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Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto.

Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro collettivo. L’Unità è un pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone. Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di un’impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università, la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla realtà. C’è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo. Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno di noi. L’identità, è questo il tema. L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in solitudine. C’è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo è il nostro posto.

Attacco agli apparati pubblici. Fine della lotta all'evasione. Dai primi cento giorni di governo emerge la strategia di Berlusconi: cavalcare la crisi. E a pagare saranno i lavoratori dipendenti

I primi cento giorni del Caimano, del Cavaliere, dello 'statista', dello stratega di affari geopolitici sono una sfida micidiale al Pd e a tutte le opposizioni. Anzi, un attacco putiniano in pieno assetto di guerra. Peccato non essersene accorti. Come ha detto Giulio Tremonti presentando la manovra: "L'Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni".

Se il Pd fosse meno impegnato nelle sue beghe, a creare fondazioni, a demolire Sergio Chiamparino, a proiettare nel cielo dell'estate vaghe astrazioni fra il letterario e lo sciamanico, un lunghissimo brivido scenderebbe nella schiena dei suoi dirigenti, primo fra tutti Walter Veltroni.

Come aveva detto Massimo D'Alema? Rischiamo di diventare una "minoranza strutturale". Infatti, per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una nuova specie di guerra di classe. Berlusconi e Tremonti hanno in mente il progetto perfetto per diventare eterni.

Per capirlo, bisogna uscire dal coacervo dei singoli provvedimenti: l'abrogazione dell'Ici era un atto dovuto dopo la campagna elettorale, la detassazione (parzialissima) degli straordinari è una misura irrilevante nella quantità, la campagna su immigrazione e sicurezza ha un valore simbolico fortissimo, con l'esercito in strada e le vecchiette che dicono "vi vogliamo bene" ai soldati, ma i suoi contenuti saranno da valutare più avanti.

Ma è il lavoro dietro le linee quello che viene condotto dal governo, e nasce da una concezione darwiniana della politica. Di destra vera e cattiva, senza inibizioni e remore culturali. Il Popolo della libertà vede con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ripetuto Tremonti, "a tempo indeterminato". Un settore politico che copre la metà della società, 'la società del 50 per cento' (diversamente dalla "società dei due terzi" descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz), che governa agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti.

Per ottenere questo scopo, a suo modo 'storico', Berlusconi si è premunito garantendosi l'immunità, con la cinica operazione del provvedimento bloccaprocessi, che è servito a introdurre la 'mediazione' del lodo Alfano: prima si minaccia l'atomica e poi si negozia da posizioni di forza. Un capolavoro di violenza sulle istituzioni.

A questo punto, sereni e tranquilli, si può passare alla Fase 2, la fabbricazione di una maggioranza sociale e politica non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 17 agosto ha scritto che Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro del Ventinove, "rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione".

Tremonti, dice Giavazzi, tiene la pressione fiscale invariata per un triennio, "al livello elevatissimo al quale l'aveva lasciata Prodi". Strano, per gente che aveva sempre puntato sul 'meno tasse per tutti'. Tanto più, aggiunge l'editorialista del Corriere, che "come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini (…), ciò che servirebbe è un'energica riduzione delle tasse sul lavoro".

Ora, consideriamo che Giavazzi è uno dei più celebri economisti italiani, e che Guido Tabellini è un quasi premio Nobel. Si può immaginare allora che Tremonti sia uno sprovveduto che durante una fase di stagnazione e inflazione approva riduzioni di spesa con effetti, direbbero i suddetti economisti, “pro-ciclici”, cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione?

Non è possibile. Una interpretazione più realistica è quella di Pier Luigi Bersani:il governo sta facendo provvista per affrontare i costi inevitabili della struttura federalista. Ma c'è anche un'interpretazione più inquietante. La recessione può essere un fenomeno preoccupante sotto l'aspetto economico, ma funzionale invece al disegno politico del Pdl. Basta dividere in due la società: da una parte il già citato reddito fisso, lavoro dipendente e pensionati; dall'altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.).

Per queste categorie sociali, né l'inflazione né la stagnazione rappresentano un'inquietudine. Alle imprese è stato lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario e perfino su aspetti premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori, come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre alla concorrenza, viene assegnata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell'inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l'inflazione programmata, del tutto irrealistica, e l'inflazione reale.

In ogni caso i pilastri dell'azione del governo sono da un lato l'attacco a tutti gli apparati pubblici; dall'altro il tendenziale smantellamento del contrasto all'evasione.

Il primo aspetto è spettacolare (così come è uno show quotidiano l'azione intimidatoria di Brunetta sul pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà pesanti nell'assicurare i servizi.

L'altro, il ritiro dalla lotta all'evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori.

Tanto per dire, sul Sole 24 ore Stefano Micossi riconosce al governo di avere avviato per il paese un percorso di "riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete". Converrebbe allora capire se fra queste riforme va compresa anche l'istituzionalizzazione politica dell'evasione, che l'ex viceministro dell'Economia, l'odiatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: "Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti".

Per chi volesse avere un'idea delle misure 'anti-antievasione', secondo Visco non c'è che l'imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme sugli assegni bancari, eliminazione dell'elenco dei fornitori, con l'aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente.

Via libera al sommerso, quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la 'social card' e un esproprio patrimoniale con strizzata d'occhio come la 'Robin Tax': tanto che nessuno nell'opposizione sembra in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente colossale, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sull'economia sociale di mercato, sul federalismo fiscale, sulla resistenza 'di comunità' alla globalizzazione.

Ci sono insomma due linee di confronto, e di scontro, dell'opposizione con la maggioranza: una corre su questa redistribuzione regressiva, di tipo castale. L'altra sull'operazione 'istituzionale' di tipo federalista. Entrambe le iniziative di fondo del governo possono innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l'attacco al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico, e lo fa 'con i nostri soldi', cioè con i soldi dell'opposizione. Con la seconda, aprirà un tiro alla fune spaventoso fra Centro-nord e Sud, che potrà essere gestito soltanto aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Con rischi fortissimi o dell'aumento della tentazione separatista, oppure di un attentato materiale alla crescita (ma non importa, si è già visto che nella recessione la maggioranza e i suoi elettori ci sguazzano).

È per questo che il Pd, e tutte le opposizioni residue dovrebbero dedicare l'autunno a un'azione di duro contrasto al progetto generale berlusconian-tremontiano. Il 'dialogo', le 'commissioni à la Attali' e altre finzioni collaboranti vanno lasciate a momenti migliori. Il punto centrale è: attrezzarsi a fare opposizione sulle questioni reali. Per il dialogo sulle questioni immaginarie verranno tempi migliori, forse, chissà, un giorno, se nel frattempo non ci avranno spolpati.

Perdere il posto per una denuncia

di Luciano Gallino

Evidentemente la tolleranza zero fa tendenza, ben al di là della questione sicurezza, anche se qualche connessione sussiste. O meglio esprime una tendenza. Un’impiegata è assente ingiustificata per un giorno da un ufficio della Pubblica Amministrazione? Rischia il licenziamento in tronco. Fanno timbrare il cartellino da un collega per guadagnare cinque minuti dopo aver fatto due ore di straordinario, senza alcun danno per l’azienda? Licenziati tutti.

Un macchinista si permette di dire, a fronte di palesi inconvenienti tecnici verificatisi su alcuni treni, che occorre approfondire le indagini e aumentare le attenzioni in tema di sicurezza ferroviaria? Licenziato in tronco per la seconda volta in due anni. Questi sono episodi recenti. Ma è noto che negli ultimi mesi i licenziamenti attuati o minacciati per motivi disciplinari, che tempo addietro avrebbero motivato al massimo una penalità pecuniaria o una breve sospensione, si sono moltiplicati anche in imprese private.

La stessa tendenza alla tolleranza zero estesa a settori ben lontani dall’ordine pubblico, dopo avere investito a valanga quest’ultimo come se fosse in gioco l’esistenza del Paese, si esprime anche in altri modi. Ad esempio nei tanti divieti, sostenuti da pesanti multe, che numerosi sindaci si sono inventati, o hanno rispolverato, non appena dotati di nuovi poteri dal ministro dell’Interno. Vietato mangiare e bere in prossimità di monumenti ed edifici storici, dormire sulle panchine, sdraiarsi sull’erba nei parchi, fumare anche in luoghi aperti, scambiarsi effusioni magari innocenti. Comportamenti spesso sgradevoli, certo, così come quelli richiamati sopra sono azioni non corrette. Ma questi come quelli richiederebbero, in luogo di tolleranza zero, licenziamenti e ammende, interventi quali discussioni, educazione, trattative, analisi dei problemi sottostanti, differenti modelli organizzativi, visioni larghe dei problemi di una convivenza civile.

Quel che preoccupa in genere nell’inclinazione alla tolleranza zero avanzante in settori sempre più larghi della società italiana, e ancor più dovrebbe preoccupare l’opposizione, è la sua derivazione da due processi sociali che si completano e si eccitano a vicenda. Il punto di partenza è che il governo in carica ha una manifesta vocazione autoritaria. Lo è nel senso di presentarsi come un governo dichiaratamente decisionista. Dà a intendere di sapere quali sono i veri problemi del paese, anzi del popolo, e procede, o comunque riesce a dar intendere di procedere, per la strada che si è luminosamente tracciata, senza riguardo per gli sparuti – ai suoi occhi – gruppi sociali che dovessero pensarla diversamente.

In realtà questo governo non farebbe molta strada, se non lo sorreggessero processi concomitanti di imitazione e fiancheggiamento da parte degli strati della società che hanno potere e denaro, e forme diffuse di conformismo e deferenza di gran parte degli strati che non hanno né l’uno né l’altro, ma sono inclini a credere che ciò che viene dall’alto può giovare a tutti. Sentendo profumo di autoritarismo, coloro che stanno in alto inclinano a imitarlo ed a tradurlo in forme adeguate alle proprie esigenze e interessi. Coloro che stanno per contro piuttosto in basso in maggioranza si conformano perché nella tolleranza zero applicata al lavoro o alle folle urbane sentono confermati i propri giudizi, pregiudizi e rancori. Ben vengano, ai loro occhi, i licenziamenti dei dipendenti pubblici e delle ferrovie o, perché no, della scuola o delle Asl o di qualsiasi impresa privata – purché non tocchi a loro.

Un segno? Alla radio e nelle lettere ai giornali, nei giorni scorsi le dichiarazioni favorevoli al licenziamento dei ferrovieri, come nelle settimane precedenti quelle consenzienti con le draconiane misure del ministro della Funzione Pubblica per far rigare finalmente diritto gli impiegati della PA, hanno largamente prevalso, per enfasi e forse anche per numero, su quelle che provavano a dire che forse si era esagerato. La stessa sorprendente mitezza con cui la maggioranza degli esponenti sindacali ha accolto i provvedimenti delle Ferrovie, come altri interventi del governo già annunciati o attuati in tema di politiche del lavoro, mostra quanto la deferenza nei confronti del potere possa fare presa.

Siamo ovviamente soltanto agli inizi, ai prodromi di una involuzione sociale e politica. È la fase in cui si potrebbe arrestarla e avviarne le spinte in altre direzioni. Ma ci vorrebbero capacità di analisi e di immaginazione politica che al momento non è dato scorgere da dove potrebbero venire. Per intanto l’opposizione dovrebbe rendersi conto di un fatto. Il persistente e aggravantesi disagio materiale delle classi lavoratrici, il popolo dei 1.000 euro al mese, nonché le paure che angosciano le classi medie di fronte alla constatazione che i figli non proseguiranno in quella che fu la loro ascesa sociale, che la loro stessa posizione sociale è a rischio, non è materia destinata prima o poi ad alimentare movimenti politici di sinistra o di centro-sinistra. È materia ottima per la destra. Tende a costituire uno dei due pilastri di quella che si sta profilando come una tolleranza zero a trecentosessanta gradi. La destra lo ha capito benissimo, e per questo si adopera a incanalare disagi, rancori e paure in tale direzione.

L’Italia docile che ha perso dissenso

di Nadia Urbinati

Sarebbe utile interrogarsi sulla docilità, una qualità che ben rappresenta l’Italia di oggi. Chi detiene il potere politico non è naturalmente amico del dissenso e di chi lo esercita, nemmeno quando al potere vi giunge per vie democratiche e la sua azione di governo è limitata da lacci costituzionali. Grazie al liberalismo, che del potere ha una visione giustamente diffidente e pessimista, le società moderne sono riuscite a imbrigliare le tendenze tiranniche e dispotiche di governi e governanti e infine a eliminare l’uso della violenza dalla politica. Diceva Tocqueville che il diritto e le costituzioni hanno reso la politica dolce perché hanno fatto posto al dissenso. I diritti che tutelano la nostra libertà individuale, non solo quella che ci consente di possedere cose materiali ma anche quella che ci rende sovrani sul nostro corpo e la nostra mente, sono un baluardo imprescindibile contro il potere, anche legittimo. Per questa ragione, una società libera è l’opposto di una società docile. Ma le cose sono più complicate di come se le immagina la teoria.

Una società libera ha bisogno del dissenso. Anzi è desiderabile che la diversità di opinioni vi si manifesti e si esprima liberamente perché è grazie a questa diversità che il gioco politico può svolgersi e le maggioranze alternarsi. Ma la cultura dei diritti può purtroppo stimolare anche una diversa attitudine: può indurre i cittadini ad abituarsi a perseguire il godimento dei loro diritti individuali disinteressandosi a quanto avviene nella sfera politica, salvo recarsi alle urne nei tempi stabiliti. La società democratica può facilitare la formazione di una società docile perché indifferente alla partecipazione politica.

Lo può fare perché e fino a quando i diritti essenziali sono protetti per la grande maggioranza e non si danno quindi ragioni di dissenso. Sono le minoranze il vero problema (o, per l’opposto, la salvezza) delle società democratiche mature, perché sono loro a esprimere dissenso, a rivendicare spazi di azione che non sono in sintonia con quelli della maggioranza – se poi queste minoranze sono per giunta culturali e etniche, non semplicemente di opinione, allora decidere di non ascoltarle e perfino di reprimerle e perseguitarle può non essere visto dall’opinione generale come un problema di violazione di diritti. La società docile non è una società che ha rinunciato ai diritti o che non è più liberale. È invece una società nella quale la maggioranza è soddisfatta del proprio grado di libertà e dei propri diritti e trova fastidioso che ci siano minoranze non domate, non silenziose e omologate, che facciano richieste che non collimano con le proprie (come nel caso di una minoranza religiosa che chiede che il diritto di culto sia rispettato anche quando il culto è diverso da quello della maggioranza). Società democratica docile, dunque, e per questo autoritaria e paternalista.

La docilità è una qualità che si predica degli animali non degli uomini; è un obiettivo che i domatori si prefiggono quando cercano di abituare un animale a fare meccanicamente determinate cose. Al moto della mano del padrone il cane sa quel che deve fare e lo fa. Docilità significa non avere una diversa opinione di come pensare e che cosa fare rispetto all’opinione preponderante; significa accettare pacificamente quello che il padrone di turno, per esempio l’opinione generale di una più o meno larga maggioranza, crede, ritiene e vuole. Sono ancora una volta i liberali che ci hanno fatto conoscere questo lato inquietante del potere moderno.

Un lato che si è mostrato quando il potere è riuscito ad avvalersi di strumenti nuovi; strumenti che si sono presto rivelati congeniali a un potere che si serve delle parole e delle opinioni per restare in sella, che può rinunciare alla violenza sui corpi perché si radica nell’anima dei suoi sudditi, se così si può dire. Mentre gli antichi tiranni e monarchi assoluti usavano la tortura e le punizioni esemplari nelle pubbliche piazze, il moderno potere fondato sull’opinione non ha più bisogno di usare la violenza diretta (e se la usa, si guarda bene dal farlo in pubblico); usa invece una specie di addomesticamento che produce, come scriveva Mill, una forma di "passiva imbecillità". I cittadini docili assomigliano a una massa di spettatori: in silenzio ad ascoltare e, semmai, giudicare alla fine dello spettacolo con applausi o fischi.

La politica come spettacolo non assomiglia a un agone ma a una sala cinematografica. Il dissenso, la virtù forse più importante in una democrazia che si regge sull’opinione mediatica, è tacciato di generare destabilizzazione, offeso e denigrato. Il buon cittadino non dissente, ma segue, accetta e opera con solerte consenso. Una voce fuori del coro è castigata come fosse un’istigazione al terrore; un’opinione che contesta quella della maggioranza è additata come segno di disfattismo.

Questa Italia assomiglia a una grande caserma, docile, assuefatta, mansueta. Che si tratti di persone di destra o di sinistra la musica non sembra purtroppo cambiare: addomesticati a pensare in un modo che pare essere diventato naturale come l’aria che respiriamo, vogliamo che i sindaci si facciano caporali e accettiamo di buon grado che ci riempiano la vita quotidiana di divieti e consigli (sulle spiagge della riviera romagnola due volte al giorno da un altoparlante fastidioso le autorità ci fanno l’elenco di tutte le cose che non dobbiamo fare per il nostro bene e se "teniamo alla nostra salute"). Come bambini, siamo fatti oggetto della cura da parte di chi ci amministra, e come bambini ben addomesticati diventiamo così mansueti da non sentire più il peso del potere.

È come se dopo anni di allenamento televisivo siamo mutati nel temperamento e possiamo fare senza sforzo quello che in condizione di spontanea libertà sarebbe semplicemente un insopportabile giogo.

La cultura della docilità non pare risparmiare nessuno, nemmeno coloro che per ruolo istituzionale dovrebbero esercitare il dissenso. Commissioni bipartisan nascono ogni giorno; servono ad abituarci a pensare che l’opposizione deve saper essere funzionale alla maggioranza, diventare un’opposizione gradita alla maggioranza. Un’opposizione che semplicemente si oppone e critica e dissente pare un male da estirpare, il segno di una società non perfettamente doc

L’Unità cambia. Uno non può sapere che cosa viene dopo, ma questa è la normale condizione umana. Sappiamo quello che è successo prima, lo abbiamo letto nell’editoriale di Padellaro e nel comunicato dell’Editore.

Molti diranno grazie a Padellaro (io lo faccio di cuore) con l’amicizia solidale di tutti questi anni, da l’Unità morta alla sua clamorosa rinascita e tenuta, unica nella storia dell’editoria, unico il lavoro che Padellaro, prima insieme, poi da solo (e con tutta la redazione, la più straordinaria che avremmo mai sognato di trovare in un giornale che era stato dichiarato finito) ha saputo fare. E noi - Padellaro e io - siamo fra coloro che danno il benvenuto e un augurio davvero sentito al nuovo direttore Concita De Gregorio.

A coloro che, amando o stimando questo giornale, si domandano che cosa sta succedendo e perché, cerco di offrire una interpretazione che a me sembra corretta della vicenda: sono due storie diverse. Una è l’arrivo di una nuova solida proprietà e l’arrivo, contestuale, della nuova direzione. Bene arrivata. L’altra è l’uscita di Antonio Padellaro, voluta come se fosse una necessità. Quale necessità? E motivata come? Qui c’è uno spazio vuoto. Il giornale non era in pericolo e non versa in cattive acque. La redazione è tutta al suo posto e lavora bene. C’è un grado di armonia e di solidarietà raro nei giornali italiani. Allora? Allora c’è tutto per far bene, passato, redazione, firme, rapporti internazionali. Abbiamo riaperto una storia che sembrava finita, abbiamo fatto diventare questo giornale un luogo piuttosto vivace.

Ripeto, i percorsi sono due, è bene non confonderli. Arriva un nuovo direttore e, garantisce il suo passato, farà bene. Ma quale è la ragione per cui è stato detto arrivederci e grazie al direttore che ha tenuto ben ferma in questi anni la rotta difficile e felice di questo giornale di opposizione? Non è rispettoso, e neppure ragionevole, immaginare che tutto ciò accada affinché il giornale non sia più di opposizione. E sarebbe altrettanto azzardato affermare che farà una opposizione diversa. Quante opposizioni ci sono?

Ma se qualcuna di queste ombre avesse anche una minima consistenza, come non nutrire il sospetto (vedete come è mite la parola) che alcuni di noi siano parte del problema, e non della soluzione del problema, se il problema è davvero l’opposizione?

C’è un’altra questione. Berlusconi e il suo potere mediatico totalitario sono sempre sul fondo di ogni questione italiana, specialmente se riguarda l’informazione. Però non è Berlusconi ad aver detto «grazie, Padellaro, va bene così». E anche «grazie, Unità, ma sempre la stessa musica ci ha stufato». Mi sembra più ragionevole pensare che tutto ciò sia nato nell’ambito del Partito Democratico. Si sentiva sfasato rispetto all’Unità (o, viceversa, «un giornale che non ci rappresenta»)? Se è così il problema che ha di fronte a sé il nuovo direttore non è facilissimo: fare una cosa che non è il Foglio, che non è il Riformista, che non è Europa, che non è l’Unità di adesso, e, ovviamente, non è né il manifestoLiberazione. Auguri, davvero.

Ma se è così, resta da spiegare tutto questo silenzio nell'ambito del Pd. Quale sarà stata la ragione, discrezione, cautela, segretezza, a consigliare di non dire una sola parola ad alcuno degli interessati, compresi quelli che, come me, sono lì a un passo, in Parlamento?

Come vedete, nessuna di queste questioni riguarda la persona cui tocca il nuovo mandato. Ma se questo fosse un giornale a fumetti, si vedrebbe un fumetto grande come una casa con un vistoso punto interrogativo sulla testa. Spiace non sapere dove indirizzare la domanda. Ma più ci si pensa e più sei costretto a inquadrarla dentro la storia del Pd (anche il Pd comincia ad avere una storia), non dell’editore.

Forse uno spunto di ottimismo potrebbe essere questo: finalmente il Pd comincia a prendere decisioni. Forse non è la prima decisione che dodici milioni di italiani che hanno votato centrosinistra si aspettavano, mandare a casa Padellaro, e con lui, fatalmente, qualche firma della Unità rinata, della serie rifondata dopo la fondazione di Gramsci. A questo punto non resta che vedere come la situazione si ambienterà con le altre decisioni del prossimo futuro. Qual è la linea del più grande partito di opposizione che più si armonizza con questo deliberato e netto gesto di «discontinuità» (per usare una delle parole chiave della politica. L’altra sarebbe, se Padellaro ed io parlassimo politichese, chiederci - come Chiamparino - «ma noi siamo una risorsa?»)?

Certo il momento è strano. Ti muovi in un paesaggio da fantascienza popolato di mutanti. A Milano il più importante simbolo istituzionale del Pd, il presidente della Provincia Penati, improvvisamente dichiara: «Con la Lega Nord è possibile fare un lavoro importante per Milano». E noi che pensavamo che la Lega Nord fosse impegnata soprattutto a sfrattare le Moschee e a proibire luoghi di preghiera per gli immigrati islamici. A Firenze la prima Festa Nazionale del Partito Democratico è dedicata a Bossi, Tremonti, Bondi, Fini, Matteoli, Frattini, Maroni. Praticamente tutto il governo che già domina tutte le televisioni. Prima di giudicare il senso politico c’è da domandarsi, in senso elementare e prepolitico: perché? Una Festa di partito costa, e costa ancora di più per un partito lontano dal potere e dai benefici del potere. Perché il nostro ospite d’onore deve essere Bossi, invece del giovane angolano picchiato a sangue da un branco di ragazzi italiani a Genova? Perché dobbiamo festeggiare Tremonti invece di ascoltare il macchinista delle Ferrovie dello Stato licenziato per avere fatto sapere che il treno Eurostar che stava manovrando, si è spezzato (e per fortuna non c’erano passeggeri)? Perché invitare Maroni invece di Xavian Santino Spinelli, il Rom italiano docente universitario, che rappresenta la sua gente (dunque anche la nostra: i Rom sono in buona parte italiani), ma rappresenta soprattutto i bambini forzati al trauma delle impronte digitali? Perché tutti in piedi per Frattini invece di accogliere cittadini osseti e georgiani, testimoni di una breve, sporca guerra di cui ancora sappiamo nulla, se non che uno dei protagonisti spietati, Putin, è il miglior amico di Berlusconi? Perché avere sul palco Matteoli invece dei lavoratori dell’Alitalia, che avrebbero dato voce alla paura del loro futuro, reso ormai quasi impossibile dalla falsa promessa (capitali italiani, forse anche capitali dei suoi figli) del candidato Berlusconi?

Ma la danza dei mutanti continua. Mi devo rendere conto che il maggiore partito di opposizione, di cui sono parte, produce tutto in casa, con una autonomia che sarebbe sorprendente se non fosse come un autobus che salta la fermata lasciando a terra la folla dei viaggiatori in attesa. Il più grande partito di opposizione produce da solo il dialogo, benché Berlusconi attraversi la scena pronunciando frasi altezzose e insultanti. Benché alzi ogni giorno il prezzo di un ambito contatto con lui. Il Pd produce da solo una cordiale collaborazione con la Lega, nonostante la caccia agli immigrati, il reato di clandestinità, le botte ai «negri», l’orina di maiale (iniziativa di Calderoli) sul terreno in cui si doveva costruire una Moschea, la proclamazione fatta da Borghezio - in occasione delle Olimpiadi - della superiorità della razza padana (parlava della nuotatrice Pellegrini come di una mucca). Invita e festeggia Bossi proprio quando lui dice (ripetendo con sempre maggiore frequenza la minaccia): «O si fa il federalismo come dico io o il popolo passerà alla maniere spicce».

Produce da solo una certa ostilità verso giudici, una denuncia quasi quotidiana del «giustizialismo» (sarebbero coloro che sostengono il diritto dei giudici di non essere insultati e di non essere costretti al silenzio). Dice Luciano Violante a La Stampa (22 agosto) che i magistrati «conducono una battaglia di solo potere». Sono gli stessi magistrati definiti «dementi» dal primo governo Berlusconi e «cloaca» dal presente titolare di Palazzo Chigi. Ma a quanto pare la volontà di dialogo supera questi dettagli. Si forma una cultura che trova normale lo «stato di emergenza» che ha indotto a far presidiare le strade delle città italiane dai soldati come se fossero in Pakistan, trova normale che Berlusconi si vanti di avere parlato 40 minuti con Putin senza far sapere al Paese o almeno al Parlamento una sola parola di quel suo dialogo (finalmente dialoga con qualcuno). E trova normale che - mentre scoppia la guerra in Georgia che potrebbe contrapporre Stati Uniti e Russia, Nato e impero di Putin (e di Sardegna)- il ministro degli Esteri resti in vacanza mentre i suoi colleghi europei si incontrano in una riunione di emergenza. O forse è stato un grande, scoperto favore all’amico Putin (dimostrare che la crisi non era così grave), tanto è vero che il ministro Frattini riferirà al Parlamento (Commissioni estere Camera e Senato) soltanto il 24 agosto, dopo avere partecipato alla Festa del Partito democratico come ospite d’onore. Si forma una cultura, abbiamo detto, fatta di buone maniere e di acquiescenza al governo, sia pubblico (Berlusconi) che privato (Mediaset).

Questo spiega la necessità che sia Enrico Mentana a intervistare Veltroni in un grande incontro finale a conclusione della Festa del Pd. E spiega l’annuncio di Lilli Gruber, deputata europea di primo piano e importante giornalista italiana: sarà Berlusconi a scrivere la prefazione del suo nuovo libro sulle donne dell’Islam. Chi altro? Con l’aria che tira è già una conquista democratica che quella prefazione non sia stata commissionata a Borghezio.

* * *

Mi ha colpito la notizia che alla Festa del Partito democratico di Firenze ci saranno collegamenti con la «Convention» del Partito Democratico americano di Denver. Spero che spiegheranno perché, a quella festosa assemblea di militanti politici di opposizione, non sia stato invitato e applaudito e festeggiato, per un bel dialogo, il vicepresidente Cheney, l’uomo delle false prove della guerra in Iraq. O qualche “neo-con” di rilievo, di quelli che amano Guantanamo e le maniere forti.

Qualcuno - spero - spiegherà che gli americani, nel loro Partito Democratico, sono un po’ più rozzi degli italiani: quando fanno opposizione, fanno opposizione. E quando vogliono essere eletti contro qualcuno che - secondo loro - ha fatto danno al Paese, prendono le distanze, dicono cose diverse, invitano e ascoltano le loro migliori voci, quelle più vibranti e appassionate, non quelle dei Repubblicani che intendono sconfiggere.

Inoltre sanno - ma forse anche questo è un segno della loro cultura elementare - che i loro leader non si fanno intervistare dai giornalisti della Fox Television, alcuni bravissimi ma tutti di destra. In tanti vanno alla convenzione democratica, scrittori, registi, celebrità delle grandi università e dello spettacolo. Ma sono tutti testardamente democratici. Vanno tutti per parlare di pace, non di guerra, di poveri, non di ricchi, di affamati del mondo e di crisi del pianeta, di bambini da salvare e di medicine salva-vita di cui bisogna abbattere i prezzi. Certo, l’America non è un Paese perfetto. Anche là ci sono tanti Giovanardi e tante Gelmini. Ma (a differenza di quanto avviene nell’altra festa del Pd italiano, quella di Modena) i democratici americani non li invitano. Saranno primitivi ma (se starà bene) vogliono Ted Kennedy. E se Ted Kennedy starà bene dirà tutto quello che pensa con l’irruenza che l’America democratica ammira da mezzo secolo, e che da noi si chiama «politica urlata» e irrita molto persino Ritanna Armeni, ma solo se è «politica urlata» di sinistra.

Ecco le ragioni del mio disorientamento nel Partito Democratico che ho contribuito a creare partecipando anche alle primarie («Sinistra per Veltroni») e nel quale adesso non so dove mettermi, perché ogni spazio è occupata da un ministro ombra che intrattiene la sua educata, amichevole conversazione col ministro-ministro. Ognuno di essi (i ministri-ministri) è occupato a prendere impronte, a presidiare le strade italiane con l’esercito, a insultare i giudici. Ma comunque appaiono come statisti mai smentiti e sempre in grado di incassare apprezzamenti (oltre che inviti alle nostre Feste) e di dire l’ultima parola in ogni radio e in ogni televisione. La descrizione perfetta è di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20 agosto) «Questa Italia assomiglia a una grande caserma, docile, assuefatta, mansueta. Che si tratti di persone di destra o di sinistra, la musica non sembra purtroppo cambiare: addomesticati a pensare in un modo che sembra diventato naturale come l’aria che respiriamo. Come bambini siamo fatto oggetto della cura di chi ci amministra. E come bambini bene addomesticati diventiamo così mansueti da non sentire più il peso del potere. È come se, dopo anni di allenamento televisivo, siamo mutati nel temperamento e possiamo fare senza sforzo quello che, in condizione di spontanea libertà, sarebbe semplicemente un insopportabile giogo».

Quanto sia esatto ciò che scrive Urbinati lo dimostra questa e-mail appena ricevuta: «Attento, alla sua età è pericoloso agitarsi. Ma comunque la sua perdita nessuno la noterebbe, insignificante comunista. Si spenga serenamente come giornalista e scribacchino. L’umanità e l’Unità le saranno grate eternamente».

Curiosamente la e-mail mi è giunta mentre una collega - che preparava un pezzo sul cambiamento in questo giornale -, mi chiedeva: «Ma temi la normalizzazione de l’Unità?». La mia risposta meravigliata è stata che a me questa Unità appare un giornale normale. Un normale, intransigente, preciso giornale di opposizione. La storia del suo e del nostro futuro è tutta qui, fra questa «normalità», la descrizione di Nadia Urbinati e la e-mail che ho trascritto e che offre una bella testimonianza del ferreo contenitore culturale in cui ci hanno indotti a vivere. Non resta che attendere il nuovo giornale.

furiocolombo@unita.it

Postilla

Chi per anni, in anni lontani, ha collaborato con l’Unità, e ha esibito orgogliosamente quella testata considerata sovversiva quando era il simbolo di un’opposizione che sapeva governare, e chi è angosciato per il fatto che il peggior governo che l’Italia repubblicana abbia mai avuto (ma forse l’Italia tout court) non abbia un’opposizione, non può non condividere le preoccupazioni lucidamente (e garbatamente) espresse da Furio Colombo. Anche noi seguiremo ciò che accade in quel giornale dai gloriosi passati, e nel partito che ne decide le sorti. Anche perché sappiamo che, se si stemperasse l’opposizione di quel giornale e non si manifestasse una vera opposizione in quel partito, l’avvenire sarebbe per tutti ancora più cupo di quanto si possa immaginare.

Non è facile percepire quanto sia cambiato il mondo intorno a noi, in poco tempo. Non il Mondo. Ma il "piccolo" mondo che ci circonda. Il territorio. Il nostro paese, la nostra città, il nostro quartiere, le case e le strade vicino a casa nostra. È avvenuto tutto in fretta, negli ultimi anni, anzi, negli ultimi decenni. I nostri occhi si sono abituati a vedere scomparire gli spazi, l’orizzonte. Si sono abituati a non vedere. Per cui "non" vediamo più, senza rendercene conto.

D’altronde, la casa è una vocazione nazionale. L’Italia: Paese di piccoli paesi, un Paese di compaesani (come lo ha definito, con una formula felice, il sociologo Paolo Segatti). Ha sempre inseguito il mito della "casa". Luogo e, al tempo stesso, simbolo di una società centrata sulla famiglia. Dove le case si trasmettono per via generazionale, dai genitori ai figli. Una società, per questo, "stabile", quasi immobile, anzi: immobiliare (abbiamo detto, in altre occasioni). Per cui la dilatazione edilizia non ci ha spaventati. Ci è sembrata naturale. Una casa per ogni famiglia. E per ogni figlio, se possibile. Non ci siamo accorti, anche per questo, del cambiamento intorno a noi. E, comunque, ci siamo abituati. L’abbiamo percepito come un costo necessario. D’altronde, tutto ha un prezzo e non si può pretendere di conquistare il benessere, se non la ricchezza, senza rinunciare a qualcosa. Un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po’ d’aria, un angolo di orizzonte. E, via via, una cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana. Fino a ritrovarsi racchiusi in una nicchia, da soli in mezzo agli altri. Non vorremmo replicare la ballata del ragazzo della via Gluck. Lamentare che "là dove c’era l’erba ora c’è… una città". (Anche se la nostalgia è un vizio che conviene, a volte, coltivare). Ci interessa, tuttavia, segnalare che il processo immobiliare, negli ultimi due decenni e soprattutto negli ultimi anni, ha assunto una velocità cosmica e un’estensione devastante, quanto gli effetti che ha prodotto. In Italia più che altrove. Secondo le valutazioni di Maria Cristina Treu (Presidente del CeDaT - Centro di Documentazione dell’Architettura e del Territorio del Politecnico di Milano), negli anni Novanta (dati Eurostat) le costruzioni, in Italia, hanno sottratto all’agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100.000 ettari di campagna (il doppio della superficie del Parco Nazionale dell’Abruzzo). D’altra parte "l’Italia è anche il primo paese d’Europa per disponibilità di abitazioni; ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona». Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia (come ha osservato l’economista Giancarlo Corò), emerge che negli anni Novanta l’Italia ha urbanizzato un’area più che doppia di suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari). I riferimenti statistici più recenti (Cresme/Saie 2008) sottolineano come questa tendenza, negli ultimi anni, abbia conosciuto una ulteriore, violenta accelerazione. Dal 2003 ad oggi, infatti, sono state costruite circa 1.600.000 abitazioni (oltre il 10% delle quali abusive). Per contro, è noto che, da vent’anni, la popolazione in Italia non solo non è cresciuta ma è, al contrario, calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di ripresa, grazie al contributo degli immigrati.

Il nostro Paese si è, dunque, urbanizzato in modo ampio, rapido, violento. Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All’evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell’organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l’organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio. Anche se si tende a dimenticarlo, visto che l’attenzione si è concentrata altrove: sulle conseguenze economiche e finanziarie del fenomeno a livello globale. Visto che la casa e l’edilizia, dopo essere state, per anni, il principale motore della crescita, da qualche tempo si sono trasformate nel principale motore della crisi.

In Italia, peraltro, i comuni hanno finanziato la loro "autonomia" e fronteggiato il calo dei trasferimenti dello Stato soprattutto con gli oneri di fabbricazione e la fiscalità legata alla casa (l’Ici). Le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali, industriali si sono moltiplicate. Senza limiti. Senza troppi vincoli. Ci hanno guadagnato in molti. Immobiliaristi e banche. Gli enti locali. Ma anche molti privati (impresari, ma anche proprietari di terreni). Così, abbiamo consumato in fretta il territorio, l’ambiente e, negli ultimi tempi, lo sviluppo e i risparmi. Ma anche (soprattutto, vorremmo dire) la società. Che esiste dove, quando e se ci sono relazioni, associazioni, luoghi e occasioni di incontro. Proprio quel che si è perduto in questi anni, nelle stesse zone dove esistevano e resistevano legami di comunità radicati e solidi. Come nel Centronord e soprattutto nella pedemontana del Nord e nel Nordest: aree policentriche, disseminate di piccoli paesi. Provate a girarle facendo attenzione ai cartelli che fiancheggiano le strade. Molti dei quali annunciano che lì vicino sta sorgendo, oppure è sorto, un "villaggio Margherita" oppure Quadrifoglio, un "quartiere Europa" o Miramonti. Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po’ esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".

È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante. Principale fonte di conoscenza del mondo: la televisione. Comunicano con gli altri attraverso i cellulari e - i più competenti - le e-mail. Abituati a relazioni senza empatia, frequentano i centri commerciali, non solo per "consumare" ma per uscire di casa, per incontrare gente. Si tuffano nelle notti bianche, negli eventi di massa. Dove gli altri sono "folla" e restano "altri". Estranei.

Questo ci pare il problema principale, oggi. La scomparsa della società, sostituita da un’opinione pubblica pallida. Artificiale. Atomizzata. Non "Opinione", ma "opinioni", raccolte dai sondaggi, rappresentate "dai" e "sui" media. Più che "opinione pubblica": pubblico. Spettatori. Persone senza città. Non-cittadini.

Postilla

Nel dibattito sulla “opinione pubblica” nell’Italia di oggi, ecco finalmente un intervento che si sofferma sui legami tra le trasformazioni sociali e quelle del territorio (dell’habitat dell’uomo, come lo definisce Piero Bevilacqua). Ecco, da un pulpito scientificamente autorevole, la smentita della favola secondo cui il cambiamento degli stili di vita sarebbe la causa principale dello svillettamento del territorio: è vero il contrario, dice Diamanti. Ecco allineati una serie di dati sulla quantità del consumo di suolo e dello spreco edilizio.

Ma non c’è ancora una denuncia delle cause, né una segnalazione dei possibili rimedi. Per fortuna che possiamo rinviare i frequentatori di questo sito ai materiali della prima sessione della “Scuola di eddyburg”, 2006, e al libro No Sprawl, che ne raccoglie e sviluppa i materiali, nonchè ai numerosi testi raccolti nella cartella Consumo di suolo.

Alla democrazia ci si deve inchinare poiché consente di cambiare i governi pacificamente secondo gli orientamenti prevalenti nell’"opinione pubblica". Ma che ci si debba anche inchinare alle scelte compiute dalle masse degli elettori, è tutt’altra questione. Il motivo è o dovrebbe essere chiaro. Gli orientamenti politici e le scelte elettorali sono prodotti soggettivi, dipendono dalla quantità e qualità degli strumenti di cui si è dotati per guardare, analizzare e valutare la realtà. Questi strumenti a loro volta derivano da ciò che sinteticamente possiamo chiamare la maturità morale e civile di un popolo. Nel 1843 Vincenzo Gioberti pubblicò il suo celebre saggio Del primato morale e civile degli Italiani. Orbene, oggi, a considerare lo stato delle cose, parrebbe giunto il momento di scrivere un saggio da intitolarsi Dell’immaturità morale e civile degli italiani. Si sa che a dir ciò si passa per disfattisti, pessimisti e spargitori di pubblici veleni, ma si badi alla sostanza dei fatti.

La maggioranza del popolo italiano ha portato al potere per l’ennesima volta Berlusconi e i suoi, sorda al conflitto di interessi, ammaliata dal successo che lo ha creato tanto ricco, indifferente ai suoi costanti e volgarissimi attacchi alla giustizia e all’uso delle leggi per motivi personali, insensibile alla sua demagogia e al suo enorme potere mediatico nato dai favori di Craxi e rivolto a modellare a suo piacere l’opinione pubblica. Una scalata, quella del Cavaliere, ad un immenso potere economico, politico e "culturale" che non sarebbe stato possibile – ripetiamolo ancora una volta – in alcun altro Paese democratico maturo. Manifestazione essenziale dell’immaturità morale e civile degli italiani è dunque la larghezza del consenso dato al berlusconismo, il quale non è una categoria soggettiva polemica che si possa far cadere per spianare la strada ad un più elevato confronto tra governo e opposizione, ma una consolidata realtà oggettiva.

Alla base di siffatto consenso vi sono la diffusione in tanta parte del Paese di un atteggiamento di sprezzo per lo spirito di legalità e una concezione prevaricante del potere. L’humus in cui esso rafforza le sue radici, nate e diffusesi certo già ben prima che il Cavaliere facesse la sua apparizione, è un deterioramento dello spirito pubblico che semina potenti germi di inquinamento nell’economia e nel tessuto sociale del Paese, diffonde la corruzione politica e amministrativa, deposita nella mentalità collettiva non solo la compiacenza ma persino l’ammirazione per chi sa fare bene i propri affari aggirando quel che conviene aggirare.

E ora un altro malo aspetto emerge: l’intolleranza razzistica e religiosa verso chi non è "padano", non è italico, non è cattolico. Si tratta di una vera e propria miseria spirituale per quello che fu "un popolo di emigranti", di milioni di disperati, miserabili, disprezzati, mal tollerati, umiliati dalle "razze superiori" che pure ne utilizzavano e sfruttavano la forza lavoro. La vecchia storia della memoria corta.

Di fronte a tutto ciò e a molte altre cose che si potrebbero menzionare, l’opposizione si mostra sbalestrata, sbandata, profondamente divisa. Nel Partito democratico si fanno strada le posizioni di chi, sentendosi spiazzato dal grande consenso dato al berlusconismo, ritiene opportuno nobilitare il confronto con esso, rinunciare a vederlo e a combatterlo a viso aperto in quanto sistema di potere partendo dalla mobilitazione morale e civile, prima ancora che strettamente politica. L’Italia dei valori conduce la sua battaglia contro Berlusconi non avendo le risorse, a partire dalla sua leadership, per darle l’occorrente respiro. Il Partito socialista è un fantasma che si aggira nello spazio vuoto. La Sinistra Democratica non trova ancoraggi. I neocomunisti si consumano nella difesa patetica di una bancarotta e si scindono in frammenti. Se le prestazioni dell’ultimo governo di centrosinistra avevano diffuso la persuasione che soltanto il Cavaliere potesse assicurare una salda governabilità del Paese, lo stato attuale delle opposizioni non fa che rafforzarla ulteriormente.

In questo quadro si è levata la denuncia di Moretti, il quale ha invocato il fantasma di una virtuosa "opinione pubblica", assente in Italia. Ma che cosa costituisce un’opinione pubblica? Essa per un verso è la somma empirica delle molteplici e varie opinioni. Per altro verso, ed è questa di cui si denuncia l’estrema debolezza o assenza nel nostro paese, è l’esistenza – e qui occorre richiamare l’originaria concezione dei D’Alembert e di Kant – di una piazza pubblica formata da cittadini pensosi del bene comune, stimolati da una libera informazione autonoma dal potere, sia questo quello del governo o quello dei partiti con i loro interessi particolari, in grado di esprimere giudizi e di assumere comportamenti tali da orientare scelte consapevoli e da influenzare mediante un controllo efficace l’agire dei governanti e dei soggetti politici in generale. Una simile opinione pubblica è un ideale, ma che in certi momenti e paesi ha avuto ed ha pur imperfette attuazioni. E il suo primo presupposto è la presenza di mezzi di informazione non sudditi del potere governativo, economico e partitico. Si guardi in proposito a ciò che accade in Italia. Berlusconi spadroneggia con le sue televisioni, i suoi giornali e periodici, le sue case editrici; la Rai, il cosiddetto servizio pubblico, è lottizzata dai partiti, di governo e no. E quanti sono gli organi di informazione che possono essere definiti davvero "indipendenti"? Le radici di una simile situazione affondano profondamente nella storia passata d’Italia, quando le correnti di opinione erano nella grandissima maggioranza pressoché interamente spartite e soggiogate dalla Dc, dal Pci e dalla Chiesa. Mutatis mutandis siamo ancora dentro questo sistema.

La mancanza in Italia della "opinione pubblica" invocata da Moretti è lo specchio del nostro modo di essere e delle nostre tare storiche. Chi si candida a combatterle con la necessaria energia e determinazione? I candidati a parole sono una folla, sono tutti. E questo non è un buon segno.

In un lunghissimo intervento su queste colonne Franco Bassanini, più volte ministro nei governi di centrosinistra, ha invitato quanti hanno a cuore le sorti del Paese a non tirarsi indietro, ma a dare un contributo bipartisan – come lui sta dando in Francia nella commissione Attali creata da Sarkozy – alle riforme. Sempre che ve ne siano le condizioni, naturalmente. Per quanto riguarda la commissione voluta a Roma dal sindaco di destra Gianni Alemanno e presieduta da Giuliano Amato si fanno già nomi di persone alle quali è stato offerto di essere pensosi dei destini della patria comune. Stando al Corriere della Sera di ieri, si va dall’economista Innocenzo Cipolletta allo scrittore dei “lucchetti dell’amore” Federico Moccia, dai registi Gabriele Cuccino e Franco Zeffirelli a Pier Luigi Celli ex direttore generale della Rai, ora alla Luiss, e ad altri ancora (per ora non si hanno notizie di candidate al femminile). Il selezionatore è il presidente dell’Eurispes, Gian Mario Fara il quale – secondo il giornale – terrà gran conto dei suggerimenti dello stesso Amato. Vedremo come evolverà la singolare vicenda che, al momento, sembra soprattutto coprire il vuoto pneumatico dei programmi di un centrodestra arrivato in Campidoglio senza una strategia politico-amministrativa minimamente adeguata. Uno degli assessori di punta, Fabrizio Ghera (ai Lavori pubblici e, nientemeno, alle Periferie) è noto per non aver mai aperto bocca, da oppositore, nell’Aula Giulio Cesare. Il suo primo discorso è atteso come un evento epocale.

In questi stessi giorni il ministro e leader leghista Umberto Bossi si è accorto che il governo nel quale autorevolmente siede aveva abolito l’Ici e quindi tolto ai Comuni una entrata che possedeva una sua sostanza “federale”. Poi ha detto (questa è una regola berlusconiana assoluta) di essere stato frainteso e che il collega Calderoli sta lavorando ad una unificazione delle tasse sulla casa in modo da sostituire il gettito perduto del’Ici. In realtà Calderoli sta utilizzando una proposta venuta dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), presieduta da Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, con la quale ragionevolmente si chiedeva, e si chiede, che venga scorporata e assegnata ai Comuni – quale imposta sostitutiva dell’Ici – la quota di Irpef che riguarda la parte immobiliare e che, secondo il Sole 24 Ore frutterebbe circa 4 miliardi di euro l’anno. Questo per dare all’Anci quello che è dell’Anci, visto che il Pd sembra come assente nella comunicazione “positiva”.

Per turare le falle di bilancio aperte dai sempre minori trasferimenti statali i Comuni hanno però utilizzato a tutto spiano in questi ultimi sette anni, a partire dal 2001, un altro acceleratore oltre all’Ici: quello degli oneri di urbanizzazione pagati dai costruttori di nuove case, capannoni, ville, lottizzazioni, ecc.. Attenzione però : la legge n. 10, firmata dal ministro socialdemocratico [per la precisione, era repubblicano, del PRI di Ugo La Malfa - ndr] Piero Bucalossi (ahi, quanto rimpianto) nel 1977, prescriveva che quegli introiti andassero a far parte di un conto corrente vincolato presso le Tesorerie dei Comuni e che potessero essere destinati unicamente “alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (cioè luce, gas, fognature, verde pubblico, e poi asili, scuole di vari ordine, cc. n.d.r.), al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché alla acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali”. Legge saggia e illuminata.

Malauguratamente, nel 2001 – secondo la ricostruzione di alcuni esperti (come Sergio Brenna e Lodo Meneghetti) riportata nel meritorio sito di Edoardo Salzano eddyburg.it –l’allora ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini “omise” di riportare nel Testo Unico sull’edilizia n. 380 quell’articolo 12 della legge Bucalossi e divenne dunque possibile per i Comuni destinare a spesa corrente (e non più soltanto a spesa di investimento) gli introiti degli oneri di urbanizzazione. Quando le Tesorerie comunali posero il quesito, nel 2004, al berlusconiano ministro Tremonti, questi fu ben lieto di rispondere, novello La Palisse, che se una norma non è più citata, evidentemente non vige più. E quindi nelle varie leggi finanziarie si diede ai Comuni libertà di spingere sul pedale dell’edilizia comunque e dovunque – lo si vede a occhio nudo girando l’Italia – pur di tirar su quegli euro che da Roma non arrivavano più e rabberciare così i bilanci. Di più: nelle regioni come la bella Toscana dove la Regione ha sub-delegato i Comuni a tutelare il paesaggio, gli Enti locali si trovarono in una mano l’acceleratore del cemento & asfalto e nell’altra la difesa del paesaggio scegliendo molto spesso (come non capirli?) la prima soluzione. Mi dicono tuttavia che i primi segni di preoccupazione e di resipiscenza stanno affiorando, che in un recente convegno tenuto a Longiano (Forlì-Cesena) da”Italia Nostra” regionale alcuni sindaci abbiano espresso serio allarme per il dilagare del cemento speculativo, mentre mancano alloggi economici. Ma siamo ai primi segnali.

L’ultimo governo Prodi – come ho potuto liberamente scrivere su questo giornale alcuni mesi fa – ha proseguito sulla strada sbagliata inaugurata dal governo Amato (se non sbaglio) nel 2001 prorogando anzi fino al 2010 quella “norma bestiale”, come l’hanno definita Brenna, Meneghetti e Salzano, la quale concorre poderosamente a massacrare il Belpaese. Norma che va benissimo a Silvio Berlusconi, nato immobiliarista e teorico della filosofia “ciascuno è padrone a casa sua” che ha sfasciato l’idea stessa di interesse generale o collettivo (orrore) in nome dei mille e mille interessi privati e di clan.

Questo mi è tornato in mente pensando ai destini della Patria e vedendo poche sere fa su TV5Europe il servizio sul referendum proposto dai Verdi della Suisse Romande i quali proponevano una moratoria delle costruzioni essendoci troppo consumo di suolo agricolo o comunque libero. Problema assai più drammatico in Italia. Che è però anche il solo Paese – a differenza di Gran Bretagna o Germania, per esempio – dove non esiste alcuna legge in proposito e dove nemmeno se ne osa discutere, essendo troppo pensosi degli interessi privati e/o corporativi e assai poco di quelli pubblici. Per la commissione Amato attendiamo altri nomi e altre “disponibilità” di massima. Ricordate cosa disse il sempre acuminato Rino Formica a proposito dell’Assemblea Nazionale del Psi voluta da Bettino Craxi a Verona?

Italia: “La politica sull’immigrazione deve tener conto dei diritti umani e non basarsi unicamente sulle preoccupazioni relative alla sicurezza pubblica”, ha dichiarato il commissario Hammarberg

Strasburgo, 29.07.2008 – “Una politica in materia di immigrazione non può basarsi solo sulle preoccupazioni relative alla sicurezza pubblica. Le misure adottate al momento in Italia non rispettano i diritti umani e i principi umanitari e rischiano di appesantire il clima di xenofobia”, con queste parole Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha commentato la pubblicazione del suo rapporto sulla missione speciale condotta a Roma il 19 e 20 giugno scorsi. Tale visita fa seguito alle manifestazioni, a volte molto violente, contro rom e sinti nel paese e rientra nel quadro dell’adozione o preparazione, in tempi relativamente brevi, di una legislazione che miri ad introdurre ulteriori controlli alla libertà di movimento di rom e sinti, la penalizzazione dell’immigrazione clandestina ed ulteriori restrizioni all’immigrazione.

Il Commissario ha inoltre espresso le sue preoccupazioni riguardo il ‘’pacchetto sicurezza” che sembra essere appositamente elaborato per gli immigrati rom nonché per la dichiarazione dello stato di emergenza in tre regioni italiane. “I rom ed i sinti hanno un urgente bisogno di una tutela effettiva dei loro diritti umani ed in particolare dei loro diritti sociali, come ad esempio il diritto ad un abitazione decente e all’istruzione”, ha aggiunto. “Adottare lo stato di emergenza e conferire maggiori poteri ai ‘commissari speciali’ e alle forze dell’ordine non è il giusto approccio al fine di rispondere ai bisogni dei popoli rom e sinti”. Alla consegna in data odierna del suo Memorandum, il Commissario si è detto preoccupato per l’estensione dello stato di emergenza su tutto il territorio nazionale.

Hammarberg ha anche criticato la decisione del governo italiano di considerare reato penale l’entrata ed il soggiorno irregolare di immigrati; lo considera un preoccupante allontanamento dai principi di diritto internazionale. “Queste misure possono complicare le richieste di asilo dei rifugiati e rischiano di accrescere la stigmatizzazione e l’emarginazione sociale di tutti gli immigrati – rom inclusi”, ha affermato.

Il Commissario Hammarberg è anche allarmato per il rimpatrio forzato di immigrati verso alcuni paesi dove è comprovato l’uso della tortura. Facendo particolare riferimento al caso di un cittadino tunisino espulso per ordine del Ministro degli Interni nel quadro della legge sulle misure d’urgenza per combattere il terrorismo, Thomas Hammarberg si è nuovamente opposto a decisioni di questo tipo, decisioni prese sulla base di assicurazioni diplomatiche. Ha ricordato inoltre che laddove individui che rischiano l’espulsione pesentino ricorso davanti alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, gli stati devono attenersi a qualsiasi richiesta da parte di quest’ultima di sospendere la deportazione, in attesa di un’esame del caso. “Il diritto di ricorso individuale è un caposaldo del sistema europeo di tutela dei diritti umani”.

Il Commissario ha infine esortato le autorità italiane alla rapida creazione di un’efficace istituzione nazionale per i diritti umani, al fine di rafforzare il sistema di protezione nel paese.

Il Commissario per i diritti umani è un’istituzione indipendente e non giudiziaria, il cui scopo è promuovere la sensibilizzazione e il rispetto dei diritti umani nei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’attuale commissario, Thomas Hammarberg, è in carica dal 1 aprile 2006.

Dal sito web del Consiglio d’Europa

In apparenza la storia sembra ripetersi: dopo le divisioni sull’Iraq, anche sulla Georgia gli Occidentali dissentono e l’Europa si divide. Ancora una volta Francia e Germania cercano vie non bellicose, aspirano a un mondo fatto di tregue e regole, si sforzano di opporre al vecchio equilibrio fra potenze, poggiato sulla sovranità totale degli Stati, la cooperazione e il diritto: la missione di Sarkozy a Mosca e Tbilisi è stata il tentativo di salvaguardare tale cultura.

Ancora una volta l’Est europeo, non sentendosi protetto dall’Unione, si schiera con Washington e il suo alleato georgiano. Anche le critiche all'Europa si ripetono: Sarkozy è sospettato di accomodamento - di appeasement - verso Putin; Berlino di asservimento al petrolio russo. Quattro Stati orientali dell’Unione (Polonia e i tre baltici) hanno deciso assieme all’Ucraina di esser presenti a Tbilisi, il 12 agosto, per solidarizzare con Saakashvili, descrivere il Cremlino come nemico assoluto, e condividere le parole di Bush e del candidato repubblicano McCain. Allo stesso modo si sono espressi due intellettuali francesi, André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, sul Corriere della Sera del 13 agosto. Riproponendo l’appeasement degli Anni 30, l'Europa sfiorerebbe la morte. Non così l’America, la cui parola sarebbe chiara e inflessibile.

La storia tuttavia non è immobile e molto è mutato, dalla fine della guerra fredda. Washington ha alle spalle fallimenti colossali: due guerre ritenute facili e sbrigative, in Afghanistan e Iraq, si protraggono con costi spropositati, tanto che mancano forze per altri interventi. Il suo prestigio mondiale è spezzato, e la sua presenza si è enormemente estesa - creando sotto Clinton e Bush problemi per la Russia nel Caucaso - ma è una presenza di parole, non di fatti.

L’America può spingere a avventure senza esito. Non costruisce ordine, non dissuade. Saakashvili ha preso le parole per realtà, e adesso s’accorge che erano solo parole. È caduto nella trappola russa ma anche nella trappola che gli hanno teso, irresponsabilmente, repubblicani e lobby interessati a inventare nuovi Spiriti del Male da combattere.

Anche per questo è l’ora dell'Europa. È ora di un ordine mondiale che difenda gli Stati nati dalla fine dell'Urss, ma dentro il quale la Russia non si senta estranea, reietta, nuovo nemico esistenziale utile per vincere elezioni. Il realismo che all’America manca, sono gli europei a poterlo mostrare, dopo secoli di nazionalismi. Può darsi che la tregua negoziata dall’Eliseo sia effimera: ma è l’unico tentativo di parlare alla Russia e di evitare che si ripetano i crimini in Cecenia e l’offensiva in Georgia. Il fatto che Washington parli solo con Tbilisi è segno non di forza ma di debolezza.

Segnala un potere senza responsabilità, dunque finto.

È ancora presto per dire chi perderà: se la Georgia che ha sfidato Putin contando su alleati inaffidabili, se l’America che ha costruito vere basi nel Caucaso, se l’Europa di Sarkozy. Fin da ora, tuttavia, alcuni punti son chiari. Nella catena delle responsabilità, Washington ha un ruolo chiave. Sulla Russia, ancora non esiste un’idea approfondita nella Nato che si vuole allargare. Neppure gli europei pensano davvero la Russia. Difficile capire i disastri odierni, se non si affrontano questi tre punti fondamentali.

Al disastro si è arrivati per colpe russe e georgiane, ma chi ha dato alla Russia il senso di poter tranquillamente violare il diritto internazionale e invadere una nazione sovrana sono stati gli Occidentali e gli Usa. È osservando la secessione del Kosovo che Putin ha creduto di poter impunemente, anch’egli, usare il secessionismo contro un’integrità territoriale. Se dal sogno di un ordine regolato da leggi (la kantiana Repubblica Mondiale) si è passati allo scontro hobbesiano fra Stati-Leviatani, è perché questa seconda soluzione resta vincente negli Stati Uniti, e perché la kantiana Europa si fa dividere. L’ordine che essa difende è stato eroso dalle due potenze, e tuttavia resta l'unico funzionante. Anche se imperfetto moralmente (metà Europa l’ha sofferto), anche se fondato sul contenimento dell’avversario e non sulla sua distruzione (la Nato servì a questo) esso ha dato all’Europa regole basate sulla dissuasione, sullo scontro bellico evitato, sul rispetto di reciproche aree di influenza. Quest’ordine è stato giudicato inservibile e immorale dopo il ‘90, e da allora l’America ha cominciato a pensare se stessa come unico egemone senza vincoli, come incarnazione di Roma antica, come garante etico del mondo.

È quello che ha impedito per oltre un decennio di pensare la questione centrale dell'Unione: questione che consisteva non solo nella sua riunificazione ma nel rapporto con la Russia, con le sue frustrazioni post-imperiali, con la perdita di territori posseduti dai primi dell’800, con l’immensità della diaspora russa (16-17 milioni, divisi fra Ucraina, Baltici, Kazakistan, Bielorussia, Caucaso).

Per questo è così importante rimeditare storia e funzioni della Nato. In origine essa fu pensata come strumento vendicativo, e tale torna a essere soprattutto se s’incarnerà nella Lega delle Democrazie che McCain vuol opporre alla «Russia revanscista». Lord Ismay, primo segretario generale dell’Alleanza, sostenne che lo scopo era di «tenere i russi fuori, l’America dentro, e la Germania sotto». E così sarebbe stato, se l’Unione europea non avesse invece riabilitato la Germania, dandole il peso che le fu negato dopo il 14-18. Oggi verso la Russia si vuol applicare lo schema di Lord Ismay. La Russia deve esser «tenuta sotto», umiliata: accerchiandola come disse Cheney anni fa, spingendola alla follia, suscitandole attorno innumerevoli staterelli autoritari, nazionalisti, assoldati nella guerra Usa al terrorismo.

Dopo anni di ideologica esportazione della democrazia, adesso il pensiero neo-conservatore rivaluta geopolitica e realismo: alla storia non si sfugge e pensare a un ordine etico mondiale è insensato, scopre Robert Kagan nel suo ultimo libro (The Return of History and the End of Dreams, 2008), smettendo le illusioni sulla freedom agenda - l'esportazione della democrazia - nutrite dal 1996. Oggi Kagan sostiene che gli Stati si muovono come nell’800, e fanno bene: custodendo sfere d’influenza, difendendo interessi economici tramite espansioni territoriali. Una realtà che l’Europa non vedrebbe, impigliata com’è nel sogno di un ordine mondiale giuridicamente vincolante. Sembra una svolta ma non lo è. Anche quando è realista, Kagan s’aggrappa all’illusione: che l’America abbia il diritto di agire unilateralmente ignorando vincoli e leggi, espandendosi a piacimento in zone d’influenza altrui, senza mai essere imitata. La storia si è vendicata, il suo grande emulatore è oggi la Russia.

Anatol Lieven sul Financial Times ha scritto il 14 agosto che la vittoria russa in Georgia è una fortuna, perché ha scongiurato la catastrofe. Se la guerra avesse avuto luogo quando la Georgia era già nella Nato non saremmo intervenuti lo stesso, e l’Occidente sarebbe a pezzi. Ragione per cui: non bisogna promettere quel che non si può mantenere. Non si possono creare autocrazie pur di ridurre la Russia, tanto più che la Georgia di Saakashvili non è un faro di libertà. Basta sentire chi l’ha frequentata per anni come Lieven. Basta sentire intellettuali georgiani come Devi Dumbadze, che sulla Neue Zürcher Zeitung del 14-8 racconta il maniacale nazionalismo di Tbilisi e i massicci aiuti militari di Washington. Dumbadze racconta come nella nuova televisione dell’esercito georgiano campeggia una citazione davvero inquietante: «Una volta per tutte dobbiamo capire che mai ci riprenderemo i territori perduti con preghiere ridotte a formalità e speranze nella Lega delle nazioni. Ce li riprenderemo solo con la forza delle armi. Hitler 1932».

Dal festival cinematografico di Locarno dove si trovava, Nanni Moretti qualche giorno fa ha lanciato una provocazione politica. «In Italia – ha detto – l'opposizione non esiste più ma c'è un altro fenomeno ancora peggiore: non c'è più un'opinione pubblica. Il dominio di Berlusconi sulle reti televisive ha spostato e devastato il modo di pensare degli italiani».

Moretti non è il solo ad essere arrivato a questa conclusione; l'autore del "Caimano" ha però il pregio di non esser mosso da alcun interesse né ideologico né pratico; esprime icasticamente un modo di pensare e di constatare che in parte anch'io condivido ma che merita comunque alcune precisazioni. Soprattutto per quel che riguarda la pubblica opinione. Il tema è di grande importanza, specialmente nei Paesi democratici. In essi infatti l'opinione pubblica costituisce la sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria forma.

Anche nei Paesi governati da sistemi autoritari o, peggio, totalitari l'opinione pubblica rappresenta un elemento essenziale cui il potere dedica specialissime cure. Il fine di questi regimi consiste nella sistematica manipolazione delle coscienze affinché siano persuase ad una credenza conforme. Una variante (non necessariamente alternativa) è quella di smantellare ogni tipo di opinione facendo rifluire l'attenzione dei cittadini sui loro interessi privati. Questo processo, se portato alle sue conseguenze ultime, conduce alla desertificazione dell'opinione pubblica. Mi sembra che l´autore del "Caimano" pensi e tema soprattutto questa variante: il dominio delle opinioni private al posto dell'opinione pubblica, alle mire del regime dominante.

Altre volte ho scritto che lo specchio in cui si rifletteva l'immagine che i cittadini avevano del loro Paese si è rotto in tanti frammenti i quali riflettono soltanto la figura e gli interessi frammentati di chi vi si specchia. Tante opinioni private senza più una visione del bene comune: questo è il prodotto del berlusconismo, agevolato e amplificato dal controllo dei "media". Ad esso l'opposizione non ha saputo rispondere: nonostante le intenzioni di seguire una strada opposta ha subito l'egemonia berlusconiana e si è sintonizzata sulla stessa lunghezza d'onda, convinta di poter diffondere messaggi diversi. Allo stato dei fatti l'esito di questo scontro ha dato un solo vincitore e parecchi sconfitti.

Tuttavia l'esito non è definitivo e non tutte le opinioni sono state ridotte alla sola dimensione privata. Ci sono ancora gruppi consistenti di cittadini che coltivano una visione del bene comune, che sentono il bisogno impellente di pensare in termini di bene comune senza contrabbandare dietro queste due parole i loro privatissimi egoismi e le loro personali egolatrie.

Esiste per esempio un'opinione pubblica "berlusconista". Coltivata, amplificata, puntellata con mezzi imponenti, ma di cui sarebbe un madornale errore negare l'esistenza. Sicurezza, tolleranza zero, intransigenza identitaria, fiducia nel leader anche a costo di veder sacrificati alcuni privati interessi. Un'opinione pubblica così conformata costituisce la base di consenso che accomuna le spinte identitarie berlusconiste e leghiste. Caro Moretti, quest'opinione pubblica c'è; anche se da quello specchio emerge una figura che a te ed a me risulta ripugnante, è tuttavia con essa che si debbono fare i conti.

C'è un altro specchio e un'altra opinione pubblica di diversa natura; è quella di cui parla Giuseppe De Rita quando delinea una strategia cattolica fondata sulle comunità locali, sul volontariato, sul doppio pedale del "sacro" e del "santo", cioè della fede e delle opere.

Questa visione del bene comune indubbiamente esiste ma non si identifica né con il Vaticano né con la Conferenza episcopale. Sono piuttosto i cattolici degli oratori, delle case religiose, delle comunità di dimensioni nazionali, di alcuni Ordini religiosi.

Il sacro e il santo. Riesce molto difficile dare una figura politica a questo tipo di opinione pubblica, ma senza una figura politica non esiste una visione di bene comune perché non esiste una "polis", una città terrena dove applicarla. Il sacro non è infatti di questo mondo. Quanto al santo, cioè alle opere, esse costituiscono un´importante presenza testimoniale e missionaria, una rete flessibile come tutte le reti e quindi disponibile ad essere utilizzata da forze esterne. Dietro il santo c'è molto spesso un vitello d´oro da adorare invece del poverello di Assisi e ne abbiamo tutti i giorni la prova.

Esiste anche, da almeno due secoli, ed opera attivamente in tutte le democrazie occidentali un'altra opinione pubblica con caratteristiche sue proprie ed è quella espressa dalla "business community". Possiede potenti strumenti di formazione e di diffusione ed ha una sua precisa visione del bene comune: libertà di mercato, regole blande, considerazione degli interessi costituiti, Stato efficiente e leggero. Insomma il capitalismo, che può assumere di volta in volta forme molto diverse tra loro, dal liberismo al protezionismo, dall'alleanza con la democrazia a quella con la "governance" autoritaria.

Oggi questa opinione pubblica è tendenzialmente orientata verso la versione berlusconista della democrazia, con simpatie leghiste diffuse soprattutto nel Nord-Nordest, ma la "business community" fa comunque parte a sé, ha il suo metro di giudizio, i suoi valori e la sua moralità che si realizza nel profitto d'impresa, "variabile indipendente" alla quale tutte le altre a cominciare dal lavoro debbono conformarsi.

Infine esiste (stavo per scrivere esiste ancora) un'opinione pubblica di centro e di sinistra riformista, progressista, laica. La sconfitta elettorale di un anno fa sembra averla ridotta ad uno stato larvale; non riesce ad esprimere un pensiero unitario e un'egemonia culturale, percorsa da convinzioni forti ma contrastanti: tolleranza, solidarietà, legalità, federalismo, centralismo, pacifismo, sicurezza, diritti, doveri, gregarismo, moderazione, massimalismo. Spore del possibile avrebbe detto Montale. Belle persone e volti consumati. Lotte per conquistare un potere inesistente e futuribile. Trasformismi sottotraccia e idealismi generosi.

Quest'opinione pubblica avrebbe bisogno d'una voce che la rappresenti e di una forma che la riporti in battaglia. E ancora una volta dico: d'uno specchio in cui possa guardarsi e rassicurarsi del proprio esistere.

Alle primarie dello scorso ottobre questa forma sembrò realizzarsi. Sono passati dieci mesi da allora e sembra un tempo lontanissimo. Può tornare soltanto se ricreato da un atto di volontà collettiva. Le scorciatoie individuali non servono a nulla, nascondono piccole vanità e mediocri trasformismi. Serve una volontà di massa per risollevare un Paese sdrucito e frastornato. Si può fare? Fino a poco tempo fa pensavo di sì, ma i giorni passano in fretta e non inducono a pensare positivo. Le spinte centrifughe aumentano e il «si salvi chi può» rischia di diventare un sentimento diffuso. Se volete dare un segnale di riscossa dovete alzarvi e camminare. Altrimenti attaccate la bicicletta al chiodo e non pensateci più. Toccherà pensarci ai vostri nipoti se ne avrete.

Post scriptum. Tre giorni fa l'ufficio statistico europeo Eurostat ha diffuso le cifre ufficiali concernenti il Pil di Eurolandia. Per la prima volta dalla nascita della moneta unica il Pil del secondo semestre di quest´anno arretra dello 0.2 per cento. Non vuol dire ancora recessione ma poco ci manca.

L'inflazione dal canto suo è ferma al 4 per cento, ma molti segnali registrano un'inversione di tendenza: petrolio, materie prime, prodotti ferrosi, derrate alimentari denunciano consistenti ribassi sui mercati internazionali anche se su molti mercati locali questi ribassi ancora non arrivano, ostacolati dalla lentezza dei circuiti distributivi e dalla presenza di monopoli e cartelli.

Fermo restando che l'andamento dell'inflazione dev'essere continuamente controllato, il pericolo incombente riguarda - ormai risulta in modo evidente - una drastica caduta della domanda di consumi e di investimenti con il cupo corteggio di disoccupazione e di ulteriore arretramento del reddito nazionale e individuale.

Da questo punto di vista l'intera impostazione della manovra finanziaria risulta a dir poco fuori tempo. La compressione triennale della spesa per un totale di 36 miliardi dei quali 16 già nel primo esercizio, a parità di pressione fiscale, configura una strategia insensata. Se è vero che la crisi attuale ricorda per gravità e dimensioni gli eventi del triennio 1929-1932, è altrettanto vero che le misure finanziarie fin qui attuate ricordano quelle che in Usa furono prese dalla presidenza repubblicana precedente all'avvento di Franklin D. Roosevelt. Misure sciagurate, che aggravarono ulteriormente la crisi e rallentarono gli effetti del rilancio rooseveltiano sulla domanda di consumi e di investimenti.

In queste condizioni, quali che siano le opinioni di Tremonti e di Calderoli, parlare di federalismo fiscale è pura accademia e fumo negli occhi per distogliere l´attenzione da questioni assai più cogenti. Una trasformazione radicale del sistema tributario e dei poteri amministrativi effettuati in tempi di recessione e di deflazione è inattuabile poiché comporta gravissimi rischi. Come se, in tempi di tempesta, il timone della nave fosse affidato a venti timonieri anziché ad uno. Basta enunciare un'ipotesi del genere per esserne terrorizzati.

Giunto avventurosamente al potere, il dittatore dello stato libero di Bananas comunicava ai sudditi le sue prime riforme. Tra queste, l'obbligo di indossare la biancheria sopra i vestiti, e non sotto. Divertente. Ma ci scuserà Woody Allen se consideriamo la sua immaginazione superata - almeno nella repubblica delle banane che abitiamo noi - dal ministro degli interni e dai sindaci di mezza penisola.

Alle «ordinanze creative» e alla «fantasia» dei sindaci si era appellato qualche settimana fa Roberto Maroni, quello che persino una sonnacchiosa Europa dei diritti ha saputo riconoscere come un mix di malafede, xenofobia e razzismo. Ora che la fantasia è stata declinata in azione repressiva, lo scenario appare chiaro quanto grottesco. A Novara (sindaco leghista Massimo Giordano) non si può stare al parco in più di due dopo il tramonto. A Voghera non si può sedersi sulle panchine di notte. A Cernobbio se ti sposi arriva un'ispezione sanitaria a casa. A Rimini non si può bere dalla bottiglia per la strada (titolo sul Resto del Carlino: «Vietato bere dalle bottiglie anche di giorno», Woody, dilettante!). Lo stesso a Genova. A Firenze, la città del mitico assessore Cioni, è vietato agli strilloni vendere i giornali ai semafori, ma si vigila attentamente anche sui ragazzini che giocano a pallone in un parco pubblico, grave attentato alla sicurezza.

Estinti i lavavetri, la mamma dei capri espiatori è sempre incinta, e le multe serviranno a comprare nuove telecamere di controllo. A Venezia non si può girare per le calli con grosse borse. Groppello (comune di Cassano d'Adda, sindaco forzista Edoardo Sala), chiude nel giorno di ferragosto l'unica spiaggia sul fiume perché è in programma una festa di cittadini senegalesi. Motivazione: «Sicurezza del territorio, ma anche di questi immigrati, che arrivano in gran numero facendo confusione e rischiando di annegare». Come fantasia, come creatività, potrebbe bastare, ma non è che l'inizio.

L'arrivo - ci siamo - è l'immagine della prostituta nigeriana segregata e abbandonata a Parma da vigili urbani diventati secondini, privata di ogni dignità e fotografata come una bestia in gabbia. Per il nostro bene, per la nostra sicurezza, per la nostra tranquillità, piccole Abu Ghraib comunali crescono, nella certezza che le coscienze se ne faranno una ragione. La chiamano fantasia, o creatività, ma si tratta sempre della stessa cosa: un digeribile travestimento dell'abuso di potere. E infatti, che razza di fantasia ci sarebbe nel picchiare, deportare, angariare, multare, incarcerare, umiliare i più deboli? Nessuna. Inventare un'emergenza sicurezza è stato semplice, sostenerla e propagarla grazie ai media controllati dal capobanda che ha vinto le elezioni anche. Dedicarle aperture di tg e allarmati fondi sulla stampa pure. E ora? Ora che non si sa bene quale sicurezza garantire, e da che cosa, e da chi, si fa appello alla fantasia. Qualche senegalese non potrà fare il bagno nell'Adda, la prostituta nigeriana (con clienti italiani) non creerà più allarme, il paese è salvo. Fantasia. Del resto, sapete dire cos'ha trasformato il vecchio caro ed evocativo manganello in una semplice «mazzetta distanziatrice»? Sempre lei, la fantasia. La fantasia al potere. Ai tempi del colera.

A leggere i titoli e i testi pubblicati dai giornali sulla Finanziaria di Giulio Tremonti si direbbe che mai prima d’ora si era vista una legge così perfetta ed una politica economica così adatta a soddisfare i bisogni, i desideri, le speranze d’un paese. Nonostante una crisi che sta squassando il mondo intero. Nonostante la pessima eredità lasciata dal precedente governo. Nonostante la fragilità del capitalismo italiano. Nonostante l’inefficienza della pubblica amministrazione. Nonostante la pochezza del sindacalismo. Nonostante i malanni dell’Europa.

La grandezza di Tremonti. La saggezza di Tremonti. La prudenza di Tremonti. La cultura di Tremonti. L’audacia di Tremonti. La forza di Tremonti. Di personaggi come lui ne nasce uno ogni secolo. Nella sala della Maggioranza, quella dove Giovanni Giolitti teneva ai tempi suoi il Consiglio dei ministri, il ministro dell’Economia ha presentato il suo capolavoro con ai fianchi il fior fiore del governo: Brunetta, Scajola, Alfano, Sacconi, Maroni. Alle spalle, appeso al muro, il ritratto di Camillo Benso Conte di Cavour.

Berlusconi non c’era, per non offuscare la gloria del pro-dittatore.

A leggere i titoli e i testi dei giornali, necessariamente sintetici, gli aspetti di maggior rilievo del capolavoro tremontiano erano soprattutto quattro: la miracolosa rapidità con la quale il governo era riuscito ad approvare la legge finanziaria (nove minuti e mezzo), la Robin tax, la carta dei poveri, la "deregulation" del mercato del lavoro. Un impasto virtuoso di liberismo e di socialismo. Più governo e più mercato. Concretezza e filosofia. Durezza e dolcezza. Federalismo e autorità.

Infine la Chiesa, il suo insegnamento morale, i suoi valori sola speranza d’Europa e della società italiana giardino del Papa.

Ne saremo noi degni?

Commentando il capolavoro tremontiano il ministro-ombra Bersani ha detto: ci sono moltissime cose in quella legge ma manca la cosa. Tito Boeri, a proposito della Robin tax, ha scritto ieri che si tratta d’una bufala di eccezionali dimensioni. Il giornale della Confindustria, contraddicendo l’entusiasmo dei suoi proprietari, ha sottolineato in sei pagine di seguito l’impianto classista della manovra e i rischi di addossarne il peso ai ceti più deboli.

Chi ha ragione? Non vorrei passare da un eccesso all’altro. C’è anche del buono nella manovra di Tremonti. Per esempio aver anticipato i decreti d’applicazione della Finanziaria a giugno e la loro conversione in legge entro luglio insieme al documento di programmazione triennale. Di aver asciugato la sessione di bilancio che si concluderà entrò il prossimo ottobre. Questioni di metodo, in buona parte anticipate da Padoa-Schioppa. Di aver puntato sulla liberalizzazione di alcuni servizi locali già predisposta dalla Lanzillotta. Di aver previsto un programma di contenimento della spesa pubblica intermedia, quella in gran parte destinata all’acquisto di beni necessari al funzionamento della pubblica amministrazione. Mettendo sotto controllo quei capitoli di spesa il predecessore di Tremonti riuscì a bloccare il ritmo di aumento della spesa corrente che nel quinquennio 2001-2006 aveva sperperato due punti e mezzo di Pil.

A parte questi aspetti positivi, il vero senso politico della manovra di Tremonti sta nello smantellamento degli strumenti di contrasto all’evasione. Con un sofisticato meccanismo di anticipi di entrate e posticipi di uscite secondo uno schema di cassa che lo stesso Tremonti aveva già sperimentato nel quinquennio 2001-2006 e infine con varie "una tantum" a cominciare dall’imposta patrimoniale sulle risorse petrolifere.

Ne saranno beneficiari i professionisti e le partite Iva, verranno tassati i servizi pubblici cioè i loro utenti. L’aumento di cinque punti e mezzo dell’Ires sarà inevitabilmente trasferito sui prezzi al consumo. Nessun provvedimento avrà più luogo sui salari e sulle famiglie che non ce la fanno. Lo sgravio dell’Ici ha dissipato 2 miliardi di euro, la carta di povertà testé istituita butterà via un altro mezzo miliardo e questo sarà stato tutto per alleviare i pesi e rilanciare la domanda.

Ma bisogna riconoscere che c’è del genio nel sedurre i "media" con gli specchietti e le collane di vetro come fecero i "conquistadores" sbarcati cinque secoli fa in Messico e in Florida. La carta di povertà è geniale, la Robin tax è geniale: conquistano per giorni le prime pagine dei giornali e i video di tutte le televisioni, si aprono dibattiti sulla personalità di Robin Hood, sulla foresta di Sherwood, un governo guidato dal più ricco degli italiani tasserà i ricchi per dare ai poveri, che cosa si vuole di più? Non è questo il miracolo? Non serve a moltiplicare il consenso e a prolungare il più possibile la luna di miele?

Poi si scoprirà che si è trattato di patacche. Qualcuno l’ha già dimostrato ma non buca il video e neppure le prime pagine. Intanto il governo guadagna un tempo prezioso tanto quanto ne perse il governo Prodi logorato dalle risse interne fra i troppi galletti di quel pollaio.

Decidere decidere decidere. In nove minuti e mezzo se possibile, in due ore, in un giorno. Michele Serra ha scritto: 127 decisioni al giorno, non importa se tutte sbagliate. Ha ragione, oggi è questa la sindrome della gente.

Un presidente emerito della Repubblica di cui ho l’onore di essere buon amico mi ha confidato l’altro giorno tutta la sua amarezza nel constatare che gli italiani sono abbacinati dal decisionismo purché sia. Non tentano nemmeno di esaminarne i contenuti, sono felici di delegare ogni responsabilità ad un’autorità e se quella mostra i muscoli e strappa alcune regole fondamentali che presidiano lo stato di diritto e la democrazia, chi se ne infischia. Purché si decida.

Forse alla prova dei fatti si sveglieranno. Intanto gli intellettuali dibattono se è fascismo oppure no, se è dittatura oppure no, si citano autori, si rievocano Gramsci e Pasolini. Tempo perso e pagine sprecate.

Si rafforza un luogo comune in questi giorni: bisogna sperare che i provvedimenti adottati si attuino e portino buoni frutti, augurarsi il peggio sarebbe criminale.

Giuro sui miei figli di non essere un criminale e quindi non mi auguro affatto il peggio. Questo mi obbliga ad applaudire una politica basata soltanto sull’immagine e... sotto il vestito niente? Oppure a parlar d’altro per distrarre il pubblico come si usa fare per accalappiar le allodole e friggerle in padella?

Mentre Tremonti mandava in scena il suo capolavoro economico e finanziario, Berlusconi teneva anche lui il palcoscenico da par suo sulla sicurezza e sulla giustizia.

Bloccava ogni notizia sulla magistratura inquirente e scriveva al presidente del Senato una lettera che farà storia, assumendosi la diretta responsabilità del congelamento dei processi, giurando naturalmente sui suoi figli la sua innocenza e accusando d’esser sovversivi i giudici che pretendono di giudicarlo.

«Ci riporta di nuovo ad una situazione che speravamo di aver superato» ha detto Veltroni dinanzi all’assemblea dei democratici preannunciando una resistenza ferma e responsabile. Gli organi rappresentativi della magistratura hanno anch’essi reagito con composta fermezza allo stravolgimento dello stato di diritto. Il presidente della Repubblica continua a sottolineare la gravità di questa situazione. La stessa opinione pubblica, ancorché imbambolata dalle televisioni, mostra qualche primo segnale di resistenza: il consenso a Berlusconi che aveva toccato il tetto-record del 58 per cento a metà maggio, quattro giorni fa è sceso di quattro punti al 54 per cento.

Ma appena un anno fa la pubblica opinione avrebbe reagito con ben diversa energia a queste sceneggiate. Il deterioramento dello spirito pubblico ha molte cause: paura del nuovo, aumento degli egoismi, difficoltà di tirare avanti la vita e per i giovani di costruirne una nuova, mediocrità delle classi dirigenti sia di destra sia di sinistra, rifugio nell’antipolitica e nel «gossip» come antidoto alla frustrazione.

La conseguenza è un Paese fermo, ripiegato sui luoghi comuni che deturpano il senso comune. Intanto la linea di successione di questa Repubblica in cerca di un Lord Protettore è già stabilita: sarà Giulio Tremonti dopo il Berlusconi IV. Fini non sarà contento ma Bossi sì: è il nordismo, bellezza, nella sua peggiore declinazione.

Una volta si diceva: «Noi, popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra...» e nasceva l'Onu. Ora, molti decenni dopo, la musica è cambiata: «Noi, i leader delle maggiori economie mondiali, sia sviluppate che in via di sviluppo, ci impegnamo a combattere il cambiamento climatico secondo le nostre comuni ma differenti responsabilità...». Così conclude il G8 del Giappone. E c'è già chi fa i conti di guadagni e perdite a Wall Street, chi richiama in servizio i poliziotti della Diaz, chi allinea gli sherpa della diplomazia, chi sogna l'isola della Maddalena, al largo della Costa Smeralda, l'anno prossimo, in luglio. Magnifica vacanza, davvero.

Sono piccoli esseri, avari e ipocriti, quelli che hanno in mano il pianeta. Gli toccano responsabilità troppo grandi. Già l'anno scorso, al G8 tedesco di Heiligendamm, quello guidato da Angela Merkel, si era concordato di tagliare le emissioni di anidride carbonica del 50% per contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi per metà secolo. Hanno avuto tutto un anno per studiare la cosa, per mettersi d'accordo, convincere il mondo. Mesi dopo, a Bali, al Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) gli scienziati hanno fatto sapere che lasciando andare le cose senza intervenire, nel 2050 vi sarebbe stato un aumento nella domanda di petrolio del 70% e di emissioni di anidride carbonica del 130%, con il risultato di un aumento di 6 gradi centigradi nella temperatura, e la conseguente scomparsa di molte città e intere civiltà costiere, con Venezia come simbolo universale. Ma non è bastato.

Al G8 giapponese gli sherpa dediti all'ambiente avevano l'idea che l'obiettivo di tagliare a metà le emissioni per il 2050 fosse già raggiunto e che si dovesse stabilire solo come e quando. Si appoggiavano alle cifre presentate in giugno dall'Agenzia internazionale dell'energia, Aie. Per tagliare le emissioni del 50% - il minimo, molto meglio arrivare all'80% - sarebbero serviti nel periodo 2008-2050, 45 mila miliardi di dollari, pari all'1,1% del pil globale del periodo. L'energia sarebbe cambiata, con invenzioni ancora non provate, nell'industria, nel civile, nei traporti. E sarebbe stata necessaria una collaborazione tra tutti, con un piano preciso e un calendario.

Niente da fare. Nessuna scadenza, e anche il 2050, anno decisivo, è saltato. Chissà se i mari si calmeranno, se Venezia si salverà lo stesso. All'opposizione storica degli Usa si sono uniti i paesi in sviluppo, Cina in testa, alla ricerca del loro giusto e meritato inquinamento. Probabilmente temono che i G8 li vogliano ingannare, ancora una volta. Così rispondono: cominciate voi a ridurre dell'80%; un po' per volta. Quando lo farete sul serio, allora cominceremo anche noi.

E' il G8, bellezza. Sono già passati otto anni dai tempi di Genova. Fu allora che per l'ultima volta i popoli delle Nazioni unite cercarono di dire: «non in mio nome». Volevano evitare il flagello della guerra, della fame, del disastro ambientale. Ma gli otto leader, spaventati dallo sconquasso, dissero come sempre di no.

Famiglia Cristiana

Il presidente spazzino nel "paese da marciapiede"

editoriale

Bene fa il Governo a prendere provvedimenti su annosi problemi (nella foto: Berlusconi a Napoli). Ma riuscirà a fugare il sospetto che quando è al potere la destra i ricchi si impinguano e le famiglie si impoveriscono?

È un "Paese da marciapiede" quello che sta consumando gli ultimi giorni di un’estate all’insegna della vacanza povera, caratterizzata da un crollo quasi del 50% delle presenze alberghiere nei luoghi di vacanza. Dopo vari contrasti tra Maroni e La Russa, sui marciapiedi delle città arrivano i soldati, stralunati ragazzi messi a fare compiti di polizia che non sanno svolgere (neanche fossimo in Angola), e vengono cacciati i mendicanti senza distinguere quelli legati ai racket dell’accattonaggio da quelli veri.

A Roma il sindaco Alemanno, che pure mostra in altri campi idee molto più avanzate di quelle che il pregiudizio antifascista gli attribuisce, caccia i poveri in giacca e cravatta anche dai cassonetti e dagli avanzi dei supermercati. Li chiamano scarti, ma lì si trovano frutta e verdura che non sono belli da esporre sui banchi di vendita. E allora se vogliamo salvare l’estetica, perché non facciamo il "banco delle occasioni", coprendo con un gesto di pietà (anche qui "estetico"), un rito che fa male alle coscienze? Nei centri Ikea lo si fa, e nessuno si scandalizza. Anzi.

Ma dai marciapiedi sparisce anche la prostituzione (sarà la volta buona?) e sarebbe ingeneroso non dare merito al Governo di aver dato ai sindaci i poteri per il decoro e la sicurezza dei propri cittadini. A patto, però, che la "creatività" dei sindaci non crei problemi istituzionali con questori e prefetti e non brilli per provvedimenti tanto ridicoli quanto inutili; e che il Governo non ci prenda gusto a scaricare su altri le sue responsabilità, come con l’uscita tardiva e improvvida (colpo di sole agostano?) della Meloni e di Gasparri, che hanno chiesto ai nostri olimpionici di non sfilare per protesta contro la Cina (il gesto forte, se ne sono capaci, lo facciano loro, i soliti politici furbetti che vogliono occupare sempre la scena senza pagare pegno!).

Tornando al "Paese da marciapiede", ha fatto bene il cardinale Martino, presidente del Pontificio consiglio per i migranti, ad approvare la lotta al racket dell’accattonaggio senza ledere il diritto di chiedere l’elemosina da parte di chi è veramente povero. Il cardinal Martino ha posto un dubbio atroce: la proibizione dell’accattonaggio serve a nascondere la povertà del Paese e l’incapacità dei governanti a trovare risposte efficaci, abituati come sono alla "politica del rattoppo", o a quella dei lustrini?

La verità è che "il Paese da marciapiede" i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del "Presidente spazzino", l’inutile "gioco dei soldatini" nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone (che, però, è meritoria, e Brunetta va incoraggiato). Ma c’è il rischio di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le "buffonate", che servono solo a riempire pagine di giornali.

Alla fine della settimana scorsa sono comparse le stime sul nostro prodotto interno lordo (Pil) e, insieme, gli indici che misurano la salute delle imprese italiane. Il Pil è allo zero, ma le nostre imprese godono di salute strepitosa, mostrando profitti che non si registravano da decenni. L’impresa cresce, l’Italia retrocede. Mentre c’è chi accumula profitti, mangiare fuori costa il 141% in più rispetto al 2001, ma i buoni mensa sono fermi da anni. L’industria vola, ma sui precari e i contratti è refrattaria. La ricchezza c’è, ma per le famiglie è solo un miraggio. Un sondaggio sul tesoretto dei pensionati che sarà pubblicata su Club 3 dice che gli anziani non ce la fanno più ad aiutare i figli, o lo fanno con fatica: da risorsa sono diventati un peso.

È troppo chiedere al Governo di fugare il sospetto che quando governa la destra la forbice si allarga, così che i ricchi si impinguano e le famiglie si impoveriscono?

la Repubblica

La scelta delle gerarchie

di Edmondo Berselli

Alla fine per rintuzzare le critiche di Famiglia Cristiana al governo Berlusconi e per spegnere il focolaio delle polemiche è dovuto intervenire il direttore della sala stampa del Vaticano: e in quel momento si è capito che se padre Federico Lombardi aveva scelto di intervenire ai microfoni del Tg1 voleva dire che sullo sfondo si erano mosse le alte gerarchie, chissà, la segreteria di Stato, la presidenza della Cei, evidentemente preoccupate per la piega presa dagli eventi, e dalla durezza delle risposte nel governo e nel Pdl.

E difatti padre Lombardi, con le sue misuratissime parole, ha provveduto a ripartire le competenze e a definire le responsabilità: Famiglia Cristiana, ha detto il portavoce del papa, è un giornale importante del mondo cattolico ma non rappresenta affatto la linea del Vaticano o della Cei, e quindi i suoi giudizi identificano soltanto chi li ha scritti e il direttore del settimanale, don Antonio Sciortino.

Difficile immaginare una presa di distanza più radicale. Non si ricordano interventi equilibratori di questo tenore allorché il settimanale dei Paolini aveva criticato aspramente Romano Prodi e il suo governo, e più tardi il «pasticcio in salsa pannelliana» del Pd. E a questo punto viene anche da chiedersi per quale motivo le alte sfere vaticane hanno deciso un intervento che ha tutta l’aria di voler ridurre ufficialmente a Famiglia Cristiana a voce periferica e irrilevante.

Si può dissentire dalle valutazioni espresse dall’editorialista Beppe Del Colle, o comunque giudicare esasperato il giudizio secondo cui con misure come «la sciocca e inutile trovata» delle impronte digitali ai bimbi rom il nostro Paese sfiora il rischio di un nuovo fascismo. Ma nondimeno, per inquadrare decentemente i fatti, occorre anche considerare che il più importante e venduto giornale cattolico rappresenta un punto di vista significativo nella cultura cattolica, e non solo cattolica, italiana.

Sotto questa luce, non è facile definirlo politicamente. Destra e sinistra non sono termini che possono restituire integralmente la posizione storicamente rappresentata dal giornale dei Paolini. Infatti Famiglia Cristiana si colloca rigorosamente nella tradizione cattolica per ciò che riguarda la concezione della famiglia, e su altri temi che attengono al magistero etico della Chiesa. Ma nello stesso tempo il settimanale ha sempre rappresentato un punto di riferimento per il cattolicesimo più aperto e non impaurito dalla modernità. L’ortodossia verso il magistero papale, insieme con l’amore filiale manifestato verso i pontefici da Wojtyla a Ratzinger, non ha mai impedito ai Paolini, prima sotto la direzione di don Leonardo Zega e poi con la guida di don Sciortino, di esporre una propria linea culturale e finanche "sociale", legata a quelle inquietudini conciliari che hanno vivificato a lungo il cattolicesimo italiano e che hanno trovato nel papato di Montini l’espressione più compiuta, e nel pensiero del cardinale Martini la presenza più suggestiva.

Sarebbe una sciocchezza attribuire alla direzione di Famiglia Cristiana e ai suoi giornalisti un orientamento esplicitamente di sinistra. Si scadrebbe al grado di livore manifestato in questi giorni da Maurizio Gasparri, e dalle controaccuse di fascismo da parte dell’ex Udc Carlo Giovanardi (che si è scagliato contro i «toni da manganellatore» che don Sciortino consente ai suoi collaboratori). Eppure, non ci sono dubbi che nel corso degli anni Famiglia Cristiana ha rappresentato una delle sempre più rare isole di riflessione e anche di critica verso l’ineluttabilità del disincanto politico, e verso l’edonismo cinico che ha segnato l’ultima fase della modernizzazione del nostro Paese.

Se esiste un luogo in cui persiste un atteggiamento non corrivo, cioè non arrendevole, verso la brutalità e la volgarità dell’Italia consumista e televisiva, questo è stato ed è Famiglia Cristiana. Prendere tale atteggiamento e proiettarlo come una critica essenziale verso il berlusconismo può essere una forzatura: ma nondimeno è connaturata alla mentalità del giornale dei Paolini l’idea di una società sobria, esente dai fulgori effimeri, dagli amori fatui, dall’iperconsumo irresponsabile. E di converso di una partecipazione alla sofferenza degli umili, qualunque sia il loro posto nella società dell’euforia coatta. Una condivisione dettata dalla fede, dall’umanità, dalla curiosità verso ciò che è diverso, e dalla disponibilità culturale verso ciò che è inedito.

Che da destra si manifesti un’insofferenza tanto acuta verso il settimanale cattolico sembra la dimostrazione palese che il rapporto con il mondo cattolico viene sentito sotto un aspetto strumentale e problematico. Come una risorsa politica ed elettorale, ma anche come una possibile fonte di delegittimazione. D’altronde, appartiene interamente allo spirito di Famiglia Cristiana la critica verso quei provvedimenti governativi di taglio spettacolare, che sembrano fatti apposta per aumentare l’inquietudine dei cittadini, vale a dire per intensificare l’allarme sociale che dichiarano di voler combattere (con rischi, se non di un nuovo "fascismo", di un circolo vizioso di misure sempre più aspre e sempre più inadeguate rispetto all’allarme generato).

Non è facile oggi stare dentro i panni del direttore di Famiglia Cristiana. Rappresenta una posizione impopolare rispetto a quel mondo cattolico, maggioritario, che dopo la fine della Dc ha scelto di farsi rappresentare dalla destra. Non troverà sostegni apprezzabili a sinistra, dove la parte laica guarderà sempre con sfavore le sue posizioni sui temi politicamente sensibili della bioetica. Ma il pericolo maggiore, prima ancora delle proteste di chi viene criticato, e che riguarda tutti i cattolici consapevoli, è quello di restare schiacciati da un implicito patto di potere fra la destra trionfante di questa stagione e il realismo politico delle gerarchie vaticane: cioè dalla strana e nuova conciliazione che sembra delinearsi, un nuovo patto di interessi e di potere che potrà premiare la Chiesa come istituzione temporale, ma che lascerebbe senza voce un cattolicesimo che ancora accetta di misurarsi con i dubbi, le incertezze e le angosce del nostro tempo.

Una dichiarazione del Comitato Olimpico Internazionale, diffusa all’indomani della guerra fra Georgia e Russia, riassume molto bene l’epoca in cui viviamo e lo stato mentale che la caratterizza: stato fatto di cecità, ignoranza, stupidità militante, irresponsabilità. «Non è quello che il mondo vorrebbe in questo momento vedere», sentenzia a Pechino il Comitato, e forse non sa quanto è fedele al vocabolario dominante nei governi e nei giornali d’Occidente. Anch’essi non vogliono guardare quel che accade e di conseguenza non lo vedono: non da oggi, ma da decenni. Ci si dichiara delusi, traditi, come se le Olimpiadi non fossero state questo sempre, dalle tirannidi greche antiche fino ai Giochi di Hitler nel ’36: un intreccio di bellezza estatica e di brutture, un fascinoso mito d’armonia poggiato sul duro pavimento di realtà fratricide. Le Olimpiadi sono sempre state un mondo parallelo, e lungo i millenni non hanno mai sostituito il mondo effettivo anche se ne hanno raffigurato le illusioni: l’umanità naviga triste verso lidi di felicità fittizia nelle odi di Pindaro come nella modernità.

Le Olimpiadi del 2008 non sono state infangate. La stupidità umana è un fango che precede il mito anche quando se ne nutre, e la caucasica guerra estiva lo conferma: non si può neppure escludere che i bellissimi simboli d’unità a Pechino siano un’immagine insopportabile per il cuore geloso di Mosca, che vede l’impero cinese affermarsi e il proprio degenerare. Al momento tuttavia Putin sembra vincente.

La Georgia non pare aver ripreso i territori che ritiene suoi e si ritira, Washington che era il principale alleato di Tbilisi cerca di negoziare soluzioni Onu accettabili per Putin. Vacilla infine la strategia occidentale alle periferie russe: l’incorporazione nella Nato di Georgia e Ucraina s’allontana.

Sono quasi vent’anni che non vediamo, non ci prepariamo, non pensiamo veramente la fine dell’impero sovietico. Quest’intermezzo era colmo di premonizioni ma l’abbiamo traversato con occhi bendati e idee defunte: con reminiscenze di Hitler e dei cedimenti democratici del ’38, con lo spirito resuscitato del ’14-’18 e dell’autodeterminazione dei popoli. In questi anni la mondializzazione ha messo le radici, accelerata da Cina e India, ma nessuno strumento è stato apprestato per governarla. L’unica bussola resta il predominio unilaterale americano, la sua presenza sempre più estesa in zone strategiche ricche di petrolio e gasdotti. L’unica lente attraverso cui si guarda il reale è quella dell’equilibrio delle potenze, della balance of power che gioca un nazionalismo contro l’altro. Clinton non è Bush junior ma il suo atteggiamento, come quello di Bush padre, non fu diverso. La fame di controllo sul Caucaso ha accomunato tre presidenze Usa, spegnendo i primi passi russi verso il post-nazionalismo e accrescendo nei suoi dirigenti il senso di umiliazione, offesa, risentimento.

In questa vecchia politica si mescolavano due ideologie. La prima immaginava un mercato mondializzato che poteva fare a meno della politica proprio mentre si moltiplicavano nel mondo conflitti più che mai politici su risorse e petrolio. La guerra in Iraq è stata l’acme del Grande Gioco attorno alle risorse, cui si sono aggiunte le interferenze nel Caucaso, la Nato usata come gingillo di potenza, le basi militari insediate in Asia centrale durante le guerre anti-terrore. La seconda ideologia è il nazionalismo etnico, che è riemerso nel pensiero occidentale cancellando la lezione di due guerre mondiali catastrofiche. L’aggressione serba contro i separatismi jugoslavi è sfociata in una guerra che ha visto l’Occidente intervenire a giusto titolo per evitare carneficine ma senza idea alcuna sulle società multietniche da ricostruire. I cedimenti mentali si sono susseguiti: si cominciò con l’appoggio a nazioni omogenee (l’accordo di Dayton suddivise la Bosnia in tre clan etnici) e si finì con il beneplacito alla secessione del Kosovo nel 2008. La sconfitta Usa ed europea ha inizio allora: se il mondo ragiona come nel ’14, non stupisce che anche Putin manipoli le etnie a proprio vantaggio.

Ora ci si indigna tutti sorpresi, ma quel che succede è una logica conseguenza di queste resuscitate idee defunte. E non voler vedere serve a poco, perché il non-visto esiste pur sempre e non eclissa colpe, omissioni, follie che sono di tutti. Non eclissa innanzitutto le colpe del Presidente georgiano, al potere dopo la Rivoluzione delle Rose del 2003. Il regista Otar Iosseliani, intervistato da La Repubblica, lo chiama «un folle, nel senso letterale del termine»: «Siamo nelle mani di un uomo che non ha la minima idea di come si governa ed è in preda al suo delirio di onnipotenza. È evidente che si è fatto prendere dal panico, abboccando alle provocazioni della Russia». Non meno folle è Putin, «anche se molto più intelligente»: non vuol rassegnarsi alla perdita dell’Urss, non ha mai accettato la sovranità della Georgia. Sono anni che eccita Abkhazia e Ossezia del Sud, ai confini georgiani, russificandole. Quasi tutti gli osseti del Sud hanno ottenuto in questi anni passaporti da Mosca e da Mosca sono tutelati.

Una debole tregua era stata instaurata, ai tempi di Shevardnadze presidente georgiano ed ex ministro degli Esteri di Gorbaciov. Truppe di interposizione erano state schierate nella regione - sulla base d’un accordo russo-georgiano stipulato il 24 giugno ‘92 - composte da russi, georgiani, osseti. È questo ordine che il nuovo presidente georgiano ha violato, aggredendo l’Ossezia del Sud e ignorando due referendum favorevoli all’indipendenza. È probabile non abbia agito da solo, e che nella sua follia ci sia del metodo. È il metodo di chi si sente spalleggiato, se non istigato. Alle sue spalle c’è un’America che mira a un’egemonia senza saperla esercitare; che da anni addestra militari georgiani, finanzia il nazionalismo di Tbilisi, promette l’adesione alla Nato più per accendere incendi che per spegnerli. È la crescente presenza Usa nel Caucaso e in Asia centrale che ha spinto anche il Cremlino alla follia. Senza l’appoggio Usa, Saakashvili sarebbe stato meno avventurista. Il suo metodo è l’attacco bellicoso, visto come sostituto della politica. Nato e Unione Europea sono per lui non strumenti di pacificazione, ma attrezzi di guerra.

Infine c’è l’irresponsabilità, vasta, dell’Europa. Sono anni che alle sue periferie si guerreggia, e ancora non ha preso forma un pensiero forte, convincente per Mosca e le nazioni che per secoli erano nella sfera d’influenza russa. Fra l’offerta d’adesione e l’indifferenza c’è il nulla, e il continuo tergiversare facilita ogni sorta di provocazioni. Non solo: l’adesione è offerta sbadatamente, dimenticando le radici ideali dell’Unione. Si appoggia la sovranità georgiana, ma senza spiegare che la sovranità in Europa non è più assoluta. Si permette al leader georgiano di usare la bandiera europea, e di stravolgerla. Per Saakashvili essa è un arma, più che un ponte. La cultura dell’Unione è del tutto assente nel suo ragionare, e di simile ignoranza gli europei non sono incolpevoli. A Tbilisi come a tanti dirigenti dell’Est non è stato detto che nazionalismo e irredentismo non sono più di casa nella comunità europea, né le Riconquiste che violano tregue. Putin non è d’accordo ma lui, almeno, non sventola la bandiera dell’Unione quando parla. Iosseliani ne è certo: «L’esercito georgiano è convinto di poter vincere, perché immagina di avere alle spalle la comunità internazionale e perché la comunità internazionale lo ha illuso. Così la Georgia si trasformerà in una piazza d’armi che si estenderà all’Abkhazia e poi all’Ucraina, e dove si combatteranno indirettamente le due superpotenze, Russia e Stati Uniti». La guerra è ancora in corso, anche se la sua macchina magari si fermerà un po’. Al posto di guida, intanto, c’è la forza di Putin: forza militare, forza di ricatto energetico, forza di chi scruta il nostro vuoto e non è portato a far a

Aveva posto due condizioni, Giuliano Amato, per accettare la proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di presiedere la Commissione bipartisan chiamata a ridisegnare - sulla falsariga di quella voluta da Sarkozy in Francia - l´assetto istituzionale della capitale: primo, accantonare ogni polemica sul presunto buco nel bilancio comunale tutta mirata a screditare l´ex inquilino del Campidoglio, ora leader del Pd; secondo, un gruppo di lavoro davvero super partes, ovvero composto d´intesa con la Provincia e la Regione Lazio, entrambe governate dal centrosinistra. Il primo cittadino di An, pur di far vestire all´ex premier socialista i panni del novello "Attali de´ Noantri" (come ha detto lui stesso scherzando), non ci ha pensato due volte. Si è consultato con Berlusconi e Fini e insieme hanno convenuto che, sebbene locale, un comitato guidato da un autorevole esponente del Pd potesse essere il grimaldello per sbriciolare il muro contro muro sulle riforme nazionali.

E dunque, «habemus presidentem» ha annunciato fra il serio e il faceto Alemanno incoronando ieri il dottor Sottile. Nome che peraltro dieci giorni fa era stato suggerito dal governatore Marrazzo, che lo ha subito rivendicato: «Sono stato io a indicare Amato come rappresentante della Regione nella Commissione». Segnalazione che ha convinto il sindaco, promotore dell´iniziativa, a chiamarlo come presidente. Amato ha ringraziato, senza però nascondere la paternità "democratica" della proposta: «L´idea è stata di Marrazzo». Un modo, anche, per far capire a tutti da che parte sta e sedare i malumori nelle fila del Pd: non solo infatti l´ex ministro di Prodi ha confermato di aver sentito Veltroni prima di accettare, ma ha anche auspicato la nascita di un nuovo clima. «Non si può tutti giorni dar ragione al Capo dello Stato sulla necessità del dialogo fra maggioranza e opposizione», scandisce, «e poi non far nulla per tentarlo».

Divisa in due sottogruppi, «uno per le riforme, l´altro per lo sviluppo della città», la Commissione sarà formata da non più di 30 persone. «Il primo», illustra Amato, «dovrà lavorare in tempi rapidi su Roma capitale poiché il governo stesso intende intervenire sul tema a partire dall´autunno. Ne faranno parte giuristi designati dalla tre istituzioni». Fra questi, l´ex ministro ds Bassanini, l´ex dg Rai Celli, il presidente della Fs Cipolletta. Dal secondo gruppo, invece, «ci aspettiamo idee e progetti», precisa Alemanno, «per dare una dimensione internazionale alla città». Che «non può essere caratterizzata solo dal proprio grande passato», chiosa l´ex premier: «Dobbiamo fare in modo che tra cento anni si trovino anche tracce della nostra generazione».

Una Commissione che rappresenta, pure, «il tentativo di buttare dietro le spalle le polemiche post elettorali sul buco del bilancio comunale», come ammette il sindaco: «Affidiamo ai tecnici il tema degli squilibri sui conti, in modo che cessi la polemica politica». Una marcia indietro rispetto alle accuse degli ultimi mesi. Ci pensa il dottor Sottile ad alleggerire i toni: «La Commissione? Non mi dispiacerebbe se si chiamasse Amatò alla francese», scherza, consapevole che uno spiraglio è ormai aperto. «E tengo a precisare che non creerà problemi al ministro dell´Economia: non chiederà finanziamenti, non elargirà emolumenti, si limiterà al solo rimborso spese di chi ne farà parte».

Una modesta proposta al ministro La Russa e al governo tutto, che s´è preso tanto a cuore la sicurezza dei cittadini italiani: perché non inviare l´esercito anche nei cantieri, nelle fabbriche, e magari lungo le autostrade? A meno che si vogliano considerare i morti sul lavoro e negli incidenti stradali "meno importanti" rispetto alle vittime della criminalità.

Rendiamo merito al Censis che di tanto in tanto, sommessamente, introduce qualche cifra rivelatrice in un dibattito pubblico dominato dalla propaganda. Così, mentre i telegiornali celebrano la trovata dei militari affiancati alle forze di polizia nel pattugliamento delle città, l´istituto di ricerche sociali fondato da Giuseppe De Rita pubblica delle statistiche che sovvertono il "comune sentire" montato ad arte dagli imprenditori politici della paura: in Italia le vittime degli incidenti sul lavoro sono quasi il doppio rispetto alle vittime della criminalità. Che sono peraltro in costante diminuzione e restano otto volte di meno rispetto ai morti negli incidenti stradali.

Se di emergenza si deve parlare, riguarda il fatto che da noi i morti sul lavoro sono quasi il doppio della Francia, il 30% in più rispetto a Germania e Spagna. Cifre che dovrebbero far arrossire la nostra classe dirigente, a proposito di sicurezza. Ma i fautori di "legge e ordine" non paiono scossi neppure dal fatto che si registrino più morti sulle nostre strade che in paesi europei più popolosi dell´Italia: la severità torna ad essere categoria elastica, quando debba applicarsi ai cittadini "perbene".

Naturalmente vi sono ragioni culturali e sociali che spiegano l´ipersensibilità dei cittadini nei confronti di furti, rapine, degrado dell´ambiente urbano. Così come vi sono interessi economici che hanno convenienza a minimizzare le deroghe alla prevenzione antinfortunistica e al rispetto del codice della strada. Ma il compito di una classe dirigente, in democrazia, dovrebbe essere quello di assumere le priorità dettate dall´interesse generale, svolgendo un´opera educativa in tal senso. Mostrandosi superiore agli umori fomentati per convenienza o pregiudizio.

Invece tra i nostri politici vige l´andazzo contrario: adulare il popolo, cavalcandone l´ignoranza. Lo fa notare con parole più diplomatiche il direttore del Censis, Giuseppe Roma, presentando i risultati della ricerca: «Risalta in maniera evidente la sfasatura tra pericoli reali e interventi concreti per fronteggiarli. Il luogo di lavoro e la strada mancano ancora di presidi efficaci per garantire la piena sicurezza dei cittadini». E non ci si venga a dire che le morti bianche e gli incidenti stradali sono fatalità, o che succede così dappertutto. Lo scandaloso divario fra l´Italia e i paesi europei ad essa comparabili, dimostra il contrario.

La sicurezza manipolata come un feticcio, semmai, rivela la volontà di sottomettere i ceti più deboli all´ingiustizia sociale, indirizzandone il malcontento su bersagli meno impegnativi. È più facile prendersela con la devianza degli emarginati, specie se stranieri, che con la camorra, la mafia, la ´ndrangheta (sono queste organizzazioni le principali responsabili degli omicidi in Italia). Ancor più complicato è imporre la regola morale, prima ancora che giuridica, secondo cui la tutela della vita del lavoratore è più importante della produttività. Addirittura impopolare, infine, suona l´equazione fra mancato rispetto del codice della strada e delinquenza.

Naturalmente mandare i soldati in pattuglia nei cantieri, nelle fabbriche e lungo le autostrade è solo una boutade. Ma denunciare la menzogna di questi politici, falsi difensori della sicurezza pubblica, resta una necessità. Perché una comunità impaurita non progredisce inseguendo fantasmi: semmai arretra, correndo all´impazzata sulle strade e umiliando i suoi lavoratori.

Un paese che depreda e criminalizza i suoi anziani è animato dall'ingratitudine e dalla stupidità, laddove considera l'allungamento del tempo di vita dei suoi cittadini una sciagura, sostenendo che la loro egoistica durata su questa terra costa in pensioni un sacco di soldi alla comunità. Un paese che precarizza i giovani, ne svalorizza il lavoro e toglie loro fiducia e possibilità di costruirsi un futuro, è suicida. L'Italia che si profila nella nuova era berlusconiana è al tempo stesso ingrata, stupida e suicida. Togliendo sicurezza e speranza ai giovani (aspiranti) lavoratori ipoteca il futuro stesso del paese. L'emendamento sui precari imposto dal governo a un Parlamento sterilizzato e azzittito va esattamente in questa direzione.

Ci sono migliaia di cause di lavoro intentate da altrettanti precari che rivendicano, leggi alla mano, la stabilizzazione. Facciamo una bella moratoria per tutelare le aziende interessate (Poste, Rai, Telecom, ecc.), emancipandole dal dovere decretato dal giudice di stabilizzare i loro precari. Basterà che i padroni pubblici o privati che hanno violato la legge paghino una multarella, una paghetta. E i giovani cornuti e mazziati vadano a mettersi in fila da qualche altra parte, al futuro penseranno un'altra volta. E' una norma odiosa ma anche discriminatoria perché riguarda il passato, mentre per le cause a venire resterebbe (il condizionale è d'obbligo) il dovere del datore di lavoro di assumere e regolarizzare chi vincesse la causa. Persino per i tecnici della Camera tale provvedimento viola l'articolo 3 della Costituzione, secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge». Sarà pure vero, risponde alle ombre dell'opposizione qualche personaggio della maggioranza, ma adesso non c'è modo di cambiare l'emendamento, manca il tempo e anche la casta ha il diritto alla vacanza. Semmai ne riparleremo in autunno con la Finanziaria. Il sottosegretario Vegas, invece, della Costituzione se ne fotte.

Non sfuggirà al lettore che i lavoratori più fortunati, o meglio meno sfortunati, quelli a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti, sono tutelati dallo Statuto dei lavoratori che all'articolo 18 prevede il reintegro di chi venga licenziato ingiustamente. L'attacco ai precari non è che la prima mossa di una partita che nella volontà delle destre e delle imprese dovrebbe concludersi con la cancellazione per tutti di questo diritto. Come fanno le jene e in genere gli animali feroci, i nostri governanti se la prendono prima con i soggetti deboli, più giovani o già feriti. Adesso è la volta dei giovani «instabili», poi sotto a chi tocca. E' sempre in base a questa logica che il conto più salato della crisi viene presentato ai più poveri, a chi vive con il solo reddito (impoverito) da lavoro dipendente, o con la pensione. Basti pensare alla pretesa della Confindustria, condivisa dal governo, di scaricare sui lavoratori la parte di inflazione generata dall'aumento dei prezzi delle materie prime. Tutto il provvedimento economico che oggi sarà imposto ai parlamentari già in costume da bagno è segnato da questa filosofia. Basti pensare allo scempio della legge sull'editoria che prende per il collo i soggetti più deboli come questo giornale, nell'intento di consegnare l'intero controllo dell'informazione ai potentati economici e politici, spazzando via ogni voce critica, autonoma, cooperativa. Anche in questo caso, il provvedimento è ancor più odioso perché salva i finanziamenti ai grandi giornali e agli amici del giaguaro.

Per tornare all'emendamento anti-precari, l'aspetto più ripugnante è quello che denunciavamo all'inizio: a migliaia di giovani viene tolta la possibilità di riprendersi quel che secondo la legge spetta loro, un lavoro sicuro e a tempo indeterminato. La possibilità, cioè, di pensare con serenità al futuro. Se per proteggere la nostra sicurezza dai rom e dagli immigrati sono stati mandati in piazza i soldati, chi bisognerà mobilitare per proteggerla dal governo Berlusconi e dai padroni?

Sarà ricordata la seduta della Camera dei deputati del 30 luglio scorso. Lo sarà perché in quel giorno, per la prima volta nella storia parlamentare del nostro paese, il relatore di maggioranza di un disegno di legge, nel riferire all'Assemblea, ne raccomandava l'approvazione ma, con grande onestà intellettuale e con una motivazione ineccepibile, ne criticava duramente il contenuto (pagg. 3-4, 86, 91 del resoconto della seduta). Il disegno di legge che ha avuto una sorte così singolare, è quello recante la ratifica e l'esecuzione del Trattato di Lisbona. Ne è stato relatore l'onorevole Giorgio La Malfa. La cui critica ha investito il trattato in quanto strumento che mantiene e aggrava il deficit di democrazia dell'Unione europea, invece che risolverlo o attenuarlo.

In che cosa si concretizza questo deficit democratico? Anche se per sommarie indicazioni la verità insita nelle istituzioni europee va detta e senza attenuazioni ed infingimenti. A cominciare dall'assenza di un minimo di distinzione del potere legislativo da quello esecutivo. Per poi rilevare le clamorose menomazioni del Parlamento europeo, unica istituzione di derivazione popolare dell'Unione, cui il Trattato di Lisbona conferma la degradazione ad organo solo compartecipe, con gli esecutivi europei, della funzione normativa primaria, (quella che all'interno degli stati si denomina «legislativa»). Un organo che risulta poi mutilato del potere di iniziativa degli atti di sua competenza. Competenza che, invece di essere generale come quella di tutti i Parlamenti degni di questo nome, è ritagliata, ristretta. Si conferma, invece, e si incrementa il potere di intervento generale e ad effetti diversificati della Commissione, che aggiunge al potere di iniziativa degli atti parlamentari, almeno due altre aree di competenza normativa esclusiva sottratte al Parlamento. Un organo questo che non risponde a nessuno, composto e definito dai precedenti Trattati e di cui, questo di Lisbona ribadisce l'assoluta preminenza e la piena irresponsabilità politica. Si consideri poi lo scenario programmato dal Trattato di Lisbona. Tributato l'ossequio di rito alla sussidiarietà ed alla proporzionalità, questo Trattato ridefinisce il ruolo degli stati membri rendendoli istituzioni-organi sostanzialmente esecutivi dell'Unione. Consente infatti che l'esercizio della funzione normativa primaria della stessa Unione si estenda a tutti i campi, il che contrasta con qualunque modello di stato federale.

L'onorevole La Malfa non ha confrontato le istituzioni europee ai principi della democrazia e del costituzionalismo e non credo che condivida il giudizio che ne dà da anni chi scrive. Ha però comparato l'ordinamento interno a quello dell'Unione e si è domandato se i cittadini europei possono influire sulle scelte della Commissione e del suo Presidente, se il Consiglio europeo risponde delle sue deliberazioni ai cittadini europei, se un ministro dell'economia può dialetticamente rappresentare una sua posizione rispetto alla Banca europea. Correttamente si è risposto con un no.

Ne ha giustamente ricavato la ragione per la quale i francesi, gli olandesi, gli irlandesi ai referendum hanno votato contro le istituzioni europee. Aveva già congetturato che in un ipotetico referendum, gli elettori italiani avrebbero espresso un voto non proprio coincidente con l'unanimità dei parlamentari che, come già al Senato, avrebbe approvato anche alla Camera la ratifica del Trattato. Evento puntualmente verificatosi il giorno dopo.

Cosa dedurne? Innanzitutto il riconoscimento da parte di un esponente della maggioranza della improbabile corrispondenza degli orientamenti anche se unanimi della rappresentanza parlamentare a quelli del corpo elettorale, il che coincide col giudizio che in tanti abbiamo espresso sulla incostituzionalità della legge elettorale con cui sono state elette le due Camere del Parlamento. Ma sorprende e inquieta l'indifferenza per il deficit nientemeno che di democrazia che questo Trattato rivela e aggrava quanto a istituzioni, funzionamento, spirito dell'Ue che pur viene definita come emblema della civiltà di questo continente.

Ma che dire della decisione di approvare la legge che autorizza la ratifica di questo Trattato dopo che gli elettori irlandesi lo hanno respinto precludendone la ratifica da parte di quella Repubblica, con il che non potrà mai entrare in vigore, a norma dell'articolo 6 delle «Disposizioni finali» di questo stesso Trattato? Che questa norma va elusa? Che il governo irlandese deve ratificare, disattendendo il voto popolare e violando quella Costituzione? Il presidente polacco ritiene che la ratifica di detto Trattato è diventata incongrua per l'impossibilità sopraggiunta della sua entrata in vigore. Pende innanzi al Tribunale costituzionale tedesco un ricorso che denunzia l'incompatibilità del Trattato con i principi e lo spirito di quell'ordinamento federale. Il presidente del Tribunale ha richiesto al presidente federale di sospendere la promulgazione della legge di ratifica. Che senso ha avuto la sollecita approvazione della legge di ratifica da parte dell'Italia? Si è voluto dimostrare lo spirito europeista del nostro paese, europeista ma non esattamente democratico? E se, invece, il popolo italiano volesse essere europeista e democratico? Si intende forzare la ratifica del Trattato aderendo alla incredibile concezione per cui, l'1% degli europei non può fermare l'integrazione di tutti gli europei? Ma, innanzitutto, chi ha verificato che tutti gli europei vogliono un'Europa che assume come principio supremo e assolto del suo ordinamento «l'economia di mercato aperta e in libera concorrenza»? Si vuole dar prova della possibilità di «riforme condivise» e si sceglie l'occasione di una normativa emblematica del deficit di democrazia? Non ci si domanda se la condivisione su di una normativa di quel tipo non preconizzi esiti dello stesso tipo? Ma che concezione della democrazia è mai quella che, in occasione di un atto costitutivo di una entità interstatale e internazionale quale vuole essere l'Ue, assolutizza il principio di maggioranza, che suppone l'unanimità almeno per una volta, la volta in cui un popolo, uno stato, una società si costituisce giuridicamente dandosi le regole fondamentali. È l'insegnamento che ci viene da Rousseau, quel tale che in compagnia di Voltaire aveva - secondo la letteratura reazionaria, rediviva e trasversale - originato tutti i mali del mondo.

A RISCHIO le scuole dei piccoli comuni. Nel giro di tre anni circa 2 mila istituzioni scolastiche potrebbero "chiudere o essere accorpate". Risultato: per gli alunni dei centri con meno di 5 mila abitanti frequentare la scuola potrebbe diventare una specie di rompicapo: sveglia all'alba e trasferimento in pullman (bene che vada) a scuola. Se i comuni e le province non potranno mettere a disposizione nessun mezzo di trasporto, del tutto si dovranno far carico le famiglie. E' uno dei tanti effetti del decreto legge 112, collegato alla manovra finanziaria per il 2009, già varato dalla Camera e in attesa soltanto dell'ok da parte del Senato.

Un comma dell'articolo 64, dall'innocuo titolo "Disposizioni in materia di organizzazione scolastica", parla chiaro: "Nel caso di chiusura o accorpamento degli istituti aventi sede nei piccoli comuni, lo Stato, le Regioni e gli enti locali possono prevedere specifiche misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti". Possono. Ma se non possono, l'eventuale chiusura del plesso scolastico si ripercuoterà sul menage familiare. Come la prenderà il leader della Lega, Umberto Bossi - che nel giro di pochi giorni ha tuonato prima contro il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, e successivamente contro gli insegnanti meridionali - questa volta? Già perché le regioni nelle quali il provvedimento rischia di stravolgere la vita a milioni di persone sono proprio quelle del Nord.

Ma andiamo con ordine. Nei prossimi tre anni, per alleggerire la spesa della Pubblica amministrazione, la scuola dovrà lasciare sul campo 87 mila posti di insegnante e 42 mila e 500 di Ata (personale amministrativo, tecnico e ausiliario). Sono previsti alcuni interventi strutturali non ben definiti (il ritorno al maestro unico alle elementari?) e non viene esclusa una nuova "razionalizzazione della rete scolastica italiana" che tradotto dal burocratese significa tagliare e accorpare scuole. L'obiettivo è quello risparmiare riportando all'interno del "intervallo virtuoso" il numero di alunni delle singole scuole: tra 500 e 900 alunni, appunto. Per via della situazione geografica italiana sono parecchie le scuole dei piccoli centri che assicurano il servizio a "pochi alunni": basti pensare a Ustica.

Nel 2002, l'allora ministro dell'istruzione, Letizia Moratti, fece compilare una "lista nera" di 2 mila istituzioni scolastiche fortemente sottodimensionate (con meno di 500 alunni) che suscitò le vibranti polemiche dei sindacati e delle associazioni. Non se ne fece nulla, ma questa volta il governo Berlusconi sembra più deciso.

In Italia, secondo l'ultimo censimento, i piccoli comuni sono 5.836: il 72 per cento del totale. Sono poco più di 10 milioni gli abitanti che risiedono nei piccoli centri e nella maggior parte di essi (nel 60 per cento, secondo un calcolo di Legambiente) c'è almeno un plesso di scuola primaria (elementare) e di scuola media che rendono la vita meno complicata a milioni di famiglie. Ma in futuro potrebbe non essere più così perché per ridurre drasticamente le cattedre occorre tagliare le classi e alcune scuole potrebbero appunto chiudere.

Anche la distribuzione dei piccoli comuni lungo lo Stivale non è omogenea. La maggior parte (il 59 per cento) si addensa nelle otto regioni del Nord. Quelli ubicati nelle regioni del Centro sono appena 642 (l'11 per cento) e al Sud se ne contano poco meno del 30 per cento (1.740 per la precisione). Il provvedimento, così, rischia di penalizzare soprattutto le regioni settentrionali che, essendo le più "montuose", sono più ricche di piccoli centri.

Ho seguito da lontano il congresso di Rifondazione, grazie alle dirette di Radio radicale, e, sarà perché la radio è un medium «caldo» e coinvolgente, a me è parso un congresso caldo e coinvolgente. A sorpresa, perché - l'ha scritto Gabriele Polo domenica - tutt'altro che coinvolgente si era prospettato l'annunciato gioco al massacro della resa dei conti interna, tutt'altro che stimolante il dibattito sulle cinque mozioni, tutt'altro che edificanti i colpi sotto la cintola della conta precongressuale. Vero è che la liturgia congressuale fa sempre salire il diapason delle passioni con i suoi effetti scenografici, e che a Chianciano di effetti e di effettacci ce ne sono stati fin troppi. Dalle ovazioni all'unico leader riconosciuto che resta Fausto Bertinotti all'uso di Bandiera rossa come arma contundente di una parte contro l'altra. Vero è pure che non bastano le passioni a fare una politica, e che anche la lotta al coltello per il controllo di un partito è a sua volta una passione, triste. Ma non sarebbe giusto ridurre a colore o a resa dei conti tutta quella ridondanza emotiva che muoveva gli interventi da una parte e dall'altra: sotto c'era, e lo si è visto nella sorpresa del risultato, una posta in gioco evidentemente sottovalutata, all'interno e all'esterno del Prc, fino alla vigilia.

Nichi Vendola ha detto, e alcuni commentatori hanno già sviluppato il concetto, che questo congresso segna la fine di Rifondazione comunista per quello che è stata fin qui. Detto più in chiaro, segna la fine, o quantomeno la pesante sconfitta, del bertinottismo, che non è stato solo cachemire e salotti tv come pare adesso dai grandi giornali: è stato il tentativo - più o meno spericolato, più o meno lucido, più o meno teoricamente fondato e politicamente conseguente - di innestare sul tronco della tradizione del movimento operaio novecentesco (non solo comunista) un'innovazione all'altezza dello scenario del nuovo secolo. Non che Fausto Bertinotti sia, in questa sconfitta, esente da responsabilità: di stile (personalizzazione narcisista della leadership), di condotta politica (oscillazione fra movimentismo e seduzione istituzionale), di orientamento culturale (dai termini approssimativi della «svolta non violenta» all'infatuazione per Massimo Fagioli). Fatto sta che su questo tentativo di innovazione si è abbattuta a Chianciano la scure del ripristino: chiusura identitaria, arroccamento solipsista, «certezza» dei simboli - che per loro natura quando diventano certi sono morti. Un «com'eravamo» che come tutti i com'eravamo nostalgici s'inventa un passato che non apre al futuro e non legge il presente, nemmeno quel presente dei senza parola, dei senza potere e dei senza rappresentanza cui pure, e ci crediamo, si rivolge.

Grave errore sarebbe, tuttavia, leggere in questa dinamica solo l'ultima tappa dei duelli interni - Garavini e Cossutta, Cossutta e Bertinotti, Bertinotti e Diliberto e via dicendo - che hanno accompagnato la storia di Rifondazione come un riflesso del più ampio duello fra innovazione e conservazione che agita la sinistra italiana dall'89 in avanti. Ciò che rende più pesante la scure del ripristino è che essa si abbatte anche e in primo luogo - e non a caso infatti per punire Bertinotti immola Vendola - sulla generazione di giovani militanti che da Seattle e Genova in poi ha cercato di praticare l'innovazione nel vivo della contaminazione con i movimenti e le soggettività d'inizio secolo, sporgendosi non, com'è avvenuto fra gli innovatori della sinistra moderata, verso soluzioni liberal-liberiste ma verso culture di contestazione radicale dell'esistente. Anche questa è una storia complicata, che non si può fare in poche righe e a sua volta non è priva di limiti, culturali e di comportamento. Certo è però che nel tormentato campo della sinistra italiana il Prc è stato l'unico partito in cui si sia delineato un protagonismo giovanile fatto di qualcosa di meglio della rivendicazione d'incompetenza politica che va tanto di moda nel Pd. E' anche, forse in primo luogo a questa esperienza che il cartello vincente di Chianciano manda a dire «adesso basta». Ed è per questo che la strategia del ripristino ha più il sapore della reazione che quello del rigurgito nostalgico; e sembra più il primo atto di una battaglia sul terreno della post-modernità che l'ultimo su quello della modernità di ciò che fu il movimento operaio.

Questo esito culturale del congresso di Chianciano non è meno inquietante del suo esito politico, che con ogni evidenza consiste nella chiusura definitiva di un gioco già chiuso, ovvero nella liquidazione dei pochi margini che restavano per ripensare una sinistra istituzionale forzando le secche destinate del bipartitismo. Ora che per gli innovatori di Rifondazione comincia la traversata nel deserto, c'è ancora un errore che si può fare o che si può evitare: pensare che il deserto si attraversa con un equipaggiamento pesante, fatto di tessere, sedi, risorse finanziarie. Chi ama il deserto sa che è meglio andarci leggeri. Sa anche che è più popoloso di quanto si creda, e che ci si possono fare molti, imprevedibili e fortunati incontri.

Anche Montecarlo si è arreso alle star dell ‘architettura, ha chiamato a raccolta le grandi firme per costruire 275 mila metri quadri sull ‘acqua e allargare così il perimetro di appena due chilometri quadrati che racchiude il principato. Come ha ricordato nei giorni scorsi Le Monde, Alberto II ha "mondializzato" i suoi appalti, messo fine alla regola che voleva in concorso solo i monegaschi e si è offerto il lusso di una competizione con il fior fiore dell ‘architettura mondiale: Norman Foster, Rem Koolhaas, Frank Gehry, Christan de Portzamparc, Daniel Libeskind e diversi altri chiamati a riflettere su come rendere ancor più attraente per i ricchi "Le Rocher".

Da un secolo e mezzo a questa parte Monaco ha cercato di allargarsi costruendo sull ‘acqua, ma stavolta il progetto, lanciato nel 2006 da Alberto, è faraonico: 10-12 ettari di città da costruire sul mare con un investimento di otto miliardi di euro. «Si tratta di preparare il futuro, rimediando all ‘attuale insufficienza delle superfici immobiliari e degli spazi destinati al pubblico», ha detto Sua Altezza Serenissima. I vincitori si conosceranno a fine anno e il complesso dovrebbe essere interamente realizzato nell ‘arco di una quindicina d ‘anni. A investire non sarà il principato, che si limiterà a pagare le attrezzature pubbliche, bensì i privati, che recupereranno i loro soldi con la vendita al metro quadro. Sull ‘isola artificiale troverà posto un grande complesso culturale, destinato ad essere «una vera opera d ‘arte per rafforzare la notorietà del principato». E poi alloggi, commerci, alberghi, uffici. Per i ricchi, naturalmente, visto che sono loro a fare la fortuna di questo minuscolo lembo di terra dove l’imposta sul reddito delle persone fisiche è inesistente.

Jean-Paul Proust, ex questore di Parigi e oggi capo del governo monegasco (è la Francia a scegliere il "ministro di Stato" del principato), ha detto a Le Monde di non voler ripetere gli errori del passato, i casermoni alti decine di metri che sfigurano la città: «Costruiremo una città bassa, al massimo trentotto metri sopra il livello del mare. Non rovineremo la prospettiva dalla riva. L ‘estensione prenderà la forma di un capo che avanza piuttosto lontano in mare».

Una sfida non solo per gli architetti, che dovranno immaginare qualcosa di nuovo e, si suppone, di spettacolare. Ma anche per gli ingegneri. Non tanto perché dovranno costruire sul mare, ma perché dovranno rispettare l ‘equilibrio ecologico dei fondi marini, evitare di dirottare le correnti marine, magari costruendo su moderne palafitte. Una sfida tecnologica di tutto rispetto a due passi dall ‘imbocco del porto. Lì è già in costruzione il nuovo Yachting Club disegnato da Norman Foster e destinato ai miliardari che arrivano qui con i loro panfili che assomigliano a grandi ville galleggianti (solo Saint-Tropez può rivaleggiare con le barche di Montecarlo). E sempre lungo la costa è in costruzione il nuovo ospedale, naturalmente all ‘avanguardia dal punto di vista sanitario come dal punto di vista del comfort.

Progetti faraonici per uno staterello fiorente come pochi altri: 32 mila abitanti, di cui solo 8 mila monegaschi, e 45 mila posti di lavoro. Nel 2007, lo Stato ha incassato 730 milioni di euro e ne ha spesi 789, per un terzo destinati agli investimenti. La metà delle entrate fiscali viene dall ‘Iva, mentre non c ‘è Irpef e nemmeno imposta sulle società quando realizzano tre quarti del fatturato nel principato. Il giro d ‘affari generato nei due chilometri quadrati su cui regnano i Grimaldi è stato nel 2006 di ben 13 miliardi di euro. I soldi per i progetti faraonici, insomma, non mancano, anche se Monaco continua ad avere una brutta reputazione in materia fiscale e di riciclaggio, malgrado gli sforzi di Alberto per riacquistare un ‘immagine più lusinghiera. In ogni caso, questa immagine non sembra disturbare più di tanto i 45 mila residenti: poche settimane fa, uno dei più grandi chef francesi, Alain Ducasse, ha avuto il rarissimo onore di vedersi conferire la nazionalità monegasca. E non ha esitato ad abbandonare il suo passaporto francese pur di godere dei privilegi fiscali del principato.

Il turno di notte alla catena di montaggio del decreto legge sulla manovra economica comporta l'omicidio bianco di ogni ragionevolezza. Dopo l'emendamento che smantella i già fragilissimi diritti dei lavoratori precari, è toccato al taglio generalizzato delle pensioni sociali. Ma non si tratta solo degli effetti di quel taylorismo legislativo escogitato da Tremonti che a colpi di fiducia e a ritmi forsennati conduce dritto a procedure politiche postparlamentari.

Nella natura della «svista» c'è tutta la verità dell'accecamento ideologico e della spensierata ferocia che attraversa in lungo e in largo la classe dirigente e la società italiana. Dobbiamo dunque a un leghista assonnato, ma tormentato dall'incubo dell'invasione extracomunitaria, la dimostrazione pratica di come la discriminazione dell'Altro non costituisca solo qualcosa di moralmente e costituzionalmente riprovevole, ma qualcosa che colpisce i diritti e le libertà di tutti (i più deboli, naturalmente).

Per escludere una piccola parte di immigrati (regolari, questo è chiaro) dal diritto alla pensione sociale, lo spadone di Alberto da Giussano si abbatte su centinaia di migliaia di italiani indigenti. Allarme, marcia indietro, vergognosa giustificazione: «ma noi volevamo colpire soltanto gli stranieri!» Si ripete, questa volta sul piano di un diritto economico, l'indecente vicenda delle impronte digitali. Dalla discriminazione dei rom si passa (come misura egualitaria apprezzata da Veltroni) alla schedatura generale della popolazione. Dalla negazione dei diritti e delle libertà di un gruppo etnico alla negazione dei diritti e delle libertà di tutti. Il fatto è che la discriminazione, la storia dovrebbe avercelo insegnato, funziona come una reazione a catena: è il primo passo quello che conta, il resto necessariamente consegue, dilaga senza più alcun freno. E a quel punto perfino il Pd rischia di accorgersene, elargendoci le sue patetiche lamentazioni.

Basterebbe già questo grottesco incidente parlamentare sulle pensioni sociali a giustificare pienamente le accuse di praticare politiche discriminatorie e fomentare sentimenti xenofobi e razzisti, rivolte al governo italiano dal rapporto della commissione Ue per i diritti umani. Il veleno della discriminazione scorre ormai ovunque. Supponiamo per assurdo (ma l'assurdo è ormai esperienza quotidiana) che un terremoto riduca in macerie due palazzine. Una abitata da italiani, l'altra da stranieri. E che i soccorsi si dedichino prioritariamente a salvare i primi. E che i secondi, una volta usciti a fatica dalle macerie, protestino e vengano malmenati dalla polizia. E' uno scenario drammatizzato, ma che riproduce per filo e per segno ciò che è accaduto agli immigrati di Pianura a Napoli. Queste sono le politiche, questo è il clima, questo è il senso comune. Il commissario europeo per i diritti umani Hammerberg è fin troppo morbido nelle sue valutazioni. Ma la barbarie quotidiana non merita attenzione, quel che conta è che si continui a cantare tutti insieme l'inno di Mameli.

Il manichino sulla sedia elettrica che a Milano produceva a comando smorfie di dolore riassume l’immagine della giustizia oggi prevalente in Italia: una fabbrica di spettacoli, dove tutti diventano attori di se stessi e la realtà si trasforma continuamente in "reality". Eppure attraverso la giustizia passa oggi un conflitto di importanza fondamentale: quello tra sicurezza collettiva e diritti individuali. Proviamo a vederlo attraverso lo specchio di casi che emergono nella stampa internazionale.

In primo piano troviamo l’avvio dei lavori del tribunale militare statunitense riunito a Guantanamo. E’ il primo caso di una corte americana fuori del territorio metropolitano dai tempi della seconda guerra mondiale. Qui si è aperta la questione dell’ammissibilità in giudizio delle confessioni dei detenuti. Il capitano di marina Keith J. Allred ha chiesto di rigettare quelle di Salim Ahmed Hamdan, ex autista di Osama bin Laden, perchè rilasciate in condizioni di dura coercizione ("higly coercive") e dunque in contrasto col Quinto emendamento della Costituzione. Si è aperta una discussione, al Congresso e nell’opinione pubblica, sull’opportunità di consentire l’opera di tribunali speciali non vincolati dai diritti costituzionali e perciò più adatti a fronteggiare la minaccia del terrorismo. Il giudice federale John C. Coughenour ha scritto che, pur apprezzando l’opera di chi tutela la sicurezza nazionale, non ritiene che i diritti individuali di libertà fissati dalla Costituzione debbano essere sacrificati alla pressione di una collettività spaventata. Questo si legge sul Washington Post del 27 luglio, dove compare anche una statistica aggiornata dei caduti nella guerra irakena: gli americani sono i primi (4124) : seguono nell’ordine gli inglesi con 176 caduti e gli italiani con 33. La questione andrà seguita da noi: non solo perché riguarda una guerra che ci coinvolge (e di cui nessuno ha voglia di parlare), ma anche perché il conflitto tra sicurezza e diritti costituzionali è in pieno sviluppo anche in casa nostra.

Intanto, al di sopra dei confini statali aleggia il fantasma di quello che El mundo definisce "un embrione di giustizia universale". La Corte Penale Internazionale ha emesso alcuni giorni fa l’ordine di arresto contro il presidente del Sudan Omar Hassan Ahmad al Bashir accusato di crimini contro l’umanità per le stragi del Darfur. Giustizia difficile: l’incarico di investigare sul genocidio del Darfur fu affidato alla Corte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ma oggi il Segretario Generale Ban Ki-moon reagisce all’ordine di arresto esprimendo il timore che questo crei difficoltà alla missione ONU. Ci si chiede se è ancora possibile porre sotto lo stesso cielo la giustizia interna degli stati e quella internazionale. E’ profonda la scissione fra le regole della democrazia che si vogliono portare al resto del mondo e la realtà di lesioni diffuse al principio dell’universalità dei diritti umani.

Pure l’Italia ha il discutibile privilegio di comparire nei media internazionali per vicende e polemiche relative alla questione della sicurezza. Del decreto omonimo ha informato una nota della BBC del 23 luglio che ha sottolineato l’aggravamento delle pene per i reati compiuti dagli immigrati illegali. E sono comparse qua e là cronache sui vari aspetti delle polemiche sulla giustizia. Ma il confuso panorama italiano non fa registrare un conflitto sui principi di pari nettezza e livello di quello che divide l’opinione pubblica americana. Eppure la posta in gioco è anche da noi quella del valore dei principi sanciti dalla nostra Costituzione: perché anche noi ne abbiamo una, non così antica come quella degli USA ma altrettanto profondamente legata alla nostra storia e alle lotte del nostro popolo. Difenderla non significa schierarsi con questo o quel partito ma saper guardare al futuro delle cose che contano.

Il fatto è che la crisi della giustizia e la sindrome dell’insicurezza assumono da noi connotati speciali difficili da tradurre per i lettori di altri paesi. Basti dire che il più ricco e potente fra tutti gli italiani si è presentato in veste di perseguitato e in suo soccorso è stata fabbricata a spron battuto una legge speciale. Non siamo davanti a un ritorno indietro al potere sovrano di diritto divino, quello che ha preceduto le costituzioni liberali e democratiche del ‘700. I sovrani del tempo antico non riconoscevano nessun potere superiore. Invece quella che abbiamo visto è stata una manifestazione di impotenza e di insicurezza. Per mettere una persona speciale, al vertice della società e del potere, al sicuro dalla persecuzione di giudici ostili è stato eretto un muro legale. Ma, come certi muri materiali eretti nelle città hanno modificato i diritti di cittadinanza, così quel muro legale ha modificato un carattere essenziale della giustizia. La formula solenne che si legge nelle aule dei tribunali - "La legge è uguale per tutti" - non è più vera. E anche il simbolo della bilancia andrà ritoccato di conseguenza. Il decreto sulla sicurezza ha previsto che sul piatto della bilancia i giudici aggiungano un peso speciale per ogni crimine commesso da un immigrato clandestino. Così, passo dopo passo, si va verso la riforma della giustizia annunciata per l’autunno. Sotto il segno della sicurezza nazionale sono state prese decisioni e compiuti atti formali assai rilevanti: stato d’emergenza, registrazione delle impronte digitali di minoranze etniche, presenza dell’esercito nelle città. In altri tempi qualcuno avrebbe sospettato un disegno occulto, l’avanzarsi a passi felpati di un regime d’eccezione, con dosi omeopatiche di uscita dalla democrazia in vista di un autunno rovente. Non è più il tempo di quei sospetti. Tutto avviene distrattamente e senza passione, in un gioco di scambio tra le promesse della campagna elettorale ("tolleranza zero", una formula importata anch’essa dagli USA) e l’indice di gradimento degli eletti. Mantenere alta la febbre dell’insicurezza, questo è il programma.

Torna alla mente quel manichino sulla sedia elettrica: lo scandalo che ne è nato è rivelatore. Ma quando legge e giustizia diventano spettacolo da baraccone bisognerebbe fermarsi a riflettere.

Per trovare qualcosa di simile bisogna risalire all’Inghilterra del ‘700. Allora il condannato compiva il percorso verso la forca di Tyburn in mezzo al disordine di una scena di festa e di mercato, con venditori e giocolieri, ladri e prostitute. Nemmeno i ladruncoli che venivano impiccati prendevano sul serio i riti frettolosi dell’esecuzione; e la loro morte non impediva che in mezzo alla folla altri tagliaborse approfittassero della calca per rubacchiare. Il discredito di quella giustizia era proverbiale. «La sacra spada della Giustizia colpiva solamente i disperati», scrisse sir Bernard Mandeville nella Favola delle api. La corda a cui finivano appesi serviva solo "per dar sicurezza a ricchi e potenti".

L'immagine è tratta dal sito www.homolaicus.com

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