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Layla Pavone
Voglio meno Avetrana e più rivoluzione islandese
5 Agosto 2011
Articoli del 2011
Ecco un paese che esce dalla crisi colpendo chi l’ha provocata (governanti, banche e fanzieri) e non il popolo che la subisce. Ma i grandi massmedia non ne parlanoIl Fatto quotidiano online, 5 agosto 2011

E’ incredibile. Provate ad inserire su Google news le parole “rivoluzione islanda”. Il risultato della ricerca è che molti blog ne parlano oltre ad alcune testate di informazione online alternative ai broadcaster, mentre risultano “non pervenute” le testate dell’establishment, se così si può dire.

Ora, se non ci fosse Internet, se non avessi letto un link postato da un mio amico ieri su Facebook, io oggi non saprei che in Islanda si è svolta una vera e propria rivoluzione che partiva da una situazione analoga a quella attuale italiana e di molti altri Paesi in uno stato di crisi politica, economica e finanziaria e che si è risolta con una serie di passaggi, come dire, da “manuale del buon senso civico”. La sintetizzo qui di seguito, sperando di essere fra le poche persone nell’ignoranza in cui sarei rimasta se non avessi letto l’articolo pubblicato su Informare per resistere e altri blog d’informazione che sono andata a cercare attraverso Google.

In Islanda, a seguito di una disastrosa crisi finanziaria, i cittadini sono riusciti a far dapprima dimettere il governo in carica al completo, mentre le principali banche responsabili venivano nazionalizzate, si sono rifiutati di pagare i debiti che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro ignobile politica finanziaria (con tanto di arresti dei principali finanzieri e top manager responsabili della bancarotta del Paese) e in conclusione sono passati alla creazione di un’assemblea popolare per riscrivere la propria Costituzione. Tutto questo è accaduto attraverso una vera e propria rivoluzione, senza spargimenti di sangue, con le proteste e le urla in piazza, una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che aveva condotto il Paese nella grave crisi finanziaria.

L’altro strumento “rivoluzionario” sul quale ora sta lavorando la società islandese è l’”Icelandic Modern Media Initiative”, un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione della libertà di informazione e dell’espressione con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro per il giornalismo investigativo, un “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni giornalistiche.

Concludo dicendo che, come a tutte le persone normali, certamente mi interessano le notizie di cronaca, come ad esempio quelle relative all’omicidio passionale di Ascoli Piceno o il delitto di Avetrana, a patto che non se ne parli tutte le sere per cinque minuti di telegiornale, o quelle politiche relative al missile libico contro la nave italiana, e mi può stare anche bene leggere che Berlusconi sostenga che il Paese è solido, anche se nutro molti dubbi e forti preoccupazioni in merito. Ma subire l’ennesima censura informativa, come quella di cui mi sono resa conto ieri, quando poi mi tocca sentire o leggere servizi giornalistici che mettono sull’avviso le persone sulla pericolosità di Internet, no, non lo posso più accettare.

Vivo in una Paese che si proclama libero, che amo, anche se ogni tanto mi verrebbe voglia di scappare all’estero, e voglio continuare a pensare che l’Italia sia una nazione democratica, dove vige il principio della libera informazione. Quindi pretendo di conoscere notizie sull’Islanda, come credo tutti, anzitutto attraverso i mezzi di informazione tradizionali, molti di questi tra l’altro sovvenzionati dallo Stato, che rivendicano la loro autorevolezza, la neutralità e la libertà dalle ingerenze politiche, e che però, chissà perché, spesso accusano di poca professionalità e credibilità il giornalismo che nasce dal basso, dalla rete. Quel giornalismo per cui oggi io sono più consapevole di ieri ma anche decisamente più indignata.

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