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La ricetta: tutela e sviluppo. Fassino: Soprintendenze? Le decisioni finali ai comuni

Massimo Vanni – La Repubblica, ed. Firenze, 3 aprile 2007

Non è una semplice benedizione politica. Fassino approva la scelta toscana nel merito: «Le funzioni delle soprintendenze? Alla fine è il potere che risponde ai cittadini quello che deve avere la responsabilità delle decisioni urbanistiche», dice il leader Ds. I Comuni al centro dunque. Non solo. Fassino ricorda il caso Farmoplant del 1988, quando in Toscana si tenne un referendum per chiudere una fabbrica. E condivide la ricerca di una ricetta urbanistica che tenga insieme la tutela del paesaggio, che è un prodotto storico, e l´esigenza di un nuovo sviluppo: «Non è vero che il "non fare" preserva».

E´ la linea difesa dal presidente regionale Claudio Martini, che apre il seminario di Fiesole, ma anche dall´assessore all´urbanistica Riccardo Conti e dal segretario toscano dei Ds Andrea Manciulli. «Siamo tra le regioni con la popolazione più vecchia e con la rendita immobiliare più alta, progetti come quello dell´Alta velocità possono collegarci meglio con l´Europa e possono aiutarci a crescere», dice il segretario. «Se qui i Comitati sono decine e decine è anche perché c´è più partecipazione, più di 3mila persone hanno partecipato all´elaborazione del Pit», aggiunge Conti rispondendo al presidente di Italia Nostra Carlo Ripa di Meana che nel numero dei comitati vede la spia del malessere toscano.

Nessuna parola per Campi Bisenzio e le vicende giudiziarie che alle porte di Firenze s´intrecciano con quelle urbanistiche. Non ne parla Fassino, non ne parlano gli altri. Compresa la neosegretaria regionale della Margherita Caterina Bini, che Manciulli presenta a Fassino. Fuori della porta una trentina di persone dei Comitati, ma anche una Ornella De Zordo di «Unaltracittà» in trasferta, protesta con cartelli e striscioni: «Il solo ascolto non è dialogo», «La Toscana è insidiata e Campi non è Unica e sola». Si contesta che la Toscana sia un modello felice di urbanistica («Volete difendere l´ambiente e poi provocate code nel traffico», è la battuta che gli rivolge Fassino).

Il sindaco di Fiesole Fabio Incatasciato risponde ai comitati ricordando il caso delle villette nella valle del Sambre cancellate dal piano regolatore 30 anni fa e che adesso, per via dei contenziosi avviati dai proprietari, rischiano di dissestare il bilancio del Comune: «Ci si ricordi di questo quando si parla di Monticchiello e di piazza Mino», dice Incatasciato. Il professor Massimo Morisi, che ha collaborato all´elaborazione del Pit, insiste sulla «governance audace» inaugurata dalla Toscana: «Quella di una filiera decisionale, senza più rapporti gerarchici di governo». Senza cioè la Regione che controlla e approva i piani regolatori, come accadeva un tempo. Ma anche così, dice Morisi, non viene meno l´importanza di un «piano pubblico» che coordini gli interventi del futuro.

A nome dell´Inu, l´Istituto di urbanistica, Silvia Viviani parla di «un boom che è in corso e che preme sulle nostre colline»: un boom che deve essere fronteggiato con la tutela. Mentre la sottosegretaria ai beni culturali Danielle Mazzonis rileva con favore le nuove forme di collaborazione avviate tra Regione e ministero.

Non è una regione pattumiera

Alberto Ferrarese – Il Tirreno, 3 marzo 2007

«Non bisogna rappresentare la Toscana come una pattumiera: questo è uno dei posti in cui il territorio è stato valorizzato di più. Poi se ci sono dei problemi discutiamone perché è giusto che ai cittadini si diano risposte». Intervenendo ieri a Fiesole a un convegno sul tema della tutela del territorio organizzato dalla Fondazione ItalianiEuropei e dal Comune, presente il sindaco Fabio Incatasciato, il segretario dei Ds Fassino ha respinto le accuse di ‘scempio’ avanzate nei mesi scorsi da comitati cittadini contro le amministrazioni locali toscane, ma ha voluto anche richiamare alla necessità di un dialogo.

La distanza tra amministratori e cittadini, però, anche ieri è apparsa notevole: mentre all’interno della sala di FiesoleArte i politici discutevano, fuori decine di esponenti dei comitati manifestavano con cartelli con scritte come “Amministrare con e non contro i cittadini” e “Ascoltare non significa dialogare”. Proprio Fiesole, è uno dei ‘casi’ al centro delle più recenti polemiche, a causa di interventi urbanistici che hanno portato alla costituzione di un comitato contrario alle nuove edificazioni.

Secondo Fassino, però, la Toscana è pur sempre un’eccellenza. «Se tutta l’Italia fosse così - ha detto - saremmo più avanti. Ma proprio nei punti di eccellenza si avverte la necessità di andare oltre e la Toscana può costituire un traino, un esempio a livello nazionale per le politiche su questo tema». Il leader della Quercia ha anche evidenziato l’importanza della partecipazione, spiegando che non si può governare il territorio in modo decisionista. «Bisogna - ha osservato - ragionare con i cittadini e costruire le politiche sulla base della concertazione, anche perché così tutti si assumono le proprie responsabilità, sia i cittadini che le istituzioni». Fassino ha anche definito positiva l’esperienza dei comitati, perché segno di consapevolezza nei diritti e di volontà di partecipazione.

Anche il presidente della Regione Martini ha ribadito la necessità del confronto: «La discussione - ha detto - va fatta su un terreno di convergenza e non di scontri, perché sviluppo e tutela sono le due metà della stessa mela. E il nuovo nemico vero è la grande speculazione che vede nel paesaggio un motivo di business».

Qualche frecciata velenosa ad Alberto Asor Rosa è arrivata dall’assessore regionale Riccardo Conti che, senza mai citare l’intellettuale leader dei comitati, ha detto «no a chi viene qui con la penna rossa e blu a dire cosa va bene e cosa no, perché la Toscana non può essere fatta solo di vecchietti arzilli e progressisti». Anche Conti ha convenuto sull’importanza della discussione, spiegando però che «la partecipazione non è ginnastica, è un modo per arrivare a una decisione».

Postilla

L’iniziativa di Fiesole, senza contraddittorio, né previsto, né ammesso, trova forse la sua ragione prima nel tentativo, un po’ affannoso, di rinsaldare posizioni duramente incrinate dal quadro di corruttele che va emergendo attorno al caso Campi Bisenzio. A tale contingenza politica annettiamo qualche lacuna ‘organizzativa’ e qualche ineleganza oratoria da ascrivere ad una situazione poco felice. Complessivamente.

Se su molti aspetti del tema occorrerà comunque ritornare per la loro rilevanza ben oltre i confini toscani, in queste righe ci limitiamo a due commenti ‘a caldo’. A partire dall’ormai stucchevole binomio “tutela – sviluppo” in cui la coordinazione grammaticale fra i due termini che si pretendono equipollenti, sottointende, in realtà un’antinomia sentita come insanabile. Lungi dal risolversi in un’endiadi semantica (la tutela é sviluppo), l’espressione rivela, al di là delle dichiarazioni, peraltro troppo insistite, dei suoi utenti, che i due obiettivi rimangono alternativi in quanto appartenenti a due concezioni del territorio sentite come antinomiche, al più giustapponibili con concessioni dell’una a favore dell’altra. Quanto poi all’affermazione di Fassino secondo il quale, sul governo del territorio, debbano decidere gli eletti del popolo e non già un funzionario qualsiasi (nella fattispecie il soprintendente), costituisce, quanto a cultura politica, un arretramento cosi’ scopertamente demagogico da essere imputabile solo alla categoria del lapsus o infortunio verbale. Equiparare la funzione di alta competenza tecnica, quale é quella di un soprintendente che riveste quel ruolo perché riconosciuto per concorso pubblico detentore di un sapere specialistico, a quella di un amministratore che, soprattutto a livello locale ristretto, é incaricato, anche nel senso migliore, della mediazione fra esigenze diverse e spesso in contrasto, significa non solo equiparare, appunto, queste diverse istanze (tutela e sviluppo e rendita e speculazione e …), ma di fatto favorire gli interessi più forti, in quanto più capaci di opposizione e di autorappresentazione. Le istanze del territorio, al contrario, bene comune irriproducibile e fragilissimo, devono prima di tutto essere rappresentate da una conoscenza non superficiale né improvvisata, che si ponga l’obiettivo della sostenibilità, quella vera, di lungo, lunghissimo termine, ben al là, quindi, degli spazi temporali di un mandato elettorale.

La democrazia é tale non solo perché demanda scelte e decisioni ai propri rappresentanti eletti secondo il principio della maggioranza, ma anche quando sancisce, sempre a maggioranza, delle regole valide per tutti, a rispetto delle quali pone i propri rappresentanti eletti secondo il principio della competenza. (m.p.g.)

Dopo un'estate di polemiche che hanno investito l'entrata in vigore dei tributi regionali sardi (di cui alla Legge n. 4 del 2006), che nel linguaggio corrente vengono definiti “tasse sul lusso", ma che in realtà riguardano il turismo, sembra opportuno soffermarsi brevemente ad analizzare alcuni aspetti connessi a questi nuovi modelli impositivi.

Il primo punto verte sulla protesta innescatasi dopo l'istituzione di tali tributi.

Dissenso a dire il vero abbastanza singolare, giacché ha preso le mosse e poi è "montato" in un contesto dorato, o meglio, in una enclave del lusso in Costa Smeralda ove i "contestatori" hanno organizzato un gran galà e un battage mediatico, anche con inserzioni sui giornali, per esternare il loro rifiuto alle cosiddette “tasse Soru".

E' bene rimarcare — anche per stemperare gli animi — che si tratta di "sdegno fiscale" da ricondurre più nell'ambito del folclore che in quello dell'obiezione fiscale. Esso, infatti, ha avuto una notevole risonanza soprattutto nelle cronache mondane, sempre alla ricerca di gossip estivi, vista l'appartenenza dei protagonisti della contestazione al mondo dello star system.

Si ha, comunque, la sensazione che performances salottiere di questo genere vengano percepite, dalla generalità dei contribuenti, come uno snobistico rifiuto di un gruppo clanico — che, tra l'altro, si appalesa dotato di una notevole capacità contributiva - al pagamento dei tributi.

Il secondo aspetto, di natura dualistica, concerne, la possibilità e l'opportunità che la Sardegna istituisca imposte e tasse sul turismo e altri tributi propri in armonia con i principi del sistema tributario dello Stato, così come prevede l'articolo 8, lettera I), dello Statuto regionale.

Per quanto attiene alla possibilità, vedremo se, nei prossimi mesi, la Corte costituzionale, investita dal Governo per un sindacato sulla legittimità dei tributi sardi (imposta sulle plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case, imposta sulle seconde case ad uso turistico e imposta su aeromobili ed unità da diporto), si pronuncerà sulla compatibilità, o meno, degli stessi con la Costituzione.

In attesa che sulla questione intervenga il giudizio della Consulta la problematica resta, tuttavia, aperta per eventuali modifiche al testo normativo vigente, finalizzate ad eliminare i contrasti denunciati nel ricorso del Governo, che la Regione Sardegna si accinge a varare con la Finanziaria 2007.

In tale angolo di visuale si pone, quindi, il problema, non solo per la nostra Regione, in ordine all'opportunità di emanare una disciplina fiscale che incida sul consumo di beni ambientali "scarsi", rapportata al turismo.

Questo argomento rappresenta ormai un punto ineludibile con il quale è indispensabile fare i conti.

La spinta ad introdurre forme di prelievo, in ambito locale, di natura parafiscale, come pedaggi, sovraprezzi — ticket d'ingresso per bus, auto e persone et similia — in località ad alta vocazione turistica comincia a diffondersi nel nostro Paese a macchia di leopardo (anche sull'esempio della congestion charge istituita dalla municipalità di Londra), come documentato in una ricerca effettuata da il Sole 24 Ore del 19 agosto 2006.

Il dibattito, semmai, può incentrarsi su quale formula impositiva sia più idonea per influire su fenomeni di natura turistica.

Le scelte al riguardo possono essere molteplici, ma, a nostro modo di vedere, si potrebbe pensare ad un sistema di tassazione ecologically correct, all'unisono con il federalismo fiscale ed anche con le linee guida espresse dalla Commissione europea.

A questo proposito, assume notevole rilievo, nello specifico caso della Sardegna, prendere in considerazione il consumo dei beni ambientali "scarsi", dovendo comprendersi fra questi, in virtù di quanto affermato dalla Corte costituzionale sin dal 1997, beni naturali, quali boschi, laghi, coste, fauna selvatica, oltre che quelli culturali. In tale ottica l'attenzione del legislatore fiscale, attraverso l'introduzione di green taxes, può ben porsi per la tutela delle bellezze naturali, prive spesso di ogni forma di protezione.

Data la "scarsità" del bene ambiente, tutti gli atti (o le attività) che cagionano un inquinamento o un consumo del bene medesimo, rappresentano il depauperamento di un patrimonio raro (l'ambiente) soggetto ad esaurimento e come tale suscettibile di una valutazione economica e, soprattutto, di manifestare una maggiore capacità contributiva rispetto agli atti (o alle attività) non inquinanti, ovvero che non comportano, in ogni caso, l'erosione di un habitat unico e di pregio.

Da ultimo, si deve sottolineare come in questa vicenda è di fondamentale importanza chiarire, attraverso una efficace comunicazione, che non ci troviamo di fronte a leges in privos latae, indirizzate cioè a colpire esclusivamente una limitata categoria di soggetti con effetto punitivo. Il nuovo assetto in materia di tributi dovrà, quindi, tener conto di questa componente negativa che ha accompagnato la nascita delle cosiddette “tasse sul lusso" al fine di sgomberare il campo da equivoci di questo genere.

Ora è del tutto scontato e anzi lapalissiano che l'istituzione di un tributo non venga accolta con manifestazioni di giubilo da parte dei contribuenti, ma un conto è la mancanza di entusiasmo e altro conto è l'“accettazione" dell'opinione pubblica al riguardo.

L'"accettazione" (cosiddetta tax compliance ) al pagamento dei tributi costituisce, infatti, un imprescindibile connotato dello Stato moderno la cui assenza conduce ad una perdita di funzionalità del sistema fiscale, perdita che non viene colmata con l'adozione di misure coercitive.

Concludendo è auspicabile che questi tributi siano avvertiti in relazione alle loro finalità ecologiche, e giammai percepiti come uno strumento di vessazione o di ostracismo in danno dei non sardi e dei non residenti.

L’autore è titolare della Cattedra di Diritto Tributario all'Università di Cagliari

Abbiamo assistito ad una cadenzata serie di bordate verso l’Imposta Comunale sugli Immobili (Ici). Di riflesso si è ovviamente messa in discussione la spesa coperta dall’entrata tributaria di competenza comunale. Il gettito aggregato dell’Ici ammonta circa ad una decina di miliardi di euro, finanzia quasi un quarto della spesa dei Comuni ed è una delle poche entrate autonome in mano ai governi locali. L’Ici è un imposta reale, non incide il contribuente ma il cespite, ha un andamento formalmente proporzionale, con l’unica significativa eccezione per l’abitazione dove risiede il proprietario. È un’imposta efficiente, nel prelievo poiché difficilmente evadibile ed eludibile, rispetto alle scelte del consumatore, poiché per entità non distorce visibilmente le scelte di acquisto o di vendita. Tuttavia è un’imposta vecchia, nel senso che la statistica non premia le imposte di diciassette anni di vita, forse proprio questo aspetto può spiegare la sua impopolarità.

Tuttavia è utile inquadrare due fenomeni entro i quali si sta sviluppando la crociata contro l’Ici. Il primo è una generale diffida al potere pubblico di appropriarsi di una parte del frutto del lavoro del cittadino mediante un rilevante prelievo fiscale; in sostanza un riflusso liberale. Il secondo legato alla dispersione sul territorio di competenze da parte dello stato centrale e, più lentamente, di autonomia finanziaria in capo agli Enti Locali.

I paesi con elevata autonomia dei governi locali associano ai visi dei governanti sul territorio imposte che poggiano su basi imponibili autonome: generalmente il patrimonio immobiliare. La ragione sta nel fatto che la compartecipazione al gettito derivante da un’unica imposta diretta centrale (l’Irpef italiana) di più livelli di governo può limitare fortemente l’autonomia. I requisiti chiesti alla base imponibile di un’imposta a sostegno di un potere locale sono: la non esportabilità della stessa (cioè il fatto che i mattoni non possano «fuggire » a causa di un inasprimento della pressione fiscale); la facile misura del valore; possibilmente una qualche relazione fra la crescita della base imponibile e l’attività di governo che si finanzia. È il caso perfetto dell’Ici – al contrario dell’Iva, che invece può traboccare al di fuori di un territorio del Comune – e dove il livello delle transazioni su di un territorio non è visibilmente imputabile ad un sindaco.

Tornando all’Ici, il valore di un immobile è evidentemente legato all’attività di pianificazione del Comune, e perfino di province e regioni. La nostra Ici ha tanti difetti: la base imponibile (rendita catastale) non è determinata sui valori di mercato, non è detto che a due immobili con lo stesso valore di scambio corrispondano bollettini di pagamento troppo simili; a parte l’abitazione principale e poco altro, non sono possibili ulteriori margini di manovra per produrre o accentuarne la progressività; la base imponibile, infine, è cresciuta ad una velocità assai inferiore rispetto all’inflazione negli ultimi dieci anni.

Tuttavia con i frutti della tanto vituperata imposta si paga il wellfare locale: asili nido, scuole d’infanzia, assistenza agli anziani, contributo pannolino, contributo affitto, trasferimenti diretti a famiglie in difficoltà, eccetera. Chi è il principale beneficiario di questo wellfare pagato con un’imposta che deriva per tre quarti da seconde case e capannoni industriali? La famiglia. Allora perché contrapporre – da parte di taluni esponenti politici in odore di sacrestia – famiglia e Ici? Perché ciò che è messo in discussione è il prelievo fiscale e quindi la spesa pubblica in senso lato. Si potrà obiettare che esiste un diritto alla «prima casa», ma secondo la nostra Costituzione la proprietà privata non è mai lorda, ma sempre al netto delle imposte, le quali a loro volta devono essere improntate al criterio di progressività. Dunque perché esentare dal pagamento (o da una parte di esso, se si esenta fino a 100 metri quadri) di un’imposta modesta il possessore di un castello contemporaneamente a chi sta pagando un mutuo per un appartamento di periferia?. E’ dimostrato, inoltre, che già ora l’Ici ha un andamento indirettamente progressivo rispetto alla condizione economica equivalente nel centro-nord Italia: abolire l’Ici sulla prima casa significherebbe trovare due miliardi e mezzo dall’Irpef e, per ovvie ragioni, peggiorare l’effetto redistributivo. Il patrimonio è più concentrato del reddito dichiarato!

Semmai andrebbe proposta una riforma radicale dell’Ici in imposta personale patrimoniale e fortemente progressiva rispetto alle condizioni di ricchezza del contribuente, così da triplicare il gettito abbassando la pressione sulle famiglie più deboli per poi redistribuire ancora, con un’espansione della spesa di wellfare. Invece contrapporre l’Ici alla famiglia nasconde sotto spoglie clericali fini «liberali», decisamente contrari ai principi evangelici nonché, in ultima analisi, alla famiglia stessa.

Postilla

L’analisi dell’autore (che è assessore al Bilancio e alla partecipazione del Comune di Modena) è assolutamente condivisibile. Avrebbe però meritato una conclusione diversa.

L’ICI è una tassa che colpisce il valore immobiliare, quindi la rendita, la componente parassitaria del reddito (quella alla quale non corrisponde nessun ruolo di utilità sociale, a differenza dalle altre due componenti, il salario e il profitto).

Nel domandarsi con che cosa sostituire non l’ICI, ma una sua riduzione, occorrerebbe domandarsi in che modo il Comune possa giovarsi degli incrementi dei valori immobiliari (della rendita) che non deriva certo dagli investimenti privati ma dalle opere e dalle spese della collettività. Perché mai, ad esempio, il Comune non deve beneficiare degli aumenti di valore che vengono determinati nel momento della compravendita? È in quel momento che l’incremento della rendita immobiliare pienamente si manifesta

«Vendesi villini in costruzione. Consegna entro 24 mesi». Superati i palazzoni di Prima Porta, via di Valle Muricana s'infila nel verde disseminato da una sequela sgangherata di casette. L'area protetta comincia poco più in là. E un cartello che segnali il parco non si vede. «Qualche volta li prendono e li usano come teglie per la pizza», raccontano da queste parti, e non scherzano. In compenso, fitti fitti, s'incontrano subito i cartelli delle agenzie immobiliari, piazzati di fianco a un cantiere e a una villetta spatolata di rosa, quasi finita.

Benvenuti nel Parco di Veio, fra quelli del Lazio il più massacrato dall'abusivismo. «Impieghiamo l'esercito per demolire gli abusi: non tutti, sarebbe uno spreco, perché molti possono essere riassegnate a chi non ha casa, ma almeno 10 l'anno», rilancia la sua proposta il direttore dell'ente parco, Roberto Sinibaldi.

Eppure anche così com’è, lacerato dall’abusivismo, il Parco di Veio - con dentro la sua pancia pezzi di archeologia, boschi e persino sorgenti, laddove non arriva la strada asfaltata - sembra destinato ad apparire, prestissimo, come un’isola felice, circondata dal cemento che all’improvviso gli sta esplodendo tutt’intorno. “Conurbazione”, si chiama. E cosa vuol dire si capisce benissimo percorrendo la via Flaminia, che costeggia un lato del parco: il cemento si sta allungando da Roma fino a saldare il tessuto urbano con quello dei paesi più a nord, Riano, Castelnuovo di Porto, Morlupo. Un paesaggio paradosso: lì è parco, di là no. Quindi anche a pochi metri di distanza dall’area protetta si può costruire. Distese di ulivi e di campi si cancellano. A partire da Colle delle Rose, località dal nome ameno appena dopo Prima Porta, che è tutto un cantiere di casette basse, dove lavora un esercito di operai rumeni, seduti davanti a ogni portoncino all’ora di pranzo. A seguire c’è Riano, dove invece ci si va giù pesante: le gru al lavoro saranno almeno una decina e il cemento si stratifica con una densità impressionante. Grossi edifici l’uno dietro l’altro, in una sfilza di ponteggi e fondamenta a coprire i fianchi dei pendii.

Che sia chiaro, qui è tutto legale. «Il problema è che i piani regolatori di questi comuni - spiega Roberto Sinibaldi - sono basati sul principio di trasformare tutti i terreni agricoli in zone residenziali. Le cubature progettate non sono certo commisurate alla crescita demografica prevista in quei paesi. Almeno nove decimi saranno destinate a chi viene da Roma, dove il mercato immobiliare sta espellendo i residenti». Del resto non ci sono leggi a tutelare questi territori: se non c’è un vincolo, sono ottimi per fare affari. E intorno al Parco di Veio c’è solo una zona “cuscinetto”, le Valli del Sorbo, vicino Formello, classificata come Sito d’importanza comunitaria. Così, spazio ai progetti edilizi che lasciano sgomenti gli ambientalisti. Come è avvenuto anche sull’altro versante del Parco, dalla parte di Campagnano. Nella Valle del Baccano, in cima a un crinale che 600mila anni fa era l’orlo di un cratere, sono spuntate una decina di palazzine “ornate” da abbaini, tutte con regolari licenze. «Visto dalla Cassia bis sembra un ecomostro - ammette un operaio - però quando cresceranno le piante non si vedrà nemmeno. Ma lei lo sa perché è bassissima la natalità in questi paesi? Perché non ci sono case per i giovani». Per questo bisogna costruire quelle che diventeranno anche seconde e terze case. E poi basta seguire le indicazioni degli enti competenti, i quali non riescono a entrare neanche nel merito della qualità architettonica, ma prescrivono esterni intonacati - niente cortina, almeno - e colori della terra, che nella pratica diventano giallognoli e rosa, pericolosamente vicini alle tonalità confetto molto amate dai veri abusivi di Veio. «che si ispirano alla casa dei sogni, modello Beautiful», commenta Sinibaldi. Forse è per questo che qua e là appaiono comignoli coperti a mo’ di vezzo da tegole arricciate, finestre a oblò, archi a non finire. Ma il tutto si riassume in un modello ambientale e sociale disastroso. Con un mare di gente scappata da Roma, venuta a vivere qui come fosse periferia e costretta ogni giorno a mettersi in fila in macchina, due ore all’andata, due al ritorno, per andare al lavoro. A Roma.

Il Comune tenta l´accelerata sul condono edilizio. Una delibera varata martedì dalla giunta Cammarata prevede la possibilità di ricorrere a tecnici esterni per la definizione delle oltre 59 mila pratiche che giacciono negli uffici comunali. In un anno ne sono state esitate appena 569.

Nei prossimi giorni sarà pubblicato un avviso rivolto a chi ha fatto istanza di condono nell´85 e nel ´94: chi deve ancora completare le domande con nuovi documenti, avrà sei mesi di tempo per farlo, o potrà presentare una perizia giurata entro il 31 dicembre. In cambio, il Comune definirà l´istanza di sanatoria entro i successivi nove mesi, anche ricorrendo a tecnici esterni, che saranno pagati con i fondi incassati dalle concessioni edilizie. A Palermo le pratiche incomplete sono circa 27 mila, quelle esitate appena 2 mila 600, quelle ancora da esaminare quasi 30 mila. In termini economici significano circa trenta milioni di euro, calcolando un onere medio di cinquecento euro a concessione.

Per smaltirle non basterebbero 103 anni. Delle 61.685 pratiche di sanatoria edilizia presentate, in dodici anni il Comune ne ha definite appena 2.616. E tra il 2004 e il 2005 le concessioni sono state in tutto 569. A conti fatti, con questi ritmi ci vorrebbe più di un secolo. Ma il Comune adesso fissa la tabella di marcia per i 27 mila ex abusivi che hanno pratiche incomplete, e per smaltire tutto il resto dell´arretrato autorizza il ricorso a tecnici esterni, che saranno pagati dal Comune stesso con gli oneri di concessione. Mettendo in atto ciò che a suo tempo aveva previsto la Regione, che nel 2003 aveva varato una legge che autorizzava il ricorso ai tecnici esterni, e nella Finanziaria del 2005 aveva autorizzato gli enti locali a pagare i tecnici con i fondi incassati dalle concessioni. Norme ribadite da una circolare emessa nel marzo 2005 dall´allora assessore al Territorio, Francesco Cascio, rimasta nella stragrande maggioranza dei casi lettera morta. «Finalmente al Comune hanno letto la Gazzetta ufficiale», ironizza oggi Cascio.

Ma, d´altro canto, è un dato di fatto che anche l´ultima rilevazione della Regione (al 31 dicembre 2005) sia sconcertante: i Comuni siciliani in un anno hanno smaltito appena il 3,2 per cento delle istanze pendenti. Delle 770.880 domande di condono relative alle tre sanatorie (anni 1985, 1994 e 2003), ne restano ancora da definire 547.986. Delle quali 59.069 in capo al Comune di Palermo, che in termini economici significano circa trenta milioni, calcolando un onere medio di cinquecento euro a concessione. Soldi che per le asfittiche casse di Palazzo delle Aquile sarebbero ossigeno puro.

Adesso Palazzo delle Aquile prova a dare una spallata alla montagna di carta ferma da oltre vent´anni e cresciuta a dismisura grazie alle altre due sanatorie. Le nuove regole per definire le pratiche sono contenute in una delibera predisposta dall´assessore comunale all´Edilizia privata, Giovanni Di Trapani, e approvata dalla giunta Cammarata martedì sera. A giorni sarà affisso e pubblicato un avviso che servirà a mettere sulla giusta strada chi attende il rilascio della concessione.

I 27 mila cittadini palermitani che hanno chiesto il condono nell´85 e nel ´94, ma non hanno ancora completato le pratiche, per farlo avranno 180 giorni di tempo dalla pubblicazione dell´avviso. A chi entro questa scadenza presenterà i documenti richiesti, o in alternativa produrrà entro il 31 dicembre 2007 la perizia giurata prevista dalla legge regionale che attesti la sussistenza di tutti i requisiti per ottenere la sanatoria, il Comune risponderà definendo l´istanza entro i successivi nove mesi. Tanto varrà anche per il settore Servizi alle imprese, per il rilascio del certificato di agibilità, e per il settore Centro storico, che ha la competenza di 400 pratiche ancora aperte.

I controlli saranno fatti su un campione di 1.200 istanze. E se il Comune non ce la farà a rispettare le scadenze con le sue forze - dei settanta tecnici arruolati per smaltire la sanatoria del 1985 ne sono rimasti in servizio appena una ventina - allora il servizio Condono edilizio ricorrerà ai tecnici esterni, come avvenuto nel 1995 per circa 5 mila pratiche. Il Comune, per questi incarichi esterni, stima una spesa di circa due milioni di euro.

«Era l´unico modo di affrontare una questione che rischiava di rimanere irrisolta», spiega Di Trapani, che in giunta è entrato l´11 gennaio scorso. «Appena nominato, sono stato messo di fronte al problema - spiega l´assessore - e mi sono reso conto che i nostri uffici con le loro forze non ce l´avrebbero mai potuta fare. Gli uffici prevedono di smaltire al massimo regime non più di 1.200 pratiche all´anno, il che significa che nel migliore dei casi ci vorrebbero cinquant´anni».

Di Trapani non nasconde che la manovra lo potrebbe rendere più simpatico ai tecnici, cosa che in campagna elettorale non guasta: «È anche vero che questa richiesta - spiega l´assessore - è stata fatta più volte dagli ordini e dai collegi professionali, che lamentano una situazione lavorativa non florida. In ogni caso, sarà un modo per tentare di muovere una situazione paralizzata da anni e per dare risposte a quei cittadini che hanno deciso di mettersi in regola».

La procedura varata dalla giunta Cammarata non comprende le pratiche del "condono Berlusconi", varato nel 2003. Le istanze sono 10.102, delle quali 120 sono state esitate. Ma in questo caso le regole erano molto più restrittive delle precedenti sanatorie, e il Comune prevede che gestire le concessioni sarà più facile.

I lavori sono fermi, così come disposto dalla sovrintendenza per i beni architettonici e il paesaggio.

Intanto, però, gli ulivi sono solo un bel ricordo e le ruspe che li hanno cavati un pericolo tutt'altro che scongiurato. Così, sulla vicenda della lottizzazione di Moniga — sei ville a tre piani a ridosso della cinta del castello ricetto di epoca longobarda ora arriva un dossier del Comitato Promotore del Parco delle colline moreniche. «Il caso di Moniga è l'ennesimo allarme, un allarme che riguarda il lago intero» dice il segretario del comitato Gabriele Lovisetti.

Il documento si spiega con poche parole, quasi senza: perché il 15 marzo scorso il vicepresidente Mario Pavesi ha noleggiato un piccolo aereo, ha fatto un giro da Sirmione a Toscolano e poi di nuovo indietro, scattato una serie di foto. Accanto a quelle relative alla lottizzazione di Moniga hanno messo anche le planimetrie dei progetti, ottenuti dal Comune dopo regolare richiesta, per far vedere come diventerebbe quel dosso affacciato sul lago. E, già che erano in viaggio, hanno voluto scattare altre foto: «Alle abbazie di San Vito, a Sirmione, San Vigilio, a Pozzolengo, Maguzzano, a Lonato. Per mostrare altri monumenti e altri scorci minacciati dal cemento».

Ieri, a Brescia, il Comitato ha presentato il suo lavoro con il Sovrintendente Luca Rinaldi e il sindaco di Moniga, Lorella Lavo, eletta nel 2006, quando il progetto aveva già avuto il via libera. Una vicenda complicata: nella quale, in sostanza, non è stata ascoltata l'indicazione della Sovrintendenza di costruire rispettando il paesaggio. Usando il suo potere di intervenire a tutela dei beni monumentali in questo caso il castello il Sovrintendente ha chiesto la sospensione dei lavori per verificare la correttezza dell'iter. Ma la vicenda è tutt'altro che conclusa e la fine tutt'altro che scontata: «Come in tanti, troppi casi sul lago: da Tremosine a Sirmione, da Toscolano a Desenzano», sottolinea Lovisetto.

Ecco, allora, la propostaprovocazione del Sovrintendente alla Regione: «Facciamo come ha fatto la Sardegna per salvaguardare le sue coste. Una legge che dica basta, non si costruisce più niente. Almeno fino a quando non ci sarà un vero piano paesistico». Si può fare? In teoria. In pratica la materia è più che complessa, mentre, di fatto, sono state delegate ai comuni la tutela del territorio e del paesaggio: i controllati sono, così, anche i controllori di se stessi.

Nel nostro martoriato Sud che spesso ci appare sequestrato dalla criminalità organizzata, accadono anche delle cose eccellenti di cui si parla troppo poco. Succede per esempio che migliaia di persone si riconoscano in una battaglia cittadina, si rimbocchino le maniche e lavorino gratuitamente per restituire un'area verde alla loro città, succede che si formino associazioni senza scopo di lucro che a furia di manifestazioni, raccolte di firme e picchettaggio, impediscono che si faccia scempio di un quartiere. Ma i giornali sono avari di queste notizie, mentre scialano quando si tratta di raccontare sparatorie, delitti, sequestri, furti e rapine.

Oggi voglio parlarvi di un caso che da qualche anno sta preoccupando le persone responsabili — e non sono poche — della città di Caserta. I fatti: un terreno di 330.000 metri quadrati, fitto di alberi centenari, che si trova nel centro della città, è oggi minacciato da un fiume di cemento. La storia: il parco chiamato Macrico, nei secoli scorsi apparteneva ai Borboni, i quali avevano concesso alcune costruzioni militari immerse nel verde, alla mensa vescovile per i poveri. Oggi il parco appartiene all'Istituto Sostentamento Clero, un ente diocesano autonomo. Nel dopoguerra, il Macrico con i suoi due o tre caseggiati, viene affittato alle forze armate della Repubblica italiana che usa le strutture coperte come magazzini per i suoi mezzi corazzati, lasciando intatto il parco.

Ma, come spesso succede, il ministero della Difesa paga male e in ritardo. Nel '96 l'Istituto apre un contenzioso. Nel 2000 le forze militari decidono di andare via. La proprietà ecclesiale progetta delle costruzioni per 500.000 metri cubi, ma si scontra col rifiuto della cittadinanza e del vescovo Nogaro che nel suo famoso Tedeum ricorda severamente l'originaria destinazione ai poveri del parco.

L'istituto, viste le difficoltà, decide di vendere la proprietà. Il prezzo richiesto è di 40 milioni di euro. A questo punto i casertani chiedono al Comune di comprare il parco, utilizzando i soldi della Comunità Europea, con l'aiuto sia della Regione che della Provincia. Lo spazio rimarrebbe verde, applicando la classificazione F2 che preclude ogni costruzione in una zona di interesse pubblico. Il Comune si dichiara d'accordo, anzi il sindaco imposta la sua campagna elettorale proprio sul mantenimento dello spazio verde, per il bene della città. Ma ancora oggi, dopo un anno dalla elezione della giunta di centro-sinistra, non si è concluso nulla. Dall'altra parte ci sono i grandi costruttori già pronti a comprare il terreno anche a prezzi più alti, per erigervi centinaia di nuovi appartamenti.

Il comitato Macrico-Verde chiede al Comune una destinazione d'uso con orto botanico, giardini pubblici e strutture culturali di cui Caserta, con il suo circondario di 300.000 abitanti, è assolutamente priva. Naturalmente senza aggiungere un solo metro cubo di cemento, ma utilizzando le strutture già esistenti che rispettano il verde del parco. Il comitato riesce in pochi mesi, con la raccolta di 10.000 firme di cittadini casertani, a ottenere l'apertura del parco fino ad allora chiuso da alte mura ad un pubblico di più di 5000 persone, a creare quel fermento politico di base di cui tutti in Italia lamentano la mancanza: impegno civile e coscienza politica. Non è questo che si chiede al Sud? Allora non deludiamo iniziative popolari che creano partecipazione e responsabilità collettiva. Sarebbe imperdonabile uccidere sul nascere un sentimento di giustizia così diffuso e reale. È da battaglie come questa che nasce un'etica politica capace di cambiare le sorti di un Sud messo in scacco dalla speculazione e dal malaffare.

Diecimila firme e impegno per restituire alla città il verde minacciato dal cemento.

Immaginate una collina da sogno affacciata sul mare. Al centro di un terrazzo a mezza costa, la fascia di uliveto «messa a coltura già in età romana», lì a fianco una chiesa che è monumento nazionale, subito dietro un sentiero che è stato ufficialmente riconosciuto come l´antica via romana.

Adesso immaginate che, nel raggio di 500 metri dalla chiesa, sorgano quattro palazzine tri-famigliari, che il percorso millenario venga allargato e asfaltato, e che l´intera collina grazie ad una di quelle prestidigitazioni dell´urbanistica che in questo caso si chiama ambito "Ar-Ta territori aperti", possa in futuro pullulare di villette con box e piscine.

Siamo a Megli, la collina a ponente di Recco, uno di quei posti del Belpaese in cui un sfilza di vincoli ambientali, monumentali, archeologici e così via, dovrebbe rendere impossibile anche la costruzione di un castello di carte.

Invece, la storia che vi raccontiamo oggi, è l´ennesimo capitolo del libro del mattone che da qualche tempo parecchi amministratori e imprenditori della Liguria vogliono contribuire a scrivere.

Uno dei protagonisti è il sindaco Gianluca Buccilli che, a capo di una giunta di centrodestra, sta tentando di far approvare un Puc - il piano urbanistico comunale - che darebbe il via libera a una serie di lottizzazioni sia in paese che su questa collina (Megli e Maggiolo), nonché all´allargamento, per renderla carrabile, di via del Pianello, la mulattiera che sarebbe poi l´antica via romana. Fino ad oggi il Puc non è passato perché quattro consiglieri di maggioranza non hanno potuto partecipare al voto, in quanto direttamente interessati agli interventi urbanistici. Buccilli, però, non dispera di poter trovare una soluzione per questo problema, così come per le severe prescrizioni imposte dalla Provincia.

Ottenuto dalla Regione guidata da Sandro Biasotti il declassamento della zona di mantenimento, la collina di Megli è diventata area trasformabile. In altri termini, edificabile. Il sindaco ha spiegato che così facendo si evitava di incorrere in un contenzioso con i costruttori che nel 1992 avevano richiesto delle lottizzazioni bloccate dall´allora capo dell´ufficio tecnico Angelo Valcarenghi. Adesso alcune di quelle concessioni potrebbero concretizzarsi, anche se esiste la spada di Damocle della Soprintendenza, poiché sarebbero stati totalmente ignorati dei vincoli paesistici risalenti addirittura al 1949 e al 1959 con i quali gli allora ministri della pubblica istruzione, già si preoccupavano di tutelare Megli come una delle bellezze naturali liguri, in un´operazione di raccordo dei piani paesistici di Recco con quello di Sant´Ilario. Non solo. Le palazzine a ridosso della chiesa stravolgerebbero il contesto paesaggistico in cui si inserisce la parrocchia delle Grazie che, in quanto monumento, rappresenta "un´emergenza del piano paesistico regionale".

Il professor Tiziano Mannoni presidente dell´Istituto Internazionale di Studi Liguri, il 12 gennaio di quest´anno scrive un intervento su villa Ansaldo di località Allou, sempre sulla collina di Megli. Un´antica villa affrescata, in mezzo al bosco, che il ministero dei Beni Culturali ha inserito nelle opere da finanziare con l´8 per mille. Mannoni sottolinea che a Megli «la fascia degli uliveti fa parte, con la strada antica, di un complesso territoriale e paesaggistico unico e fino ad oggi notevolmente conservato che ha certamente un´esistenza che supera i 500 anni, ma che trattando di terreni fertili...è ben difficile che non siano stati messi a coltura già in età romana. E´ probabile che qualsiasi intervento di sterro oltre ad alterare un antico paesaggio potrebbe incontrare resti archeologici...confermato dal ritrovamento dei resti di un insediamento rurale romano in un terreno che costeggia via del Pianello».

Preoccupazioni espresse alcuni mesi fa anche dal preside della facoltà di Lettere e Filosofia Michele Marsonet: «...il Puc e la riduzione delle zone di mantenimento del Piano rappresentano una seria minaccia per l´intera collina... è prevista una forte espansione insediativa in prossimità della chiesa di Megli, nonché un cospicuo aumento degli indici di fabbricabilità nelle vaste aree ex agricole». In realtà un primo assaggio di quello che potrebbe diventare la parte superiore della collina (quella sottostante è già stata saccheggiata dalla speculazione degli anni ‘60), compare in una serie di esposti su una mezza dozzina di presunti abusi edilizi che sono confluiti nell´inchiesta aperta dal pm della procura di Genova Patrizia Petruzziello. Le indagini in un primo tempo riguardavano il ruolo di controllore del Comune, ma in seguito, anche per il decesso di un funzionario responsabile del settore, hanno imboccato il filone ambientale. Situazioni di cui si è occupata anche Italia Nostra con esposti firmati dal presidente Federico Valerio, così come i consiglieri Verdi Carlo Vasconi e Cristina Morelli e il coordinatore di Legambiente Andrea Agostini.

«Per qualcuno - aveva detto a Repubblica Buccilli - potrà anche essere "troppo", ma sicuramente l´intervento edilizio in assoluto non può essere definito "tanto". E poi respingo le illazioni dell´opposizione che mi accusano di aver voluto favorire costruttori che votano a destra». Illazioni che sarebbero state generate dalle simpatie politiche, equamente distribuite, di costruttori e proprietari.

L´affaire Megli, e soprattutto il rischio che grazie a quel misterioso acronimo (Ar-Ta) la collina si trasformi in un cantiere di concessioni edilizi dirette, molto più semplici delle pratiche per le lottizzazioni, ha creato preoccupazioni anche a Roma.

Giovanna Melandri, oggi ministro dello Sport, quando lo era dei Beni Culturali, si interessò in modo particolare delle bellezze naturali del levante. E nel novembre 2005 scrisse, affinché intervenissero, a Regione, Provincia e Soprintendenza, una lettera di cui Repubblica è venuta in possesso. Il ministro sottolinea come quello del Golfo Paradiso sia «un territorio assolutamente peculiare...non sempre però tale valore strategico viene colto da enti locali che - mi riferisco alle singole entità comunali - spesso per mancanza di visione d´insieme e talvolta spinti da necessità materiali di corto respiro, assumono decisioni che danneggiano il territorio». Poi il ministro scende nel dettaglio sul Puc e sulla collina di Megli per denunciare «il rischio che il territorio in questione venga danneggiato o deturpato in maniera irreversibile».

Chi si rivede, l'Autostrada Tirrenica. Breve riassunto delle puntate precedenti: affossata la variante «collinare» dell'autostrada che dovrebbe collegare a pedaggio Civitavecchia con Livorno - era il progetto più costoso e più amato dall'ex ministro Lunardi, che com'è noto sugli scavi di buchi in colline aveva un certo know-how, cioè un'azienda di famiglia -, ha preso sempre più quota la variante «costiera», ossia quella vicina al mare. E vicina, oltre che a zone archeologiche, paesaggistiche, naturali di rara bellezza, anche alla vecchia cara Aurelia: tant'è che, per impedire la concorrenza della vecchia e gratuita consolare con la nuova fiammeggiante e costosa autostrada a pagamento, il progetto proponeva anche di «rottamare» parti di Aurelia, rendendole stradine di passeggio. Sulla variante «costiera», fieramente avversata dagli abitanti delle stesse coste (non solo dai villeggianti di Capalbio), voluta dalla regione Toscana e digerita alla fine anche dal Lazio, c'era però un problemino: i soldi. Chi paga? Nessun problema, ha annunciato la scorsa settimana il presidente di Sat (gruppo Autostrade) Antonio Bargone: la Tirrenica sarà a costo zero per lo Stato, ha detto il manager, già sottosegretario ai Trasporti diessino dal '96 al 2001. I suoi successori al Ministero già si leccano i baffi: tutto questo ben di dio - 205 chilometri, costo totale 3,3 miliardi - e non dobbiamo spendere un euro? Slurp! Dove li trova i soldi Bargone? Semplice: proroga quarantennale della convenzione per la Sat e garanzia di poter varare aumenti tariffari del 3% all'anno per dieci anni. Non paga Pantalone, ma i soliti tanti Pantaloncini costretti a passare per i caselli - laddove potrebbero tranquillamente usare un'Aurelia ampliata e messa in sicurezza. Il ministro Di Pietro, fustigatore dei malcostumi pubblici, metterà la sua firma sotto questo finto «costo zero»?

Villa dei Vescovi, una delle più pregiate ville venete, da due anni di proprietà del Fai (Fondo per l´ambiente italiano), verrà integralmente restaurata. È un baluardo che l´associazione presieduta da Giulia Maria Crespi mette nel cuore del Veneto, il cui paesaggio rischia l´estinzione a causa di un consumo di suolo dissennato. La Villa, che si trova nei Colli Euganei, fu acquistata da Vittorio Olcese nel 1962 e nel 2005 Maria Teresa e Pier Paolo Olcese l´hanno donata al Fai. Ieri è stato illustrato il progetto di restauro curato da Christian Campanella, mentre Domenico Luciani si occuperà del riordino paesaggistico (la villa è su un´altura, circondata da vigneti, orti e frutteti). Finiti i lavori, il Fai vuole che l´edificio diventi un «pensatoio», un luogo dove andare a leggere, a prendere un tè, a meditare, un po´ come è sempre stato nella sua storia.

Villa dei Vescovi fu costruita fra il 1529 e il 1538 da Giovanni Maria Falconetto. Ispiratore fu il grande umanista Alvise Cornaro, protettore di artisti e di filosofi, che qui ospitava, e cultore di agronomia. Cornaro e Falconetto seguirono i modelli costruttivi dell´antica Roma. I riferimenti più diretti furono Raffaello, Baldassarre Peruzzi e Giulio Romano, che ha pure collaborato al bugnato che decora l´esterno. Il vero capolavoro all´interno della villa sono gli affreschi di Gualtiero Padovano e di Lamberto Sustris. L´eccellenza è raggiunta nella riproduzione dei paesaggi euganei, che danno l´illusione di far scomparire le pareti e di aprire gli ambienti della villa allo spettacolo della natura.

Il restauro di Villa dei Vescovi contrasta i segnali che vorrebbero i Colli Euganei, ancora in buona parte integri, trasformati in qualcosa di simile alla marmellata edilizia di altre aree del Veneto. Ad Arquà, di fronte alla casa in cui morì Francesco Petrarca, uno sbancamento dovrebbe accogliere 20 mila metri cubi di costruzioni. La magistratura ha sequestrato il cantiere, ma ora si sente dire che potrebbe riconsegnarlo agli immobiliaristi. Contro l´insediamento si è schierato persino il presidente della Regione, Giancarlo Galan, che invece sostiene il progetto di un ascensore che svuoterebbe il Colle della Rocca a Monselice con un buco largo 30 metri quadrati, dal quale sarebbero estratti e poi venduti 4.500 metri cubi di trachite. Secondo Gianni Sandon, del Comitato difesa dei Colli Euganei, l´ascensore serve solo a evitare un´incantevole passeggiata verso la vetta di un colle alto 120 metri. Novantamila metri cubi di edifici incombono invece sulle Valli Selvatiche, a Battaglia Terme, un´area circondata da canali di bonifica del Cinquecento, e compresa fra la Villa Selvatico, issata su una collina, e la Villa Emo, costruita da Vincenzo Scamozzi.

Le minacce ai Colli Euganei giungono nonostante sia attivo un Parco regionale, accusato da molti di scarsa efficienza. Negli anni scorsi fu redatto da Roberto Gambino un rigoroso piano ambientale. Ma dal 2002 sono state approvate 138 varianti per nuove costruzioni. Da tempo è previsto un progetto per le Ville, ma di esso non si sa nulla. Proprio in questi giorni si è insediato il direttore del Parco, Nicola Modica, dopo due anni di vacatio. Ma, denuncia Sandon, nel suo curriculum figura soprattutto il lavoro svolto come poliziotto.

Presentando il restauro, Giulia Maria Crespi ha denunciato il degrado del paesaggio veneto ed ha chiesto che le Soprintendenze, tutte non solo quelle venete, siano rimesse in grado di svolgere la tutela. Le ha risposto il sottosegretario ai Beni culturali Danielle Mazzonis. Il ministero, ha detto, vuole invertire la rotta degli ultimi cinque anni. «Sono pronti 32 milioni di euro, più altri 79 in tre anni per far fronte alle emergenze», dice Mazzonis, «verranno assunti 3 mila precari e stanno per partire i concorsi per 40 soprintendenti». Altro impegno del ministero, assicura il sottosegretario, è la riforma del Codice Urbani rendendo vincolante la partecipazione delle Soprintendenze alla pianificazione paesaggistica delle Regioni. Un modo per evitare che di casi Monticchiello o Mantova ci si accorga quando i cantieri sono già aperti.

Strano paese l´Italia. Il Soprintendente ai Beni Architettonici e Ambientali della Liguria boccia con parole durissime il Puc, il Piano urbanistico che la giunta di centrodestra di Recco, guidata da Gianluca Buccilli, sta disperatamente e inutilmente tentando di approvare nei tempi fissati dalle osservazioni della Provincia. Giorgio Rossini, il Soprintendente, contesta al Puc, tra le tante cose, di avere una «logica parziale che nel caso dei territori collinari subordina il valore costituzionalmente garantito e prevalente della tutela del paesaggio alle aspettative edificatorie private». E più avanti «aree che rivestivano previsione agricola nel precedente piano regolatore, sono qualificate senza lo sviluppo di alcuna logica motivazione quali "ex agricole"».

Detto in soldoni, Rossini accusa Buccilli di sacrificare il paesaggio al business del mattone. La stranezza italiana, poi, consiste nel fatto che, essendo il parere arrivato in ritardo (le carenze di organico della Soprintendenza a fronte della enorme mole di lavoro è una delle piaghe della nostra pubblica amministrazione) vale come zero. Non ha alcuna forza, se non morale. Ma con quella, gli oppositori di Buccilli sanno che non si salverà la collina di Megli, un paradiso verde che cinque palazzine previste dal Puc rischiano di compromettere. La giunta fino ad oggi non è riuscita ad approvarlo, perché quattro consiglieri di maggioranza non hanno potuto partecipare al voto in quanto direttamente interessati (incarichi, proprietà) agli interventi urbanistici. Ma Buccilli spiega «che troveremo il sistema giuridico per votarlo. Quanto alle osservazioni della Provincia non abbiamo intenzione di accettarle tutte». Logico quindi attendersi una serie di ricorsi al Tar per superare le limitazioni chieste dall´ente. «Quella collina era vincolata - spiega Paolo Tizzoni vicepresidente della Provincia - ma la Regione guidata da Biasotti declassò le aree consentendo di costruire. Fosse per noi non l´avremmo permesso, ma adesso non possiamo far altro che chiedere alcune correzioni meno impattanti per l´ambiente».

«Per qualcuno - replica Buccilli - potrà anche essere "troppo", ma sicuramente l´intervento edilizio in assoluto non può essere definito "tanto". E poi respingo le illazioni dell´opposizione che mi accusano di aver voluto favorire costruttori che votano a destra».

Se Buccilli sembra sposare le tesi antirelativiste del pontefice applicate all´edilizia, di altro parere sono oppositori politici - in primis Carlo Vasconi dei Verdi che ha già presentato interrogazioni e interpellanze - e ambientalisti che ricordano come quella collina sia attraversata dall´antica via romana, custodisca uliveti e sia uno degli ultimi angoli verdi del golfo, deturpabile anche da un solo metro quadro di mattoni.

CATANZARO. “L’abbattimento dell’ecomostro di Copanello di Stalettì sarà un grande risultato della politica”. È quanto afferma l’assessore regionale all’Urbanistica, Michelangelo Tripodi, facendo riferimento alla demolizione di una megastruttura in cemento armato, con quattro corpi di fabbrica, realizzato negli anni ‘80. “Un ammasso di ferro e cemento - è scritto in una nota dell’Ufficio stampa della Giunta regionale - incastonato in un ambiente tipicamente caratterizzato da elementi rocciosi, vero e proprio scempio, frutto dell’abusivismo edilizio e dell’illegalità diffusa che in questi anni hanno deturpato il territorio calabrese”. “Il mio impegno come assessore, assieme al presidente della Regione, Agazio Loiero, - prosegue Tripodi - ha consentito di iniziare un percorso positivo per ripristinare le regole sul litorale costiero per troppo tempo lasciato nelle mani degli speculatori. È la prima volta che in Calabria si demolisce un edificio abusivo e ciò è il frutto di un impegno preciso, costante e qualificante che stiamo portando avanti come Giunta regionale e come assessorato all’Urbanistica e al Governo del Territorio. Sarà un evento eccezionale, ma non unico. Seguiranno, infatti, altri interventi per riportare la legalità e salvaguardare il paesaggio e il territorio della nostra regione”. Per Tripodi quella di domani “sarà una data storica per la Calabria che aprirà ad una nuova cultura per un uso equilibrato delle risorse territoriali. E proprio per la valenza culturale che assume tale abbattimento è estremamente importante che i calabresi partecipino all’evento, non solo i rappresentanti istituzionali ma anche i giovani, le associazioni e quanti hanno a cuore il futuro di questa terra che non dovrà mai più essere violentata dagli interessi economici ai danni del paesaggio e dell’ambiente”. “Per procedere alla riqualificazione dell’area dopo l’abbattimento dell’ecomostro - è detto ancora nel comunicato - va ricordato che tra le opere inserite nell’Accordo di programma quadro, firmato il 29 dicembre 2006, è stata stabilita una dotazione finanziaria di 600mila euro”. A Copanello ci saremo anche noi e non solo perché l’abbattimento dell’ecomostro è frutto di una battaglia che abbiamo portato avanti da molti anni, ma anche e soprattutto perché rappresenta l’inizio di una nuova stagione della legalità in una regione come la Calabria, fortemente martoriata dall’abusivismo”. A sostenerlo é il direttore generale di Legambiente, Francesco Ferrante. In una nota, Ferrante fa sapere che all’abbattimento dell’ecomostro di Copanello sarà presente una nutrita delegazione dell’associazione ambientalista proveniente da tutte le regioni d’Italia. “L’alveare di Copanello, così ribattezzato, - è scritto nella nota - è stato costruito negli anni ‘70 a due passi dalla scogliera di Stalettì, sito di importanza comunitaria per la presenza delle cosiddette Vasche di Cicerone e della tomba di Cassiodoro. I lavori furono bloccati perché avviati senza concessione edilizia e quindi lo scheletro del complesso turistico, del volume di 16 mila metri cubi, non venne mai ultimato”.

“Un risultato politico”

Il commento dell’assessore Tripodi. Ci sarà anche Legambiente

CATANZARO. Quattro corpi di fabbrica di cui uno di cinque piani fuori terra, due di sei piani fuori terra, e un ultimo di nove piani con andamento a gradoni intervallati da vani e scale di collegamento in cemento armato. È questo il complesso edilizio, comunemente noto come “ecomostro di Copanello”, che sarà demolito oggi, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, del ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, Alfredo Pecoraro Scanio. La costruzione è stata realizzata in pochi anni, a partire dell’agosto 1980, con una licenza edilizia mancante di alcuni pareri di enti preposti ed è uno degli undici ecomostri d’Italia da abbattere. Il complesso, che sorge nel comune di Stalettì sulla costa jonica catanzarese, si trova a vicino alla battigia e il luogo è caratterizzato dalla presenza, a poca distanza, di un sito archeologico nel quale si troverebbe la tomba di Cassiodoro e del suo Vivarium, prima struttura universitaria e di studi sistemici in Europa. Il 29 dicembre scorso era stato siglato a Roma l’Accordo di programma quadro tra la Regione Calabria, il ministero dell’Economia e delle finanze e quello delle infrastrutture e dei trasporti sulle Emergenze urbane e territoriali. L’atto dopo che la Giunta calabrese aveva deliberato, su proposta dell’assessore all’Urbanistica e governo del territorio, Michelangelo Tripodi, l’approvazione di questo accordo in tema di salvaguardi ambientale. Per l’assessore, è uno dei provvedimenti più significativi, che pone la Calabria all’avanguardia tra le altre regioni italiane ed europee in materia di tutela del territorio. Il quadro complessivo delle risorse finanziarie disponibili ammonta a cinque milioni di euro. Al momento, sono stati giudicati tecnicamente e giuridicamente realizzabili nove interventi. Tra questi, appunto, l’abbattimento del complesso di Copanello e il successivo recupero ambientale dell’intero contesto paesaggistico. Nell’area, sono previsti interventi di bonifica idraulica con la realizzazione di sentieri pedonali e messa a dimora di piante tipiche della zona. Ora, dopo anni di attesa e rinvii, l’inizio dei lavori di demolizione. Domani, alle 10,30, il presidente della Regione, Agazio Loiero e gli assessori Michelangelo Tripodi e Diego Tommasi, terranno una conferenza stampa alla presenza del ministro Pecoraro Scanio, proprio sul luogo della demolizione, in località San Martino di Copanello. Poi, entreranno in scena le ruspe dell’impresa Fiore, ditta che si è aggiudicata la gara d’appalto lo scorso ottobre, per il prezzo, in via provvisoria, di 170.960 euro, al netto del ribasso d’asta del 36,66 %, su sei ditte partecipanti. “Per la Calabria sarà una giornata memorabile. Sarà cancellata una bruttura ambientale, un vero e proprio sfregio al territorio e si concretizzerà una politica di legalità”. È quanto afferma il presidente della Regione, Agazio Loiero alla vigilia dell’inizio dei lavori di demolizione dell’“ecomostro” di Copanello. “Domani, infatti, presente anche il ministro all’Ambiente Pecoraro Scanio - prosegue Loiero in una nota dell’Ufficio stampa della Giunta regionale - inizieranno i lavori di demolizione di una delle costruzione abusive da anni in cima alla classifica italiana degli ecomostri. Questa Giunta non tollera i guasti del passato ed è attenta a evitarne per il futuro. Dal 1987 esisteva un’ordinanza di demolizione. Ma solo lo scorso anno è stato firmato un protocollo di intesa fra la Regione Calabria, la Soprintendenza regionale ai beni ambientali e il Comune di Stalettì per l’abbattimento. Inoltre, il 29 dicembre dello scorso anno, tra Regione ed i Ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture è stato siglato l’Apq Emergenze urbane e territoriali”. “Si tratta - ha sostenuto ancora Loiero - di un piano incisivo per la valorizzazione del paesaggio e la difesa del territorio che riguarda interventi per il recupero dei siti degradati nel quale rientrano non solo Copanello, ma anche altri nove comuni. Interventi che assumono un alto valore simbolico, una riconquista della cultura della legalità che non consente più speculazione e degrado”. Alla conferenza stampa, che precederà l’avvio della demolizione, oltre al presidente Loiero e al ministro Pecoraro Scanio, parteciperanno anche gli assessori, al Governo del Territorio, Michelangelo Tripodi e all’Ambiente, Diego Tommasi.

Duro, anzi durissimo. Il braccio di ferro tra il Comune di Vicenza e il governo sull’allargamento della base Usa, non solo si inasprisce ma si estende alla Regione che si schiera a fianco dell’amministrazione municipale berica. Sul caso però si allunga anche l’ombra di una crisi Italia-Usa, accentuata dalle accresciute distanze tra Roma e Washington per l’intervento Usa in Somalia e per la politica di Bush in Iraq. Ieri il presidente Prodi è stato in proposito di ghiaccio: «Bush dovrebbe trarre migliori lezioni dal rapporto Baker». Un macigno sulla tradizionale amicizia tra Usa e Italia. E in questo contesto non facile si inserisce lo spinoso caso dell’ampliamento della base Usa di Vicenza sul quale il governo «sta riflettendo».

Un caso, del resto, diventato scottante dopo la forte contestazione di tre giorni fa, a Vicenza, nei confronti dell’ambasciatore americano Spogli che ieri, dopo Prodi, ha visto il ministro D’Alema.

Il «go home» all’ambasciatore, anzi, ha acceso una vera e propria rissa verbale tra centrodestra e centrosinistra che sembra destinata a spegnersi non molto presto. «Troverei assurdo e dannosissimo il distacco degli americani da Vicenza - ha detto il presidente del Veneto, Galan, in una nota -, un distacco che di sicuro avrebbe serie ripercussioni sul piano politico generale, sull’immagine di Vicenza e del Veneto negli Usa e nel resto dell’Occidente, tranne che a Cuba o nel Venezuela di Chavez». «Siamo di fronte ad una vicenda che già troppi danni ha fatto nei rapporti internazionali e nelle alleanze politiche e militari del nostro Paese - prosegue il presidente - Danni causati dall’incredibile ma fortemente sospetta inerzia del governo, che avrebbe dovuto farsi promotore già da tempo di una soluzione adeguata e quindi vantaggiosa per Vicenza, per l’Italia, per la nostra alleanza con gli Usa».

Il sindaco di Vicenza, Enrico Hullweck, da parte sua, è tornato sul «duello» a distanza con il ministro degli Esteri D’Alema. «Premesso - dice il sindaco - che avrei gradito da D’Alema una parola di solidarietà per i due agenti della polizia locale e per la dipendente comunale picchiati dai dimostranti, che volevano malmenare l’ambasciatore Spogli».

A ribattere per il centrosinistra sono stati Mauro Bulgarelli, senatore dei Verdi, e Laura Fincato, deputato dell’Ulivo. «L’ambasciatore Usa Spogli è venuto a Vicenza per esercitare pressioni assolutamente indebite sulle autorità locali, minacciando rappresaglie sul piano occupazionale se non dovesse andare in porto il raddoppio della Ederle».

«Il sindaco Hullweck porta la responsabilità della situazione che si è creata intorno alla base Usa Dal Molin: ha gestito tutta la vicenda all’insaputa della città e del Consiglio comunale», afferma infine Laura Fincato, secondo la quale «se il sindaco di Vicenza fosse stato più trasparente nei confronti della proposta degli Stati Uniti, che sono un paese amico, si sarebbero evitate le disdicevoli contestazioni all’ambasciatore Spogli». Fincato, che coglie l’occasione per esprimere solidarietà all’ ambasciatore, conclude dicendo che «i cittadini di Vicenza decideranno, come è giusto che sia, con il referendum il futuro della base, dopo che il sindaco aveva occultato la trattativa con gli Usa».

Nella disputa si è infine inserito il presidente degli industriali di Vicenza, Massino Calearo, secondo il quale «la gestione politica della vicenda Dal Molin prima era deludente, ora è preoccupante».

Sull'argomento, in eddyburg articoli del 18.08.2006, 26.10.2006, 18.11.2006, 03.12.2006.

L’inverno del nostro scontento»: l’espressione che Shakespeare mette in bocca al futuro re Riccardo III è stata usata molte volte come metafora di quella protesta sociale serpeggiante prende forma in certi periodi freddi. Una protesta che propende ad autoalimentarsi, nutrendosi di una diffusa insofferenza, intessuta di un malessere sordo. È una metafora che sembra tagliata su misura per la situazione che l’Italia vive in queste settimane e ha l’aspetto d’un malcontento generalizzato, che non sembra sanabile ricorrendo agli strumenti consueti. Come se uno stato di sfiducia, che si riproduce continuamente, fornisse l’impulso a manifestazioni che finiscono col travalicare l’ambito cui si riferiscono per investire una dimensione generalizzata, estesa un po’ a tutto.

Contratti di categoria rinnovati a termini scaduti

Le città hanno evitato all’ultimo momento di subire la fermata del trasporto locale che le avrebbe poste in difficoltà se si fosse attuato lo sciopero indetto per ieri. Ma l’intesa in extremis non ha spento del tutto la protesta dei sindacati non confederali, che si è espressa in riduzioni occasionali del servizio, com’è successo a Milano, dove ieri mattina la metropolitana funzionava in modo parziale. Lo sciopero Alitalia ha invece avuto effetto, mentre vi sono stati fenomeni di microconflittualità sui treni, con disagi sull’asse Torino-Milano. Tutti segni che, sommandosi ai fischi e ad altre proteste, non solo possono essere considerati come prova della disaffezione verso il governo, ma sono destinati ad accentuarla. Come non avvertire un senso di disillusione di fronte al fatto che certi contratti di categoria continuino a essere rinnovati quando i termini sono largamente scaduti e che, soprattutto, non vengano rivisti i criteri che regolano la prestazione di lavoro in alcuni comparti? È chiaro che più nessuno pensa che, chiuso un periodo di conflittualità, non se possa aprire un altro, magari quasi immediatamente.

La caduta degli standard e le promesse credibili

Nel campo delle infrastrutture, la discrasia fra le dichiarazioni di intenti e la realtà vissuta da numerosi cittadini-utenti dei servizi è massima. Da una parte, le cronache riportano di interminabili tavoli di progetto su grandi opere destinate - forse - ai nostri nipoti, mentre la caduta degli standard di efficienza e qualità in sistemi come i trasporti è verificabile quotidianamente e le cifre sui dissesti di gestione appaiono sempre più inquietanti e problematiche da rimediare. La via d’uscita dall’impasse attuale non sta nel preannunciare grandi misure d’intervento e progetti che per essere sviluppati hanno bisogno di un arco temporale medio-lungo. Ciò di cui necessita adesso il nostro sistema infrastrutturale è una vasta, meticolosa e puntuale opera di manutenzione dell’esistente, senza di cui nessuna prefigurazione di un soddisfacente futuro assetto risulta credibile. Un programma di manutenzione che non può essere fatto soltanto d’interventi sulle strutture materiali, prescindendo da un’azione condotta sulle relazioni di lavoro, con la capacità e l’intenzione di fare della contrattazione collettiva con le rappresentanze dei lavoratori uno strumento valido di regolazione, sia per quanto attiene l’efficienza organizzativa che le condizioni di lavoro. Senza questo passaggio, il malcontento non potrà che essere permanente.

I due ampi articoli di Vittorio Emiliani pubblicati sull'Unità del 26 e del 29 novembre, sul «Belpaese da salvare» hanno non solo riproposto con una certa drammatica attualità il problema (la documentata analisi con tanto di cifre e riferimenti specifici, forniti dall'Autore non concedono spazi al dubbio o alle ipocrisie) ma dovrebbero indurre politici, pubblici amministratori (locali e centrali), uomini di cultura (urbanisti, sociologi, economisti, geologi ecc.) e del mondo delle professioni (architetti, ingegneri, costruttori) ad una seria riflessione. Ciò che stiamo ogni giorno «mangiando» (per dirla con Emiliani) del Bel Paese non è più riproducibile ed è destinato ad incidere negativamente sul futuro delle prossime generazioni. All'inizio degli anni Sessanta nel pieno di una rovente polemica scoppiata a Torino sul nuovo piano regolatore e più specificatamente su tremila licenze edilizie rilasciate dall'amministrazione comunale centrista in contrasto con il Piano stesso, un autorevole esponente democristiano (l’avvocato Valdo Fusi) sensibile ai problemi urbanistici aveva ironicamente accusato un suo amico di partito (l'assessore Silvio Geuna) di «avere fatto più danni alla città di quanti non ne avesse fatti la Seconda guerra mondiale». Non si trattava di un paradosso, ma di una verità. La guerra, con i suoi terrificanti bombardamenti aerei (più di un terzo del patrimonio edilizio di Torino andò distrutto) non aveva compromesso definitivamente l'uso del territorio. Anzi, nella sua grottesca crudeltà aveva consentito nella fase della ricostruzione post-bellica, di rimodellare il tessuto urbano.

Ciò che sta accadendo oggi in Italia a danno delle città e del paesaggio (processo di degrado avviato con virulenza a partire dagli anni Ottanta) è molto peggio di una terza guerra mondiale, poiché compromette definitivamente un patrimonio non riproducibile come il territorio. L'importante riflessione di Emiliani mi induce ad alcune considerazioni integrative che così riassumo.

1) Regime dei suoli. Nel programma dell’Unione di Prodi si denuncia che il governo di centro-destra «ha favorito un’abnorme crescita delle rendite immobiliari», ma non si dice esplicitamente cosa si intende fare per colpire quella «rendita parassitaria» così definita da un pontefice ultra-conservatore come Eugenio Pacelli, che l'aveva condannata. Negli ultimi cinquant'anni (dopo la legge del 1942) l'unico che abbia avuto il coraggio di avanzare una proposta scritta di riforma urbanistica fu un ministro democristiano (poi finito malamente nei social-democratici), Fiorentino Sullo, nel 1964, quando reggeva il dicastero dei lavori pubblici. Si scatenò il finimondo contro quella proposta elaborata e sostenuta dall'Inu (Istituto Nazionale Urbanistica) nel suo congresso di Cagliari. Ricordo in particolare il contributo di Bruno Zevi, dei torinesi Gabriele Manfredi e Alberto Todros, di Michele Achilli, di Giovanni Astengo e di tanti altri illustri urbanisti.

La reazione dei cosiddetti «poteri forti» fu così violenta che il segretario nazionale della Dc dell'epoca, Aldo Moro, si precipitò alla televisione per sconfessare il suo ministro e prendere le distanze da quel provvedimento che in altri paesi civili europei era norma da decenni.

Pietro Nenni, nei suoi diari, quando parla di «rumor di sciabole», cioè del famigerato «piano solo» del Generale De Lorenzo, allude esplicitamente alla Legge Sullo, che avrebbe nientemeno che provocato un tentativo di colpo di stato, un golpe, pur di fermare una riforma che voleva colpire la speculazione sulle aree fabbricabili.

Perché, ancora oggi, il centro-sinistra e gli intellettuali non legati alla peggiore cultura della rendita parassitaria (camuffata da libero mercato) hanno totalmente rimosso il problema di una nuova regolamentazione del regime dei suoli? L'incidenza del valore attribuito al terreno reso edificabile è esorbitante rispetto al costo dei fabbricati: il prezzo degli affitti, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, ha raggiunto livelli proibitivi. Nel contempo gli investimenti per l’edilizia «economica e popolare» da parte degli enti pubblici - come ci ricorda Emiliani - sono ridotti al lumicino. Domanda: c'è un programma di intervento del governo in questo settore? Il ministro Di Pietro che tanto si affanna per la Tav, strapazzando sindaci e popolazione della Valle di Susa (indipendentemente dalle questioni ambientali) ci vuole dire il costo aggiornato dell'alta velocità? Nel 1991 era stato previsto in 9203 milioni di euro. A distanza di quindici anni (secondo dati desunti da documenti della Tav spa, Rfi e Fs) è salito a 38500 milioni di euro, con un aumento del 418%. Non è casuale che sia stata presentata una proposta di legge per una commisione d'inchiesta parlamentare su tutta la vicenda a partire dalla lievitazione dei costi sino alle infiltrazioni camorristiche negli appalti relativi alla tratta Napoli-Roma.

Come sarebbe bello vedere i nostri ministri, i presidenti di regione, i sindaci delle grandi città accalorarsi per avere più strumenti per la difesa del suolo e per un programma serio per il recupero del grande patrimonio immobiliare fatiscente, abbandonato. Purtroppo non è così. Si continua a «mangiare», ogni giorno, fette di territorio soprattutto lungo le coste del Belpaese, ma anche nelle grandi città dove un certo tipo di processi di deindustrializzazione ha liberato milioni e milioni di metri quadrati di aree. Per le coste cito quella più vicina al mio Piemonte e che meglio conosco. Consiglio un viaggio da ponente a levante della Liguria, da Ventimiglia a La Spezia. Un vero saccheggio. La Regione, il mio amico e antico compagno Claudio Burlando (già ottimo sindaco di Genova) non vede, non sente, non parla. Così dicasi per le aree industriali dismesse. A Torino hanno realizzato la cosiddetta Spina3 (ex ferriere Fiat e altre fabbriche) che di fatto è un nuovo ghetto, di lusso, ma sempre ghetto. La densità consentita è da capogiro. È stata teorizzata e santificata la rendita sui suoli quale incentivo per gli investimenti e quindi per lo sviluppo tutto all'insegna della falsa modernità nuovo simbolo della cialtroneria politica, culturale e sociale.

2) Piani regolatori. A partire dagli anni Ottanta il revisionismo in campo urbanistico ha contrapposto alla politica dei «piani» quella dei «progetti». La tesi, in sintesi, è stata questa: i piani regolatori ingessano le città, bloccano l'attività edilizia perché i comuni non hanno i mezzi finanziari per procedere agli espropri. È stata così inventata la pratica del progetto, cioè la politica del carciofo, del singolo lotto, avviando quella che fu definita l'«urbanistica contrattata», tra pubblica amministrazione e privati interessati alla edificazione. Sono gli anni della «Milano da bere», con giunte di sinistra (Psi e Pci) che fanno da battipista: sciaguratamente quella politica della contrattazione caso per caso, fu l'anticamera di Tangentopoli.

L'Istituto Nazionale d'Urbanistica, allora presieduto da una nobile figura come quella del senatore Camillo Ripamonti (democristiano) sostenne una dura battaglia contro questo orientamento a fianco dei migliori urbanisti militanti nel Pci e nel Psi. Ripamonti fu successivamente un ottimo presidente dell'Associazione dei Comuni (Anci), e anche da questo fronte fece sentire la sua voce. Ma l'onda liberista, riformista, modernista, ebbe il sopravvento. Oggi a Torino, ad esempio, gli attuali dirigenti dell'Inu se non sollevasse troppo scandalo sarebbero disposti a sopraelevare anche lo storico Palazzo Madama. Le voci della cultura urbanistica scientificamente valida si sono affievolite, direi si sentono mortificate e si contano in Italia sulla dita delle mani di un mutilato.

3) Governo delle aree metropolitane. Ne ho sentito parlare per la prima volta nel 1956, al congresso dell'Inu, presieduto allora da Adriano Olivetti, con all'ordine del giorno: «i piani regolatori intercomunali». Dopo anni di discussioni e di battaglie si giunse a definire le aree metropolitane dando loro dignità istituzionale inserendole addirittura nella Costituzione (art. 114: la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato). Gli oppositori più accaniti a questa fondamentale riforma anche ai fini dell'uso del territorio sono stati soprattutto, purtroppo, i sindaci delle grandi città, compresi quelli di sinistra. Tanto per non far nomi nelle passate tornate amministrative si sono distinti in senso negativo il sindaco di Roma Rutelli e quello di Napoli Bassolino. L'idea di «spezzare» il comune capoluogo per dare vita alle municipalità è stato vissuto come un atto di lesa maestà: Dio me l'ha dato il potere, guai a chi me lo tocca. Ancora il mese scorso il sindaco di Torino con il suo noto real-understatement ha dichiarato pubblicamente: «una città come Torino potrebbe reggersi anche senza circoscrizioni (di municipalità manco se ne parla, ndr) per dirla in maniera tranchant». Un tempo il decentramento e la partecipazione per il controllo e la gestione del territorio facevano parte di «quel fervore culturale (...), di quella elaborazione generosa e avanzata» di cui parla Emiliani, patrimonio non solo della sinistra, ma della migliore cultura italiana. Il grido di allarme lanciato dalle colonne dell'Unità deve far pensare sul grado di «mutazione genetica avvenuta a sinistra». L’autore dei due articoli conclude la sua importante riflessione con questa domanda: «Vogliamo precipitare ancora? Siamo sulla buona strada». Per quanto mi riguarda confermo.

LA guerra alla cementificazione delle nostre coste passa anche attraverso quel "gendarme" dell´architetto Giorgio Rossini, soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria. Che chiede ai costruttori di porti di smetterla con le colate, puntando sui silos per barche. Che reclama - nel nome delle sempre più scarse risorse idriche - un gesto concreto da quelli che si occupano di seconde case: dissalatori per i nuovi immobili destinati a lombardi e piemontesi. E ancora: «Vorrei non vedere più progettisti privati che sono anche membri delle commissioni edilizie».

Al presidente della Regione, Claudio Burlando, che in tema di lotta alla speculazione senza troppi giri lo aveva invitato a darsi da fare e bocciare i progetti che non convincono, l´architetto Rossini replica: «Il nostro potere è limitato, io vorrei invece che la Regione esercitasse un controllo maggiore su Comuni e Province. La legge regionale in materia di difesa del territorio è ottima, ma subdelegando agli enti, diventa fondamentale una verifica che oggi non esiste».

Ai costruttori di porti ha chiesto uno sforzo di fantasia. Che realizzino silos per barche, in modo da risparmiare quel poco che resta della nostra costa. Dai costruttori di seconde case vorrebbe un gesto concreto nella battaglia contro lo sfruttamento delle nostre, sempre più scarse, risorse idriche: dissalatori per i nuovi immobili destinati a lombardi e piemontesi.

L´architetto Giorgio Rossini, soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria si definisce un "gendarme" ma non un "integralista". Nel senso che pur avendo intrapreso una crociata contro le colate di cemento sulle riviere, è, ad esempio, un sostenitore del grattacielo («magari un po´ limato in cima») di Fuksas ad Albissola. Il suo contributo al dibattito sulla cementificazione contiene proposte innovative e considerazioni critiche sul ruolo degli amministratori («vorrei non vedere più progettisti privati che sono anche membri delle commissioni edilizie»). Rossini ne discuterà domani mattina a Savona, nel palazzo della Provincia, con l´assessore regionale all´ambiente Franco Zunino, il sottosegretario del ministero dell´ambiente Laura Marchetti, l´urbanista Vezio De Lucia ed altri interlocutori nel convegno "Salvaguardia della fascia costiera" organizzato da Italia Nostra. Previsto l´intervento del presidente della Regione Sardegna Renato Soru.

Soprintendente, lei ha già espresso la sua preoccupazione di fronte all´esplosione del fenomeno immobiliare. Alla vigilia di nuove colate cosa state facendo per "limitare" i danni?

«Intanto il nostro lavoro nelle commissioni che, anche se con difficoltà, ogni tanto riesce ad essere efficace e ottenere annullamenti o modifiche. Le faccio l´esempio del progetto per il nuovo porto di Ventimiglia per il quale abbiamo chiesto drastiche riduzioni per le opere a terra».

Secondo gli ambientalisti, i porticcioli sono il cavallo di Troia per il business delle seconde case.

«È vero, ma detto questo mi rendo conto che in alcune punti della costa la nautica da diporto deve trovare spazio. Il punto è come. «

Qual è la sua proposta?

«Quella che sto comunicando ai costruttori ogni volta che li incontro. Si parte da una considerazione. I porti turistici di oggi sono larghe estensioni che mangiano la costa ma che vivono solo tre mesi all´anno, per i restanti nove sono abbandonati. Allora perché non imparare da Inghilterra e Olanda dove esistono silos per barche. Certo non per le più grandi, ma per le piccole e medie, che sono la maggior parte. Ricoveri su più piani, per ridurre l´impatto e razionalizzare l´utilizzo degli spazi».

Sistemati i porticcioli restano le case. Anzi le seconde case.

«Sull´edilizia la nostra posizione è chiara. Prima di tutto bisogna salvare il levante, la riviera spezzina che è uno dei luoghi più belli del mondo. A Framura, ad esempio, noi e la Regione siamo divisi su un Puc che aumenterà l´edificabilità di molte zone. Avrei voluto parlarne al convegno di Savona, ma in questo caso il mio interlocutore naturale è l´assessore all´urbanistica Carlo Ruggeri che purtroppo non è tra i relatori».

Torniamo alle seconde case.

«Abbiamo lanciato una proposta ad architetti e imprenditori che non sembrano però molto interessati. Anche qui parto da una considerazione sulle risorse naturali, poche e ipersfruttate. Vorrei che i nuovi insediamenti venissero dotati di dissalatori di acqua marina, per risparmiare l´acqua di fonte dei liguri. Credo che gli enormi ricavi del business possano permettere spese extra come queste. Così come sarebbe interessante un discorso sull´energia, sui pannelli solari o le centrali eoliche».

La situazione della riviera di ponente.

«Siamo già al collasso, e bisogna cercare di limitare al massimo. C´è una corsa a dotarsi di nuovi porticcioli, Ceriale, Albenga, Pietra Ligure. Per quello di Ospedaletti la Regione ha dato parere favorevole e noi abbiamo chiesto aggiustamenti. In linea di massima siamo favorevoli all´edilizia alberghiera o agli agriturismi, ma il mercato vuole seconde case. Sto seguendo la situazione di Finale per la quale è previsto un´operazione gigantesca. D´accordo per l´intervento nelle ex cave Ghigliazza che sono una ferita al territorio. Molto di meno per l´ipotesi sull´area oggi occupata dalla Piaggio. Ci stiamo trasformando in una riviera dormitorio, dove a fronte di uno sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse, gli unici che ne hanno beneficio sono i costruttori e i proprietari dei terreni».

E a chi vi accusa di essere solo contro?

«Non è così. Sono favorevole alla contestata struttura alberghiera alle Cinque Terre, dove ora ci sono ruderi e abbandono. E lo sono anche ai grattacieli sulla costa, naturalmente in casi eccezionali. Penso al progetto dell´architetto Fuksas per la Margonara. Quella è un´area degradata, praticamente all´interno del porto di Savona. È un progetto che caratterizza in positivo. Poi credo che sia prevista una destinazione totalmente alberghiera (in realtà ci sarà anche una parte residenziale, ndr). L´unica cosa è l´altezza, forse un po´ esagerata, ci vorrà una spuntatina... «.

VICENZA Più che pacifici, Abele al confronto è un attaccabrighe, persino i gramigni del Gramigna erano gentili e vellutati come un prato inglese. Salvo i petardi di prammatica tirati sulla recinzione dell’aeroporto Dal Molin e gli sputi di ordinanza alla divisa, la manifestazione di Vicenza è stata ordinata, pacifica e persino festosa. Onore al carabiniere che si detergeva la visiera con la mano destra, la sinistra sul lancia fumogeni, per la gentilezza usata nell’arretrare allontanandosi dalla recinzione e per la compassione politica mostrata nel sapere che dava fastidio a vista: la nazione della pace scesa ieri in piazza a Vicenza contro il raddoppio della base americana Ederle ha messo in campo tutte le sue eterogenee componenti, dalla cattolica alla comunista, dalla verde-no global alla diessina passando per le sfumature anarchiche e centrosociali, ognuna delle quale inconfondibili.

Stili e fede condividevano il lungo corteo che da viale della Pace (grosso modo dove sorge l’attuale Ederle) per otto chilometri si è snodato attraversando il centro cittadino fino a raggiungere Lobbia, il paese che fa da confine al lato più esterno del Dal Molin.

Qualcuno giura di aver visto una croce uncinare tra le bandiere nere degli anarchici, ma non è sicuro e, se anche fosse, persino l’occasionale passaggio dato a dei nazi-antiamericani non dimostra niente se non il fatto scontato che l’ecumenismo pacifista, nel momento in cui si esercita, deve pagare i suoi prezzi: il più evidente è l’antiamericanismo, antifona comune a tutti gli slogan, nota di fondo e humus psicologico di ogni cuore weapon-free che ha sfilato ieri.

Il sindaco Hullweck sbagliava, temeva la discesa dei fantomatici black-bloc del G8 genoano, ma al Brennero non s’è visto niente e tutta l’apprensione dell’amministrazione comunale si è risolta il giorno della vigiglia con la lite tra il primo cittadino che non voleva il corteo in città e il prefetto Rotondi che lo autorizzava. Uno a zero per il prefetto.

Città blindata, ma con decoro, ottimo il servizio d’ordine della Cgil che ha offerto il meglio dell’antica sapienza stringendo i no-global in un panino di sindacalizzati a prova di bomba.

Anche i Comunisti italiani di Diliberto hanno fatto in modo di risparmiare al loro segretario la brutta figura di tre settimane fa a Roma quando tre soldati vennero bruciati in effige, un americano, un inglese e un italiano. Non si sono nemmeno sentiti gli osanna a 10-100-100 Nassiriya.

Non voleva essere la risposta al Berlusconi di Roma, ma un contrappunto sì, se non altro per gli orari coincidenti e la rappresentazione grossier che vien fuori di due etnie, italiane entrambe ma abitanti su differenti pianeti.

Gli osservatori imparziali parlano di 20 mila persone, i più coinvolti di 40-50 mila, un successo comunque, costruito tenendo fuori le motivazioni più locali ostili all’allargamento americano (viabilità nel caos, profilo urbano deturpato, etc.) per prediligere quelle politiche ed ideologiche: di fatto la manifestazione era contro il Dal Molin non più di quanto poteva essere contro gli americani in Iraq e gli israeliani a Gaza; slogan e bandiere gloriavano la lotta dei palestinesi e la «resistenza» dei tagliagole islamici in Mesopotamia.

Anche qui solo e a causa di una distorsione percettiva dovuta alla supremazia vocale dei più estremisti, gli unici che strillavano gettando un’indebita omologazione sulla stragrande maggioranza dei manifestanti tra cui erano evidenti solidi e sobri padri di famiglia operaia, fervidi e schivi cattolici, giovani delle superiori in cerca di aggregazione e comunisti sentimentali, tanti questi, sopravvissuti alle dure repliche della storia e per questo malinconici.

Il professionismo era rappresentato da Paolo Cacciari, Luca Casarini e Max Gallob, consolidati manifestatori; ma a un tiro di slogan c’eranol’ex-lighista Renato Rocchetta assieme alla leghista vicentina «rinnegata» Franca Equizi con il consigliere circoscrizionale verde Olag Jackson, figlio di marine americano ed esso stesso dimostrazione di un ben riuscito melting-pot berico-texano.

L’antipatia per lo zio Sam, quello che ti guarda dai muri e ti dice «I want you», ha a Vicenza la sua variante americana o, come dicono a casa loro, liberal.

Tom, per esempio, gestore di un bread & brekfast dalle parti di Ponte Pusterla, e i suoi amici radical di Seattle e bostoniani dell’est più europei di un europeo.

Nel campetto di Lobbia i comizi sono stati aperti da un saluto di un indio Mapuche della Patagonia membro della comunità che lotta contro Benetton per le terre che l’industriale ha comprato levandogliele da sotto in piedi che neanche Pizzarro. Sono seguiti gli interventi dei Comitati cittadini che formano l’assemblea permanente contro l’ampliamento della base: il Comitato di Caldogno, quello di Sant’Antonino (il più vicino al Dal Molin) e quello cittadino di Vicenza. Ha parlato anche Luca Casarini per i Centri Sociali del Nordest, Arci Giovani, Rdb-rappresentanze di base Cobas, una rappresentante del Movimento Anarchico piemontese No-Tav, dei partiti Prc e Verdi.

Presenti pr l’Unione le parlamentari Luana Zanella (Verdi), Lalla Trupia (Ds) e Laura Fincato (Margherita).

Per dire del multiuso c’era anche Luciano Mazzolin (Prc), portavoce dell’assemblea NoMose contro le dighe mobili nella laguna di Venezia: «Siamo anche qui - ha detto - ad esprimere solidarietà contro la gestione privatistica del territorio, a Venezia come a Vicenza». Il Gramigna ha irriso a Bertinotti e Diliberto, quest’ultimo definito «servo dei padroni, prima scende in piazza, poi voti le missioni».

Giovanni di Castelfranco, classe 1942, alpino di leva nel 1965, sostiene che «il cappello si porta sempre (il suo ha la bandierina arcobaleno), caso mai è la clava delle armi che va riposta. Non serve più».

L’aria è rilassata, Bonck (ce l’ha scritto sulle falangi come Jacky nei Blus Brothers quando esce dal carcere) riprende i carabinieri con il cellulare.

Due skin-head, rasati e borchiati come si deve, allontanano da sé il sopetto che li vuole a destra spiegando che sono i discendenti inglesi di una lunga storia, sempre di sinistra, da quando i Rude Boys fecero pace con i Mods e la guerra dei figli della Jamaica con i fighetti Wasp della Britannia finì. Ma questo è secondario. Richiesti dei nomi rispondono: «Io Adolf, lui Hitler».

Titolo originale: Spanish parliament begins debate on law to rein in rampant urban development – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

MADRID – Un disegno di legge per contenere il rampante sviluppo urbano e la speculazione immobiliare in Spagna ha superato il suo primo passaggio per diventare legge giovedì, dopo la fase di dibattito alla camera bassa del parlamento spagnolo.

La maggior parte dei partiti politici hanno presentato emendamenti al disegno proposto dal Ministro per la Casa Maria Antonia Trujillo, quindi ci potrebbero volere mesi prima dell’approvazione finale.

In apertura del dibattito, la Trujillo ha descritto la legge come “progetto contro la speculazione urbana, a favore della trasparenza e della partecipazione dei cittadini”.

Il progetto è finalizzato al contenimento del boom edilizio che nello scorso decennio ha visto grossi insediamenti residenziali, campi da golf e complessi turistici spuntare in tutto il paese.

Jose Luis Carretero, del gruppo Piattaforma per la Casa Giusta, ha affermato che il boom è prossimo a trasformarsi in una bolla insostenibile, che potrebbe causare un rallentamento economico se dovesse scoppiare.

“Abbiamo un gruppo che studia il progetto di legge, e può darsi che riesca a impedire un po’ degli eccessi che stiamo vedendo, ma secondo la mia opinione si sarebbero dovute prendere misure molto più drastiche per contenere questi eccessi” dice Carretero.

La Trujillo ha lamentato come la gran maggioranza delle case non siano destinate ad abitazione, ma siano alimentate dagli investimenti speculati, modi rapidi perché i costruttori possano arricchirsi. Molti dei progetti si realizzano in assenza di programmi di adeguate infrastrutture, in termini di fornitura idrica e trasporti.

Uno degli esempi proposti dal governo è un progetto, ora bloccato, per la città orientale di Cullera, che ha 22.000 abitanti, per costruire decine di edifici ad appartamenti da 25 piani, che avrebbero contenuto circa 20.000 persone.

Nella cittadina di Sesena, vicino a Madrid, 10.000 abitanti, le autorità hanno approvato un ampliamento per 13.500 abitazioni, che potrebbe ospitare oltre 40.000 persone.

Col nuovo progetto di legge, i socialisti sperano di imporre più adeguate procedure di valutazione per qualunque progetto preveda incrementi di popolazione superiori al 20%. Inoltre, il 25% delle nuove abitazioni in questi progetti dovrebbe ricadere in un programma a controllo governativo di abitazioni sussidiate.

I media spagnoli riportano quotidianamente casi di corruzione nel settore edilizio e pagamenti sottobanco. Nello scandalo più importante, sono state arrestate quasi 60 persone, con accuse di frode immobiliare relative alla località turistica meridionale per il jet-set di Marbella, compreso un ex sindaco, e molti consiglieri e costruttori.

Il nuovo progetto di legge va a sostituirne uno approvato nel 1998 dal governo di centrodestra del Partido Popular, accusato dai socialisti di consentire sostanzialmente l’edificazione di tutto il territorio non specificamente protetto.

Alcuni partiti lamentano che la legge entrerebbe in conflitto con i poteri regionali sulla casa.

Carretero sostiene che se il progetto fosse approvato avocherebbe al governo centrale i poteri urbanistici attualmente prerogativa esclusiva delle amministrazioni locali. Ora quasi tutte le decisioni relative all’uso dello spazio ricadono nelle competenze locali. Il governo centrale vuole una maggiore apertura del processo, spiega Carretero.

Carretero avverte che la legge poco probabilmente riuscirà ad essere approvata, se il Partido Popular all’opposizione la bloccherà all’ultimo gradino, della Corte Costituzionale.

“Prevediamo di tenere manifestazioni fuori dalla corte, per assicurare che l’opposizione non blocchi la legge” conclude Carretero.

La Piattaforma per la Casa Giusta ha mobilitato decine di migliaia di persone in dimostrazioni a Madrid, Barcellona e Valencia chiedendo una modifica delle leggi sulla casa, per consentire ai giovani di avere più accesso alle abitazioni economiche.

here English version

TORINO - Mentre Prodi e Chirac chiedono all´Ue di finanziare la Torino-Lione, i fronti si spaccano. Tutto si muove nella battaglia sulla Tav in Val di Susa. Si divide il fronte del no ma anche sulla sponda opposta si avvertono sinistri scricchiolii. Alla data del settembre 2007, concordata da Prodi con Bruxelles per una decisione definitiva, si arriverà probabilmente con un quadro di posizioni assai diverso rispetto a quello di oggi. Le dichiarazioni di Di Pietro ieri al vertice di Lucca hanno gettato benzina sul fuoco della protesta valligiana proprio quando i sindaci, che quella protesta avevano cavalcato, si trovano nella scomoda posizione di essere attaccati da una parte del movimento «No Tav». Contemporaneamente si divaricano le posizioni nell´area di governo che ha sempre caldeggiato il progetto: da una parte il ministro delle Infrastrutture insiste nel voler convocare per lunedì una conferenza dei servizi che dovrebbe continuare a discutere sul vecchio progetto di alta velocità già bocciato dai comuni interessati. Dall´altra il commissario di governo Mario Virano, nominato direttamente da Palazzo Chigi, ottiene l´assenso di quegli stessi comuni per dibattere a tutto campo sulle diverse ipotesi di tracciato esistenti. La linea intransigente e quella più faticosa del dialogo attraversano insomma i due fronti.

Il primo atto è andato in scena giovedì pomeriggio a Bussoleno. Quando Virano ha incontrato gli amministratori locali concordando con loro il programma di lavoro dell´Osservatorio tecnico sulla Tav: «Non abbiamo pregiudiziali - ha detto il commissario - discuteremo di tutto partendo dal se è necessaria la nuova linea. Utilizzeremo le consulenze dei periti per analizzare ipotesi di traffico, studi di tracciato, effetti sull´ambiente». Una posizione apprezzata dai sindaci: «Questa sera - ha commentato Antonio Ferrentino - abbiamo fatto un importante passo avanti». Poi lo stesso Ferrentino ha dovuto vedersela con quei militanti dei Comitati «No Tav» che contestavano Virano con lo slogan: «No Tav, No Tavolo».

Il secondo atto è di ieri pomeriggio, non appena le agenzie hanno battuto le dichiarazioni di Di Pietro: «La Tav in Val di Susa si farà - ha detto il ministro - anzi si sta già facendo. La data per la decisione definitiva è quella del settembre 2007. I sindaci che disertano la conferenza dei servizi convocata per lunedì sono degli irresponsabili». Immediate le reazioni critiche non solo dei partiti della sinistra radicale ma degli stessi sindaci. Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus, ha richiamato il ministro a un atteggiamento meno intransigente: «Dovrebbe venire in valle a rendersi conto di persona qual è la situazione prima di lanciarsi in certe dichiarazioni». «Noi irresponsabili?», si chiede Ferrentino. «Abbiamo concordato un percorso con il commissario di governo. Svolgere oggi una conferenza dei servizi su un progetto già bocciato dai comuni non ha senso. Sospendiamo la conferenza e diamo all´Osservatorio il tempo per lavorare». La partita a scacchi, da una parte e dall´altra della barricata, è solo all´inizio.

Con la sua aria calma di vecchio signore educatissimo, colto, ironico, disordinato come un professore da vignetta, toccato a volte da una dolce tristezza, Robert Altman (anzi, Bob Altman) del Missouri ha scardinato nella sua lunga vita di regista tutti i miti, tutto l'immaginario mitico d'America: la guerra e lo spettacolo, le mode e la famiglia, la psicoanalisi e il rapporto tra padroni e servi. Ha scardinato gli Stati Uniti stessi, nello straordinario affresco America oggi dove oltre venti personaggi ideati da Raymond Carver s'incrociavano in disperata amarezza, nella struttura narrativa composita tipica di alcuni tra i film più popolari di Altman, lo stupendo Nashville, Un matrimonio in cui recitava pure Vittorio Gassman, Pret-à-porter, Radio America estremo suo film prima della morte.

Il più indipendente dei registi americani contemporanei perseguiva con forte volontà l'aspirazione impossibile d'ogni artista: raccogliere in ciascun film l'intero mondo, o almeno fare di ogni film una metafora del mondo. C'è riuscito: in parte, si capisce. Una delle sue prime opere importanti, M.A.S.H., prima Palma d'oro al festival di Cannes nel 1971, non era soltanto il racconto della vita d'un gruppo di chirurghi anarchici in un ospedale militare durante la guerrra di Corea: rappresentava i disastri di ogni guerra, i sacrifici umani, lo spirito pacifista e antimilitarista dell'epoca. Nashville era pure una denuncia della sopraffazione, del tradimento,della concorrenza e della violenza come valori della società americana.

Ha avuto la carriera di un uomo libero: ossia un percorso aspro, affrontato con serenità coraggiosa. A un certo punto, per una serie di insuccessi commerciali, non lo facevano più lavorare: lui s'è messo a fare piccoli film o a lavorare per la televisione, a Hollywood è tornato dopo anni con I protagonisti, analisi della spietatezza del mondo del cinema. A un altro punto non lo facevano lavorare perché aveva più di 60 anni, e la regola di Hollywood licenzia i registi a quell'età: lui ha diretto film con finanziamenti europei. Ha realizzato commedie funeste o incantevoli, La fortuna di Cookie, Il dottor T. e le donne. Con Gosford Park, ambientato in una tenuta nobiliare inglese negli Anni Trenta, è grandissimo. E Radio America, l'ultima fatica a 81 anni, era l'addio molto commovente a una cultura ormai fuori del presente, a un pubblico grato e ammirato, alla propria esistenza tumultuosa e quasi felice.

ROMA. Il ministro delle infrastrutture Di Pietro si considera come uno dei vincitori della battaglia interministeriale sulla Finanziaria tanto che nei giorni scorsi aveva diffuso aveva diffuso un master plan delle grandi opere, ma i verdi avevano subito storto la bocca ed ora la presidente della commissione lavori pubblici del Senato, Anna Donati, prende carta e penna per esplicitare al ministro tutte le perplessità del Sole che ride.

«Gentile ministro Di Pietro - si legge nella lettera - l’elenco "Priorità infrastrutturali" costituisce in realtà l’insieme delle richieste dei singoli governatori, rielaborato dal suo ministero, ma non rappresenta in alcun modo, la lista delle grandi opere su cui il governo Prodi è impegnato» .

Per la senatrice Donati manca la concertazione prevista fra il ministero delle infrastrutture e quelli dei trasporti e dell’ambiente, come previsto con la cabina di regia istituita al Cipe. L’esponente dei Verdi ricorda a Di Pietro che parlamento, maggioranza e commissione hanno già fissato «i criteri per l’individuazione delle opere prioritarie. Criteri - sottolinea Donati - volti a superare la legge obiettivo e la sua sbagliata registrazione notarile e meccanica che proietterebbe nel futuro gli elementi negativi contenuti nelle scelte del precedente governo».

In effetti il primo Dpef del governo Prodi ha disposto che si dovrà procedere con "una programmazione fortemente integrata con il Pgtl e il suo aggiornamento (che spetta al ministro dei Trasporti) che garantisca, per un verso, il coinvolgimento delle realtà regionali e territoriali e, per altro verso, il costante controllo e monitoraggio del Parlamento sugli investimenti". Ed inoltre - continua il parere - "l’individuazione delle opere prioritarie deve avvenire sulla base di una valutazione ambientale strategica (di competenza del ministro dell’Ambiente) che abbia come obiettivi il riequilibrio modale verso sistemi a minore impatto ambientale come ferrovie e cabotaggio e la soluzione dei problemi di mobilità urbana nelle città".

Un approccio ben diverso da quello decisionista mostrato da Di Pietro negli ultimi tempi e quindi la presidente Anna Donati ringrazia il ministro ma gli comunica che «che la Commissione lavori pubblici potrà prendere in considerazione, e discutere con molto interesse, solo un Piano di interventi infrastrutturali scaturito da un autentico processo di concertazione che, oltre le Regioni, coinvolga i Ministri competenti, e che sia stato adottato dal Cipe. Infine, si renderà necessario sovrapporre il Piano concertato con la ricognizione sullo stato delle opere della legge obiettivo, approvata nell’ultima seduta del Cipe».

Caro ministro Rutelli, il suo intervento di venerdì in Confindustria a Roma al nostro Convegno Nazionale «La riscossa del Patrimonio» è stato ricco di impegni concreti che hanno dato molta speranza a noi del Fai, ai quasi mille ospiti in sala, alle nostre cento delegazioni e, ne sono certa, anche al presidente Napolitano che ha onorato con la sua presenza noi e tutti coloro che hanno a cuore la sorte del Patrimonio Comune. Tra i vari temi emersi durante la giornata, quelli che a tutti sono parsi come i più urgenti sono la necessità di un Patto tra le forze più vitali e civili del Paese e la definizione di regole per il governo e la tutela del territorio la cui salvaguardia è oggi a rischio in troppe parti d'Italia. È stato ribadito da molti oratori come dalla concertazione tra Regioni, ministero dei Beni Culturali e ministero dell'Ambiente debbano nascere i Piani Paesistici Regionali, le «Tavole della Legge» sulle quali l'Italia deve poggiare il futuro del suo paesaggio. Proprio la mancanza di regole chiare e condivise ha creato episodi gravi come quello — ormai celebrato e irreparabile — di Monticchiello, o come l'altro — forse recuperabile e di dimensioni catastrofiche — di Mantova.

Signor ministro! Per evitare che 185.000 mc di cemento coprano per sempre 30 ettari di paesaggio intatti sulle rive del Lago Inferiore di Mantova; per evitare che il panorama d'acqua, di campi e di filari che una volta solo i Gonzaga godevano dalla loro camera dipinta dal Mantenga e che oggi riempie milioni di occhi e di cuori venga per sempre stravolto; per evitare che la rozzezza dell'interesse privato prevalga sul Bene Comune nel territorio del Parco del Mincio; per evitare che i cittadini di Mantova e di tutta l'Italia perdano fiducia nelle istituzioni e nelle leggi che regolano la Tutela del Patrimonio, mi permetto di rivolgerle l'appello che i partecipanti al convegno di ieri mi hanno incaricato di indirizzarle, dopo il determinato e appassionato intervento del Sindaco di Mantova Fiorenza Brioni: vada a Mantova caro ministro, si faccia fotografare a braccetto di questa donna coraggiosa sulle rive ancora intatte (ma sulle quali le ruspe stanno già lavorando) di quel leggendario Lago Inferiore che i mantovani costruirono nel 1100. Così facendo darà forza a tutti quegli Amministratori locali che lavorano per il Bene Comune e che vedono nel rispetto del nostro Patrimonio culturale e paesaggistico la via per uno sviluppo civile del nostro Paese.

Sulla lottizzazione di Mantova qui l'articolo di Francesco Erbani

L'Italia è come un signore che sa di avere sotto il suo campo una miniera di diamanti, ma preferisce coltivarci sopra patate e costruirci capannoni.

È difficile smentire questa considerazione dell'ex-ministro francese della Cultura, Jack Lang. Il patrimonio culturale che i nostri padri ci hanno lasciato è sterminato. Purtroppo, però, soprattutto in epoca recente, essi hanno avuto come eredi dei veri e propri stupidi o barbari che hanno cominciato allegramente a sfregiare quel lascito, a coprirlo di capannoni e di orridi edifici, a calpestarlo con disprezzo. Ormai questo lamento sulla devastazione ambientale e monumentale, spesso persino avallata da leggi insensate, è diventato un luogo comune che talora è bollato come maniacale.

È così che si abbassa progressivamente lo stile di vita, che si trovano giustificazioni per gli scempi edilizi o per gli orridi graffiti urbani, che ci si disinteressa di arte e di musei a partire già dalla scuola, protesa solo su Internet e sull'inglese. La corruzione non è solo una questione di etica ma anche di estetica: il Nobel messicano Octavio Paz (1990) affermava che un popolo comincia a guastarsi quando corrompe la sua grammatica e il suo linguaggio. Banalità, volgarità, stupidità che ci assediano sono il segno della perdita non solo del senso del bene ma anche del bello. La bruttezza delle città e delle cose genera anche brutture e brutalità morali. La degenerazione nello stile di comportamento trascina con sé un calo dei valori e della dignità umana. Per questo è necessario riscoprire i veri diamanti della cultura, della spiritualità, della bellezza.

Sono d’accordo con Enrico Fierro, l’esercito non serve, è una parata inutile, uno spreco. Ha ragione Enrico Pugliese, servono maestri, non soldati. In molti sulla stampa, in questi giorni, si sono chiesti com’è stato possibile passare, in meno di dieci anni, dal rinascimento alla città che muore. Provo ad aggiungere qualche modesta riflessione. Che cosa fu il rinascimento di Napoli? Secondo me fu la speranza che demmo ai napoletani di diventare cittadini normali, abitanti di una città normale. “Sindaco, ci avete levato lo scorno dalla faccia”, dicevano in tanti quando inauguravamo scuole, parchi e biblioteche nei favolosi primi cento giorni e nei primi anni dell’amministrazione Bassolino. Simbolo del rinascimento fu la restituzione alla città di una splendente piazza del Plebiscito. “Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze”, così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli, quando la piazza fu inaugurata.

Più ancora di piazza del Plebiscito, simbolo del rinascimento e della speranza fu il progetto Bagnoli. L’idea era di trasformare l’Italsider in occasione per risarcire la città degli spazi e delle qualità urbane negate da quarant’anni di uno sviluppo urbano criminale, fatto di cemento e di asfalto (le sostanze che nella coscienza nazionale definiscono l’identità di Napoli moderna). Ci volle coraggio (come ce n’era voluto per piazza del Plebiscito). Non fu facile far accettare la nostra impostazione da una cultura politica che vedeva lo sviluppo solo nella conferma di improbabili attività industriali. L’idea vinse a furor di popolo, per primi gli operai e il sindacato. Ma sono passati dieci anni dall’approvazione del progetto e della nuova Bagnoli non c’è traccia. Procede stentatamente un’operazione di bonifica che non finisce mai. La speranza è diventata uno scandalo. Da tempo ho il sospetto, forse un po’ più del sospetto, che, in effetti, il mondo politico napoletano aspetta la volta buona per rimettere tutto in discussione. Tre anni fa, la candidatura di Napoli a ospitare la Coppa America pareva fatta a posta per far saltare, impunemente o quasi, il progetto Bagnoli. Una caterva d’incompetenti, economisti, giornalisti, architetti in lista d’attesa, da allora continua a divulgare sconfortanti vacuità, a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli sono un’esagerazione, che quello spazio deve essere dato subito a chi sa farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella.

Perciò è morta la speranza.

Le ragioni di ciò che sta succedendo a Napoli sono complesse e sarei uno stolto se pensassi che basta rimettere mano con determinazione al progetto Bagnoli per trovare il bandolo della matassa. Bagnoli è solo un esempio. Ma serve per ricordare che a Napoli c’è stata una radicale mutazione del pensiero politico, che io non so spiegarmi. Capisco che gestire (peraltro male) l’esistente è più facile che costruire un difficile futuro e che ci si è illusi così di rischiare meno, ma mi pare una spiegazione troppo semplice. Certamente non è possibile tornare indietro e sono convinto che siano ormai indispensabili dolorosi cambiamenti, anche al vertice del potere locale, per restituire credibilmente ai napoletani la legittima aspirazione a vivere in una città normale. Senza di che non è possibile fuggire da Gomorra.

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