Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, "Silvio Forever", il direttore del Foglio ha detto una cosa importante.
Ha detto che, grazie agli anni che portano l’impronta di Berlusconi, l’Italia avrebbe vissuto una «liberazione psicologica». Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L’ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c’è anche questo giudizio sull’avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell’11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d’un tratto s’arresta, il rivoluzionario prova l’estasi dell’istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s’estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla «più grandiosa opera d’arte nella storia cosmica».
Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all’inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell’11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S’iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d’esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l’etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d’essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall’evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: «L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l’approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo».
Nel raccontare l’epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: «La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l’Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione». L’essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l’essenza dell’11 settembre non è l’11 settembre ma la risposta che all’attentato venne data e la torpida genealogia dell’accadimento. In Italia l’essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell’uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.
Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell’11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l’anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l’amore di sé e dell’altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l’avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l’autore s’interroga sul segno («più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve») che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una «piccola vita circondata dal sonno», scrive citando Shakespeare: «Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria». Queste cose si imparano nell’adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S’imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch’essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.
Il secondo accenno all’avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L’avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell’uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C’è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L’avaro somiglia molto all’incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch’egli non ha cura dell’altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l’Italia che l’ha scelto come modello. L’avaro incurioso vede l’Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G.W.Bush lo chiamavano incurious.
Non che sia mancata, subito dopo l’11 settembre, la sete di sapere. «Perché ci odiano?», ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: «Perché mi odiano?», come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell’isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.
In Italia come in America, l’evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall’11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ‘97, in collaborazione con l’industria militare: finita la guerra fredda l’America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L’orrore omicida dell’11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro - che il giudizio finale deve incorporare. L’effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all’Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: «Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande».
Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ‘86 in una Camera semivuota: «Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l’ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (...) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell’opinione pubblica (...) Se sia possibile coltivare l’illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità» (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.
Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c’è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che «Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati».
Quel martedí mattina come ogni martedí stavo preparando la mia lezione dopo la consueta corsa in Riverside Park quando ricevetti la telefonata di un´amica che gridava come impazzita «ci stanno bombardando». Non capivo e istintivamente ho acceso la televisione. Tutti i canali mostravano le stesse immagini, quelle del primo aereo che sfonda una delle torri. Difficile non pensare a un film. Ma é realtà quando il secondo aereo finisce il lavoro. Ci hanno davvero bombardato. Questa é una guerra: ho avuto vivida questa sensazione di fatalitá di fronte al disastro, una sensazione che non conoscevo. Chiamo tutti gli amici che conosco. Nessuna risposta dagli amici di Downtown. Ne trovo due, che vivono a Tribecca, a due passi dal City Hall, in quella che sará subito dichiarata "zona rossa", di massimo rischio; rischio di crolli ma anche di contaminazioni tossiche a causa delle esalazioni provocate dagli incendi.
L´amico di Tribecca era uscito di casa alle otto per andare a giocare a tennis, mentre la moglie accompagnava il figlio a scuola. Usciti per ritornare dopo poche ore sarebbero rientrati a casa loro solo quaranta giorni dopo. L´emergenza é proprio questo: l´interruzione imprevedibile e imprevista della quotidianità. Chiedere il permesso alla Guardia Nazionale, essere scortati fino all´uscio di casa da un militare in tenuta da guerra batteriologica, accettare di essere muniti di maschera anti-gas per raccogliere le proprie cose. Invito questi amici a casa, darò loro un letto in attesa che trovino una soluzione. Quando arrivano, hanno negli occhi e sulla pelle il segno di quel che hanno visto e sentito piovere addosso. Un inferno di fuoco e polvere. E di quell´inferno per giorni ho sentito il fetore nell´aria. Dalle finestre aperte a 11 chilometri di distanza dal luogo dell´attentato si é sentito per settimane il fetore emanato dai corpi bruciati.
Mi é stato chiesto varie volte come ha reagito la gente di New York. Da bolognese adottiva, abituata nella gioventù a notizie di attentati terroristici, sono istintivamente portata a uscire in strada. E così ho fatto quella mattina. Ma nessuno era in strada. Tutto sembrava scorrere come prima, come sempre in un giorno lavorativo. Sono andata dopo il crollo della seconda torre verso il campus di Columbia. Nessun allarmismo, nessun segno della tragedia che si stava consumando a Downtown. Dopo poche ore un segno: nei palazzi i portieri affiggevano indicazioni su come procedere per la raccolta di latte e succhi di frutta, poiché le polveri sono state uno degli effetti tremendi delle esplosioni e dei crolli, che oltre a uccidere migliaia di persone hanno provocato problemi seri alle vie respiratorie di migliaia di sopravvissuti.
Ma da quel martedì le cose sono cambiate radicalmente. L´emergenza non é più uscita dalla nostra vita. L´Amministrazione Bush, resa disgraziatamente attiva da quell´attentato, ha deciso di entrare in uno stato di guerra non solo in Afghanistan, e poi in Iraq, ma anche nel Paese. Fu aperto il campo di reclusione di Guantanamo, una terrificante violazione dei diritti umani, mentre la presidenza degli Stati Uniti avocava a sé poteri eccezionali di tipo dittatoriale. Le guerre invocate in nome della vendetta e per prevenire altri attentati sarebbero durate 10 anni, dissanguando le casse dello Stato e senza aver creato quello che irragionevolmente volevano creare, ovvero la democrazia; soprattutto senza riuscire a colpire il nascondiglio di Osama Bin Laden. Le ripercussioni della preemptive strategy sono state pesantissime e hanno scatenato la crisi economica più grave che l´America abbia sofferto dal 1929. Un impero che affonda nelle guerre che provoca: questo é il lascito dell´Amministrazione Bush, nata con un bluff elettorale e costata un danno incalcolabile i cui effetti durano ancora.
A Milano, a Napoli e a Cagliari si gioca la principale scommessa di riuscire a praticare un risanamento effettivamente democratico del governo locale. Quasi un ventennio di governo reazionario e affaristico a Milano e nelle altre città ha inquinato ogni aspetto dell'amministrazione locale; è quindi indispensabile analizzare nei dettagli questo massacro della res publica per poter imbastire la paziente e non certo breve opera di risanamento.
Uno dei settori in cui la destra, e anche buona parte del centro-sinistra, hanno provocato più danni è quello del cosiddetto governo della sicurezza. Com'è ormai ampiamente dimostrato, il gioco becero che è prevalso è stato quello di esasperare le insicurezze e le paure provocate dalla destrutturazione liberista dell'assetto sociale precedente per imporre la tolleranza zero contro i nemici di turno. Questa distrazione dell'opinione pubblica ha occultato a lungo i molteplici affari loschi del malgoverno delle città e dell'intero paese e ha anche legittimato un business sicuritario di cui ancora non abbiamo scoperto l'intera portata. Inoltre - e qui sta l'aspetto più grave - s'è innescata la continua riproduzione delle insicurezze e delle paure che lo sviluppo liberista ha accentuato. Quasi dappertutto le giunte locali hanno trasformato parte della polizia locale in una sorta di armata da aizzare contro nomadi, immigrati, tossicodipendenti e marginali in genere e hanno esasperato i costi del sicuritarismo. Basti pensare al boom della video-sorveglianza e dei diversi controlli "postmoderni", spesso del tutto inutili e non a caso ora in via di smantellamento nelle città inglesi, canadesi e americane a seguito del vero bilancio "costi e benefici".
La popolazione che vive alla mercé delle neo-schiavitù del lavoro nero, degli incidenti sul lavoro, delle malattie professionali, degli strozzini padroni di alloggi e dell'inquinamento s'è sempre più trovata abbandonata a se stessa, senza alcuna tutela. Le prime vittime di violenze, abusi e supersfruttamento, cioè i nomadi, gli immigrati e i circa cinque milioni di italiani senza tutela sono diventati nonpersone. I Sert sono stati chiusi o ridotti a quasi nulla e i tossicodipendenti poveri sono stati rigettati per strada. Gli operatori sociali, spesso, sono stati ridotti ad ausiliari della tolleranza zero o sostituiti dalla video-sorveglianza quando si sa che il costo di una sola videocamera e della sua manutenzione e gestione è superiore al salario annuale di un educatore socio-sanitario.
Tutti questi aspetti si sono aggravati anche e a volte soprattutto a causa della distrazione di competenze delle polizie locali. Se queste, con la collaborazione degli abitanti e dei lavoratori, si occupassero del controllo delle varie attività e della vita quotidiana nel territorio di loro competenza sarebbe assai difficile la proliferazione di cantieri, fabbrichette e laboratori abusivi che si nutrono di lavoro nero e che producono anche incidenti, malattie professionali, prodotti e rifiuti tossici e quindi inquinamento oltre che connessioni con la criminalità organizzata.
Sta qua il nodo principale della scommessa del risanamento effettivamente democratico del governo della sicurezza a livello locale: i costi della sicurezza devono servire a tutelare la salute pubblica, l'ambiente, la popolazione che rischia di subire ingiustizie e malversazioni. È quindi necessario un lavoro di ristrutturazione e di riqualificazione delle polizie locali a cominciare dai vertici che in questo passato ventennio (anche con le amministrazioni di centro-sinistra) sono stati forgiati all'insegna della tolleranza zero contro i deboli e della protezione delle libertà dei soggetti sociali forti. L'Italia è il paese in cui in proporzione si spende di più per la sicurezza pubblica e privata e si hanno meno tutele contro le reali insicurezze. I sindaci democratici devono chiedere una razionalizzazione democratica dell'impiego delle polizie di stato e locali, a cominciare dall'eliminazione delle sovrapposizioni di competenze e degli sprechi.
È a questa scommessa che sono pronte a lavorare tante persone con diverse competenze dentro e fuori le forze di polizia, con pazienza e senza alcuna pretesa, ma con il sostegno di una forte volontà politica delle giunte che sono state elette da una mobilitazione popolare che ha reclamato un cambiamento democratico e che può generare partecipazione.
Ecco, era tutta colpa delle Province. Il Consiglio dei ministri, non potendo abolire per decreto una istituzione storica, se non addirittura secolare, vara un disegno di legge costituzionale per passare le competenze delle Province alle Regioni (tutto il contrario di quello che si cercava di fare negli ultimi anni!). Quindi il potere di entrare nel merito di argomenti come la mobilità, i rifiuti, la cementificazione o la tutela del territorio ritornerebbe in alto alle Regioni, le quali non sarebbero più solo soggetto di finanziamento e di legiferazione, ma di vera e propria amministrazione.
Più che una riforma degli enti locali è un linciaggio del soggetto più debole, le Province. E lasciamo invece le Questure e le Prefetture in ogni capoluogo di provincia? Non avevo mai visto, forse non si è mai vista, una riforma istituzionale che parte solo dalla necessità di presunti risparmi. La Grecia - la Grecia! – ha recentemente accorpato alcune regioni e province, e soprattutto comuni. Ma non ha abolito un livello istituzionale intero. Per altro, che io sappia, in quasi tutti i paesi del mondo ci sono sia i comuni, sia le province, sia le regioni. In tutta l’Unione Europea (là dove di livelli locali ce ne sono solo due, come credo di aver capito adesso in Tunisia, le “Regioni-Province” sono più piccole che in Italia, simili a quelle che da noi sono le province più importanti.)
Certo, Roma non è un esempio logico, lì ci vorrebbe la città metropolitana e basta. E visto che i nostri opinionisti e i pochi politici che riescono ad avere un pensiero autonomo stanno a Roma o a Milano (dove appunto non hanno senso nè le Province nè gli attuali Comuni capoluogo, ma ci vorrebbe la città metropolitana) eccoci al linciaggio delle Province. Non è certo in questo modo che si razionalizzano le istituzioni necessarie per una più aggiornata democrazia.
Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all´imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l´obiettivo di coartare la libertà dell´agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un´estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà.
Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà luogo, certamente, a una solidarietà di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità.
In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.
C´è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.
Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l´aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c´è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l´agire dell´uomo politico. E c´è quindi la forte probabilità che insieme al denaro (l´aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà d´azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.
Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità e della trasparenza dell´esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità democratica, il controllo consapevole dell´opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell´avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.
Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l´impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un'utopia rivoluzionaria.
Il pareggio di bilancio in Costituzione? «È una dichiarazione d'impotenza della politica. Uno slittamento di poteri e di responsabilità dagli organi politici a quelli giurisdizionali». Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale e docente alla Statale di Milano, attende con interesse di sapere le modalità con le quali questa mattina il Consiglio dei ministri avvierà l'iter di introduzione nella Carta della cosiddetta «regola d'oro» sul pareggio di bilancio. Di dubbi però ne ha più d'uno: «Sembra un po' come Ulisse che sa di non doversi buttare, ma non fidandosi della propria volontà si fa legare per resistere al canto delle sirene».
Bocciatura assoluta?
Di per sé introdurre un vincolo sul pareggio di bilancio che non sia in termini assoluti, rigidi, ma con tutte le eccezioni necessarie - non necessariamente tutti gli anni, per tenere conto dei cicli, e con deroghe in caso di emergenza - è ragionevole. Il dubbio è che sembra quasi un vincolo costituzionale alla buona amministrazione, quella che la politica dovrebbe essere in grado di assicurare sempre ma soprattutto in tempi come questi in cui tutti sembrano condividerne la necessità. È una dichiarazione d'impotenza della politica.
L'articolo 81 della Carta già impone che le leggi abbiano una copertura finanziaria, perché non basta?
Può succedere che una legge introduca meccanismi di spesa che poi nel tempo sfuggono al legislatore, oppure nel cambio di congiuntura economica non si riesce più a mantenere le coperture. Ecco allora che se non si è tenuto conto di possibili evenienze esterne, come la diminuzione di entrate o i meccanismi inflattivi, nel tempo gli equilibri si alterano e quindi occorrono manovre di rientro che sono politicamente dolorose.
Vuol dire, insomma, che un dettato costituzionale, come sappiamo, può diventare carta straccia?
Scrivere l'obbligo del pareggio in Costituzione è solo una dichiarazione solenne della volontà di provvedere a fare ciò che in passato non si è fatto.
Quale strumento in più, allora, si otterrebbe con la clausola?
La legge di stabilità potrebbe essere contestata costituzionalmente e fermata dallo stesso Capo dello Stato se non rispettosa di questi vincoli. Però è proprio questo il problema: alla fine sarebbe un giudice costituzionale e non il governo o il parlamento a pronunciarsi sulla correttezza di una manovra finanziaria. Ancora una volta su questo tipo di equilibri si rimetterebbe il giudizio finale all'esterno della politica.
Perché paesi come gli Stati uniti, la Spagna o la Germania hanno o stanno introducendo vincoli simili sul bilancio dello stato?
Negli Usa non c'è un vincolo di pareggio ma è il Congresso che autorizza l'aumento del debito. In Spagna invece il vincolo costituzionale è posto - secondo il progetto in via di approvazione - in termini molto generici e poi rimesso, per quanto riguarda le modalità concrete di attuazione, a leggi organiche approvate con procedure particolari e che sono più forti delle leggi ordinarie. Infatti mi sembra che anche da noi si vorrebbe richiedere una maggioranza qualificata per le leggi che introducano deroghe. Analogamente, in Germania il vincolo costituzionale prevede elasticità e eccezioni.
Eppure anche in Germania l'intervento finanziario «di salvataggio» della Grecia è finito davanti alla Corte costituzionale.
Questa è una cosa diversa, non c'entra col vincolo di bilancio. Ma, ecco, introducendolo avremmo proprio un effetto di questo genere: l'aumento dei poteri dei giudici. In più, siccome da noi adire la Corte costituzionale è molto più complicato che in Germania, si prevede che sia la Corte dei conti a poter impugnare la legge.
L'intenzione sarebbe quella di aggiungere controlli ex post oltre che ex ante, è così?
Beh, per forza. Perché da noi è oggi difficilmente praticabile la strada del giudizio di costituzionalità da parte dell'Alta corte su una manovra di bilancio. Quindi occorre un ulteriore meccanismo di controllo sulla legge. Così si accentua questo spostamento di attenzione e di poteri dagli organi politici all'organo giudiziario.
Ma allora, questa modifica dell'articolo 81 è solo un contentino per rassicurare la Bce e i partner europei?
Sì, in un certo senso è questo. Si tratta di dare un segnale positivo proprio perché la politica italiana ha perso credibilità. Un vincolo del genere sarebbe rassicurante all'esterno ma non è detto che saremmo in grado di tenervi fede. Non escludo un qualche significato positivo, ma l'utilità mi sembra dubbia.
Viceversa, non potrebbe essere controproducente, diventare un'arma per impedire interventi sul welfare, per esempio, o addirittura per paralizzare un governo?
Forse, ma il punto è un altro: siccome il vincolo non può essere assoluto e rigido, alla fine chi può giudicare se quella manovra è rispettosa o meno della Costituzione, tenendo conto di tutte le circostanze e delle possibili deroghe? Come si fa a valutare per esempio se si rispetta adeguatamente il ciclo strutturale? Sono valutazioni tecniche non facili, tipicamente di politica finanziaria, che vengono così spostate sugli organi giurisdizionali.
Espletata dalla Commissione di Garanzia del Pd la pratica disciplinare, dolorosa ma inevitabile, della sospensione di Penati, ora tocca a Bersani la parte più difficile. Che è una interpretazione non reticente - politica e non giudiziaria - della vicenda che vede protagonista il dirigente che egli aveva prescelto come capo della segreteria nazionale del partito. Tanto più che Penati era pervenuto a quell´incarico dopo lunghi anni in cui si era fatto riconoscere come il più fedele interprete nel Nord Italia del sodalizio politico - la "ditta", come scherza lui - di cui Bersani stesso rappresenta l´evoluzione.
A subire il colpo è un´antica e rispettabile tradizione, la cui memoria storica resta impersonata soprattutto da Massimo D´Alema, contraddistinta da una forte solidarietà interna. Nessuno ha osato dare del "traditore" a Penati. La costernazione con cui taluni membri di quella comunità politica vivono l´indagine di cui è oggetto, quasi si trattasse di un incidente sul lavoro, richiama il tempo in cui il partito si considerava "altro" rispetto al sistema circostante. Dunque il caduto sul lavoro meritava comprensione quand´anche non se ne potessero giustificare in pubblico i comportamenti, resi necessari dalla durezza dello scontro politico; ma non dichiarabili.
L´ambiente in cui i reati sarebbero stati perpetrati, la cosiddetta "rete" dei funzionari che fiancheggiavano Penati nell´esercizio della sua attività, ha origini troppo familiari, militanti, per sopportare l´idea che sui giornali venga descritta come criminosa.
Tale riflesso istintivo "di corrente" per fortuna ha oggi sempre meno cittadinanza nel Pd, anche perché i suoi epigoni sono incorsi in una sequenza inesorabile di sconfitte, a cominciare dallo stesso Penati. L´impetuoso movimento partecipativo con cui Milano, per prima, si è liberata dal berlusconismo, già aveva reso obsoleta la realpolitik con cui Penati, ma anche i suoi interlocutori romani, s´illudevano di trovare spazio nella società del Nord, assumendone peraltro una falsa immagine deformata dall´ideologia. Anche la presunzione di rafforzare il proprio potere contrattuale instaurando relazioni spregiudicate fra politica e affari, appartiene alla medesima visione perdente della politica: il riformismo sacrificato alla sopravvivenza.
La tattica che si mangia gli ideali. Se pure non vi fossero dei reati, c´è la degenerazione del rapporto fra ruolo pubblico e interessi privati. Il clan prende il sopravvento sull´organismo democratico. Perfino il richiamo ai sentimenti popolari assume piuttosto stereotipi conservatori che non una sensibilità di sinistra.
Bersani ricorda bene come l´opzione "moderata" che Penati impersonava a Milano - da lui sostenuta con convinzione - fu sovvertita dagli elettori di centrosinistra nelle primarie del novembre 2010. Si verificò allora un passaggio delicato, che necessita un chiarimento. Furono respinte le dimissioni dei dirigenti locali del partito; Penati si accollò la responsabilità della sconfitta e fece ritorno a Milano, dove la sua leadership si era nel frattempo ridimensionata. E´ l´inizio di una svolta. Il Pd accetta il responso delle primarie, sostiene la candidatura di Pisapia, e consegue un importante successo elettorale, diventando la forza politica maggioritaria a Palazzo Marino.
Oggi è grazie a quella scelta felice che Bersani è in grado, pur nell´avversità dello scandalo, di cogliere un´occasione preziosa: ricominciare da Milano, la capitale del possibile cambiamento italiano, facendone anche il laboratorio di un autentico rinnovamento del partito.
E´ questo il classico caso in cui oportet ut scandala eveniant. La crisi dei vecchi poteri ambrosiani precipita, ma un´alternativa è già emersa. La sinistra del Nord sprigionatasi come antidoto al berlusconismo, e pervenuta al governo di Milano, ha fornito un modello di democrazia partecipativa e ora sperimenta la trasparenza nella pubblica amministrazione. Certo, deve ancora dimostrare di essere all´altezza, ma non sarebbe immaginabile orizzonte più favorevole nel quale lo stesso Pd ferito ritrovi la sua ragione di essere. A condizione però di fare i conti con le verità scomode rivelate dalla vicenda politica di Penati. Quali che siano le sue responsabilità giudiziarie, Penati merita infatti di venire riconosciuto per quello che è: l´espressione coerente di una politica che ha fatto il suo tempo. Il Pd non poteva fare altro che sospenderlo. Ma Bersani sa meglio di chiunque altro che non è una mela marcia.
Quello di Raffaele Bonanni è un modo ben curioso per accogliere l'appello del presidente Napolitano alla «coesione»: lo sciopero della Cgil, dice il segretario della Cisl, «dà un ulteriore segnale negativo alle Borse». Neanche al ministro Sacconi è venuta in mente una trovata di questo livello, e forse neanche all'associazione degli operatori di Borsa. Se c'è una coesione che dovrebbe interessare un sindacato è quella sociale, tanto più dentro una crisi come questa e a fronte delle politiche liberiste prigioniere della finanza e dei mercati che ripropongono le stesse modalità della crisi che hanno generato. E che ora tentano di scatenare una guerra tra poveri trasformando il conflitto tra capitale e lavoro in una lotta tra gli ultimi della scala sociale. Chi vive di lavoro o di pensione, chi il lavoro non ce l'ha o l'ha perduto, dovrebbe pagare il conto per tutti. La coesione necessaria a questo paese come agli altri paesi europei è fuori da Piazzaffari e dai palazzi della politica, è tra la gente tartassata, che non potrebbe evadere il fisco anche se volesse. Quelli che ieri hanno risposto alle provocazioni con rabbia e dignità. Uno striscione sostenuto dalle militanti Fiom interpretava bene questi sentimenti: «Ci volete schiave, ci avrete ribelli».
Bonanni si preoccupa per le Borse: ma la Cisl, un'organizzazione che ha una storia nobile e un radicamento di massa, è ancora un sindacato? Chiedetelo agli operai metalmeccanici della Fim della Lombardia, del Veneto, delle Marche, della Toscana, dei cantieri di Palermo che ieri hanno scioperato insieme alla Cgil. O a quell'anziano militante con il volto tirato che a Roma alzava un cartello con la scritta: «Dopo 35 anni mi vergogno di essere un tesserato Cisl».
La Cgil non è sola. Per un giorno è stata capace di intercettare la rabbia e la protesta delle persone perbene, sindacalizzate e non, occupate e non, precarizzate, impoverite, commercializzate, buttate su un mercato chiuso senza prospettive come capita agli studenti. In piazza sono scesi in tantissimi in tutte le città italiane, con gli operai e gli impiegati, maestre d'asilo e operatori delle cooperative sociali, infermieri, artisti, registi, medici, sfrattati, handicappati privati del sussidio, pensionandi in speranzosa attesa, ministeriali, insegnanti, giovani dei centri sociali. Anche la decisione di alcuni sindacati di base di proclamare il loro sciopero nello stesso giorno scelto dalla Cgil rappresenta un segnale positivo.
I politici di centrosinistra si sono fatti vedere nei cortei, anticipando via mail l'ora e il luogo del loro ingresso per non lasciare delusa l'informazione politica. Meglio che fossero lì, ma avranno imparato qualcosa prima di andare in Senato a fare «coesione»?
C'è un popolo capace di indignarsi, qui come nel resto del Vecchio Continente, nelle forme più diverse. Un popolo privo di rappresentanza, capace di lanciare alla politica segnali forti: con le proteste sociali a partire da Pomigliano, con i referendum in difesa dei beni pubblici, persino con le elezioni amministrative. Può avere in futuro almeno una sponda sociale? Può la Cgil, dopo aver intercettato i sentimenti della maggioranza della popolazione, rappresentare questa sponda, impedendo il riflusso e il ripiegamento dei movimenti, offrendo un'alternativa alla guerra tra poveri? E' alla Cgil che va rivolta questa domanda, che noi formuliamo così: lo sciopero straordinario di ieri che ha svuotato i posti di lavoro e riempito le città è un una tantum, oppure rappresenta l'inizio di un conflitto capace di durare nel tempo, di imporre innanzitutto il ritiro dell'odioso articolo 8 della manovra che toglie il diritto di parola e di sciopero a chi lavora, dando ai padroni la libertà di licenziare, cancellare le leggi, lo Statuto, la Costituzione, i contratti nazionali e i sindacati non complici? Con questo governo (e con questa languida e prigioniera opposizione) non c'è alternativa possibile. Berlusconi dev'essere rimandato a casa. E ancora: indignarsi è il primo passo, ma poi bisogna costruire un'alternativa sociale, politica, culturale. Di sistema. E' una strada lunga e sconnessa, passa attraverso la rifondazione della politica che non può essere delegata a nessuno.
La Cgil potrebbe essere un buon compagno di viaggio, prendendo atto che non c'è futuro nell'inseguimento di un'unità di vertice impossibile con la Cisl che si preoccupa della Borsa, la Uil che si preoccupa della Uil e i padroni che si preoccupano solo dei loro affari. Ieri lo sciopero ha fermato le linee di montaggio di tutti i simboli nazionali: i Baci Perugina, la nazionale di basket bloccata a Riga, il Colosseo e i Fori imperiali. Piccoli segnali importanti, che dovrebbero dare coraggio al gruppo dirigente della Cgil e a tutti gli uomini e le donne che ieri non sono andati al lavoro ma in piazza, prenotandosi per il prossimo appuntamento.
Noi italiani, anche nei momenti di crisi nera, mentre la Borsa crolla e sale la sfiducia dei partner europei, non ci facciamo mancare nulla. L'ultima trovata è il Giro della Padania, la più immaginaria delle corse ciclistiche, visto che la Padania non si trova su nessun Baedeker, è solo un miraggio secessionistico di una geografia immaginaria.
Eppure la corsa ha ricevuto la benedizione dal Coni, dalla Federciclismo, dal ct della Nazionale Paolo Bettini e vede in gara i big della bicicletta, a cominciare dal varesino Ivan Basso e da Giovanni Visconti, campione tricolore e siciliano di nascita. Partita da Paesana (Cuneo), il paese simbolo della Lega Nord, dove ogni anno a metà settembre si tiene il comizio che apre la «Festa dei Popoli», dopo il rito del prelievo dell'acqua con l'ampolla alle sorgenti del Po, la corsa ha avuto il suo primo intoppo a Mondovì, dove un gruppo di manifestanti capeggiati da Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, ha tentato di fermare il passaggio della carovana: una scena quasi comica.
Dicono che il Giro della Padania sia un'idea di Umberto Bossi, dunque sacra e inviolabile per il popolo del Carroccio. Noi italiani siamo fatti così: se il capo dello Stato parla di segnali allarmanti noi rispondiamo inventandoci una corsa. Altro che un punto in più d'Iva o la supertassa o la patrimoniale. La crisi si supera con la fantasia. Pier Luigi Bersani, segretario del Partito democratico, ha in mente un torneo di calcetto fra ricchi e poveri, reddito dichiarato alla mano. Se vincono i ricchi, i poveri non andranno più in pensione. Se vincono i poveri potranno fare un giro su Ikarus, la barca a vela di Massimo D'Alema prima della vendita. Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori, pensa invece a una gara di tiro alla fune da svolgersi nelle campagne di Montenero di Bisaccia: in palio ci sono prosciutti, quote sugli acquedotti comunali e un set di canottiere d'antan. Anche Lorenzo Cesa non è da meno: si è fatto prestare tutti gli oratori d'Italia per una mega torneo di palla prigioniera. I vincitori andranno con la Destra, i perdenti con la Sinistra, pur restando un gruppo unico.
Silvio Berlusconi ha in testa un solo sport, chiamiamolo così: è uno sport di resistenza, di contatto fisico, di volteggio. Avrebbe potuto coinvolgere anche dissidenti alla Italo Bocchino. Angelino Alfano, dopo aver consultato un sondaggio, ha preferito però suggerire un più tranquillo torneo di golf: «C'è buca e buca, gli italiani devono capirlo». Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi, ha indetto una gara di curling, giocato però con ghiaccio naturale, ad alta quota.
Tuttavia, per onestà, va detto che l'idea del Giro della Padania resta la più fantasiosa. Dietro a Bossi, devono esserci finissimi intellettuali, viaggiatori d'ingegno, eruditi ideatori di mappe. Com'è noto, la Padania (o Padanìa) non esiste, e mai esisterà, è un luogo invisibile come quelli creati da Italo Calvino, appartiene all'inventario delle contrade create da scrittori di tutti i tempi e di tutte le letterature.
La Società Ciclistica Alfredo Binda sta già preparando il Giro di Andorra, piccola repubblica dell'Europa meridionale, da non confondersi con lo staterello pirenaico omonimo. È un paese di strette vallate e campi pietrosi su scoscesi pendii. L'ha inventato Max Frisch e piace molto ai Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto. Bruno e Roberto Reverberi, padre e figlio, residenti a Ghiardo di Bibbiano, team manager e direttore sportivo della Colnago Cfs Inox, pensano invece al Giro di Bengodi, contrada situata in Berlinzone, terra dei Baschi. Vi sorge una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale abita gente che non fa altro che impastare maccheroni e ravioli. L'idea è di Boccaccio ma piace molto al Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo. C'è già lo sponsor: il signor Rana.
Il Coni, per non essere da meno, suggerisce il Giro della Terra di Mezzo, quella del Signore degli Anelli. La Terra di Mezzo trova il consenso di tutti partiti politici, proprio perché è di mezzo ed è utile alla mediazione e alla mediocrità. Del resto, alzare la media, come suggeriva Luciano Bianciardi, è la nostra unica possibilità di superare la crisi: l'età media, la statura media, la terza media, l'intelligenza media, l'onda media, la birra media, la produttività media e la media oraria del Giro della Padania.
La Cgil riempie le sue 100 piazze per uno sciopero che è un successo politico e sindacale. Susanna Camusso dal palco al Colosseo attacca il governo, soprattutto Sacconi, e promette: cambieremo la manovra.
«Non ci rassegnamo, abbiamo già salvato le nostre feste, ora cambieremo questa manovra». Il secondo sciopero generale indetto da Susanna Camusso, il primo con manifestazione a Roma, vicino a quel Circo Massimo che ha fatto la storia recente della Cgil, è un successo. Un successo di partecipazione nelle 100 piazze disseminate per la penisola, un successo politico per la presenza di tanti partiti e tanti leader. Da Torino a Palermo le piazze stracolme hanno smentito chi descriveva una Cgil nell'angolo, mentre le presenze di primissimo livello politico hanno smentito chi parlava di «solitudine politica» di «chi sciopera da solo». Un successo anche personale: «Susanna, Susanna» è il coro che si sente da sotto il palco collocato vicino all'arco di Tito e sotto il Colosseo. Dal concentramento davanti alla Stazione Termini, passando per il percorso usuale dei cortei, il lunghissimo serpentone rosso avanza orgoglioso. Susanna Camusso con camicia bianca, gonna blu e sciarpa rossa, saluta tutti: politici e lavoratori. Poi sul palco, preceduta dall'intervento del segretario di Roma e Lazio Claudio Di Berardino, scalda i cuori delle migliaia di persone che la ascoltano sotto il sole. «Noi un paese così non ce lo meritiamo», esordisce. «Un paese senza credibilità per colpa di un governo che per 3 anni diceva che tutto andava bene, che a luglio ha detto che la prima manovra bastava fino al 2014. È durata 9 giorni, poi ha iniziato a scavare con manovre sempre più depressive». Non cita mai direttamente il ministro Sacconi, ma è lui il bersaglio più colpito. «Poi è arrivata la lettera della Bce, ma non ce la fanno vedere forse perché c'è un giudizio negativo su di loro, non sui lavoratori. Un ministro a caso dovrebbe decidersi: o ci fa vedere la lettera o mente e sa di mentire».
Il segretario generale della Cgil poi festeggia «la vittoria della nostra mobilitazione» sulle feste civili («A quale mente perversa era venuto in mente di cancellare la nostra memoria, le nostre radici?») e spiega quindi che la Cgil è contro «una manovra che sa di vendetta, iniqua, ingiusta, incivile sulla norma che riunisce tutti i lavoratori disabili in reparti ghetto, che si accanisce sui più deboli e sui dipendenti pubblici». Sul contributo di solidarietà la Cgil rivendica di averlo chiesto «per prima, ma di volerlo equo facendolo pagare anche agli autonomi e a chi ha rendite finanziarie». Lo slogan della manifestazione è infatti chiarissimo: «Paghi di più chi ha pagato poco e paghi chi non ha mai pagato», «senza proclami sull'evasione per poi arrivare ai condoni». Al presidente Napolitano che «giustamente chiede di fare in fretta», Camusso risponde che «in fretta e con equità si possono tassare rendite e immobili». A chi sostiene sia «irresponsabile scioperare in questo momento», Camusso rispedisce «al mittente l'accusa» e la gira «a chi in questa situazione ha voluto introdurre un articolo per rendere più facili i licenziamenti, facendo strame dei diritti dei lavoratori grazie al principio che ogni contratto è derogabile».
Il segretario generale chiede invece al governo di «ridare alle parti sociali la loro autonomia» e a Confindustria «di avere coerenza: o c'è l'accordo con i sindacati o c'è la legge». Camusso riparte quindi dallo slogan: «Se non ora quando», «quello di una importantissima piazza» per tornare a dialogare con le parti sociali e «l'occasione si chiama legge sulla rappresentanza». Appena nomina Cisl e Uil arrivano i fischi, ma Camusso li ferma subito: «Non fischiate, noi siamo rispettosi delle posizioni altrui, non ledimo la loro autonomia». La polemica con Bonanni e Angeletti è sul tema dello sciopero: «La domanda a loro è: quando si può scioperare? Perché se non c'è mai un momento giusto, viene il dubbio che non si sia capito la gravità della situazione. E quindi con nervi saldi diciamo che politica e sindacato devono avere a cuore l'autonomia e stare con i piedi per terra e la nostra terra è quella dei lavoratori».
Sull'articolo 8 quindi il messaggio al Parlamento è diretto: «Se non verrà stralciato useremo tutte le armi per cancellarlo, come per tutte le norme che contestiamo, dalla Corte Costituzionale, alle cause civili, alla Corte di giustizia europea, non ci fermeremo». Mentre per Sacconi il messaggio è più duro: «Se non lo stralcerà diventerà il peggior ministro della storia della Repubblica, quello che come professione ha la divisione del sindacato». Sul capitolo dei tagli alla politica la posizione è ferma: «Noi siamo contro i privilegi della politica, i vitalizi dei parlamentari, le nomine politiche nella sanità, ma quando si tagliano gli enti locali come le Province non si sta tagliando la politica, si stanno tagliano i servizi ai cittadini. E si fa demagogia».
In serata poi arriva la reazione agli ennesimi cambiamenti alla manovra: «Risultato detta Camusso di un governo in stato confusionale, sordo di fronte al paese e sempre più condizionato dagli umori dei mercati», con «novità che rafforzano l’iniquità di una manovra sbagliata».
Forse, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell´inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile». Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s´accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell´Utri, e parecchi altri.
Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.
Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell´ombra. Si è avuta quest´impressione, netta, quando Dell´Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l´avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe».
Uno che accetta d´esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda». La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un´ordinaria abitudine omertosa, e questo nell´ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d´Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.
Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l´arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s´annebbia, più cresce il sospetto che anch´egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».
Ma c´è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l´odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l´immagine s´è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all´oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell´Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.
Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d´interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d´interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch´essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po´ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l´iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l´opera di Visco e Prodi contro l´evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘46. Come spiegare in altro modo l´incuria, l´impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?
Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d´aver acquistato a caro prezzo azioni dell´autostrada Serravalle, quand´era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall´imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l´ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l´allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l´uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s´espugna con i figli del berlusconismo.
Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s´imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d´interesse, Chiesa compresa. Liberare l´Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ´93-´94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.
Il miglior atto di responsabilità verso il Paese che la Cgil potesse assumere lo ha fatto proclamando lo sciopero generale e chiamando tutti alla mobilitazione.
Questa manovra del governo dev'essere profondamente cambiata, a partire dal ritiro dell'articolo 8 che cancella il diritto del lavoro, il contratto nazionale e lo Statuto dei Lavoratori. Non è sufficiente: un governo che con le sue leggi classiste sta attentando alla nostra Costituzione formale e materiale dev'essere mandato a casa. Di conseguenza, lo sciopero generale non può restare un momento a sé, per quanto fondamentale, ma deve segnare l'inizio di una mobilitazione straordinaria capace di durare il tempo necessario ad ottenere tutti questi risultati che non si esaurirebbero neanche con un cambiamento radicale della manovra. La Confindustria sta sostenendo apertamente le scelte del governo. Scelte che, con l'art. 8, promuovono l'odioso metodo della Fiat a Pomigliano e Mirafiori a legge dello stato, in violazione di altre leggi fondamentali.
Siamo di fronte ad un atto di una gravità senza precedenti che viola le più elementari regole di una democrazia costituzionale e che fa carta straccia persino dell'accordo interconfederale del 28 giugno, firmato dalla Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil. Inoltre, la manovra non interviene sulle ragioni che hanno determinato la crisi, anzi fa pagare ancora una volta i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i giovani, riproponendo gli stessi identici meccanismi e le stesse ricette che hanno gettato il mondo intero in questo marasma. Le risorse per uscire attraverso un'altra strada dalla crisi ci sono: vanno ricercate non tagliando lo stato sociale, i diritti e la dignità dei lavoratori e dei cittadini, ma introducendo una vera patrimoniale, tassando le transazioni finanziarie, colpendo l'evasione e la corruzione, riformando profondamente il sistema politico.
Il fatto ancor più grave è che questo tsunami che ci viene scatenato contro si sviluppa in assenza di una politica industriale pubblica capace di avviare un nuovo modello di sviluppo, socialmente ed ambientalmente sostenibile e rispettoso del pronunciamento popolare realizzato attraverso i referendum dello scorso giugno.
È in gioco la democrazia di questo paese, nei posti di lavoro come nella società. Anziché l'art. 8 del governo, è necessaria una legge sulla rappresentanza che sancisca il diritto dei lavoratori a votare sempre in modo libero sui contratti che li riguardano. L'unità del lavoro è un valore irrinunciabile, ma si costruisce con la democrazia, permettendo dunque, sempre, ai lavoratori di votare. C'è bisogno di unire intorno alle battaglie per il lavoro i giovani, gli studenti, i precari e tutti coloro che hanno subito e pagato la crisi. Solo attraverso questa unità è possibile determinare un reale cambiamento sociale, morale e politico.
L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, tale deve restare.
L'autore è Segretario generale della Fiom
Il polverone sollevato dall´impressionante disastro finanziario islandese - che ha comportato il fallimento delle tre banche più grandi e quindi il crollo della sua economia nell´autunno del 2008 - si stava appena diradando e già il Paese si è messo alla ricerca di qualcuno sul quale addossare le responsabilità dell´accaduto. Di sicuro le banche, certo. Un procuratore speciale nominato dal governo ha fatto i nomi di oltre 200 funzionari sospetti in un caso che, come pare inevitabile, sfocerà in un´imputazione. E poi i politici, naturalmente: gli elettori hanno espresso il loro sdegno nei confronti dell´Independence Party al governo da tempo allontanandolo dal potere nelle elezioni del 2009. Ma il desiderio di fare giustizia - e forse anche quello di vendicarsi - è forte e complesso e l´Islanda ha preso provvedimenti insoliti negli strani annali della crisi finanziaria mondiale: ha deciso di perseguire penalmente un personaggio politico, l´ex primo ministro Geir Haarde, perché il suo governo non è riuscito a scongiurare la catastrofe.
L´accusa formale contro Haarde, decisa da un parlamento quanto mai lacerato al proprio interno, parla di «sue violazioni commesse dal febbraio all´ottobre 2008, di proposito o per omissione o per banale disinteresse, essenzialmente contro le leggi della responsabilità ministeriale». Secondo l´accusa Haarde avrebbe dato prova di «gravi mancanze nei suoi doveri di primo ministro di fronte a un pericolo enorme che incombeva sulle istituzioni finanziarie islandesi e sulle casse dello stato». Il suo grande peccato, sintetizza Atli Gislason, dei Verdi di sinistra al parlamento e leader della commissione che ha istituito la causa contro Haarde, è essenzialmente proprio l´omissione: «Il suo errore è stato non fare niente». Se sarà giudicato colpevole da un collegio speciale di giudici, Haarde - una personalità di riferimento per il conservatore Independence Party e che ha servito come primo ministro dal giugno 2006 al febbraio 2009 - potrebbe essere condannato a due anni massimo di reclusione.
Per certi aspetti, il caso in questione è servito all´Islanda da espediente per costringere le autorità a rispondere del loro operato e voltare pagina. Se non altro, però, anche se l´economia islandese sta iniziando a dare qualche segnale di ripresa, l´accusa a Haarde ha reso la già cinica popolazione ancora più sospettosa. Da recenti sondaggi è emerso che la fiducia nel Parlamento ha toccato i minimi storici. «È in corso un cambiamento», dice Kristrun Heimisdottir, consulente del ministero degli Affari economici. «Finora prevalevano rabbia e sete di vendetta, ma adesso la gente non sa se la colpa sia davvero tutta di Geir». Il problema, a detta di Robert R. Spano, professore e rettore della facoltà di giurisprudenza dell´Università di Islanda, è che legge e politica sono ormai aggrovigliate tra loro. In un´intervista ha infatti detto: «Quando si vive una situazione di forte rabbia, le decisioni che dovrebbero essere prese oggettivamente e con grande attenzione tendono a essere contaminate dalla politica e dalle emozioni».
Lunedì, nel corso di un´udienza, gli avvocati di Haarde hanno sostenuto che il caso dovrebbe essere cancellato per vari vizi procedurali, e che l´imputazione stessa è troppo vaga per rispondere ai parametri legali. Se la loro mozione non sarà accolta, e se Haarde darà fondo a tutti i ricorsi che ha a sua disposizione prima che inizi il processo, la sua causa sarà discussa all´inizio del prossimo anno da un tribunale, mai convocato prima, incaricato di occuparsi di casi che hanno a che fare con gli atti illeciti del governo.
Haarde, 60 anni, ha detto di non aver commesso reato alcuno, che gli eventi che hanno portato al crack finanziario erano troppo complessi per essere distillati in un´aggressiva azione politico-legale contro una sola persona, e ha concluso dicendosi sicuro che potrà dimostrare la propria buonafede. «A posteriori, è davvero difficile affermare che non avremmo potuto agire in modo diverso» ha detto nell´intervista. «Ma questo è un processo politico mascherato da causa penale. I miei avversari politici stanno cercando di prendersela con me, e di castigare me e il mio partito».
Perfino alcuni parlamentari che hanno espresso parere favorevole per accusare Haarde affermano di essere perplessi da come si stanno trasformando le cose. Nell´autunno scorso, una commissione parlamentare speciale che doveva svolgere indagini sul crack ha rispolverato una vecchia legge con la quale ha potuto individuare quattro persone - Haarde e tre dei suoi ministri - che potevano essere ritenuti penalmente perseguibili. Ma dopo una serie di manovre politiche che hanno scatenato una furiosa lite in Parlamento, con un voto di 33 a 30 il Parlamento ha deciso di accusare soltanto Haarde.
Jon Danielsson, esperto di Islanda presso la London School of Economics, ha detto: «È il Parlamento ad aver deciso che condanneremo una sola persona, e si dà il caso che questo unico imputato sia l´ex capo dei conservatori. Siamo davanti a un processo politico. O li accusiamo tutti o nessuno». Molti islandesi approvano questo ragionamento: «Haarder è stato uno degli artefici del crack dell´Islanda, su questo non c´è dubbio», dice Arnar Thorisson, un cineasta di 42 anni che l´altro giorno passeggiava in centro a Reykjavik. «Ma non mi basta veder accusato soltanto lui».
Se c´è un politico più colpevole di altri, secondo molti è David Oddsson, vecchio amico e mentore di Haarde, primo ministro dal 1991 al 2004. Durante il suo mandato l´Islanda privatizzò le banche, liberalizzò i regolamenti bancari, aprendo la strada a un breve periodo di prosperità, ma anche a un comportamento azzardato e in definitiva auto-distruttivo da parte delle banche. Quanto Oddsson lasciò la politica, divenne presidente della Banca centrale. Fu estromesso dalla sua carica nel 2009, ed è attualmente direttore di Morgunbladid, importante giornale islandese e sostenitore dell´Independence Party. «Lui è il re, e noi in un certo senso stiamo impiccando il principe» ha esemplificato Eirikur Bergmann, direttore del Centro per gli Studi europei all´Università Bifrost.
A prescindere da come andrà a finire, un processo non servirà granché a placare la collera degli islandesi. «Siamo lontani dal giudicare gli eventi in modo equilibrato», spiega Gunnar Helgi Kristinsson, docente di scienze politiche all´Università dell´Islanda. «Se Haarde sarà giudicato non colpevole, l´opinione pubblica lo considererà un verdetto di un sistema nel quale nessuno è tenuto a rispondere del proprio operato. Se sarà giudicato colpevole, si ritroverà a essere l´unico responsabile di una situazione che tutti sanno che non è giusto addossare soltanto a lui».
(Copyright New York Times - la Repubblica/ Traduzione di Anna Bissanti)
La grande stampa e la televisione si accorgono della risposta dell’Islanda alla crisi del finanzcapitasmo quando accade uno scandalo giudiziario. Non hanno informato quando in quel paese è successo lo “scandalo” di una risposta controcorrente al disastro provocato dai finanzieri: quando per uscire dalla crisi non hanno ammazzato il welfare e aumentato le tasse, ma colpito le banche. Vi rinviamo a un pezzo che a suo tempo abbiamo ripreso dal Fatto quotidiano, che a sua volta aveva preso l’informazione da facebook.
PIEVE DI CORIANO (Mantova) - Un euro al giorno toglie il ladro di notte? Il sindaco Andrea Bassoli, assicuratore e ciclista, due furti in due anni, si è fatto una domanda e si è dato una risposta. «Sissignori. Al costo di un caffè faccio vivere tranquilla la mia gente».
Avviso ai topi di appartamento: se avete in mente di (continuare a) fare shopping nelle case di Pieve di Coriano - dove finora avete agito in scioltezza - lasciate perdere. La festa è finita e Fort Knox adesso si è trasferito qui, terra di tartufi e biciclette sull’argine del Po, a metà strada tra il lago di Garda e il mare Adriatico, dove puoi non vedere una macchina per chilometri ma i ladri, loro, ci vedono benissimo. Soprattutto al buio. Assalti in villa, buchi per entrare negli uffici, razzie o anche colpi stupidissimi, da ladri di galline, tipo tre succhi di frutta prelevati dal frigorifero però, ed è ancora più odioso, sempre quando la gente è in casa e sta dormendo.
Va così dal 2006, l’ultima ondata predatoria a maggio. Il Comune adesso ha detto basta e, primo caso in Italia, ha varato un impianto d’allarme unico per l’intero paese. Al costo, appunto, di un euro al giorno per ogni famiglia. Come funziona? Non pensate a una sirena centralizzata, nessun grande cervellone. Molto più semplice: l’amministrazione comunale, grazie a una convenzione siglata con l’Istituto provinciale di vigilanza di Mantova, offre il sistema di sicurezza a tariffe agevolate. Le famiglie - 450 per un totale di 1069 abitanti - possono o acquistarlo o noleggiarlo al costo di 30 euro al mese. Il contratto dura cinque anni. Dopodiché l’impianto di allarme può essere riscattato con un centinaio di euro, oppure si può rinnovare l’abbonamento. Completa il ventaglio delle offerte un rinforzo della vigilanza notturna: in pratica, pagando 3,5 euro l’anno, ogni famiglia può incrementare le ronde dei vigilantes, già attive, fino a tre giri del paese. Dall’attracco fluviale alla zona artigianale.
«Non c’è nessuna psicosi - dice il sindaco Bassoli, al secondo mandato, giunta di centrosinistra - ma la richiesta di maggiore sicurezza viene proprio dai cittadini. È chiaro che più contratti riusciremo a sottoscrivere e più controlli avremo». Vista così sembra che Pieve sia una succursale di Caracas o un avamposto libico. In realtà il primo cittadino sostiene che «come furti siamo più o meno nella media degli altri paesi». Ma si capisce che danza sui cristalli: se da una parte vuole sensibilizzare la comunità ad abbonarsi alla sicurezza privata, dall’altra non può alimentare ulteriori paure.
Da notare: in paese ci sono già sette telecamere. Le hanno messe tre anni fa, 36 mila euro di spesa. Sono collegate via wireless a una centrale operativa del municipio e la stazione dei carabinieri di Revere, il paese vicino. «A proposito, funzionano queste telecamere?», chiede Bruno Pelin al bar Acli, in piazza Gramsci. È inutile negare che un po’ di scetticismo c’è. Anche sul costo. «È vero che un euro al giorno è un caffè, ma fanno 365 euro all’anno per 450 famiglie». Lino Mazzola fa due conti e, sotto la facciata romanica di Santa Maria Assunta, allarga le braccia. A giugno nella prima assemblea pubblica organizzata dal sindaco, la risposta è stata positiva. «Da lì ho capito che la cosa può funzionare», sostiene Bassoli. A fine settembre ci sarà un altro incontro. L’operazione allarme cooperativo sarà già avviata. «In paese ci sono già un centinaio di case dotate di allarmi privati. Se riusciamo a sottoscrivere almeno un altro centinaio di contratti è un ottimo risultato. A quel punto i ladri dovranno sceglierle con il lanternino le case da svaligiare». Luca Morandi fa l’imbianchino. Per ora ha solo dei sensori sulla porta di ingresso. Sta valutando se accettare la proposta del Comune. «Un euro non è tanto, ma l’importante è che questi allarmi siano davvero efficaci».
Chissà cosa ne pensano le bande di rapinatori che calano dal Veneto. Non professionisti. Piuttosto, spiegano in municipio, ladri improvvisati. «Quelli che hanno preso i carabinieri erano romeni, minorenni». A maggio si sono dati da fare. Oltre all’ufficio dell’agenzia di assicurazioni Unipol gestita dal sindaco, hanno preso di mira le abitazioni del carrozziere, di un paio di pensionati e di una famiglia appena arrivata in paese. Sembrava di essere tornati all’anno orribile 2006, quella dei colpi a ripetizione. C’è da dire che nonostante le visite dei ladri, Pieve - in controtendenza rispetto alla media dei paesini - continua a popolarsi. Sette anni fa gli abitanti erano 800. Oggi mille e sessanta. Molti lavorano all’ospedale, una sede distaccata del Carlo Poma di Mantova che impiega 400 persone. «Siamo un paese giovane e pieno di bambini. E senza disoccupazione. Qui c’è un certo benessere. Forse - conclude Bassoli - i ladri ci hanno preso di mira per questo»
postilla
Quando leggiamo i messianici rapporti degli organismi internazionali sull’urbanizzazione del pianeta, di sicuro non andiamo mai e poi mai a pensare a certi villaggi di Heidi nelle valli prealpine, o ai piccoli borghi aggrappati agli argini del grande fiume in mezzo alla pianura. E invece dovremmo proprio farlo, perché la notizia nel caso specifico è l’accettazione della normalità dei furti, e l’interessante offerta dell’amministrazione comunale di un nuovo servizio ai cittadini: cosa c’è di più urbano? La parola “paesini” usata dal giornalista forse ha senso se leggiamo le necessariamente distorte statistiche basate sulle circoscrizioni comunali, ma basta chiedersi per un istante: da dove viene tutto il benessere bramato dai topi d’appartamento? Dai mille abitanti che zappano chini nei campi manco fossimo in una pantomima dell’Angelus di Millet? Certo che no! E Allora si capisce che in un modo o nell’altro quel comune è l’ennesimo quartiere suburbano, con tutti i problemi connessi, e continuare a pensarlo in termini di autonomia classica, immaginario semirurale, forse conviene agli amministratori locali, vagamente convinti di operare al meglio, ma fa male a tutto il resto del mondo, almeno al famoso 50% urbano degli organismi internazionali … Ho anche provato ad allargare un po' il ragionamento (f.b.)
Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione. I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale - si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale - possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese - si noti bene - le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro".
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta - almento 10 punti in vent´anni - è una delle maggiori cause della crisi.
Nei momenti difficili si mostra il carattere. Questa massima di saggezza popolare può valere per gli individui singoli e per le società. L´Italia naviga da mesi ormai in un mare di emergenza economica e finanziaria. Questo stato di difficoltà ha confermato lo stato di incredibile inadeguatezza della sua classe politica. Prima e soprattutto di quella di governo, la cui leadership è al fondo radicalmente antinazionale.
La coalizione di governo è dilaniata da mesi da conflitti intestini che vertono essenzialmente su questo: come riuscire a non far pagare il prezzo della manovra al proprio bacino elettorale, ai propri gruppi sociali o territoriali di riferimento. Che cosa questo comporti per il futuro del Paese non importa. Non importa alla Lega che per bocca del suo leader storico confessa al mondo che l´Italia comunque sarà spazzata via da questa crisi mondiale e che è quindi meglio pensare a salvare la parte sua, le regioni del nord padano nelle quali stanno gli elettori del Carroccio. Il destino del Paese non importa al presidente del Consiglio, il quale ha comparato senza giri di parole questo Paese, il Paese che governa, a un fetido escremento. L´inadeguatezza paurosa del premier è confermata dalla squallida vicenda Tarantini la quale, ha osservato Massimo Giannini nei giorni scorsi, mette in luce "l´enorme gravità politica" dei suoi comportamenti anche se non c´è agli atti nessun risvolto penale a suo carico. Dimostra quel che da anni si va ripetendo: che Berlusconi è un leader sotto ricatto, e pertanto inaffidabile; un leader che, in piena discussione sulla manovra economica, perde una quantità esorbitante del suo tempo per discutere dei suoi putridi "affari".
Ma i problemi della debolezza della leadership politica italiana si estendono oltre la maggioranza. La gravissima vicenda giudiziaria che vede coinvolto Filippo Penati è un macigno che pesa enormemente sull´autorità e l´efficacia politica del più grande partito di opposizione. Indipendentemente dai risvolti giudiziari, questa vicenda è di una gravità enorme e mette a nudo la debolezza politica del Pd. La vicenda dell´ex-presidente della Provincia di Milano mostra la persistenza di un modello di partito e di politica che apparteneva a un tempo nel quale i partiti erano i soli depositari del giudizio politico. Un tempo nel quale la fedeltà al partito era la prima e più fondamentale risorsa, il fine o il bene che giustificava l´uso di ogni mezzo e metodo. Su un campo di battaglia picchettato dalla logica della Guerra fredda le "mani sporche in politica" erano quasi una forma di eroismo: per parafrasare Machiavelli, i politici erano disposti a perdere l´anima pur di fare il bene del partito. Quando Penati chiede al suo partito di essere "garantista" con lui che è stato un leale sostenitore e non ha agito per arricchire se stesso, dimostra di ragionare secondo quella vecchia etica partitica. La "questione morale" è dunque una questione di "mores", di valori e principi politici dai quali derivano norme di comportamento. Nell´Italia di oggi non c´è più posto per questo modello di partito né quindi per una visione del bene del partito che giustifichi mezzi obliqui e irrispettosi della legge. In questo senso la vicenda di Penati mette in luce una debolezza non ancora risolta della leadership della sinistra.
La crisi della leadership politica nazionale è ovviamente complessa. Sarebbe a dir poco assurdo rubricare nello stesso capitolo maggioranza e opposizione. Il detto "tutti sono uguali" è una evasione della ragione, una scappatoia oziosa di chi non vuole ammettere la specificità del berlusconismo: un fenomeno di malgoverno, affarismo e negazione dell´interesse generale che è sistematico e sistemico. Non un caso di corruzione né il segno di una lealtà politica partitica, ma un modo di essere e fare politica che è scientemente fondato sulla violazione della legge o la sua riscrittura per renderla meglio disposta a permettere la distruzione del bene pubblico e la soddisfazione di beni privati, interessi di gruppi e di territori. Il berlusconismo è una forma di politica antinazionale, contro ciò che è nell´interesse della nazione. Questa politica dà il segno dell´inadeguatezza della leadership di governo in questo momento di emergenza nazionale.
La cosa preoccupante è che in questo momento di emergenza l´opposizione sembra aver smarrito la forza, il coraggio e la credibilità necessari per rovesciare questo corso rovinoso. Le elezioni di maggio e i referendum di giugno sono stati con troppa facilità messi in archivio, forse perché non si è compreso il loro significato, cioè la carica di disobbedienza al modello berlusconiano, un´indicazione preziosa di come ridare alla politica dignità e rigore, condizione essenziale per ricostruire una nuova leadership. La vicenda Penati rivela questa incomprensione; è il segno che la politica dell´opposizione è ancora intrappolata nella vecchia logica della politica partitica. Chiudere subito e con coraggio con quel modello di partito e di politica può agevolare l´emergere di una leadership che sappia cogliere appieno il messaggio che i cittadini hanno lanciato in maggio e giugno, che non dissipi un patrimonio etico e politico che a fatica, e con una ammirevole tenacia, gli italiani hanno saputo difendere in questi anni di egemonia berlusconiana.
Continuare come se nulla fosse successo nel frattempo, come se il crollo di fiducia nella politica della destra non ci sia stato, come se la sconfitta di Milano, che prima del 15 maggio sembrava impensabile al premier, sia stata un fatto assolutamente irrilevante. Come se la grande disobbedienza del 12 e 13 giugno sia capitata in un altro paese. Tutto ciò che prima sembrava determinante, una volta avvenuto è stato rubricato in fretta nel capitolo della cronaca antica. Siccome i cittadini non hanno votato a elezioni politiche, essi non hanno espresso alcun giudizio su questa maggioranza di governo quando hanno votato a favore di coalizioni di centrosinistra e quando hanno detto NO all´insistente suggerimento di Berlusconi di non andare a votare ai referendum.
A leggere i giornali di questi giorni sembra che niente di nuovo ci sia sotto il sole italiano: il clientelismo con i quale si è cementata questa alleanza di governo mostra un altro spezzone del suo carattere sistemico, perpetrato con studiata intelligenza per distribuire incarichi proporzionalmente al nord come al sud, nelle posizioni di rilievo politiche, amministrative e aziendali. Come a riconfermare il carattere endogeno che lo contraddistingue dal primo giorno del suo insediamento, il governo ha deciso di tener conto solo delle opinioni che gli sono favorevoli, di dar segno di rispondenza solo a quella parte della società e della cittadinanza che è in sintonia con il suo fare. Gli altri, le opinioni degli altri, non esistono, non hanno peso, non contano. Indifferente all´opinione autorevole che i cittadini hanno voluto far giungere chiara e forte a Roma, il governo della Repubblica, che nella costituzione e nei manuali di dottrine della politica è definito come un potere dipendente e in questo senso servente rispetto a quello sovrano rappresentato in Parlamento e prima ancora nelle urne, persiste nella sua opera di nascondimento e indifferenza.
La P4 rispecchia l´identità proteica dell´ideologia berlusconiana, poiché nonostante gli sforzi che facciamo per connotare onorevolmente le ideologie, interpretazioni di parte ma pur sempre politiche dei fini indicati nella costituzione, questa che ci governa da anni è un´ideologia. I cui caratteri principali e facilmente riconoscibili sono: il di rispetto per le regole poiché, si fa credere, limitano la libertà e l´intraprendenza di chi governa e al cui giudizio carismatico solo è bastante rifarsi se si vogliono conoscere le regole di ciò che conviene o non conviene; la giustificazione della necessità dell´emergenza quando l´ordinamento resiste alla volontà di potenza; la propaganda di ciò che si vuole il popolo creda e pensi; l´instancabile demolizione della dignità dell´opposizione, un intralcio al potere della maggioranza invece che un necessario controllo; la privatizzazione del bene pubblico, nel quale vanno messe prima di tutto le regole del gioco che non sono proprietà di chi le usa, oltre che le risorse dello Stato, tra le quali la legge è certamente quella più importante; il fare delle istituzioni luoghi per portare a compimento prima di tutto ciò che è nell´interesse privatissimo di chi governa, anche a costo di "mettere un velo" sulla legge (ovvero sulla libertà), per parafrasare il "divino Montesquieu"; infine e a compimento di tutto questo, la certosina e diremmo quasi perfezionistica attenzione a praticare l´arte del nascondimento.
La contraddizione tra questa pratica sistemica e le regole del gioco democratico costituzionale è stridente, insanabile. Sappiamo che la nostra democrazia è forte, perché vitalità e ragionevolezza della cittadinanza si sono mostrate con sobria e pubblica chiarezza, senza infingimenti, propagande e parole roboanti. Le due parti del dramma sulla scena politica italiana sono ben definite e fingere che una delle due non esista o sia apparsa e scomparsa come una cometa nell´attimo della conta dei voti è oltre che sbagliato, improvvido per chi finge. Come ha scritto Ezio Mauro, la memoria dei post-it è ancora fresca e riprendere la lotta contro i tentativi di oscurare la verità, di impedirci di sapere quel che succede nelle stanze dei palazzi non sarà né irrealistico né difficile. La discrepanza tra il dentro e il fuori delle istituzioni è ormai marcata. Sentire fastidio per ciò che è stato detto con il voto, fingere che non sia successo nulla, continuare a razzolare come prima e anche più caparbiamente di prima può essere improvvido. Certo é un segno di timore di perdere il potere, di debolezza quindi, non di forza.
Dilettanti al potere. Un governo e una maggioranza non solo incapaci di gestire i conti pubblici e di prospettare una coerente manovra di risanamento economico-finanziario, ma anche del tutto privi della necessaria cultura costituzionale di governo. Tutti i punti qualificanti la manovra d'agosto sollevano infatti delicate questioni di compatibilità con la nostra Costituzione. A iniziare dalla goffa proposta di cancellare il riscatto degli anni di studio e di quello dedicato al servizio militare, senza porre mente al fatto che una tale misura si prospettava in evidente conflitto con alcuni principi di fondo del sistema giuridico: dal principio generale del «giusto affidamento» del cittadino alla violazione di diritti acquisiti. Per non dire della discriminazione tra i sessi che, forse per la prima volta nella storia della repubblica, avrebbe penalizzato gli uomini anziché le donne.
Ma anche quel che è rimasto della manovra mostra una generalizzata ed evidente insensibilità ai limiti che la nostra Costituzione impone alla politica e all'economia. Così, il contributo di solidarietà, che è restato solo per i dipendenti pubblici, appare misura eticamente riprovevole in un paese che ha il più alto tasso di evasione ed elusione fiscale, finendo per penalizzare unicamente chi già fornisce una piena e leale contribuzione in base al proprio reddito. La violazione del principio d'eguaglianza è palese, discriminando tra lavoratori pubblici e privati. E poi basta leggerla la costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Se solo alcuni, a parità di reddito, sono tenuti a contribuire è evidente che si passa da un sistema progressivo di tassazione a un sistema che discrimina in base alla categoria di appartenenza, violando gli articoli 3 e 53 della Carta.
Anche l'eliminazione dei vantaggi fiscali per le cooperative non sembra tener conto di quanto espressamente scrive il nostro testo costituzionale. L'articolo 45 riconosce la funzione sociale della cooperazione e rinvia alla legge la «promozione» per assicurarne i caratteri e le finalità specifici. È perciò che non possono porsi sullo stesso piano le coop e le società di capitali, le quali peraltro hanno meno vincoli e possono liberamente operare sul mercato. Sebbene sia evidente che il carattere di mutualità e l'assenza di fini di speculazione privata del sistema cooperativo è un orizzonte che fuoriesce dalla «cultura» mercantilistica dell'attuale maggioranza, il punto è però che in questo caso un'equiparazione, almeno per i profili fiscali, tra soggetti diversi (spa e coop) non appare conforme a costituzione.
Non solo le misure definite a Arcore appaiono costituzionalmente improponibili. E' l'intero decreto legge originariamente proposto a mostrare una collezione di criticità costituzionali. Così l'articolo 4 stabilisce norme per la privatizzazione del servizi pubblici locali, riproponendo disposizioni analoghe, se non identiche, a quelle abrogate per via referendaria (il primo dei quesiti su cui siamo stati chiamati a votare), con evidente elusione della volontà popolare e in spregio a quanto stabilito dalla Costituzione in materia referendaria (art. 75).
Anche per quanto riguarda i tagli agli enti locali si pone una delicata questione. Questi tagli, secondo la denuncia di tutti i rappresentanti delle istituzioni regionali e comunali, finirebbero per compromettere i primari servizi sociali, quei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In proposito, la Costituzione stabilisce una regola aurea. Quando vengono messi in discussione tali «livelli essenziali» spetta, in via esclusiva, allo Stato centrale provvedere. Invece l'unico problema del governo pare sia quello di ridurre il deficit e sottrarre i finanziamenti agli enti locali, disinteressandosi del fatto che in tal modo si finiscono per compromettere i diritti dei cittadini, in evidente conflitto con il carattere «sociale» della nostra democrazia costituzionale.
Infine, il governo, con allegra disinvoltura, ha voluto approfittare del decreto rivolto al risanamento della finanza pubblica per introdurre una disciplina che ha tutt'altro scopo. All'articolo 8 viene regolata la contrattazione collettiva di lavoro, estendendo quella aziendale a scapito di quella nazionale. La questione è assolutamente controversa politicamente, mi limito in quest'occasione a rilevare l'improprietà costituzionale della misura prevista. Sia per ragioni di metodo sia per ragioni di merito. Per quanto riguarda il metodo sono note le reiterate sollecitazioni del Capo dello Stato ai governi di evitare di adottare decreti legge «eterogenei», contenenti cioè norme non collegate direttamente all'oggetto specifico del decreto. Le giuste critiche presidenziali sono mosse dalla convinzione che non si possano introdurre discipline normative abusando della Costituzione, approfittando cioè dei tempi rapidi e della scarsa possibilità di discussione che il parlamento ha in sede di conversione dei decreti, in assenza peraltro dei requisiti della straordinaria necessità e urgenza. In questi casi deve essere seguita la via ordinaria del disegno di legge autonomo. Eppure a questo governo deve essere apparso più comodo introdurre una norma che ha per oggetto le relazioni sociali e non invece il risanamento del debito pubblico e che non ha alcun presupposto d'urgenza; con buona pace della corretta applicazione della Costituzione e delle sollecitazioni del Quirinale. Ma è anche nel merito che la normativa appare costituzionalmente discutibile. L'ambito di contrattazione aziendale, s'è detto, viene esteso, potendosi spingere a regolare praticamente l'intera organizzazione del lavoro, nonché le modalità di assunzione e di recesso dal rapporto di lavoro. Ciò impone due parallele riflessioni: da un lato c'è da dubitare che la contrattazione possa sostituire un'adeguata disciplina normativa (l'ha rilevato anche la Banca d'Italia), lasciando alle parti la disponibilità dei diritti dei lavoratori; dall'altro bisogna domandarsi se non c'è il rischio che in tal modo finiscano per venir compromessi i diritti costituzionali indisponibili. I precedenti (i contratti aziendali Fiat) lasciano prevedere il peggio: l'ammissibilità delle cosiddette clausole di responsabilità e la possibilità di definire le «conseguenze» del recesso aprono la porta alla negoziazione anche dei diritti del lavoro che la Costituzione tutela direttamente e che non possono essere «contrattualizzati».
Insomma, l'intera manovra appare lontana da ogni preoccupazione d'ordine costituzionale. Sarebbe auspicabile che le forze di opposizione si richiamassero alla cultura costituzionale che deve improntare ogni atto dei poteri pubblici in uno stato democratico e pluralista. Molte delle incongruenze e l'iniquità complessiva della manovra si spiegano anche in tal modo. Il rispetto dello spirito della Carta avrebbe imposto una manovra non meno incisiva, ma almeno improntata ai criteri della progressività (art. 53) e della redistribuzione delle risorse (art. 3, secondo comma).
Sta accadendo qualcosa di irreparabile, un finimondo che spazza via esistenze, culture, diritti, classi sociali. Cambia la storia e la geografia. Eppure fatichiamo a trovare le parole adeguate per dirlo, per spiegarlo, per contrastarne l'apparente oggettività, per denunciarne le cause. Siamo invischiati in una trama ideologica che non riusciamo a spezzare. Cos'è la crisi? La crisi è la crisi, così come una rosa è una rosa. Come una crepa nell'ordine naturale delle cose: che poi quell'ordine non sia affatto naturale, che si chiami liberismo e che abbia egemonizzato per circa un trentennio tutto il nostro West, questo nessuno (o quasi) lo dice.
La crisi è figlia di una "rivoluzione conservatrice" che ha ridotto la democrazia a un sistema di marketing elettorale mentre i poteri reali venivano sempre più delocalizzati e concentrati nei circoli finanziari sovranazionali. La crisi è il liberismo, la cui crisi evolve in crisi del mondo.
Le ricette con cui si cerca di affrontarla contengono tutti gli ingredienti che hanno fatto saltare il banco. Invece di mettere in mora il liberismo, si mette in mora il welfare. (Nel mesto balbettio delle forze democratiche, a Washington come a Roma). Invece di dettare regole ai mercati e ai mercanti, si stracciano le regole che danno dignità e forza di contrattazione al lavoro. Invece di investire sul futuro, sulla formazione, sulla ricerca, sull'innovazione, su un nuovo modello di sviluppo, si strozza la cassa delle pubbliche amministrazioni col cappio del "patto di stabilità".
Il debito pubblico è il buco da colmare, costi quel che costi, sia pure con la timida premonizione confindustriale che senza crescita e senza nuova occupazione quello sarà un pozzo senza fondo. Il contenimento del debito è il mantra che riunisce le peggiori classi dirigenti che l'Europa abbia mai avuto. Fino al punto di teorizzare la "costituzionalizzazione del pareggio di bilancio": un atto di demenza senile invocato per salvare quell'Europa che, in verità, si sta rompendo come un giocattolo.
Pur di educare ai principi e al lessico mercantile (chi di noi vuol essere complice di uno spread?), si decide (chi decide?) di fuoriuscire da un intero assetto di civiltà. Chi ha stressato l'ambiente e il lavoro per trarne il massimo profitto, chi ha trasferito la ricchezza dal mondo della produzione a quello della rendita, chi ha incoraggiato la messa all'incanto dei beni comuni, chi ha impoverito le nostre comunità, ora è servito: potrà continuare a farlo, anzi sarà incoraggiato a intensificare il proprio vitalismo predatorio. Forse è questa la "follia del Capitale" annunciata da Marx. Siccome il lavoro è stato spogliato di tutele e reddito, ora è tempo di dargli un colpo alla nuca: in Italia ci sono sindacalisti molto più attenti ai rutti della borsa che non ai sospiri dei lavoratori.
Non è l'universo dei paradossi: è il nostro mondo attuale, in cui la destra devasta e rilancia, la sinistra si rammarica, e il silenzio degli innocenti viene interrotto solo dalle urla degli indignati. Che non sono contro la politica. Sono contro quel "pensiero unico" che omologa la politica al rango di maggiordomo della vera casta (i detentori della ricchezza finanziaria). Insisto: sta per finire un'epoca segnata da una diffusa attesa di benessere e ne comincia una in cui è facile preconizzare un malessere generalizzato: e dunque? Davvero la crisi è figlia del fatto che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"? Anche a sinistra ci si avvita in quella retorica per la quale, al netto di Tremonti, il "tremontismo" è ineluttabile? E dunque l'operazione è trovare i soldi, quadrare i saldi, e domani è un altro giorno. Ma non è tutta qui la "questione morale"?
In questo degrado del pensiero politico, che registra la propria impotenza e la veste di cinismo e malaffare, che anche qui da noi, anche nei salotti radicali, ha considerato impronunciabile la parola "patrimoniale", che ha abolito l'alternativa pur di godere dei benefici di una mediocre alternanza? Si ruba perché "così fan tutti", perché se tutto è sottoposto al primato metafisico del mercato allora vuol dire che anche la politica è una mera funzione mercantile, è valore di scambio, è negoziazione tra frammenti (lobbies, corporazioni, territori).
Questa politica debole, pomposamente esperta di sondaggi ma incapace di sondare, si affida alla sapienza opaca delle tecnocrazie, ai pallottolieri ingannevoli dei ragionieri, si eccita per ogni Marchionne che appare sulla scena, ha il complesso della modernità e così ne confeziona una leggera e di facili costumi. La sinistra è stata mangiata dalla "politica debole", cioè dal deficit di alternatività culturale ed etica. Non si tratta di evocare una risibile diversità antropologica, si tratta di riconnettere la politica alla vita vera, ai sogni e alle attese dei vecchi e dei giovani, alla domanda sempre più attuale di giustizia sociale e di libertà individuale. Riconnettere politica e speranza.
Qui in Italia la destra sta liquidando le funzione fondamentali dello Stato e della pubblica amministrazione. Invece dei servizi sociali avremo la carità delle opere pie, basta il 5 per mille. Invece dell'universalismo del diritto alla salute, all'istruzione e alla previdenza, avremo la "sussidiarietà" di un privato che si regolerà guardando il portafoglio delle famiglie. La società in fondo non esiste, come diceva efficacemente la lady di ferro inglese, esistono gli individui: più che cittadini, vanno pesati in qualità di "clienti". Lo Stato residuo è solo Stato etico: quello che definisce la soglia della vita nel suo farsi e nel suo disfarsi, quello che proibisce e punisce le marginalità, quello che detta legge per conto delle gerarchie ecclesiastiche su cosa sia lecito fare nelle questioni relazionali, sessuali, di costume.
Ecco il passaggio d'epoca che dobbiamo fronteggiare mettendo in campo una alternativa credibile ai "governi della miseria" e alla "miseria dei governi" che stanno devastando il destino delle generazioni più giovani e stanno producendo un cataclisma sociale che ha la forza devastante (ma anche fondativa) di una guerra. Non credo sia un caso che le sconfitte più serie e più nitide Berlusconi le abbia subite non dentro al Palazzo, ma fuori, attraverso un lunga e variegata sequela di movimenti, di lotte, di socializzazione di saperi critici: che del berlusconismo hanno disvelato l'anima reazionaria e maschilista, decostruito la macchina del consenso, radiografato l'antropologia. Così è nata la rivoluzione delle primarie e dei ballottaggi, così è cresciuto il popolo dei referendum.
Lo dico con semplicità: la destra, a questo salto d'epoca, si presenta con il suo programma fondamentale: privatizzare i diritti, la società, la vita, la giustizia. Sradicare dal senso comune qualunque idea di interesse collettivo, chiudere i conti con tutte le luci del Novecento senza fare i conti con tutte le ombre del Novecento. Noi non possiamo che inventare la buona politica che rimette al centro l'inviolabilità delle persone, la ricchezza dei "valori d'uso", la centralità dei beni comuni.
Per questo mi ha emozionato la lettera che mi è stata indirizzata dalle colonne de il manifesto (31/8) da Alberto Lucarelli e Ugo Mattei. Accolgo senza indugio l'invito che mi viene rivolto. Noi ricorreremo a qualunque sede di giustizia contro le infamie sociali e le abnormità costituzionali della manovra finanziaria, la terza in pochi mesi che la destra infligge al Paese. Lo faremo anche con l'ausilio della passione scientifica e civile di chi ci mette a disposizione il proprio gratuito patrocinio. Lo faremo perché la bellezza, la memoria, la cultura, la dignità non sono valori negoziabili: e non c'è futuro possibile né vita vera se non costruiremo su queste parole il senso, la forza e la moralità della politica.
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati…) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà…) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: “Questa è una rapina”. Un impiegato: “Ah, credevo fosse la Finanza”».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
Vittorie perdute. Ecco che cosa stanno diventando i successi amministrativi e referendari della primavera, la ventata di opposizione costruttiva, la riscoperta della politica. Allora furono poste questioni – la legalità, i costi della politica (la politica ridotta a costo, senza beneficio per i cittadini), i beni comuni, il rifiuto del degrado civile del Paese – che il Pd intercettò solo indirettamente, e quasi di risulta. Le sue prime scelte, infatti, non erano quelle che vinsero a Milano e a Napoli; e solo tardi e con contrasti interni aderì al movimento referendario. Eppure, il Pd si intestò anche quelle vittorie (oltre a quelle, in buona parte sue, che conseguì in centri medi e piccoli); e si propose come l´interprete della domanda di un rinnovamento radicale della politica, del suo rapporto con la società, delle sue procedure, dei suoi costumi.
Ma nell´aggravarsi della situazione del Paese, davanti alla manovra di Ferragosto assurdamente iniqua e alla ‘indignazione´ che per manifestarsi avrà a breve un´occasione nello sciopero generale, l´azione politica del Pd è parsa incerta, tutta politicista – attorcigliata alle beghe interne, e chiusa negli orizzonti del Palazzo –; incerta e dubbiosa è stata la prospettiva di uscita dalla crisi (ora le elezioni, ora i governi tecnici, ora i governi di emergenza), mentre la responsabilità (una parola che nella politica italiana non sempre ha valore positivo, almeno negli ultimi tempi) resa necessaria dalle tempeste finanziarie d´agosto è stata anche un´occasione per l´inerzia, per derubricare le nuove questioni a temi di dibattito in tavole rotonde. O per mandare segnali sconcertanti e disorientanti come quello del salvataggio del province. O per comportamenti al limite del suicidio, come nel caso Penati.
Che, per quel che ci riguarda, è un caso politico. Sotto il profilo giudiziario farà la sua strada. Ma sotto il profilo politico ha già fatto danni colossali. Prima di tutto per le sue proporzioni e per la sua durata, che lo rendono inquietante, e che legittimano l´interrogativo se ci si trovi davanti a un mariuolo singolo oppure a un sistema che lavorava a favore di qualche settore, o cordata, del partito. E poi – posto che Milano non è certo una periferia – per la carriera centrale, romana, che il personaggio ha percorso e poi ha troncato per motivi non chiarissimi. E infine per la lentezza esasperante con cui il Pd ha reagito, convocando gli organi disciplinari (o di garanzia, come si definiscono oggi) solo pochi giorni fa, e accontentandosi finora solo delle dimissioni dell´interessato dagli incarichi, e di un´autosospensione dal partito anch´essa recentissima. Come tardiva, anche, è la pur correttissima richiesta a Penati di rinunciare alla prescrizione e di farsi quindi processare.
Ci si chiede quali equilibri interni siano minacciati da questa vicenda, e se siano tanto importanti da far rimanere inerte il Pd, da accecarlo sui danni terrificanti alla propria immagine e alla propria credibilità che la vicenda sta generando in quella vasta fetta d´opinione davanti alla quale il partito è, sì, veramente responsabile. La responsabilità, infatti, non è solo acquiescenza alla necessità, ma anche, appunto, energia della risposta. E questa energia il Pd finora non l´ha manifestata. Certo, si è difeso duramente dalle critiche della destra sostenendo di esserne di gran lunga migliore; e non ha colto che il punto non è questo, quanto piuttosto di essere all´altezza del compito di riformare (o forse rifondare) l´Italia dopo il quindicennio berlusconiano.
Questa inerzia, questa cecità, hanno alcuni punti di contatto con l´atteggiamento dei partiti di governo ai tempi di Tangentopoli: non per l´arroganza né per il vittimismo (non ancora, almeno), ma per l´incredulità e lo smarrimento con cui si contempla una catastrofe e non si sa che cosa fare, se non consolarsi col dire che gli altri sono peggio, che non tutto il partito è corrotto, e che, dopo tutto, qualcosa di buono lo si è pur fatto. Senza capire che il tragico è proprio qui: nel fatto che quel buono non peserà nulla davanti al marcio che si viene scoprendo.
Manca una dura analisi sui motivi per cui, tra gli applausi dei suoi avversari e lo sgomento della grandissima parte del proprio elettorato, il Pd ogni tanto inciampa in scivoloni – da Delbono a Penati – che ex post paiono sempre ‘incredibili´ ma che forse potrebbero essere evitati con un po´ di ‘pragmatismo´ in meno e un po´ di rigore in più. Non ogni mezzo è adatto ai fini democratici che il Pd si è dato: il banale machiavellismo di periferia – degradazione della ‘grande politica´ machiavelliana – è anzi controproducente: i mezzi cattivi non consentono di raggiungere i fini, ottundono la percezione delle circostanze, e impediscono di rendersi conto che la casa sta bruciando, e che l´emergenza è reale.
In verità, ciò che manca è proprio la politica, prima ancora che l´etica. Manca la capacità di agire politicamente, cioè di avere idee forti, una direzione e un orientamento precisi; manca la determinazione per promuoverle e per servirsi di una accurata mappa mentale che consenta di evitare scorciatoie che sono in realtà labirintici invischiamenti; e manca la prontezza e la durezza nell´allontanare chi sbaglia. La prima riforma che il partito delle riforme deve affrontare non è una ‘rottamazione´ come cambio di personale politico: è la riforma politica che riguarda direttamente le sue procedure, i suoi mezzi, e quindi anche i suoi fini. Una riforma che il Pd – il suo gruppo dirigente – deve fare prestissimo, per non diventare parte del problema, invece di esserne la soluzione.
Fuori dal tunnel dell'eterna urgenza
di Mauro Ravarino
Al forum organizzato dal movimento No Tav, le cifre e i danni incombenti di progetti «non strategici»
È indifferente al contesto, spreca il denaro pubblico, non esprime le necessità di una comunità ma solo le esigenze del potere economico. Indovinare di cosa si tratta è più semplice di quanto si pensi. La risposta è: grande opera «inutile e dannosa». A chiarire il concetto ci ha pensato il meteorologo Luca Mercalli, al primo giorno, venerdì, del Forum interamente dedicato al tema, che si sta svolgendo in Val di Susa. «Opere come il Tav - ha spiegato - dovrebbero essere sottoposte, prima di ogni decisione, a critiche rigorose. Invece si dice, manu militari, che bisogna dare la parola alle ruspe perché è necessaria. Se è necessaria, dimostratelo con le cifre».
E numeri significativi li ha snocciolati ieri, nella seconda giornata, Dario Balotta, presidente dell'Onlit (Osservatorio liberalizzazioni infrastrutture e trasporti) presentando i dati di Cargo Fs, che dimostrano il «crollo del trasporto merci ferroviario» in Italia: 8 mila carri merci e 256 locomotive in meno dal 2008 al 2009. «Pessime performance gestionali»: 7% la quota di trasporto su ferro in Italia rispetto al 12% europeo (Francia al 14 e Svizzera al 64). «Prima di ponti e trafori avremmo bisogno di arrivare agli standard europei». È calato del 72% (dal 2000 al 2009) il traffico merci verso la Francia, -42% quello passeggeri (+16% verso la Svizzera). «Si tratta, quindi, di una direttrice non strategica come vogliono far credere i promotori della Torino-Lione. La vera urgenza - ha sottolineato - non è raddoppiare il tunnel del Frejus, ma adeguare e rilanciare la rete esistente per accogliere le migliaia di tir che arriveranno in treno dal Nord Europa nel 2016 con l'apertura del nuovo tunnel del Gottardo e far proseguire ai container il viaggio su ferrovia anziché su strada come avviene oggi».
Nella mattinata, a Liceo di Bussoleno, si sono alternati comitati italiani ed europei che lottano contro grandi opere ritenute inutili, dalla Germania alla Francia, dalla Spagna all'Abruzzo e alle Marche. Mega-gasdotti, stazioni interrate, aeroporti faraonici, linee d'alta velocità. Non un'opposizione tout-court, ma motivata da analisi e studi. Nel pomeriggio si è svolta una lunga tavola rotonda. Per Domenico Finiguerra, sindaco Cassinetta di Lugagnano fondatore del movimento stop al consumo di territorio, bisognerebbe contrapporre «a poche grandi e dannose opere una miriade di piccole opere utili per risanare il dissesto idrogeologico», ancor di più in questa fase di crisi economica: «Se crolla il tetto del tuo garage, non ti compri una Ferrari, ti sistemi il tetto e ti tieni la Punto. Chi propone opere come il Tav si autoproclama moderato e ci taccia come sovversivi. Estremisti sono, invece, loro che non hanno coraggio di mettere in discussione un modello di sviluppo non più sostenibile». Il mito della crescita infinita ha fallito: «Ogni anno, in Italia, vengono coperti dalla 'crosta repellente di cemento e asfalto', come la definiva Antonio Cederna, 500 chilometri quadrati di suolo, 62,5 metri quadrati al minuto».
È, poi, intervenuto Sergio Ulgiati, docente di Scienze ambientali a Napoli: «È fondamentale capire se l'impatto ambientale e i costi energetici e sociali sono accettabili se paragonati ai benefici e, pure, chi paga i costi (anche quelli occulti) e chi gode dei benefici. Le comunità che vogliono 'controllare il conto' non stanno difendendo il loro giardino ma i diritti e lo stile di vita di popolazioni lontane colpite da uno sviluppo di cui non godranno mai i benefici». Ivan Cicconi, direttore di Itaca (Istituto per la Trasparenza degli Appalti e la Compatibilità Ambientale) ha, invece, inquadrato le caratteristiche della grande impresa post-fordista impegnata a realizzare grandi opere: «Strutturata come un'enorme ragnatela, è orientata solo al mercato e ormai priva di innovazione tecnologica. Scarica la competizione verso il basso alimentando il lavoro nero. L'unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di massimizzare i profitti è la grande opera che ha un valore solo per il presente, prescinde dal passato e dal futuro». Oggi, a Bussoleno, ancora dibattito (con Gianni Vattimo, Alessandra Algostino ed Elena Camino) e l'assemblea finale.
«Noi non siamo in debito, non faremo ancora sacrifici»
di Francesco Piccioni
Non è ancora settembre, ma la mobilitazione contro la manovra è già in moto. Sciopero generale (sia della Cgil che dei sindacati di base) e movimenti che intendono «generalizzare» la protesta anche al di là del mondo del lavoro. Paolo Di Vetta, di «Roma bene comune» illustra scadenze e piattaforma.
Subito in attività?
Beh, andiamo un po' di corsa, ma la situazione ha subito una forte accelerazione. Già domani ci vediamo, perché c'è la giornata del 6 settembre (lo sciopero, ndr) da preparare. E anche l'appuntamento del 10, che inizialmente doveva essere una grande riunione di delegati di varie situzioni nazionali assume connotati un po' diversi.
Ci sono già idee in campo?
Quella di rimanere in piazza, il 6, se la sera ci sarà ancora la discussione in Parlamento sulla manovra. Eventualmente anche l'assemblea del 10, prevista nel deposito occupato di S. Paolo, diventerebbe un incontro fatto in piazza. Un'occasione per guardare alla giornata del 15 ottobre.
Di cosa si tratta?
Una giornata europea di mobilitazione contro l'austherity, le banche, l'Europa, proposta dai giovani spagnoli; se n'era cominciato a parlare a Genova, negli «Stati generali della precarietà». Quelli di Barcellona hanno promosso un'assemblea di tre giorni - 11,12, e 13 settembre - proprio per preparare la giornata europea, L'idea è di lanciare un appello, già domani, per cominciare a praticare questo percorso, fino a una manifestazione nazionale a Roma.
Soggetti promotori e settori sociali?
La proposta è stata raccolta da tantissimi. Delegati sindacali, di base ma non solo; (ci saranno anche esponenti Fiom e pezzi di Cgil che non condividono l'accordo del 28 giugno (il «patto sociale», ndr), delegati autoconvocati senza tessera. E poi i territori, dai No Tav ai No Ponte, Terzigno, i movimento di lotta per la casa (Firenze, Bologna, Roma, ecc). Dal Cantiere di Milano a Atenei in rivolta, No Expo, ecc. Ci aspettiamo almeno 6-700 delegati.
Come si lotta contro questa manovra?
Noi diciamo due cose: noi non siamo in debito, semmai in credito. Inutile quindi che ci parlino di coesione, di «stare tutti sulla stessa barca», di «essere responsabili». In questo senso, parliamo da «irresponsabili»: la crisi non è colpa nostra e quindi non possono chiederci altri sacrifici, in uno spirito da difesa nazionale. La seconda è che non ci interessa sottostare alla logica dei «saldi finali», come se non fosse importante chi è che paga. Anzi, secondo noi il debito non andrebbe ripagato. Magari facendo come in Islanda, dove sono stati spiccati mandati di cattura per i dirigenti delle banche che speculando avevano fatto fallire il paese. Per questo è fondamentale creare uno spazio indipendente di mobilitazione,
Sapete anche voi che per far fallire una «manovra», ossia un governo, serve una mobilitazione sociale notevole. Ben al di là di un «soggetto indipendente»...
Mi sembra che ci siano tutte le condizioni per allargare lo spazio sociale. La questione dell'«indipendenza» non attiene a un mondo specifico o «separato», ma è legata tutta alla piattaforma di lotta. Se unconiamo un mondo largo, che costruisce il percorso vero il 15 ottobre e che dice «noi il debito non lo paghiamo», invece di dire solo «lo devono pagare i ricchi», è una cosa interesante. Se sull'accordo del 28 giugno in tanti diciamo che non va riconosciuto e rispettato; se il sindalismo conflittuale si allarga... questo intendiamo per «indipendente». Anche le «incomprensioni» tra la Cgil e il Pd ci sembrano significative. E trovo atroce e irresponsabile che sia stato utilizzato Boccuzzi (l'unico sopravvissuto nel rogo della Thyssen, oggi deputato Pd, ndr) per aprire una polemica nei confronti del sindacato.
Una mappa di vere mostruosità
e grandi cattedrali nel deserto
di M. R.
Se si nascondesse il nome di ogni grande opera e si provasse a comparare il modello persuasivo utilizzato per convincere le popolazioni degli ipotetici benefici e anche le contestazioni, sarebbe difficile riconoscere di quale progetto si tratta. Linee d'alta velocità o gasdotti? Poco cambia. Al Forum tematico contro le grandi opere inutili, che si sta svolgendo tra Bussoleno e Venaus (organizzato dal movimento No Tav e patrocinato dal comune di Venaus e dalla comunità montana), è emersa una mappa sotterranea di «opere mostro» che mangiano suolo, sprecano denaro pubblico e non rispondono a nessuna domanda reale. Negli interventi dei tanti comitati presenti sembra di sentire un'unica storia. Prima un progetto faraonico e una propaganda astuta ma completamente indifferente ai dati scientifici. Poi, un'opposizione vivace ma non sempre così ampia come nella mobilitazione in Valsusa. E, ancora, una repressione sistematica e una distorsione informativa da parte dei media mainstream. Non solo in Italia, ma anche in Francia, Germania e Spagna.
Unendo i punti sulla cartina, si va da Stoccarda alla regione della Loira, da Barcellona a Brindisi passando per Sulmona, arrivando a Bologna e al Piemonte (aggiungendo il ponte sullo stretto di Messina si avrebbe un primo quadro della situazione). Stuttgart 21 è il progetto della nuova stazione ferroviaria dell'altavelocità nel cuore sotterraneo di Stoccarda. «Imposta anche con la violenza e contro il volere delle popolazione» ripete il movimento che si oppone all'opera. Cade (Collettivo di Associazioni in Difesa dell'Ambiente) è il movimento No Tav dei paesi baschi francesi cofirmatario della Carta di Hedaye, un vero e proprio manifesto di lotta a livello europeo contro la Tav, dove la Valsusa fa scuola di lotta. A Notre-Dame-des-Landes la popolazione si batte, invece, da tempo contro la costruzione di un mega aeroporto: «Un progetto - denunciano - vecchio di 40 anni e in grado di divorare 2000 ettari di terreni agricoli». A Barcellona è quasi completata la galleria della linea ferroviaria ad alta velocità contro cui hanno lottato diverse associazione.
Arrivando in Italia, ecco il mega-gasdotto di 700 chilometri della Snam da Brindisi Minerbio. I No Tubo si battono contro la costruzione di questa devastante grande opera sulla dorsale appenninica: «Il percorso peggiore. Alle porte de L'Aquila, in un territorio fragilissimo dal punto di vista sismico». E, ancora, a Firenze la lotta contro il sotto-attraversamento della città con stazione e binari della Tav interrati: «Inutile e costosissimo». Consentirà l'altavelocità? «Nemmeno, le curve a 90 gradi permetteranno una velocità massima di 70 chilometri orari». Infine, la tangenziale ovest di Asti e quella Est di Torino (scollegata con la città): due cattedrali nel deserto. Mega progetti figli di nessuna programmazione. Tornando alla mobilitazione sul campo, è notizia di ieri che Giorgio, 33 anni esponente dell'Acrobax di Roma è ora agli arresti domiciliari. Lo ha deciso il gip di Torino, Federica Bompieri. Era stato arrestato durante gli scontri con le forze dell'ordine intorno al cantiere della Maddalena di Chiomonte.
Immaginate una legge congegnata nel modo seguente: «Abbiamo una Costituzione. Ma vogliamo modificarla. E allora mettiamo da parte la Costituzione vigente e applichiamo subito una Costituzione ipotetica, incerta, giuridicamente inesistente, di cui si ignora se, come e quando verrà approvata».
Un colpo di sole, un effetto della calura agostana? No, questa linea compare nel decreto sull´emergenza economica fin dal suo primo articolo: «In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio, si applicano le disposizioni di cui al presente titolo». E più avanti, in maniera ancor più sconcertante, si aggiunge: «In attesa della revisione dell´articolo 41 della Costituzione, Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l´iniziativa e l´attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
"In anticipazione", "in attesa"? Se si rispetta la più elementare grammatica costituzionale, queste sono espressioni insensate, e pericolose. Prima di un cambiamento legislativo, le norme esistenti debbono restare ferme, soprattutto quando si tratta di norme costituzionali - fondamenta del sistema giuridico. Ma quegli articoli del decreto provano il contrario, sono la testimonianza della scomparsa del senso stesso di che cosa sia una Costituzione, manifestano una voglia di liberarsi delle regole costituzionali ignorando la procedura per la loro revisione e imponendo addirittura una radicale e rapidissima (un anno!) riscrittura dell´intero ordine giuridico dell´economia.
La via della "decostituzionalizzazione", già evidente nelle proposte di riforma della giustizia, si fa sempre più scivolosa, può portare ad un vero disordine giuridico. Considerate solo una ipotesi. L´annunciata riforma dell´articolo 41 non viene approvata in Parlamento o è bocciata dal voto dei cittadini, come accadde nel 2006 quando più di sedici milioni di italiani dissero di no alla riforma costituzionale del centrodestra.
A questo punto l´"attesa" sarebbe finita e, mancando il necessario appiglio costituzionale, verrebbe travolta l´intera nuova impalcatura giuridica approvata nel frattempo da Stato e sistema delle autonomie. E, al di là di questa ipotesi estrema, l´arbitrio del legislatore potrebbe già essere censurato dalla Corte costituzionale, alla quale è possibile che si rivolgano enti locali rispettosi della Costituzione vigente. Per evitare disastri del genere, un Parlamento serio dovrebbe cancellare quelle norme.
Il predicato rigore finanziario finisce così con l´essere accompagnato da un irresponsabile lassismo istituzionale, le cui tracce nel decreto sono molte, figlie di improvvisazione e incultura. L´improvvisazione è stata resa clamorosamente evidente dai litigi scoppiati nella maggioranza, e le ipotesi di modifica sono tante che ben possiamo dire che il decreto all´esame del Senato è stato svuotato di ogni senso politico e istituzionale, è ridotto a un canovaccio sul quale nelle prossime settimane si svolgeranno prove di forza tra gruppi in conflitto.
L´incultura traspare in molte norme e nella discussione che le accompagna, dove quasi non v´è traccia di capacità di analizzare i difficili problemi da affrontare. Nel momento stesso in cui i contenuti del decreto venivano annunciati, Tito Boeri, con l´abituale sua nettezza, metteva in evidenza come la riforma dell´articolo 41 fosse un diversivo, perché le difficoltà dell´economia non potevano in alcun modo essergli imputate; e come l´introduzione nella Costituzione della regola del pareggio di bilancio determinasse una rigidità rischiosa, ricordando gli effetti negativi che un vincolo del genere aveva appena prodotto negli Stati Uniti.
Molti hanno ripreso questi rilievi, ai quali tuttavia la discussione politica ha dedicato un´attenzione sommaria e disinformata, visto il modo in cui si è fatto riferimento agli articoli 41 e 81 della Costituzione. Posso sommessamente ricordare che alla genesi di questi due articoli ha dedicato studi penetranti uno studioso attento, Luigi Gianniti, e non sarebbe certo una perdita di tempo se qualche parlamentare desse loro un´occhiata?
Giuste e alte sono state le proteste contro l´iniquità del decreto, che diviene un moltiplicatore di quelle diseguaglianze che stanno distruggendo la coesione sociale, a parole tema di cui tutti si dicono preoccupati. Gli obblighi imposti dalla crisi finanziaria non sono colti come una opportunità per distribuire equamente il peso della manovra, per chiamare all´"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (articolo 2 della Costituzione) i moltissimi che finora ad essi si sono sottratti. Leggendo il decreto, si coglie piuttosto la voglia di usare questa opportunità per una sorta di regolamento finale dei conti soprattutto con i sindacati, con l´odiata Cgil.
Alle letture consolatorie vorrei contrapporre l´impietosa analisi del nostro maggiore studioso di diritto del lavoro, Umberto Romagnoli, che ci ricorda che il lavoro non è una merce e la dignità del lavoratore non è negoziabile. E le infinite smagliature delle parti dedicate alle dismissioni di immobili, alla privatizzazione di servizi e beni pubblici? Si alimentano illusioni facendo balenare l´esistenza di un patrimonio immobiliare la cui vendita colmerebbe ogni voragine dei debiti pubblici. Ma quel patrimonio è al 70% nelle mani di enti locali e i veri esperti stimano che soltanto una quota oscillante tra il 5% e il 10% potrebbe essere proficuamente messa sul mercato. L´urgenza dovrebbe essere sfruttata per accelerare quel lavoro analitico sui beni pubblici invocato da vent´anni e per arrivare finalmente a una classificazione aderente alle loro funzioni (esistono già disegni di legge in materia), non per incentivare privatizzazioni scriteriate (non insegna nulla l´esperienza degli anni Novanta?), per fare cassa sacrificando beni e interessi collettivi.
Vi sono sicuramente beni che possono essere messi sul mercato, ma ancor più importante è stimolare le gestioni virtuose di quelli che possono garantire con continuità risorse al settore pubblico. Proprio in questi giorni si è messo in evidenza come vi siano frequenze digitali che possono assicurare un gettito di tre miliardi. E non dimentichiamo il colpo di mano, per fortuna sventato, con il quale si voleva fare un vero regalo ai gestori degli stabilimenti balneari, portando a 90 anni la durata delle loro concessioni. Traspare dal decreto un´altra voglia di rivincita, contro i 27 milioni di cittadini che, votando sì nei referendum sull´acqua come bene comune, hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati. Sarebbe grave se il decreto servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati.
Nord-Est La relazione del ministro dell'Interno Maroni al Parlamento sull'attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia sbugiarda la propaganda negazionista di Lega e centrodestra. Usura e riciclaggio, professionisti in giacca e cravatta al servizio delle «scatole cinesi», cricche che prosperano nelle nicchie dell'economia assistita
Usura e riciclaggio, professionisti in giacca a cravatta al servizio delle «scatole cinesi», cricche e clan che prosperano nelle nicchie dell'economia assistita. È il Veneto dipinto dall'ultima relazione anti-mafia che il ministro Roberto Maroni ha depositato in parlamento. Una «fotografia» del Nord-est che stride con la propaganda (non solo politica) che istituzionalmente offusca la realtà.
C'è un dato eclatante che sbugiarda gli economisti per partito preso: in controtendenza rispetto alle statistiche nazionali, in Veneto raddoppiano le denunce per usura. È lo stesso trend che riguarda la «lavatrice» del denaro sporco. In Italia, i casi sono attestati sulla stessa cifra: 360 all'anno. A Nord-est, invece, le denunce accolte dalle forze dell'ordine e dalla magistratura sono passate da 2 a 12, cioè una al mese nel 2010.
La relazione del ministro dell'Interno al Parlamento sull'attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia a luglio-dicembre 2010 (che è appena stata diffusa) certifica il salto di qualità di «famiglie», clan e 'ndrine anche in Veneto. In 536 pagine e 260 tavole la Dia restituisce analiticamente l'evoluzione mafiosa: dall'ombra dell'illegalità alla luce di operazioni finanziarie, con investimenti e partecipazioni societarie più che lecite. Ruota tutto intorno a «una pletora di diversificati assetti societari, ormai paradigmaticamente caratterizzati da profili di particolare efficienza, competitività e versatilità, evidenziate nella capacità di delocalizzazione sull'intero territorio nazionale». Di conseguenza, spiega il rapporto del ministro Maroni, «le imprese colluse sembrano rappresentare i più efficaci vettori della metastasi mafiosa» (pagina 515).
È la Mafia 2.0. In Veneto, le organizzazioni criminali dalla facciata insospettabile (o quasi) hanno saputo infiltrarsi nei settori più redditizi della nuova economia a cavallo fra pubblico e privato: «Energie rinnovabili, logistica dei trasporti, grande distribuzione, import-export e gestione dei rifiuti» (pagina 517). A tutti gli effetti una nuova frontiera; si integra a meraviglia con gli asset detenuti nella old economy, tutt'altro che abbandonata. Anche a Nord-est «non viene meno la tradizionale presenza mafiosa nelle intraprese di ridotta competenza, quali l'edilizia, il ciclo del cemento e il movimento terra che continuano a costituire alimento irrinunciabile per l'economia criminale globale» come ricorda la relazione della Dia.
Inquietanti, soprattutto, «i profili di contiguità tra amministrazioni locali e criminalità organizzata calabrese che rappresentano una costante minaccia alla lineare gestione degli enti pubblici territoriali». Secondo la Dia, «alcune indagini hanno documentato l'esistenza di plurime aree grigie dove si catalizzano consenso politico e malaffare (...) il modello criminale calabrese si va sempre più affermando dove la 'ndrangheta raccoglie significative opportunità di inserimento». Acclarato nella Lombardia del governatore Formigoni, il fenomeno è all'ordine del giorno nel Veronese del sindaco leghista Flavio Tosi.
Le conclusioni del rapporto lanciano l'allarme su «comportamenti della criminalità organizzata protesi ad attuare saldature operative con rami deviati dell'imprenditoria, dell'amministrazione pubblica, del settore bancario e della politica». Come peraltro rilevato anche dall'Unità di informazione finanziaria di Banca d'Italia, secondo cui «nel Veneto permangono i segnali circa la discreta incidenza percentuale delle segnalazioni di operazioni finanziarie sospette pervenute all'Uif, che nel semestre in analisi hanno raggiunto la percentuale del 4,91% sul totale nazionale» (pagina 214).
Tessuti sociali vulnerabili
Alla base dell'aumento di usura e riciclaggio, c'è la «vulnerabilità dei tessuti sociali veneti, non solo per quanto riguarda il continuo incremento dei proventi illeciti, ma soprattutto nei confronti del riciclaggio da parte di organizzazioni mafiose connotate da matrice sempre più imprenditoriale». Progressione che la Dia definisce «silente», sottolineando la pericolosità di azioni criminose che non sollevano allarmi sociali assicurando ampi margini di profitto anche a chi "affianca" le mafie come consulente.
Del resto, la criminalità organizzata funziona meglio delle istituzioni. In Veneto la devolution mafiosa non è un annuncio infinito come il federalismo di Stato. Compiti, ruoli, competenze e livelli di governo chiari, semplici e funzionali. E un codice operativo a prova di conflitto di interesse: alla tradizionale mafia le pratiche estorsive, il mercato della droga, l'infiltrazione nel mondo imprenditoriale, la grande distribuzione e i «nuovi mercati» a partire dal fotovoltaico. Alla 'ndrangheta il settore dei trasporti, la logistica, la gestione delle cave, il «ciclo del cemento» (dal cavatore al costruttore, fino all'immobiliarista), ma anche il franchising delle grandi griffe, il comparto turistico e lo smaltimento dei rifiuti. Il resto è sotto la giurisdizione della camorra, costantemente sotto la lente della Dia per le attività che spaziano dai monti di Belluno alla provincia di Rovigo.
«In Veneto si continua a monitorare la presenza criminosa di campani che oltre a ostentare una particolare prosperità economica risultano contigui a famiglie riconducibili alla camorra». È la cronaca dell'altra faccia della medaglia a Nord-est. Ristoratori dei Colli Euganei che «strozzano» senza pietà padroncini scaricati dalle banche. Imprenditori «ecologici» (in società con politici Pdl) che entrano a pieno titolo nelle inchieste di Napoli. Numeri uno della logistica formato famiglia che spaziano dalla Croazia, a Parma e nelle piattaforme del sud. «Intermediari» che in piena alluvione fra Verona e Vicenza offrono di rilevare capannoni, imprese artigiane e negozi invasi da un mare di fango. Senza dimenticare commercialisti, notai, consulenti del lavoro e studi di fiscalisti che in tutto il Veneto fatturano flussi di denaro tutt'altro che limpido.
Così negli uffici della centrale Dia in via Torre di Mezzavia a Roma, gli analisti continuano ad applicarsi al «lato B» di supermercati, parchi commerciali, outlet, discount e cittadelle dello shopping. «Per la criminalità organizzata rappresentano un mezzo doppiamente utile: servono a riciclare il denaro sporco ma sono anche un importante strumento per consolidare il potere illegale sul territorio attraverso l'offerta di impieghi nell'indotto lavorativo» si legge anche nell'ultima relazione del Viminale.
La scalata degli stranieri
Un rapporto che dettaglia i tentativi di «scalata» dei tycoon della criminalità straniera. Speculazione, in piena regola, alimentata da un «mercato» sempre più aperto e vulnerabile. Dal punto di vista formale, si tratta di operazioni non dissimili alle acquisizioni finanziarie che transitano per Piazza Affari. In Veneto, la penetrazione delle mafie estere è conclamata dallo smantellamento di un «alleanza tra i clan albanesi e magrebini a Verona per la gestione del mercato dell'eroina nel Nord-est. I primi si occupavano di importare la droga dai Balcani, i secondi erano incaricati di smerciare lo stupefacente nelle piazze del Veneto (p. 408). Nel mirino anche la crescente pervasività dei clan nigeriani che «continua a evidenziare proiezioni transnazionali grazie alla presenza di connazionali che garantiscono supporto logistico e operativo» (pagina 428). A riguardo, il rapporto del ministero dell'Interno rileva la particolare capacità della mafia di Lagos di «integrarsi negli ambienti criminali di destinazione e nello stringere alleanze con le organizzazioni criminali autoctone». I dati della Dia confermano poi il ruolo predominante delle mafie rumene e