti delle 16 metropoli studiate dalla Biennale hanno ieri spiegato e confrontato durante un work shop dove è emerso chiaramente che uno dei più importanti mutamenti strutturali in corso è il progressivo affievolirsi dei confini. Si stanno formando territori dove non v’è separazione tra una cittadina e l’altra. Esiste ormai anche una Grande Venezia, testimoniata dalle foto e dalle ricerche dello Iuav nel Padiglione Italia. E le città italiane sono ben presenti alla Biennale: Milano, con le iniziative di Risanamento per l’ex area Falk e Santa Giulia affidate a Renzo Piano e Norman Foster; Napoli, con la metropolitana carica di opere d’arte. E’una piccola grande meraviglia di questo metropoli show della globalissima Biennale veneziana.
Nota: con maggiore enfasi (e apparente schizofrenia), l'articolo sul medesimo tema di Vittorio Gregotti (f.b.)
CAGLIARI. E’ fatta. La Sardegna ha il Piano Paesaggistico, strumento-principe di pianificazione territoriale che fissa regole certe e soprattutto impone vincoli severi alle costruzioni negli oltre 1800 chilometri di coste dell’isola. Il sì della giunta, che ha cominciato i suoi lavori alle 20,30 (l’esecutivo era stato convocato per le 14), è arrivato alle 21,40. Poco prima dell’inizio della seduta, è giunto il parere della Commissione che aveva lavorato in contemporanea con l’esecutivo.
«Sono molto felice - ha dichiarato, a caldo, un raggiante Renato Soru -. La giunta e la maggioranza hanno tenuto fede a un impegno preso in campagna elettorale, che per noi era un punto fondamentale del nostro programma. La Sardegna, adesso, è salva: esiste mediamente una fascia costiera di tre chilometri dal mare dove non si potrà costruire nulla. Il territorio sardo non sarà più consumato».
La giunta. Alle 21, Gian Valerio Sannaha svolto la sua relazione. L’assessore ha ripercorso le tappe del lunghissimo iter che trae origine dalla bocciatura (per difetto di tutela) da parte del Consiglio di Stato di 13 dei 14 Piani Paesistici della Sardegna.
Le variazioni. Sanna ha poi illustrato le modifiche contenute nel testo finale rispetto alle norme già adottate dalla giunta, che non tenevano conto delle novità introdotte dal Codice Urbani. E’ così scomparsa la tabella dei livelli di tutela paesaggistica (motivo di contrasto con la Commissione), ed è stato introdotta una sorta di flessibilità nei vincoli, a seconda della natura e della posizione delle aree rispetto al mare. C’è un punto fermo, però: nelle zone in cui non esiste una volumetria, non si potrà costruire nulla (è il caso di Costa Turchese del gruppo Berlusconi e di Cala Giunco, dell’editore Sergio Zuncheddu), mentre sarà possibile intervenire nei centri abitati per riqualificare cubature esistenti, per le quali è anche previsto un premio pari al 25 per cento (via libera a Tom Barrack e alla nuova Costa Smeralda, e ai siti minerari del Sulcis). Terminata la relazione, Sanna ha risposto ad alcune domande degli assessori, e alle 21,40 il Ppr è stato varato, dopo le conclusioni del presidente della Regione.
Tempi rispettati. Non c’è stato lo slittamento del voto a stamattina (Renato Soru era nettamente contrario), come era stato ipotizzato durante una giornata caratterizzata dall’annunciato vertice di maggioranza e dalla riunione della Commissione Urbanistica, conclusasi con l’abbandono dell’aula da parte dei partiti di centrodestra. Non c’è stato bisogno di alcun rinvio proprio perché il parlamentino, dopo l’audizione dell’assessore all’Urbanistica, ha avuto la possibilità di esprimere un parere compiuto prima che la giunta cominciasse la sua riunione. Il presidente Giuseppe Pirisi e i commissari non hanno potuto prendere visione del testo finale della delibera, ma ogni polemica è stata bandita. «L’assessore - ha dichiarato Pirisi - ha fornito in modo esauriente tutti i chiarimenti richiesti dai commissari e dunque anche da parte nostra c’è stato il via libera».
Restano, è vero, alcuni punti non completamente condivisi. Superato lo shock per la mancata consegna della carta dei livelli, l’impegno della giunta è quello di venire incontro alle osservazioni del parlamentino soprattutto sulle costruzioni nell’agro, e sugli interventi di riqualificazione dei siti che dispongono già di una volumetria. Per gli aggiustamenti s’interverrà attraverso circolari esplicative e la riforma della legge urbanistica regionale.
La giornata. La scansione degli appuntamenti annunciati da giorni è stata rispettata alla lettera. Alle 9,30 la maggioranza (capigruppo e consiglieri della Commissione Urbamistica) ha cominciato a discutere, dopo aver ascoltato Giuseppe Pirisi, che l’altro ieri mattina aveva incontrato l’assessore all’Urbanistica per poi, nel pomeriggio, riferire al direttivo dei Ds. Il via libera della Quercia nel cuore della notte ha giovato all’intera coalizione al cui interno non esistevano altre posizioni contrarie all’approvazione del Ppr nella giunta di ieri.
Alle 11, ecco la Commissione. Protagonista della seduta, ancora Pirisi, che ha illustrato i chiarimenti fornitigli da Sanna sulle osservazioni del parlamentino. Si è poi reso necessaria l’audizione dello stesso titolare dell’Urbanistica, il quale ha ribadito il motivo per cui le tabelle dei livelli di tutela paesaggistica non avevano più ragione di esistere, alla luce delle nuove norme del Codice Urbani. Le zone agricole, poi. Gian Valerio Sanna ha confermato la scelta politica dell’esecutivo che intende vietare ogni tipo di costruzione nelle aree ricadenti nelle zone costiere. Si è anche parlato della riqualificazione delle costruzioni nei centri abitati (è previsto un premio di cubatura pari al 25 per cento di quanto già edificato), che sarà possibile solo con i piani di risanamento previsti dai Puc (se il Puc manca, scatta un’Intesa tra Regione, Provincia e Comune).
Soddisfatti ma non entusiasti, i consiglieri di maggioranza hanno apprezzato l’accoglimento di numerose osservazioni, e hanno poi accettato di rimandare a una seconda fase la definizione dei punti su cui non esiste il consenso.
All’audizione di Sanna, ha fatto seguito la svolta. La Commissione ha infatti deciso di proseguire a oltranza i suoi lavori per esprimere nella stessa serata di ieri il parere da inviare alla giunta per il varo definitivo del Ppr. La cosa non è piaciuta all’opposizione che ha abbandonato l’aula.
«Siamo all’emergenza istituzionale»
Il centrodestra abbandona la seduta della commissione Urbanistica
CAGLIARI. «Siamo all’emergenza istituzionale». Si fa sempre più dura l’offensiva politica del Centrodestra nei confronti di Renato Soru. Ieri pomeriggio in consiglio regionale l’opposizione ha abbandonato la seduta della commissione Urbanistica dopo che la maggioranza aveva deciso di andare avanti per dare immediatamente alla giunta il parere sul Piano paesaggistico. Il vice presidente Fedele Sanciu (Forza Italia), che sta per trasferirsi al Senato, ha affermato che «il marionettista Soru non si accontenta più di mettere a tacere il Consiglio, ora umilia e mortifica anche la sua maggioranza». Sanciu ha inoltre detto che con l’approvazione del Piano «si scrive la parola fine all’operazione volta al controllo totale da parte del presidente di tutti gli atti di programmazione e pianificazione urbanistica del territorio regionale, scippando di fatto alle amministrazioni locali delle loro prerogative e avvilendo l’operato di Province e Comuni». L’esponente di FI ha concluso: «Sotto la maschera di un falso ambientalismo viene impedita qualsiasi attività turistica dei piccoli e medi imprenditori sardi dando spazio solo ai grandi gruppi nazionali e internazionali, che nutrono le “simpatie” del presidente della giunta».
In mattinata tutto il Centrodestra (oltre ai capigruppo e ai membri della commissione c’erano anche parlamentari, segretari regionali e il sindaco di Cagliari Emilio Floris) ha tenuto una conferenza stampa d’attacco, dimostrandosi compatto. Durissime le critiche sia sul merito del Piano sia sul metodo «imposto dal governatore». L’opposizione ha ribadito il giudizio negativo sullo strumento paesaggistico che «blocca lo sviluppo turistico», «attribuisce al presidente della giunta il ruolo di «centro decisionale unico» in modo anche «arbitrario», «espropria di competenze le autonomie locali» e, nelle parole del capogruppo di Forza Italia Giorgio La Spisa, «trasformerà la Sardegna in un museo, da cui tanti sardi saranno costretti ad andare via». Soffermandosi sulla «discrezionalità» riservata all’esecutivo, La Spisa ha parlato di «contraddizione fra un Piano che dice di volere conservare il paesaggio e dall’altro lascia aperte tante possibilità, stravolgendo il sistema delle autonomie locali» e di scelte che «portano a compimento quanto già delineato nella legge 8 che affida alla giunta il potere di approvare strumenti urbanistici senza coinvolgere il consiglio regionale». Per il componente della commissione Urbanistica Franco Ignazio Cuccu (Udc) «nulla è consentito ma contemporaneamente tutto lo è, se di gradimento di chi comanda la partita. Nessun sardo che vorrà intraprendere iniziative imprenditoriali potrà avere conoscenza delle regole del gioco perchè tutto passerà attraverso il governatore». «Il messaggio peggiore - secondo Pierpaolo Vargiu, capogruppo dei Riformatori - è la divaricazione totale fra ciò che si è detto e ciò che si è fatto. Da un’impostazione rigida ispirata quasi a un’etica calvinista è disceso invece uno strumento che somiglia alla vendita delle indulgenze». I dissensi interni al Centrosinistra sullo strumento urbanistico sono il sintomo di una «crisi politica della maggioranza» per il capogruppo di An Ignazio Artizzu, che in riferimento al metodo seguito alla giunta ha parlato di «non ascolto e non condivisione che avrà conseguenze pesanti anche sul lavoro e l’economia di molte famiglie sarde».
Giudizi molto severi sul piano politico e istituzionale («siamo all’emergenza») sono stati dati anche dai coordinatori di FI e An (i senatori Piergiorgio Massidda e Ignazio Delogu), dal coordinatore dei Riformatori Michele Cossa, dal capogruppo di Fortza Paris Silvestro Ladu e dal rappresentante del Nuovo Psi, Raffaele Farigu.
La lottizzazione di Monticchiello, un pericoloso grimaldello.
Vittorio Emiliani
L'Unità, 2 settembre 2006
Non sarà un«ecomostro» la lottizzazione di Monticchiello di Pienza, in piena val d'Orcia, e però rappresenta un pesante sfregio al paesaggio, ancora intatto, di quella stupenda area collinare che l'Unesco ha di recente inserito nel patrimonio mondiale dell' umanità, unico sito paesaggistico, credo. Questa è stata la pronta risposta al riconoscimento dell'Unesco: un bel grappolo di 95 unità immobiliari suddivise in undici lotti.
Condivido in pieno l'allarme lanciato da Alberto Asor Rosa dalle colonne di Repubblica il 24 agosto scorso. Disgraziatamente le parole del sindaco di Pienza, Marco Del Ciondolo, riportate dall'Unità del 29 agosto, non mitigano quell'allarme. Egli racconta che la lottizzazione era stata pensata in funzione di un nobile intento (ma non c'erano altri mezzi meno invasivi?), quello cioè di trattenere sul territorio le giovani coppie locali altrimenti prive di alloggi. Poi le giovani coppie si sono come volatilizzate e quelle unità immobiliari sono diventate seconde case. Per niente indispensabili, ma certamente ben spendibili sul mercato immobiliare, nazionale e internazionale. Inviterei il sindaco di Pienza a Capalbio - dove la pressione dell'area di Roma è più forte -per vedere quali scempi stia provocando il mercato delle seconde e terze case, a Borgo Carige, a Capalbio Scalo e quasi sotto le mura medioevali del borgo capalbiese, a Poggio del Leccio, con costruzioni che saranno visibilissime dall'alto e dal basso. Mentre si riparla di nuovi accessi al mare oltre l'area protetta dell'oasi del Wwf, al lago di Burano, per raggiungere quei 15 chilometri di spiaggia ancora libera, ancora tutta a dune, che certamente fanno gola alla speculazione. Il sindaco di Pienza potrebbe constatare come la pressione speculativa possa stravolgere, letteralmente, un paesaggio eun ambiente. Per sempre. Temo che pure a Monticchiello si sia posta la prima pietra di una invasione cementizia che intaccherà profondamente la stessa isolata e integra Val d'Orcia. Si comincia sempre così, poi il grimaldello scassa anche il resto.
Qual è il punto nodale di questa politica urbanistica alla quale sembra non esservi rimedio? Sono le leggi regionali con le quali le Regioni stesse hanno sub-delegato i singoli Comuni a vigilare sulla corretta attuazione delle norme paesistiche, cioè su se stessi, diventando così, da controllati che erano, controllori di se medesimi. Una normativa assurda, grottesca, che sta provocando disastri in tutta Italia. Autoesclusasi la Regione, rimane infatti un solo potere di controllo sui Comuni: quello delle Soprintendenze. Che però sono state indebolite negli ultimi anni, nei mezzi, negli strumenti e nei poteri. Il Codice Urbani prevedeva infatti che esse non avessero più alcun potere di veto a valle del progetto, per esempio di lottizzazione, una volta espresso il loro parere (soltanto consultivo!) a monte della progettazione medesima. Per non parlare dei vincoli che una volta si potevano apporre con maggiore facilità e autorità da parte degli organismi ministeriali e che un malinteso regionalismo ha reso oggi molto più difficili Questo doppio meccanismo ha,nei fatti, castrato quasi ogni potere superiore di tutela lasciando i Comuni liberi di fare, più o meno, quello che vogliono. È quanto sta accadendo nella intatta (sino a ieri) Piana di Navelli nell'Aquilano, l'altopiano dello zafferano, ricco di chiese lungo gli antichi tratturi delle greggi, dove alcuni Comuni hanno preteso l'attuazione di un faraonico potenziamento della Strada statale 17 con un impatto ambientale e paesistico devastante. Che la stessa Soprintendenza fatica ora moltissimo ad arginare e a ridurre. Il caso di Monticchiello, così opportunamente sollevato da Asor Rosa (non si offenda il presidente della Comunità dell'Orcia, vigili e tuteli piuttosto), è la spia di un aggressione suicida al paesaggio italiano, possibile anche nel cuore dell'Italia più civile e più conservata. Dove c'era, mi risulta, un buon piano urbanistico. Dove ci dovrebbe essere un piano del Parco Artistico eNaturale dell'Orcia. Rimasti entrambi nei cassetti. Col risultato di dissipare non soltanto una bellezza antica e una identità cara a tutto il mondo, ma anche un patrimonio economico fatto di turismo altamente qualificato, di residenze italiane e straniere sensibili al recupero e al restauro dei borghi e dei casali, di presenze rispettose. Così si va dritti all'imbruttimento, alla massificazione, alla omologazione dell'Orcia, come della Piana di Navelli o della Maremma capalbiese, ai luoghi ormai travolti dalla speculazione immobiliare. Un processo dal quale, sciaguratamente, non si torna indietro. Ci pensino gli abitanti dei luoghi. Ci pensino i ministri Rutelli e Pecoraro Scanio: gli organismi di tutela vanno riqualificati e potenziati e quelle leggi regionali di sub-delega ai Comuni vanno azzerate al più presto. Nell' interesse delle regioni e delle loro popolazioni.
La Val d’Orcia tra apocalisse e riformismo
Riccardo Conti
L'Unità, ed. Firenze, 3 settembre 2006
Cara Unità, mentre leggo l'articolo di Vittorio Emiliani «un pericoloso grimaldello » mi trovo per l'appunto a Capalbio e sto lavorando con la Sindaco, un po' di assessori, progettisti e stiamo discutendo del nuovo Piano Strutturale. I temi che abbiamo di fronte sono proprio quelli di cui parla, con toni in verità «apocalittici», Vittorio Emiliani: le olivete, la salvaguardia, come frenare - ero tentato di dire «azzerare» - quell'eccesso di sollecitazioni immobiliari che gravano sulla Maremma e su tutto il territorio rurale toscano, che, è vero, rappresenta agli occhi della speculazione immobiliare un grande infinito potenziale mercato. Con la nostra riforma, con il nostro sistema di pianificazione questo cerchiamo di fronteggiare, contenere, se necessario, azzerare.
Se Vittorio Emiliani è interessato potremo fornirgli materiali, elaborazioni, spunti, idee: a partire dal testo della LR 1/2005 «Norme per il governo del territorio» per vedere se potremmo avvalerci anche di qualche suo suggerimento. Tuttavia c'è un punto di dissenso irrinunciabile con la tesi di fondo dell'articolo in questione che non può essere sottaciuto. Per motivi essenzialmente culturali e politici. Noi per contrastare la speculazione e per un buon governo del territorio investiamo tempo, denaro, energie, risorse sui Sindaci, sugli enti locali, sulla democrazia e sulla partecipazione. Altri su un centralismo di stampo ottocentesco. Invito a rileggere dagli atti parlamentari lo splendido intervento del '67 di Mario Alicata sul sacco di Agrigento e sull'alluvione di Firenze; allora le Regioni nemmeno c'erano, le Sovrintendenze si, la speculazione imperava e creava quei danni e quei dissesti. Un grande intellettuale come Mario Alicata puntava fin da allora il dito contro le Sovrintendenze e invitava ad investire in democrazia. Il tema ha un grande rilievo culturale; attiene alle idee sulla società di domani ma anche alla qualità delle battaglie culturali di oggi. Se qualcuno pensa di governare società complesse, variegate Zygmunt Bauman le chiama «liquide», a furia di editti, decreti, vincoli; auguri! Noi preferiamo la strada dura e faticosa ma non illusoria - certo senza esisti scontati - della partecipazione, del confronto, della crescita politica e culturale. Vivaddio anche di buone leggi, di buoni piani, mestiere che noi toscani pensiamo di saper fare egregiamente. Siamo una Regione dove da due settimane uno stimolante intervento di Asor Rosa su caso di novantacinque nuovi alloggi, purtroppo, in via di costruzione in Val d'Orcia ha innescato un dibattito che impegna sindaci, assessori, intellettuali, giornalisti.
Questo è un bene, può segnare, infatti, la strada di una crescita vera di una cultura urbanistica più avanzata e la sostanza di un metodo riformista di governo del territorio. Fatto questo importante quasi come buone leggi e buoni piani. Questa è la nostra esperienza che pure ancora non ci accontenta e che lavoriamo ogni giorno a migliorare. Insomma non siamo istituzioni che il lunedì si occupano della tutela e il martedì dello sviluppo, ma vogliamo rappresentare una cultura che sa affrontare insieme tutela e sviluppo. Questo chiama democrazia, sindaci, amministratori un grande patto istituzionale per un governo sostenibile del territorio. Il centralismo invocato nell'articolo ci taglierebbe a fette; tutelare sarebbe cosa diversa dal governare. Questa sì è una prospettiva destinata alla sterilità e all'inefficacia. Il tema ha una valenza politica indiscutibile; ricordo a me, prima che ai lettori dell'Unità, che nelle analisi della sconfitta del 2000 che aprì la strada al berlusconismo, abbiamo criticato un'azione troppo volta al «riformismo dall'alto». Reichlin ha parlato di «riformismo senza popolo». Quello che vogliamo fare in tema di governo del territorio è anche tanto «riformismo dal basso». Sarebbe interessante se il tanto «riformismo dal basso» che amministratori, tecnici, intellettuali, cittadini praticano ogni giorno senza poter accedere agli onori delle cronache giornalistiche, potesse incontrarsi con una buona, indispensabile riforma del governo del territorio di tipo parlamentare. Sì, la nostra azione trova spesso limiti insormontabili nei regimi dei suoli, in quello fiscale, nella difficoltà nel praticare buone politiche di perequazione; insomma nell'aleatorietà di strumenti che solo una buona riforma a livello nazionale potrebbe darci. L'appello che faccio io ai ministri del centrosinistra è che insieme ai «riformisti dal basso» possano impegnarsi per darci questa buona legge.
*Assessore Regione Toscana al Territorio e Infrastrutture
Pienza, Capalbio e l’importanza delle Soprintendenze
Vittorio Emiliani
L'Unità, ed. Firenze, 4 settembre 2006
Caro direttore,
l'assessore regionale toscano all'Urbanistica, Riccardo Conti, rispondendo al mio articolo comparso su l’Unità di sabato, mi dà dell'«apocalittico » a proposito del giudizio sugli sviluppi edilizi di Monticchiello-Pienza (lottizzazione denunciata da Alberto Asor Rosa e che neppure lui condivide) e su quelli promossi a Capalbio dalla giunta di centrodestra che ha preceduto quella attuale. Dico solo: andare a vedere per giudicare; il panorama edilizio (tutto di seconde e terze case) parla da sé e il mega-parcheggio grida ancora vendetta. Nocciolo del discorso: per Conti la «buona urbanistica»non si fa con vincoli e controlli (tanto più se ministeriali), ma con la discussione e con la partecipazione democratica. Quest'ultima è certamente fondamentale, e tuttavia, in democrazia, è bene che i Comuni non siano i tutori di se stessi e che abbiano, sopra di loro, un controllo regionale, o provinciale, e ministeriale (Soprintendenze, cioè Stato). In Toscana è mancato il primo livello e il secondo appare, visto da Capalbio e da Monticchiello, decisamente debole. Menomale che il ministro Rutelli ha subito disposto una inchiesta sulla situazione di Pienza. Infine: per la Regione Toscana la tutela dei beni culturali e paesistici dovrebbe essere regionalizzata, modificando, evidentemente, l'articolo 9 della Costituzione che la affida alla Repubblica, cioè allo Stato, in primis, con la collaborazione di Regioni e autonomie locali. Riccardo Conti cita la drammatica frana di Agrigento e scrive che le Soprintendenze, allora, c'erano già. Verissimo. Solo che in Sicilia erano rinate, nel 1947, «regionalizzate». Proprio come le vorrebbe, ora, la Regione Toscana e come molti di noi, invece, non le vogliono. Anche qui, andare a vedere per credere. Cordialmente
Con le nuove norme urbanistiche, un caso Monticchiello non sarà più possibile
Mario Lancisi
Il Tirreno, 5 settembre 2006
Mai più ecomostri come quelli - così numerosi - documentati nelle inchieste del "Tirreno". Mai più, assicura il presidente della Regione Claudio Martini: perché entro dicembre saranno operativi i nuovi strumenti urbanistici che la Regione si è data. Con i nuovi vincoli «un caso Monticchiello non sarebbe stato possibile». Per il passato però la Regione è impotente: «I miei legali mi dicono che non ci sono margini per intervenire», si difende Martini. Di ritorno dalle ferie trascorse tra Salisburgo e l'isola di Capraia, Martini si è ritrovato sul tavolo la "grana" di Monticchiello, l'insediamento urbanistico contro cui si espresso il furore polemico di Alberto Asor Rosa. Un caso che poi si è trasformato in dibattito suU'edilizia selvaggia in tutta la Toscana.
Una grana che l'intervista al "Tirreno" dell'assessore ai trasporti e all'urbanistica Riccardo Conti avrebbe reso ancora più vistosa agli occhi del governatore, stando almeno ad alcune indiscrezioni. Per almeno due ragioni. Conti ha definito «uno schifo» l'insediamento di Monticchiello, e di fronte ad uno schifo, ha replicato Asor Rosa, non si può dire che la Regione non può fare nulla. Seconda ragione: Conti ha accusato Asor di predicare bene ma di razzolare male: «In Toscana ha due seconde case...». Una caduta di stile che non sembra molto piaciuta a Martini.
«Non ci piace, però.....E così ieri il governatore ha preso in mano la patata bollente delle varie Monticchiello toscane. Ha confermato quanto già detto da Conti: la Regione non può farci nulla. E' stato però meno drastico nel giudizio sul complesso residenziale in costruzione a Monticchiello, in difesa del quale si erano spesi il presidente della provincia di Siena e il sindaco di Pienza, entrambi diessini: «Noi non condividiamo quell'opera - ha detto Martini - ma non possiamo farci niente. Possiamo solo rafforzare gli strumenti perché in futuro un caso Monticchiello non accada più». E al ministro per i Beni culturali Rutelli che ha chiesto gli atti dell'insediamento, Martini ha fatto sapere di essere disponibile a collaborare.
Choc e dialogo. Ma è soprattutto su Asor Rosa e le critiche piovute in questi giorni sull'urbanistica toscana che il governatore ha voluto aprire ai critici: «La vicenda ha aperto una discussione utile. Possiamo cogliere questa opportunità per ripartire con un dibattito culturale, anche interno alla sinistra, sulla ecosostenibilità. Il caso di Monticchiello ha offerto un'utile occasione di riflessione, una sorta di choc positivo per approfondire i problemi della tutela e della sostenibilità urbanistica e gli strumenti più efficaci per scongiurare il ripetersi di simili interventi».
«No al centralismo». Martini ha invece polemizzato con la proposta di restituire allo Stato o alla Regione le competenze urbanistiche per toglierle dalle mani dei comuni: ««Sarebbe sbagliato e ingiusto buttare la croce addosso ai Comuni, invocando un nuovo centralismo. Se la Toscana conserva ancora oggi la sue caratteristiche ambientali il merito è anche e soprattutto dei Comuni. Nell'ultimo decennio le previsioni dei piani urbanistici sono passati da 8 a 4 milioni di abitanti. Voglio mettere in guardia da facili scorciatoie e da tentazioni bonapartiste».
Se i Comuni fanno cassa. Martini ha poi accennato a due cause possibili del degrado urbanistico. Intanto la politica dei Comuni: «Se le risorse che arrivano sono sempre meno, alcune amministrazioni vedono negli oneri di urbanizzazione entrate vitali».
E, in secondo luogo, ha concluso Martini «c'è da considerare l'aumento della pressione nel settore edilizio con la crisi di altri comparti produttivi». Un'economia da anni in zona recessione ha trovato nello sviluppo edilizio una boccata di ossigeno. La Toscana produttiva è entrata in crisi mentre ha preso slancio, anche troppo, la rendita finanziaria e immobiliare.
Quanto è banale quell'ecomostro
Vieri Quilici
La Repubblica, 5 settembre 2006
La notizia apparsa su La Repubblica del 24 agosto che il cemento stia cominciando a minacciare seriamente una zona della Toscana conosciuta per il suo straordinario paesaggio e per i suoi altrettanto straordinari beni culturali, ma soprattutto per l’attaccamento della sua popolazione alle proprie tradizioni - avrebbe, come prima impressione, dell’incredibile. Stiamo infatti parlando della Val d’Orcia e in particolare di Monticchiello dove il locale Teatro Povero da decenni propone un continuo confronto critico tra passato e presente come modo consapevole di affrontare i problemi di quel territorio e di quella comunità.
Circa dieci anni fa proprio per quella zona veniva approvato dalla Regione Toscana, dopo un lungo e travagliato lavoro preparatorio, la costituzione di un Parco Artistico Naturale comprendente il territorio dei cinque comuni della Valle (Castiglione, Montalcino, Pienza, Radicofani, San Quirico) che così rientravano in un’unica vasta area protetta. Il progetto si ispirava a princìpi in senso lato ecologici, puntando su di uno sviluppo fondato sulle risorse locali - culturali innanzi tutto, ma anche materiali ed umane - e teso a creare le basi per una ricettività ed una corrispondente redditività diffuse, a conferma di un’esistente, straordinaria qualità ambientale. Un progetto che non intendeva alterare una realtà di per sé preziosa. Al fondo, il segreto di quel territorio, che lo rendeva per molti versi unico e che andava assolutamente rispettato, consisteva nel delicatissimo equilibrio tra popolazione insediata nei borghi ed uso del suolo, ordinato secondo un’armonica alternanza di grandi estensioni a grano e di coltivazioni agricole pregiate.
Questo era quanto si era riusciti ad ottenere sotto la spinta dei Comuni interessati e grazie ad alcuni ammirevoli amministratori locali.
Accadeva dieci anni fa. Oggi invece sorge l’"ecomostro" di cui l’articolo di Asor Rosa ci ha fornito una spietata ma assai precisa descrizione. Siamo di fronte ad un ennesimo paradosso? Non proprio. Ciò che sta accadendo, che purtroppo non risponde a quanto sembrava acquisito sul piano delle intenzioni, risponde invece a meccanismi che tipicamente conseguono all’assenza di un’effettiva politica territoriale. Il progetto di Parco prevedeva ad esempio alcuni interventi che avrebbero dato senso all’intera operazione e di cui non si è più avuta notizia. Dal recupero dell’alveo fluviale, da sempre ridotto a una sequela di cave di sabbia, alla risistemazione dell’area interessata da un’opera rimasta - per fortuna - irrealizzata, la diga di San Piero in Campo; dall’attrezzatura come strada-parco del tratto della Cassia che attraversa la valle in alternativa alla sua trasformazione in superstrada, in gran parte in rilevato (progetto Anas), all’organizzazione di una rete di percorsi che doveva connettere i casali storici sparsi secondo l’antica logica dei "poderi", e così via, con una decina di progetti che avrebbero potuto dare il segno di una strategia coerente con le intenzioni iniziali.
I meccanismi che si sono messi in moto sono dovuti invece più all’assenza che alla presenza di iniziative ed è chiaro che quando non si persegue un obiettivo guidando coerentemente l’evoluzione dei processi, quando non si avvia una strategia che guidi i comportamenti, non solo economici, dei soggetti interessati e degli amministratori, a quel punto non ci si può sottrarre alla pura logica di mercato. Vale a dire, per quanto riguarda l’uso del suolo, al suo sfruttamento edilizio, verrebbe da dire monocolturale.
La questione va anche oltre i limiti di un caso locale: essa può forse anche essere vista nella sua emblematicità tutta italiana. Sembra infatti oggi necessaria una riflessione su alcuni aspetti cruciali della politica di salvaguardia dei beni ambientali per mettere in guardia dalle conseguenze dell’equivoca, malintesa alternativa tra conservazione e sviluppo (che è concetto moderno) inteso, il secondo termine, come "modernizzazione", inevitabilmente soggetto quindi alla banalizzazione dell’immagine, ma anche al suo potere di corruzione nei confronti del gusto e dei consumi correnti.
Si pensi, nel caso segnalato, alla banalità del modello proposto, assimilabile quasi a quello del villaggio turistico, se confrontato con la ricchezza storica del sistema insediativo-produttivo dei poderi e dei "casali". Una banalizzazione che più in generale sta degradando l’offerta di un turismo culturale nazionale sempre più massificato.
Una riflessione necessaria, così come sarebbe il caso di riflettere su come in nome di una ugualmente malintesa democratizzazione delle decisioni si possa giungere ad alcuni eccessi nei meccanismi di delega a singoli poteri locali di fondamentali funzioni di indirizzo e di controllo. Il progetto Val d’Orcia prevedeva, a correzione di tali tipi di eccesso, la formazione di un organo di governo collegiale, costituito dalla Conferenza dei sindaci, che però non sembra particolarmente attivo e convinto delle proprie funzioni.
Mai forse come in questo caso la metafora del Buongoverno (non la "governance", per carità!), appare oggi appropriata ad indicare come e quanto ancora si potrebbe fare e soprattutto a non fare. Sembra tra l’altro che sia stata proprio la corrispondente immagine del Lorenzetti presente nel famoso affresco senese, confrontata con quella attuale di Monticchiello, a convincere i funzionari Unesco del valore unico ed inestimabile di un paesaggio - opera d’arte e a dichiarare la Val d’Orcia patrimonio dell’umanità. Di "ecomostri" in costruzione non avevano ancora sentito parlare.
Postilla
In Campania eccesso di potere regionale; in Toscana eccesso di potere comunale. Non sono forse due facce dello stesso errore? Che è quello di non comprendere che ci sono responsabilità della Regione e responsabilità del Comune, che la tutela del paesaggio è responsabilità primaria della prima (e dello Stato), e che ad essa (e allo Stato) spetta anche promuovere uno sviluppo economico non basato sui valori immobiliari. Ne hanno consapevolezza i governanti di oggi? Non sembra proprio, se in Val d’Orcia (e altrove) ognuno può costruire il villaggio turistico che gli pare senza che la Regione abbia stabilito prima regole rigorose di tutela del paesaggio, e se i sindaci sono indotti a consentire speculazioni inutili (per l’economia) e dannose (per il paesaggio e il futuro) per poter pagare gli stipendi.
La metropolitana di Napoli deve la sua iniziale notorietà alla scelta dell’amministrazione di commissionare a grandi artisti [ vedi la postilla] opere site-specific per gli spazi interni ed esterni delle stazioni, in modo da riuscire in un colpo solo a rendere più attraente l’uso del mezzo pubblico, a dare impulso alla riqualificazione di quartieri degradati e a offrire una sorta di “museo obbligatorio” a una popolazione che in precedenza non ha mai avuto molte occasioni di contatto con l’arte contemporanea.
Il successo di questa operazione, unito all’aspettativa suscitata dai progetti di Siza, Fuksas, Rogers, Tagliabue, Perrault, Botta e altri per le nuove “stazioni dell’architettura” in corso di realizzazione, ha avuto però l’effetto di dirottare l’attenzione sui singoli interventi, lasciando in ombra l’imponente progetto della rete infrastrutturale. Quello che sta avvenendo a Napoli, in effetti, non è il prolungamento di una linea o la costruzione di un passante ferroviario, ma l’attuazione di un rivoluzionario sistema dei trasporti elaborato a partire dal 1994 nell’ambito di un processo di pianificazione integrato con l’urbanistica.
I numeri sono impressionanti: una volta ampliate, interconnesse e rifunzionalizzate le linee su ferro esistenti, e dopo averne costruite altre 3 ex novo, le linee della metropolitana dovrebbero passare entro il 2011 da 2 a 10, le stazioni da 45 a 114, i nodi di interscambio da 5 a 36, la popolazione servita dal 25% al 70%. Porto, stazione centrale e aeroporto saranno finalmente connessi dalla sola linea 1. Dopo la Tav, è la grande opera più importante d’Italia. Un investimento di tale portata lascia facilmente intuire come Napoli, più di qualsiasi altra città italiana, abbia individuato nella mobilità un potente strumento di trasformazione urbana, assegnandole un ruolo che oltrepassa gli stretti limiti delle problematiche della congestione. Se infatti l’altissima densità (8.551 ab/kmq contro i 1.841 di Roma) e la complessa orografia della città rendono indispensabile l’offerta di un’alternativa seria all’uso dell’automobile, la progettazione della rete non ha più nulla a che vedere con la banale esigenza di collegare centro e periferie: l’obbiettivo primario è anzi annullare la gerarchia tra il centro storico di Napoli e il suo circondario, formato a sua volta da centri storici e insediamenti di edilizia popolare saldati l’uno all’altro da uno sprawl ininterrotto.
A questo scopo le linee della metropolitana, invece di assumere la classica configurazione radiale, sono state strutturate in tre anelli intersecati tra loro e da una serie di collegamenti trasversali, in modo da garantire la più ampia possibilità di spostamenti ‘orizzontali’ tra i luoghi senza l’obbligo di passare per il centro e un altissimo numero di nodi di interscambio. I percorsi della metropolitana non si limitano, inoltre, a coprire le zone già abitate, ma precedono e condizionano la progettazione delle aree di futuro sviluppo: come nel caso della linea 8, che servirà l’area interessata dal progetto di riconversione dell’ex-Italsider di Bagnoli, destinata ad accogliere un parco, un porticciolo turistico e la città della scienza, o della linea 3 (che forma insieme alla 4 l’anello est) e di un tratto della 1, fondamentali per i nuovi piani di espansione del Centro Direzionale e di riorganizzazione dell’area orientale.
Ancora più interessanti sono gli interventi di eliminazione delle barriere: mentre nel resto d’Italia si continua a costruire infrastrutture pesanti come negli anni ’50, con un atteggiamento di totale indifferenza verso il contesto, a Napoli si elaborano soluzioni per cancellare quelle più dannose. La realizzazione della metropolitana regionale Alifana – che prevede l’interramento della vecchia linea ferroviaria che collegava il centro della città con i comuni a nord – ha creato ad esempio l’opportunità di progettare la riqualificazione di un’area notoriamente ‘difficile’ che tocca Miano, Secondigliano, Piscinola e Scampia: la sostituzione dei binari di superficie con una strada alberata e la ricucitura dei tessuti viari secondari determina l’attivazione di un nuovo spazio pubblico e di un’accessibilità finora sconosciuta a centri urbani da sempre separati.
“L’urbano è essenzialmente il luogo dello scambio, della mobilità”, non si stanca di affermare Bernard Tschumi. Il movimento frenetico ha sempre connotato la città di Napoli, ma questo è il primo tentativo serio di convertirlo da un’esperienza di fatica e sopraffazione in una forma di qualità della vita.
Lo scandalo è che la metropolitana di Napoli, prodotto di un lavoro ultradecennale di governo del territorio e di pianificazione urbanistica e di settore, debba la sua notorietà alle opere di qualcdhe Grande Firma. That's Italy, baby.
Titolo originale: Goodbye Suburbs – Traduzione di Fabrizio Bottini
Per molte famiglie di New York City, gennaio è il mese più crudele. È il momento in cui si diventa gravemente claustrofobici in un appartamento stipato di bambini e del fitto sottobosco di plastica in cui prosperano. È anche il momento, per molti, di ponderare sull’assurdità (o impossibilità) di pagare migliaia e migliaia di dollari per la scuola privata, di cui si avvicina la rata del semestre.
Ma chi sta progettando una rapida fuga verso il suburbio (spazio! scuole! spazio!) forse possono prendere in considerazione l’esperienza di altri che l’hanno fatto prima di loro, sono per tornarsene indietro nel giro di un anno.
”Non me ne andrò più dalla città; sono terrorizzata dall’idea di lasciare la città” dice Anna Hillen, 42 anni, riassumendo il sentimento che prevale fra i rimpatriati sentiti per questo articolo.
La signora Hillen, il marito, Gerry McConnell, 42 anni, e il figlio Duncan, che aveva un anno all’epoca, hanno lasciato libero il loro loft di TriBeCa nel dicembre 2001, poco dopo gli attentati di settembre. Hanno acquistato una “McMansion” apppena costruita di 500 metri quadrati su oltre un ettaro di terreno nell’enclave di lusso semirurale di Westchester a Pound Ridge, New York, non lontano dalle case di campagna che avevano già affittato.
”Era uno spazio gigantesco, riecheggiante” dice la signora Hillen, e aggiunge “Era magnifico avere tutto quello spazio, ma non l’abbiamo mai usato”, salvo per radunare la famiglia allargata durante le vacanze.
Una volta sistemati, la signora Hillen, mamma a tempo pieno, ha tentato una infruttuosa caccia alla ricerca di compagnia. “Là fuori, bisogna faticare per stare con la gente” dice. “In un anno, sono riuscita un sola volta a trovare un compagno di giochi per il bambino. Ci siamo iscritti al Newcomers Club, ma hanno richiamato solo quando avevamo già messo in vendita al casa. Si cerca una biblioteca per leggere e non ce n’é”. Commenta, “Sei una solitaria casalinga disperata senza niente da fare”.
Anche gli spazi da gioco erano desolatamente vuoti. “E nelle rare occasioni in cui c’era qualcuno e si tentava di attaccare discorso – racconta – letteralmente se ne andavano. E non incoraggiavano i bambini a giocare insieme. Siamo rimasti scioccati”.
Passava in città tutti i mercoledì. A casa, si teneva occupata col giardinaggio. Ma, racconta, “si può far giardinaggio solo per un certo numero di ore al giorno. E Duncan: voglio dire, non si pensa in genere che a meno di due anni abbiano una personalità, ma ce l’hanno. Non voleva uscire. Era estate, stavo fuori ad aspettarlo con un ghiacciolo per andare ‘Su, tesoro, ti do il ghiacciolo se vieni fuori’, ma lui se ne stava sulla porta”.
Dopo nove mesi, ha convinto il marito – che si stava godendo il suo pendolarismo ridotto al lavoro nei servizi finanziari a Greenwich, Connecticut – a vendere al casa. “L’estate era venuta e andata, e io pensavo a un altro inverno da passare completamente sola” dice, ricordando tra le altre preoccupazioni le frequenti interruzioni di corrente, insieme ai ristoranti così così e alla mancanza di consegne a domicilio delle provviste. “È stato molto comprensivo, pover’uomo”.
Entro dicembre 2002la casa era stata venduta in perdita, i mobili messi via, e la famiglia di nuovo sistemata nel vecchio appartamento da 150 metri quadrati, due camere, tre bagni a TriBeCa, che non avevano venduto.
Val la pena notare che i sobborghi sono popolati da innumerevoli ex cittadini soddisfatti, con pochi o nessun ripensamento. Le coppie intervistate, che si aspettavano di aggiungersi a quei ranghi, raccontano come il motivo per muoversi era legato alla vaga idea che si trattasse di una cosa necessaria per crescere dei bambini: un normale passaggio da una fase della vita a un’altra, nel quale avrebbero trovato compagnia in abbondanza.
”Tutti dicono che quando hai un bambino te ne vai dalla città” dice Ronn Torossian, 31 anni, presidente e direttore della 5W Public Relations a Manhattan. In luglio, insieme a sua moglie Zhana – e alla figlia di un anno – ha venduto il grande monolocale all’angolo fra West 68th Street e Broadway per trasferirsi in una casa da oltre 300 mq su due livelli a Englewood Cliffs, New Jersey, vicino a degli amici. Aiutati da Ilan Bracha, broker alla Prudential Douglas Elliman, che aveva venduto il loro appartamento sulla West 68th, in dicembre sono tornati ad abitare in affitto un isolato più a sud da dove erano partiti.
”È come essere morti, là fuori” racconta con la sua parlata veloce il signor Torossian, nativo del Bronx che ha anche resistito ai ritmi relativamente tranquilli, come le consegne a domicilio che chiudono alle 9 di sera, o il giornale consegnato alle 7,30 del mattino.
”Non posso aspettare 15 minuti in una panetteria per avere due panini” dice. “non è possibile che ci sia gente che mi guarda come se fossi impazzito se entro e metto una moneta sul tavolo per uscirmene col giornale. Vado a casa e c’è gente che falcia il prato ogni cinque minuti. Sembrano persone normali, ma davvero passano ore su quel prato”.
Quello che gli ha fatto rifare il gran salto alla fine, dice, è il “dramma” degli spostamenti in auto per andare al lavoro a Midtown. Alle cinque del mattino, quando normalmente Torossian si spostava per evitare il traffico, ci volevano anche solo 17 minuti. Ma tornare richiedeva tre o quattro volte tanto (due ore o più col tempo cattivo), in parte a causa dell’ingorgo nel parcheggio a Midtown. “Chiamare prima non serve perché tutti escono alla stessa ora” dice. “Se non si da’ una mancia ai ragazzi, si devono aspettare 15-20 minuti per la consegna della macchina”. Dice di aver speso cento dollari in una settimana, in mance.
Tutti i suoi fumi sono svaporati dal ritorno in città lo scorso mese. “Mi sento come se stessi camminando sull’acqua” dice. “È un livello di stress completamente eliminato dalla mia vita. Esco molto di più, mi rimane più tempo da passare con mia figlia, è meno stressante al lavoro. È fenomenale”.
Altri di ritorno sottolineano come oltre i confini della città i posti non siano quello che sembrano.
”Si va in queste piccole cittadine che sembrano affascinanti e dolci, con tutti i piccoli bei negozi” racconta Brian Lover, che ha rimesso in vendita la sua casa di West Orange, New Jersey solo tre mesi dopo essersi trasferito lì. “Ma credo che quando si sta a tempo pieno in queste zone, i negozi non appaiono più tanto carini. E quei ristoranti nei paraggi che sembravano grandiosi, adesso si sa quanto siano cattivi, in realtà”.
Lover, 42 anni, vicepresidente al Corcoran Group, e sua moglie, Kristina Rinaldi, 41 anni, decoratrice di interni, hanno deciso di lasciare il monolocale in affitto sulla West 55th Street quando hanno avuto la figlia, Tallulah. Volevano abitare a Montclair, New Jersey, luogo che attira molti aspiranti all’esurbio. Sconfitti nella battaglia delle offerte al rialzo, hanno ampliato la ricerca alla vicina West Orange. Lì si sono fatti istupidire da “una vecchia casa Tudor inglese con un tetto a falde, con un certo carattere, e mezzo ettaro di terreno” ricorda Lover, che all’epoca lavorava come direttore pubblicitario della rivista Esquire.
Nel luglio 2001 comprarono la casa a 480.000 dollari; aveva un’aura di sogno. “Tutti i giorni arrivavo a casa e mi dicevo sono davvero un re, e questo è il mio castello, come mi sento?”.
Portandosi la bambina, la coppia frugava parchi e circoli sportivi nella vicina Montclair, immaginando “qui troveremo la gente di città e i genitori simpatici” racconta Lover. “Ma non c’era nessuno con cui avessimo qualcosa in comune. Sono conoscenze superficiali”. E la gente dalla città che speravano di incontrare? “Non erano più gente di città” dice. “Il suburbio in qualche modo ti succhia fuori la città”.
Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno dato la spinta finale. “Ci sentivamo un vuoto allo stomaco, perché era la nostra città, e noi non stavamo coi nostri amici che ci abitavano” dice. La coppia ha preso in affitto un loft da 130 mq senza divisioni interne a Nassau Street, vicino a ground zero.
”Abbiamo perso qualche soldo” dice Lover del ritorno a territori familiari. “A molte persone potrebbe sembrare piuttosto tortuoso. Per quanto riguarda noi, non mi interessavano i soldi. Volevo indietro la mia vita”.
A poca distanza da Montclair lungo la Garden State Parkway sta Ridgewood, New Jersey, considerato da molti come una delle cittadine per pendolari più desiderabili dello stato.
È decisamente un sogno per qualcuno; ma non il nostro” dice Andrew McCaul, fotografo di 37 anni che è tornato da Ridgewood a Carroll Gardens, Brooklyn, in giugno: esattamente un anno dopo ave comperato per 580.000 dollari una casa da tre stanze in stile coloniale olandese, raggiungibile a piedi dalla cittadine, insieme a sua moglie Sarma Ozols, 36 anni, e al figlio Aidan, che ora ne ha 2.
Il loro soggiorno suburbano è iniziato in modo promettente nel giugno 2004. “È stato come una luna di miele, una sensazione come quella di avere una casa di campagna per l’estate” ricorda McCaul. Ma dopo tre mesi “è cominciata la vita reale”.
Per cominciare c’era lo spostamento pendolare. “Ci si autoconvince che spostarsi sia più facile di quanto non sia” dice McCaul, che è riuscito solo occasionalmente a prendere il treno espresso per lo spostamento diretto da 40 minuti. “Ho passato molte serate deprimenti alla stazione di Hoboken” continua, aspettando più di mezz’ora per una coincidenza.
”Se si esce a bere qualcosa con gli amici, si sta sempre a guardare l’orologio” dice. Aggiungendo il danno al fastidio, McCaul è passato attraverso una versione suburbana della sindrome Freshman 15 [ gli adolescenti che ingrassano nel primo anno di college n.d.t.], aggiungendo 5-7 chili al suo fisico normalmente asciutto, di cui da’ colpa ad uno stile di vita principalmente non-pedonale.
Anche se la coppia trovava simpatici i vicini, la signora Ozols, fatografa part-time a casa col bambino, ricorda di essersi sentita tagliata fuori. “Mi mancava un gruppo di mamme, e immagino che l’avrei trovato se mio figlio fosse stato più grande e fosse andato a scuola” dice. “Non è tanto facile come a Brooklyn dove inizi a chiacchierare al campo giochi e trovi sempre qualcuno”.
Poi ha anche scoperto che lo spazio a cui non era abituata – la casa era ampia se paragonata ai 70 metri quadri in affitto lasciati – “mi pesava addosso”. E ha sviluppato una insolita, sgradevole mania per le attività domestiche. “Il giorno del Ringraziamento più o meno mi sentivo di dover essere una specie di Martha Stewart, con tutti i piatti adatti eccetera” racconta.
Hanno fatto un’inserzione per la casa e l’hanno venduta a 60.000 dollari in più di quanto l’avevano pagata. Ora la coppia, che ha avuto un altro bambino da quattro mesi, Julian, sta completando le procedure di un appartamento in condominio da due camere e due bagni su 100 metri quadrati a Carroll Gardens West. “Molto più piccolo, ma è tutto quello che ci serve” dice la signora Ozols.
Melanie Williams, 40 anni, ha deciso che più piccolo può anche essere meglio. Nel febbraio 2004, ha cambiato il suo appartamento in affitto bloccato a 950 dollari al mese in un “decrepito” edificio a Hell’s Kitchen con uno spazioso da quattro stanze da 1.350 dollari a Riverdale, zona di ambiente suburbano nel Bronx, in parte per via delle buone scuole disponibili per la figlia Dorothy, che ora ha 5 anni.
”È un po’ terra di nessuno dal punto di vista umano” dice la signora Williams, proprietaria di Plain Jane, negozio di arredamento per bambini nello Upper West Side. “Non si incontra mai nessuno. C’è una piccola strada con un mercato delle carni. Strana ma bella”.
I vandalismo preoccupava. L’auto di famiglia fu danneggiata parecchie volte quando era parcheggiata sulla strada: una triste necessità, dice, perché i garages erano pieni. E nei nove mesi successivi, racconta, insieme al marito attore/falegname Andrew Finney, 44 anni, scoprì che nonostante si fossero trasferiti “la nostra vita era ancora a New York”.
Nel novembre 2004, hanno affittato un loft da 80 metri quadrati nel quartiere finanziario, nell’apprezzato distretto scolastico 234, che costa un terzo in più dell’appartamento a Riverdale. “Non importa” dice. “Dovevamo uscire da lì”.
Molte coppie tornate a precipizio in città concedono che le cose avrebbero potuto mettersi in modo diverso se avessero avuto bambini in età scolastica, a fungere da legame più solido con la comunità.
”Per noi è stato un po’ prematuro, dato che non abbiamo figli” dice Sara Mendelsohn, del trasferimento insieme al marito Brian, in un appartamento in condominio da una camera a Great Neck, Long Island, la scorsa primavera. I ventisettenni neo-sposi hanno comperato questo alloggio ristrutturato dopo aver deciso che i soldi a disposizione non sarebbero bastati per Manhattan.
Le cose in un primo tempo sono andate bene. “Abbiamo comprato un’automobile e ci piaceva davvero avere questo tipo di libertà” racconta la Mendelsohn, che lavora come business planner alla Marc Jacobs. “Avevamo sempre passato le vacanze estive da quelle parti nelle case delle nostre famiglie”. Ma non sono riusciti a integrarsi nella comunità. Soprattutto perché non sono riusciti a trovarla.
”Tornavamo a casa a piedi dal treno sino all’appartamento, e non c’era mai nessuno per strada dalle 7 alle 10 di sera” dice. “Si ha la sensazione di essere soli. Si esce col cane, e non c’è nessuno”. Insieme al marito, che lavora nelle vendite per il settore comunicazione, hanno offerto l’appartamento da ottobre a 299.000 dollari; ora sono in contatto con Barbara Haynes a Bellmarc e Lauren Cangiano a Halstead per trovare un posto, in affitto o da comprare, in città.
Con una dura esperienza, ripetuta due volte, Mary A. Sweeney, infermiera diplomata dello Upper East Side, si è spostata avanti e indietro e poi ancora avanti e indietro verso Poughkeepsie (la prima fase, cominciata nel 2000, è durata quasi due anni; da’ la colpa della seconda puntata, di tre mesi nel 2003 quando era appena incinta del terzo bambino, a “mancanza di ossigeno al cervello”).
La signora Sweeney, 36 anni, ricorda i vari punti in cui ha scoperto che la realtà si scostava dalle fantasie.
”C’era questo bellissimo spazio verde di quasi un ettaro per far giocare i bambini, ma eravamo terrorizzati dalla malattia di Lyme” dice la Sweeney. “Stavamo in una strada residenziale a cul-de-sac ed era magnifico, ma se si usciva da lì in bicicletta si entrava sulla strada di campagna tutta curve e non era tanto sicuro pedalarci. Abbiamo capito che era molto meglio andare a Central Park, giocare coi bambini e farci il picnic, soprattutto d’estate”.
Lei stava soprattutto a casa, mentre il marito, Azeddine Yachkouri, 43 anni, faceva il pendolare per il lavoro da direttore di sala all’albergo Mandarin Oriental di Manhattan. “Era magnifico per lui guidare sin qui dove c’ero io coi bambini, e poi tornare in città il giorno dopo, e lavorare, e socializzare” ricorda. “Ma per me, con questo isolamento a fare da vita quotidiana, era diventato tutto monotono e banale”.
In città, “Posso uscire con le ragazze quando mio marito fa tardi al lavoro o non ho voglia di cucinare” racconta. “Possiamo entrare in un ristorante di tipo familiare con tante chiacchiere e atmosfera”
Anche se la casa degli Sweeney era parecchie volte più grande del loro vecchio appartamento a due stanze, aveva un invisibile effetto di zavorra. “Improvvisamente saltavano fuori tantissime cose da fare in casa” dice. “È qualcosa che ti tiene dentro più di quanto penseresti”.
Continua: “Abbiamo guardato in altri posti – Scarsdale eccetera – ed era la stessa cosa. Belle case, su belle strade, ma appena i bambini erano andati a scuola si poteva sentire uno spillo che cadeva per terra, in strada. L’unica vita erano gli uccelli che cinguettavano. Preferisco avere rapporti col portinaio o il tizio all’angolo della strada dove si compra il giornale o un caffè”.
Chi se ne è andato e poi è tornato qualche volta scambia opinioni con amici che stanno pensando di fare la stessa cosa. “Quando la gente ci dice che ci sta pensando, la mia idea è, non fatelo” dice la signora Ozols. “Ma ciascuno deve sperimentarlo da solo. Se non si prova, resta sempre da qualche parte nella testa. Forse li consiglierei di affittare, invece”.
Titolo originale: Can Wi-Fi make it in Manhattan? – Traduzione di Fabrizio Bottini
Se Wi-Fi può farcela a New York, può farcela dappertutto.
Chi decide a New York City sta pensando parecchio all’uso della tecnologia Wi-Fi 802.11 o di altre, per dare accesso alla banda larga a circa 8 milioni di cittadini.
L’interesse di New York per la banda larga municipale arriva proprio quando le voci in città sullo Wi-Fi hanno raggiunto un punto di fibrillazione. Alte città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco, si sono già incamminate sul percorso Wi-Fi, ma se New York costruirà una propria rete, sarà il più importante dispiegamento di Wi-Fi municipale del paese, forse del mondo.
”Non è un problema di se, ma di quando”, dice Craig Mathias, analista del Farpoint Group di Ashland, Massachusetts. “Tutte le grandi città avranno qualche tipo di accesso Wi-Fi sul proprio territorio. Diventerà una cosa che ci aspetta, come il servizio dell’acqua o del telefono. Ma il caso di New York è certamente una sfida dal punto di vista tecnologico. È possibile che non si riesca a portarlo in ogni angolo”.
Al momento New York è alle primissime fasi di definizione della propria strategia per la banda larga. Mentre città come Filadelfia, New Orleans o San Francisco stanno avanzando a pieno ritmo nei propri progetti, New York sta ancora cercando di istituire una commissione che studi il problema.
Lunedì la consigliera comunale Gale A. Brewer, presidente del comitato per le Tecnologie di Governo, ha tenuto un’audizione su una proposta di delibera per costituire una speciale commissione che informi il sindaco Michael Bloomberg e il consiglio su come la città possa realizzare un accesso a prezzi contenuti alla banda larga per i cittadini. Obiettivo della commissione sarà acquisire dati sulle varie opzioni tecnologiche disponibili e informare il pubblico. Il voto sulla proposta è fissato per il 21 dicembre.
”Più riunioni facciamo, meglio capiamo quanto sia complesso il problema” ha dichiarato la Brewer in un’intervista dopo l’incontro. “Il pubblico deve essere informato su quello che stiamo tentando di fare. E desidero proprio che ci chiedano di agire. Ma per farlo, devono conoscere il linguaggio della tecnologia, e l’unico modo per farlo è una discussione pubblica”.
Sino a questo momento, Bloomberg non ha sostenuto la nuova proposta, ma la Brewer afferma di contarci per il futuro.
Brewer e altri vedono nella Wi-Fi o in altre tecnologie per la banda larga – come WiMax lungo i cavi elettrici, o la concorrente DSL – un modo per stimolare lo sviluppo economico. Solo il 40% circa dei newyorkesi utilizza il servizio di banda larga, perché è troppo costoso, ha dichiarato nel corso dell’udienza.
Superare le divisioni digitali
Come successo a Filadelfia e a San Francisco, i consiglieri di New York vogliono che si realizzino sistemi in grado di superare le barriere digitali, in modo cha anche i residenti più poveri della città possano avere accesso ad una connessione internet ad alta velocità. Andrew Rasiej, imprenditore di nuove tecnologie e da lungo tempo consulente tecnologico per il comune e l’amministrazione statale, ha testimoniato di fronte al comitato, lunedì. Rasiej, già candidato a diventare avvocato cittadino di New York City nel 2005, sosteneva nella sua campagna come centrale l’idea di un accesso Wi-Fi su tutto il territorio. Anche se ha perso le elezioni, Raisiej pensa che la sua campagna abbia contribuito a portare alla ribalta politica di New York la questione Wi-Fi.
”Siamo nella medesima situazione in cui ci trovavamo nel 1934, quando il governo federale rese universale l’accesso al telefono” dice. “La banda larga è la cornetta dei nostri tempi. È da lungo tempo che la città deve istituire qualche tipo di comitato che si occupi della questione. E il tentativo di oggi è un primo positivo passo in avanti”.
I programmi urbani per la banda larga sono una questione all’ordine del giorno da un paio d’anni, e molti piccoli centri hanno cominciato a realizzare la propria rete di fibre ottiche per le abitazioni o di Wi-Fi. Ma i critici sostengono che le amministrazioni municipali non dovrebbero impegnarsi nella costruzione e gestione di una propria rete, specialmente se ciò significa usare il denaro dei contribuenti. Compagnie telefoniche e operatori del cavo in tutto il paese hanno efficacemente esercitato pressioni su alcuni stati perché si approvassero norme restrittive per questo tipo di reti.
Anche se lo stato di New York non h ain programma alcuno di questi provvedimenti, gli esperti a New York City dicono di essere consapevoli del problema.
”La cosa peggiore che può succedere alla città sarebbe tentare di costruire la rete e non riuscirci” sostiene Rasiej. “Farebbe arretrare l’intero movimento per lo Wi-Fi municipale”.
Molti consiglieri comunali affermano di essere contrari a spendere denaro per qualunque struttura di banda larga. Ma altri insistono che potrebbe giocare un ruolo importante nella creazione di un mercato più concorrenziale per i servizi connessi. Esperti di tecnologie e attivisti locali ritengono che la municipalità possa impegnarsi in una collaborazione pubblico-privato, così come pensata in altre città.
Ad esempio EarthLink, che ha vinto gli appalti a Philadelphia, Portland, Oregon, e Anaheim, California, sostiene il progetto per una rete municipale. Offrirebbe servizi ai residenti e banda larga alla città per usi municipali e di emergenza. La EarthLink prevede anche di offrire accesso a prezzi ridotti ad altri ISP [ Internet Service Provider], con più opportunità per gli utenti. Da parte loro, le città offrirebbero accesso ai propri spazi in modo tale che EarthLink possa installare i sistemi radio wireless.
San Francisco, che è ancora nella fase di esame delle varie offerte per la propria rete wireless, sta considerando un modello simile, dove ci sia una terza parte a costruire e gestire la rete.
Alcuni esperti di tecnologie temono che lasciando la questione della banda larga esclusivamente al settore privato si possa soffocare l’innovazione a New York City mettendo la città in una posizione di forte svantaggio per quanto riguarda l’attirare nuove attività.
”L’idea che il settore privato possa pensarci, semplicemente non funziona”, dice Bruce Bernstein, presidente della New York Software Industry Association, pure ascoltato dalla commissione. “Nessuno è sicuro che il progetto di Filadelfia funzionerà davvero. La EarthLink ha un programma di sviluppo sotto attacco. Ma i tentativi della città stanno già attirando imprese. Non prevedo un esodo di massa verso Filadelfia, ma New York potrebbe avere dei problemi se non facciamo niente”.
Titolo originale: A fence with more beauty, fewer barbs – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
PROBLEMI coi vicini? Mettete uno steccato. Se va tutto bene, potrete appoggiarvi lì a discutere.
Non è proprio questa, l’idea delle barriere fra le nazioni; che non possono facilmente mascherare il proprio spietato obiettivo. Ora si propone una recinzione lungo gli oltre 3.000 chilometri del confine fra Stati Uniti e Messico, nel tentativo di migliorare la sicurezza nazionale e contenere l’immigrazione illegale. Il Senato ne vuole 500 chilometri, la Camera 1.000. E il Presidente Bush ha invitato i contractors militari a definire un tracciato “virtuale” che unisca i sistemi esistenti di recinzione puntuale attraverso strumenti ad alta tecnologia, come sensori di movimento, voli teleguidati e satelliti.
Ma c’è in corso qualche forma di diplomazia ufficiosa – il Messico non è un nemico – e dei precisi sospetti per il compito: architetti progettisti che devono trovare soluzioni accettabili per mascherare il brutto problema; per creare gradevolezza dove non può essercene.
Come per un classico concorso di architettura, il New York Times ha chiesto a 13 architetti e urbanisti di ipotizzare questo “steccato”. Molti hanno rifiutato di rispondere perché ritenevano si trattasse di una questione puramente politica. “É una cosa sciocca da progettare, un rompicapo” ha detto Ricardo Scofidio dello studio Diller Scofidio & Renfro di New York. “Si può lasciarla a genieri e addetti alla sicurezza”.
Quattro dei cinque che hanno proposto schemi, indicano nel confine un ambito di nuova integrazione, non di tradizionale divisione: qualcosa che possa essere visto da entrambi i lati come orizzonte delle occasioni, non una barriera.
James Corner di Field Operations, studio di New York specializzato in urbanistica e architettura del paesaggio, propone che, come qualunque tipo di fortificazione monumentale, abbia un secondo scopo, ovvero una striscia di raccolta dell’energia solare, a realizzare quella che chiama “una zona industriale a regime speciale sostenibile” che attiri le industrie dal nord e crei occupazione per il sud. Entro la medesima terra di nessuno che ora le persone attraversano in cerca di lavoro. Corner chiama questa sua compartecipazione di poteri territoriali del XX secolo e di interconnessione globale ambientalista da XXI secolo, “qualcosa di ibrido, Bush che incontra Gore”.
Anche Calvin Tsao, direttore alla Architectural League di New York e socio di Tsao & McKown, propone una zona industriale a regime speciale, che ricostruendo il confine sotto forma di piccole città in crescita lo faccia diventare un margine di luce, visibile anche di notte dallo spazio.
Eric Owen Moss, architetto di Los Angeles, è più preciso riguardo al proprio confine come vessillo di luce. Nel suo progetto, una passeggiata di colonne di cristallo illuminate inserita nel paesaggio invita allo scambio sociale serale, un po’ come il “ paseo” tanto popolare nella cultura ispanica.
“Costruire qualcosa fra le due culture, che possa condurre a una terza” suggerisce Moss. “Celebrare l’amalagama delle due componenti”.
Enrique Norten, architetto nativo messicano che ha uffici sia a Città del Messico che a New York del suo studio TEN Arquitectos, propone di utilizzare invece il bilancio stanziato per la recinzione in infrastrutture come le strade.
“Il futuro sta nel coinvolgere l’economia del Messico” dice, in un piano di lungo termine per l’area, non in una misura tappabuchi come una barriera. Norten risponde dalla Germania, dove sta seguendo i Mondiali di calcio. “Guadate all’Europa, dove queste cose succedono. La Spagna era una nazione di confine dieci anni fa. Ora fa parte di una comunità più ampia”.
Antoine Predock, di Albuquerque, “smaterializza” la barriera, spiega, attraverso una muraglia fisica progettata come un miraggio. Un terrapieno di polvere irregolare spinto dai lavoratori giornalieri messicani. Sparse di fronte, rocce spezzate, riscaldate dal basso, appaiono sospese sopra il terreno, come il caldo fa fluttuare gli oggetti, come miraggi.
“Ci sarebbe confusione sulla materialità del muro” spiega Predock. “Scoraggerebbe dall’attraversarlo, ma il messaggio da entrambe le parti sarebbe di buona volontà”.
Nota: una breve opinione del sottoscritto e qualche link sul dibattito "politico" attorno al muro di confine (f.b.)
Titolo originale: After $12,000, There's Even Room to Park the Car – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
WESTBURY, NewYork - Angela Aloi cominciava il giro della sua nuova casa familiare da sogno a Long Island nello stesso modo di tanti orgogliosi proprietari suburbani.
Guidava i visitatori tra le varie icone del benessere che ornano la casa in stile coloniale: il foyer su due piani, il bancone della cucina in granito e le finiture in acciaio inossidabile, il patio in pietra e legno di acero. Ma quando si arrivava al soggiorno – appena passato il grande schermo televisivo e il bar di marmo – faceva una rapida giravolta, usando il proprio corpo per nascondere la porta che va in garage, quasi fosse un lucchetto umano.
”Se potevo evitarlo, nessuno doveva vedere quel pasticcio” dice. “Era una discarica. Addobbi natalizi, biciclette, vestiti, attrezzature da boy scout, scatole e scatole di carabattole. E sei martelli, perché ogni volta che ce n’è bisogno uno dobbiamo comprarlo nuovo, visto che gli altri non si trovano. L’ho detto a mio marito: quel garage è il simbolo di una mente molto malata”.
Ma alla fine dello scorso anno la signora Aloi, il marito e i loro tre figli sono finalmente riusciti a conquistare quella discarica familiare, e a trasformarla nello status symbol all’ultima moda, il garage firmato.
La pattumiera casalinga è stata sostituita da pavimenti brillanti, fatti di piastrelle in plastica durevoli e facili da pulire,e un gruppo coordinato di contenitori di plastica antidisordine. L’insieme è così ordinato che ci stano anche il fuoristrada di famiglia, la dispensa, gli attrezzi per il giardino e il tosaerba, le cose per le attività sportive, altri attrezzi e addirittura uno spazio per il sollevamento pesi.
Sperando di evitare una valanga di battute sui rinnovi, gli Aloi non hanno detto ai vicini di aver speso 8.000 dollari per far fare il tutto a un professionista.
Ma potrebbero essere sorpresi, dalla diffusa comprensione: i proprietari di casa suburbani sono tanto pieni di ansia, sensi di colpa e impotenza per i propri garages straboccanti da aver speso un totale di 800 milioni di dollari in prodotti per l’organizzazione del garage lo scorso anno, il doppio rispetto al 2000, secondo una ricerca di mercato della Packaged Facts. Alleviare questo senso di colpa da garage può facilmente costare 12.000 dollari per volta.
La quantità di soldi spesi in rifacimento di garage dovrebbe aumentare del 10% l’anno nel prossimo decennio, facendone uno dei segmenti di mercato degli interventi di manutenzione edilizia in crescita più rapida.
La National Association of Professional Organizers calcola oltre 500 attività specializzate in questo campo, il doppio che nel 2000. Ma per chi vuole farsi da solo il lavoro, c’è un assortimento di nuovi sistemi e prodotti tale da far sembrare l’assicella coi chiodi per gli attrezzi del nonno assolutamente paleolitica.
”Negli anni ’80 ci sono stati i famosi garages della California” dice Bill West, autore di Your Garagenous Zone: Innovative Ideas for the Garage, uno della mezza dozzina di libri sull’argomento dei garages disordinati. “Oggi. È proprio lì dentro che succede tutto”.
In qualche modo, è strano che i prorpietari suburbani si stiano rivolgendo proprio ora al feng shui del garage. Secondo la National Association of Homebuilders, le dimensioni della casa media costruita negli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 50% fra il 1970 e il 2004, anche se decrescevano quelle della famiglia media. Siti internet come eBay dovrebbero aiutare i proprietari a trasformare le proprie cianfrusaglie in contanti alimentando gli appetiti dei collezionisti di mezzo globo. Anche gli stessi garages sono cresciuti: l’83% delle nuove case costruite nel 2004 ne aveva 2 o 3, il doppio che nel 1970.
Ma la lievitazione del commercio online e l’alluvione di prodotti poco costosi di importazione ha reso sin troppo facile per gli acquisti occasionali ingorgare anche le McMansions. Così ora il paesaggio di innumerevoli lottizzazioni americane ora mostra una particolare anomalia: i garages da tre auto tanto pieni di carabattole, che le tre auto sono parcheggiate sul vialetto.
Nella casa della famiglia Costa a Shrewsbury, New Jersey, la decisione di spendere 12.000 dollari in un intervento sul garage verso la strada nasce contemporaneamente dall’esasperazione e dalla vergogna. Barbara Costa, il marito Vincent, e i tre figli, avevano ammucchiato tante cose che le macchine venivano strisciate frequentemente da bidoni della spazzatura o manubri delle biciclette. A peggiorare le cose, il garage del vicino era il ritratto dell’ordine.
”Ci si poteva mangiare sul pavimento, là” racconta la signora Costa. “È un fanatico di queste cose. Lo vediamo sempre pulire, o dire alla gente di raccogliere qualcosa. Ma quando si vede che magnifico garage ha, bisogna riconoscerglielo”.
I Costa hanno tentato di risolvere la cosa da sé in un primo tempo, affittando attrezzature di tipo industriale per gestire grandi quantità di cose scartabili. Ma nel giro di qualche mese, il garage era di nuovo un ammasso confuso.
Verso la fine dell’anno scorso, la situazione è diventata tanto al limite che i Costa hanno pensato ad una soluzione radicale, aggiungere una terza ala al loro garage per due auto. È allora che hanno visto il volantino pubblicitario di una ditta che organizzava garages, e hanno deciso che anche quel prezzo piuttosto caro era comunque più economico di una nuova costruzione.
”E speriamo che resti così – dice la signora – altrimenti dovrò andare a chiedere consulenza al mio vicino”.
non ci sono dati affidabili per stabilire quanti garages rinnovati siano stati in grado di contenere la marea inesorabile di nuovi oggetti nel lungo termine. Ma il sito web della National Association of Professional Organizers Web offre provocatoriamente qualche incoraggiamento, citando un sondaggio fatto dalla compagnia di mobili Ikea nel 2001, che inesplicabilmente afferma come il 31% degli intervistati abbia dichiarato di trarre più soddisfazione dalla pulizia del ripostiglio che non dal sesso.
Barry Izsak, presidente dell’associazione, afferma che anche se alcuni consumatori possono essere riluttanti a pagare per una consulenza professionale, costo fino a 200 dollari l’ora, raramente sente di reclami da parte dei proprietari di garages che si buttano nell’impresa.
Izsak dice che il problema centrale per i garages con questi problemi è la mancanza di un’idea chiara. Si tratta di uno dei pochi spazi usati da tutti, in famiglia, spesso il più grande della casa, ma è uno spazio privo di struttura il che lo trasforma in un pigliatutto. “La gente tiene tutte queste cianfrusaglie inutili, come cataste di National Geographic alte due metri mezze mangiate dai topi e colonizzate dagli scarafaggi” dice Izsak.
”È solo una stravaganza”.
Peter Walsh, psicologo che si è guadagnato la fama professionale di celebrity organizer come partecipante al programma televisivo via cavo “ Clean Sweep” per quattro stagioni, ha ampliato il proprio campo dalla cura dei sintomi del disordine allo studio delle sue cause.
”C’è un’orgia consumistica in questo paese” dice Walsh, che sta per pubblicare un libro dal titolo It's All Too Much (Free Press), sulla psicologia dell’ammucchiare cose. Walsh riconosce di essere una voce solitaria nell’auspicare una nuova epoca di ascetismo americano.
”È la società dell’Io-Extralarge” dice. “Quindi ci vorrà un po’ di tempo”.
Intanto, la comunità degli organizzatori professionisti può trovare conforto in persone come Cary Africk di Montclair, New Jersey, riordinatore recidivo. Qualche anno fa, ha incaricato una ditta locale, la In Order, di scavare nell’alluvione di carte del suo studio di ingegneria. Ha funzionato così bene che li ha richiamati l’anno dopo a bonificare l’ammuffito seminterrato. L’anno scorso, Africk li ha chiamati per farsi riportare il mucchio di cose che una volta stava nel suo garage.
Africk sostiene che, finché la società americana continuerà a inondare le persone con carte e oggetti, lui sarà disposto a pagare per tutto l’aiuto organizzativo che riesce a trovare.
”Credete che ci sia qualcuno, là fuori, che possa aiutarmi a trovare un senso in tutta la spazzatura di files del mio computer?” dice.