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Sono oltre trecentomila gli immigrati regolari che vivono stabilmente in provincia di Roma. La Caritas, che ci aggiorna puntualmente su questo imponente fenomeno, ne fornisce le nazionalità di provenienza, sono 192, e le condizioni lavorative. Si tratta di posizioni subordinate, di lavori poco ambiti o della vendita di mercanzie lungo le nostre frettolose strade, anche se non mancano, sono 15.000, i nuovi imprenditori. Da altre ricerche conosciamo il loro grado di istruzione e la loro fede religiosa. Se però cerchiamo di comprendere dove abitano queste persone che a Roma sono oltre il 10% della popolazione, ci troviamo di fronte a una forte carenza informativa. Dove gli immigrati passano le notti, insomma, non è dato sapere.

Se utilizziamo fonti narrative o di cronaca, comprendiamo che — al pari della emigrazione storica italiana nel secolo scorso — gli immigrati preferiscono abitare nei quartieri in cui già esiste una presenza, piccola o grande che sia, di altri loro connazionali. I « pionieri » sono un sicuro punto di riferimento per poter risolvere i primi problemi: così, al pari delle altre grandi capitali, iniziano ad evidenziarsi anche a Roma le specializzazioni nazionali dei quartieri. Se Esquilino è da tempo sede della comunità cinese, ad Ostia c'è una forte presenza di russi.

A San Paolo sono molti gli immigrati provenienti dal continente indiano, mentre i popoli africani abitano nel quadrante orientale. Ma spesso le cronache ci dicono che decine di persone dormono a caro prezzo in sordidi scantinati o capannoni. In baraccopoli di fortuna o addirittura sotto i ponti del Tevere. La dimensione del problema induce a chiederci se davvero non sia venuto ilmomento di porre la questione nella sua complessità e potenzialità.

Anche perché, sempre le cronache narrano di edifici scolastici, abbandonati da anni per l'invecchiamento dei nostri quartieri, devastati da atti vandalici: è accaduto non molti giorni fa ad Albuccione e lungo la Colombo. Se diventassero luoghi di accoglienza per gruppi di immigrati si fermerebbe il loro decadimento fisico e si fornirebbe a quelle persone una grande opportunità di integrazione.

Una nazione che stenta a far ripartire la macchina economica deve trovare motivazioni forti per disegnare un futuro nuovo e la questione delle abitazioni per gli immigrati è sicuramente tema di grande potenzialità: si tratta di definire le politiche abitative e di accoglienza adatte per metter in moto questo fenomeno. Se a livello nazionale si iniziasse a definire strategie e risorse per interventi di riuso degli edifici non più utilizzati presenti nel cuore delle città, si potrebbero aprire nuove pagine di storia urbana e di integrazione. Pochi giorni fa il consiglio comunale di Roma ha votato una delibera programmatica che affronta l'emergenza abitativa, dagli sfratti alla carenza di alloggi in affitto. É di ieri la notizia di uno stanziamento di 50 milioni per l'acquisto di alloggi popolari. Il prossimo capitolo dovrà riguardare il mondo degli immigrati.

Titolo originale: World’s mayors seek to fight global warming, make cities greener – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I sindaci delle più grandi città del mondo si riuniscono questa settimana per mettere a punto una serie di orientamenti per la vita urbana sostenibile: una versione municipale, è stato detto, del Protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale, che gli Stati Uniti non hanno mai ratificato.

L’Accordo sull’Ambiente Urbano, che sarà firmato alle Nazioni Unite nella Giornata Mondiale per l’Ambiente, è l’ultimo esempio di come le città stiano cercando di affrontare il mutamento climatico nonostante la riluttanza dei governi nazionali.

”Non possiamo permetterci di aspettare che lo facciano i governi statali o federali. C’è chi trova troppe scuse, particolarmente in questo paese” dice il sindaco di San Francisco Gavin Newsom. “Il mondo guarda sempre più ai sindaci come custodi dell’ambiente, visto che la stragrande maggioranza dell’inquinamento viene dalle città”.

Almeno 70 sindaci da città come Londra, Rio de Janeiro, Tehran, Capetown, Sydney e Shanghai parteciperanno ai cinque giorni della conferenza di San Francisco: la prima volta che l’evento annuale è ospitato da una città degli USA. La Giornata Mondiale per l’Ambiente, che si celebra ogni 5 giugno, fu istituita nel 1974, e le conferenze annuali si tengono dal 1987.

Al raduno di quest’anno, sul tema “Le Città Verdi” dal 1 al 5 giugno, i sindaci si scambieranno idee sulla vita urbana sostenibile in settori come le energie rinnovabili, il riciclaggio, i trasporti pubblici, i parchi urbani, aria e acque pulite. Si prevedono oltre 230 iniziative nell’area della Baia di San Francisco, per la Giornata Mondiale dell’Ambiente.

Mercoledì, all’apertura della Conferenza, il Governatore Arnold Schwarzenegger renderà pubblico il programma della California per ridurre le emissioni di CO2 e di altri “gas serra” ritenuti responsabili di intrappolare il calore nell’atmosfera terrestre e si alzare le temperature mondiali.

San Francisco, dove furono fondate le Nazioni Unite 60 anni fa, è nota come città che fa tendenza dal punto di vista ambientale, e i suoi rappresentanti prevedono di esibirne i successi verdi. Ora la città ricicla due terzi dei propri rifiuti, possiede il maggior parco veicoli a carburanti alternativi, e può vantare la principale installazione di energia solare di proprietà municipale del paese, al Moscone Convention Center.

”C’è molto che possiamo condividere, ma c’è anche parecchio da imparare dalle altre città” ha affermato Newsom.

Sino a tempi recenti, i trattati internazionali sono stati l’ambito principale di dibattito sui problemi ambientali globali come il mutamento climatico, che secondo gli scienziati causa tempeste sempre più violente, la riduzione degli habitat naturali e l’innalzamento del livello dei mari a minacciare le città costiere.

Il Protocollo di Kyoto, adottato nella città giapponese nel 1997, chiede alle nazioni industrializzate di tagliare le emissioni di gas serra in media del cinque per cento al di sotto dei livelli 1990. Il trattato è stato ratificato da almeno 140 paesi, ed è entrato in vigore a febbraio.

Ma gli Stati Uniti, il principale produttore mondiale di gas serra, non hanno firmato perché i rappresentanti del governo Bush ritenevano che l’adesione avrebbe significato la perdita di cinque milioni di posti di lavoro e un incremento delle tariffe energetiche, come sostiene Michele St. Martin, portavoce del Council on Environmental Quality della Casa Bianca.

”Il Presidente Bush è favorevole a un approccio aggressivo rispetto al mutamento climatico: un approccio che sostenga una crescita economica che conduca a nuove innovazioni e tecnologie” dice St. Martin, indicando l’iniziativa sul mutamento climatico da 2 miliardi dell’amministrazione, che promuove tecniche pulite di uso del carbone, veicoli spinti a idrogeno, energia nucleare e fonti rinnovabili.

Ambientalisti e funzionari governativi dissentono sul fatto che Kyoto e altri trattati internazionali fra i governi nazionali siano la soluzione.

”Abbiamo tutte queste leggi scritte, ma nessuna di esse viene applicata” sostiene Jared Blumenfeld, direttore del Department of the Environment di San Francisco. “Non hanno mordente. Non succede niente, se non si mettono in pratica. Nessuno ne tiene conto”.

Frustrati dalla posizione del governo federale USA sul riscaldamento globale, molti Stati, città e imprese stanno intraprendendo azioni per ridurre le emissioni di gas-trappola di calore da fabbriche, automobili e centrali energetiche.

Lo scorso anno, San Francisco è stata probabilmente la prima città USA ad adottare un proprio “piano di azione sul clima” che tenta di ridurre le emissioni di gas serra – del 20% inferiori ai livelli 1990 entro il 2012 – aumentando l’uso del trasporto pubblico, le quote di riciclaggio, l’efficienza energetica e l’uso di fonti rinnovabili.

In maggio, il sindaco di Seattle Greg Nickels, preoccupato per i ripetuti inverni senza pioggia nella sua città famosa per essere umida, ha annunciato che più di 130 sindaci USA hanno firmato un accordo per ridurre le emissioni di CO2, in quantità uguale o superiore agli obiettivi di Kyoto.

”Sindaci, imprese, e anche il Governatore della California, stanno iniziando a mostrare una capacità di leadership mondiale, di fronte ad un vuoto”, dice Kathleen Rogers, presidente dello Earth Day Network. “È una nuova tendenza, determinata dalla pura disperazione”.

Ora, i sindaci da tutto il mondo si uniscono a quelli delle città d’America nella lotta al riscaldamento globale e per gli altri problemi ambientali. Sottoscrivendo gli Accrodi per l’Ambiente Urbano, i sindaci sanciscono il proprio impegno verso uno sviluppo urbano eco-friendly in sette ambiti: energia, salute ambientale, trasporti, progettazione urbana, spazi naturali in città, riduzione degli sprechi e acque.

Gli organizzatori affermano che i problemi ambientali mondiali si devono affrontare a livello municipale, perché oltre la metà della popolazione mondiale vive nelle città: una proporzione destinata a crescere in modo drammatico in questo secolo. E le città consumano circa tre quarti delle risorse mondiali, e producono tre quarti dell’inquinamento.

”A differenza dei governi nazionali, che sembrano trovare molto spazio di manovra nei trattati, i sindaci sono più responsabili rispetto ai propri elettori” afferma Rogers. “Sono più sintonizzati su ciò che vuole la gente”.

L’accordo elenca 21 specifiche azioni che i sindaci possono intraprendere per rendere le città più verdi, e i firmatari promettono di adottarne almeno tre l’anno, molte delle quali comportano incentivi economici o norme legislative. Nel campo energetico, per esempio, le città possono adottare politiche per aumentare l’uso di energie rinnovabili, spingere ad una maggiore efficienza e ridurre le emissioni di gas serra: tutte azioni che aiutano le città a risparmiare denaro e a ripulire l’ambiente.

”È un vero e proprio rimboccarsi le maniche” dice Susan Ode, coordinatore del Local Governments for Sustainability. “Sono azioni che aiuteranno davvero, e che possono essere attuate dalle amministrazioni locali e dalle comunità”.

Anche se gli accordi non sono legalmente vincolanti, gli organizzatori sperano che gli attivisti dei gruppi locali riescano a far mantenere ai sindaci le proprie promesse, una volta tornati a casa.

”Spero che alla fine non si firmerà solo un pezzo di carta” dice Newsom said, “ma ci si impegni davvero ad agire concretamente”.

Nota: qui il testo originale al sito del San Francisco Chronicle; altri dettagli al sito delle Nazioni Unite per la Giornata Mondiale dell’Ambiente, e al Settore Ambiente della municipalità di San Francisco (f.b.)

La Casa dell’Asfalto e del Cemento

Gli aspetti territoriali della manovra finanziaria berlusconiana. Da l’Unità del 12 maggio 2005

Il governo Berlusconi appare sempre meno capace di far funzionare gli strumenti ordinari dell’amministrazione e quindi si affanna a rivedere norme su norme (anche sue proprie), a rifugiarsi nello straordinario e nell’eccezionale, creando continue corsie d’emergenza, insediando commissari su commissari. Insomma, un automobilista che, incapace di far viaggiare la propria vettura in condizioni normali, si applica ad aprire percorsi preferenziali, ad eliminare per sé limiti di velocità, a cancellare divieti di sorpasso, e magari suona in permanenza la sirena per allontanare ogni fastidio di controllo “democratico”. Col risultato, in tanto caos politico-amministrativo, di entrare in conflitto con altri soggetti di governo, anzitutto con le Regioni.

Non sfugge a questa strategia da kamikaze il decreto legge sulla competitività che, già passato con modifiche al Senato (dove la solita fiducia ha “fucilato” 1.500 emendamenti), ora deve essere approvato alla Camera e tornare di corsa a Palazzo Madama.

In premessa va detto, ancora una volta, che le sue scelte di fondo sono strutturalmente errate. A fronte di incentivi modesti destinati alla ricerca, alla innovazione tecnologica, alle tecnologie “pulite” (lo nota in un ampio documento, anche propositivo, il Wwf), il governo Berlusconi continua a puntare essenzialmente sulle infrastrutture, e, al loro interno, su cemento&asfalto, trascurando ferrovie, porti e trasporti di cabotaggio. Eppure, mentre in Europa ci sono 13,2 chilometri di autostrada ogni 1.000 chilometri di rete stradale, in Italia se ne contano ben 22,8. Non solo: il 70 per cento degli investimenti ferroviari viene concentrato nell’Alta Velocità, lasciando alla rete più debole (quella del Centro-Sud e delle Isole) le briciole. Discorso analogo per le energie rinnovabili : la Germania - che non è certo “O paese d’o sole” - è diventata leader nell'energia solare e, unitamente ad altri Paesi proiettati in avanti direzione come Spagna e Danimarca, ha creato nelle fonti rinnovabili circa 250 mila posti di lavoro (con altri 200 mila entro il 2015). Col decreto sulla competitività, osserva la nota del Wwf, «il governo ha scelto di investire nell’asfalto e nel cemento, invece che in materia grigia, cioè in ricerca e in sviluppo».

All’interno di questa logica, il provvedimento scassa tutta una serie di regole anche recenti, per esempio in campo edilizio. A forza di “semplificazioni”, all’articolo 3 si finisce per far prevalere la norma speciale su quella ordinaria, col rischio incombente che le opere edilizie di maggior impatto e consistenza possano ricevere un trattamento persino più blando rispetto a quelle minori. Dovrebbero essere salvate però, dopo fiere proteste, le norme riguardanti il patrimonio storico-artistico e paesaggistico. “Dovrebbero”, perché l’esclusione dalla semplificazione riguarda gli atti «rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela». Dizione generica e probabilmente aggirabile. Né va granché meglio per la tutela ambientale. In ogni caso, il silenzio/assenso hanno provato, una volta di più, ad applicarlo anche ai beni tutelati, e ci riproveranno.

Uno degli aspetti “innovativi” più allarmanti riguarda il finanziamento dei progetti infrastrutturali, per il quale vengono coinvolti gli Enti previdenziali fin qui giustamente soggetti ad una disciplina attenta volta ad una accurata trasparenza. Ad essi si chiedevano infatti interventi immobiliari debitamente valutati. Ma, poiché il “project-financing” in campo infrastrutturale non decolla, per la renitenza delle banche e dei privati ad impegnarsi in iniziative che non siano garantite, in toto spesso, dallo Stato, il governo Berlusconi ha pensato bene di far saltare una serie di regole e di far assumere agli Enti previdenziali un ruolo sostitutivo. In quelle opere infrastrutturali a rischio elevato da cui i privati, non a caso, si sono tenuti lontani. Manovra più che spericolata.

Un altro capitolo molto allarmante del decreto (articoli da 5 a 9) riguarda la proliferazione di commissari straordinari da istituire per la realizzazione di tratte autostradali. Evidentemente col fine di eliminare in modo definitivo l’impaccio delle osservazioni delle Regioni interessate. In questo caso i bersagli sembrano essere Emilia-Romagna e Toscana le quali si oppongono, in modo fondato, a tracciati assai sbrigativi della Variante di valico fra Firenze e Bologna. Col commissario straordinario, il potere dei concessionari autostradali diventa quasi assoluto: saranno loro a pianificare l'uso del territorio, e non più le istituzioni a ciò preposte dalla Costituzione e dai cittadini. Secondo una inchiesta del «Sole 24 Ore», i commissari “all’emergenza” e simili sono, in Italia, circa 10 mila, di cui un migliaio nella sola Sicilia. Una amministrazione straordinaria che si sovrappone ormai a quella ordinaria, spiazzandola. Non sarà inutile ricordare che i concessionari autostradali hanno già avuto da Berlusconi-Lunardi una pioggia di regali, come la cancellazione della soglia massima del 50 per cento per il contributo pubblico, come l’abolizione del limite di trent’anni nella durata delle concessioni, come l’accantonamento della disciplina, giustamente minuziosa, per bandi, contratti, criteri di assegnazione, ecc. E meno male che al Senato è stato cancellato quel comma 11 col quale si consentiva ai commissari di poter utilizzare il meccanismo del silenzio/assenso quando le opere impattassero con la tutela ambientale e paesaggistica.

La scelta di fondo del governo rimane dunque: sempre più asfalto&cemento. Quindi, sempre più premi per la rendita fondiaria e immobiliare. Poco o nulla per il profitto industriale e per la competitività delle imprese. Tutto questo nel Paese che nell’ultimo anno ha diminuito del 2,4 per cento gli investimenti, che ha visto contrarre del 3,9 le proprie esportazioni, che continua a destinare alla ricerca l’1,1 per cento del Pil (una delle quote europee più basse) e in cui le imprese dedicano alla stessa voce appena lo 0,54 contro l'1,28 della media europea. Con chi dobbiamo prendercela poi se (le statistiche sono del World Economic Forum di Ginevra) siamo caduti al 45° posto nella classifica mondiale della capacità di sviluppo, superati anche da Tunisia, Giordania e Sudafrica?

Titolo originale: “Supermayor” uses firm hand to clean up Manila – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

MANILA – È stato definito un tiranno, un dittatore, un Hitler dei nostri giorni, un elitario: epiteti piuttosto incongrui per un uomo che ama il colore rosa. Ma Bayani Fernando, responsabile della Metro Manila Development Authority, dice che non gli interessano le etichette. In quanto “SuperSindaco” [in originale Supermayor, che richiama il personaggio di SuperMario] delle 17 municipalità che compongono Manila Metropolitana, è sin troppo occupato per offendersi dei nomiglioli.

Fernando, cinquantottenne, è responsabile di una megalopoli di più di 13 milioni di persone: una delle più rumorose, congestionate e inquinate città del mondo.

L’area metropolitana, che copre 630 chilometri quadrati, è famigerata per il traffico. La sola quantità di veicoli supera qualunque immaginazione.

Automobilisti indisciplinati turbinano attorno a venditori di strada, gareggiando con le ubique jeepney, i vistosi furgoncini ricavati dalle Jeep militari della seconda guerra mondiale, che qui rappresentano il principale mezzo di trasporto.

La criminalità di strada imperversa. Una buona quota della popolazione abita in baraccopoli o sulla pubblica via, e decine di migliaia campano sulle 6.700 tonnellate di spazzatura che la megalopoli genera quotidianamente.

Di questi rifiuti, 1.500 tonnellate al giorno sono scaricate dentro a fiumi e torrenti, o nella baia di Manila, che puzza, scoraggiando chi vuole ammirare i suoi famosi tramonti. Gli allagamenti causati dalla spazzatura che intasa i corsi d’acqua sono un fatto comune.

Anche se Metro Manila è piuttosto lontana dall’essere perfetta sotto Fernando, molti concordano sul fatto che sia migliorata. Ha aumentato la quantità di spazzatura raccolta e ha tentato di sgorgare corsi d’acqua e fogne. Parecchi settori della città sono ancora in preda alla congestione da traffico, ma nelle vie principali e autostrade c’è un po’ più di ordine.

Fernando ha istituito corsie preferenziali per gli autobus. Ha realizzato rotatorie per l’inversione a “U” che consentono un flusso continuo di traffico, escludendo la possibilità che agli incroci jeepneys e autobus trasformassero queste aree in veri e propri terminal.

Ha anche realizzato ponti pedonali per scoraggiare gli attraversamenti pericolosi, e fermate protette dell’autobus.

Ha riempito le vie principali e strade di comunicazione di orinatoi per gli uomini, la cui abitudine, di farla ovunque gli pare contribuisce alla puzza e provoca qualcosa possibile solo a Metro Manila: porte metalliche e cancelli corrosi dall’urina.

Infine Fernando ci ha aggiunto un tratto distintivo: ha pitturato le strutture pedonali di rosa.

Il rosa, dice, “ha un effetto calmante. Offre un gradevole contrasto. Può aiutare i pendolari a stare tranquilli mentre sono bloccati nel traffico”.

Oggi, Metro Manila è tutta pitturata di rosa. Un po’ kitsch, ma offre un contrasto dal fosco ambiente circostante di edifici cadenti, autobus che eruttano fumi neri, locandine di film strappate. Fernando ha anche realizzato nuovi capolinea degli autobus, per scoraggiare le fermate a caso a raccogliere passeggeri ovunque.

Ha costruito griglie e corrimano lungo i marciapiedi, che in pratica incanalano come bestiame i passeggeri verso le bocche dei bus. Nello stesso tempo, ha istituito la procedura “straccio bagnato”: i pedoni che escono dal marciapiede sono colpiti da strisce di stoffa bagnata appese a furgoni della Metro Manila Development Authority.

Per tutto questo, Fernando si è guadagnato sia ammirazione che derisione. Ma tutti concordano sul fatto che possegga una qualità di cui Metro Manila ha bisogno: la volontà politica. I sindaci di Metro Manila nel passato si sono rifiutati di demolire le baracche degli squatters e le bancarelle del commercio illegale sulle strade e marciapiedi, per paura di contraccolpi elettorali. Ma Fernando, che è di nomina presidenziale, non si deve preoccupare di questo. Nonostante le demolizioni spesso si siano trasformate in fatti di violenza (alcune persone sono morte e molte sono rimaste ferite) Fernando in molte occasioni ha partecipato di persona, dirigendo le operazioni. Fernando deriva il proprio mandato dalla Presidente Gloria Macapagal Arroyo, e non si fa problemi a ribadirlo. Una volta, davanti ad ambientalisti e residenti che protestavano per un taglio di alberi da parte dell’amministrazione metropolitana, ha tagliato corto: “Ho l’approvazione della presidente”. È fra i pochi che possono dire di non temere ritorsioni politiche. “Il mio mandato è piuttosto chiaro: far funzionare Metro Manila nel modo più efficiente possibile” ha dichiarato in un’intervista. “Se la gente ha dei problemi rispetto a questo, è un loro problema”.

Molti dei sindaci delle municipalità costituenti Metro Manila, di sicuro hanno problemi con qualcuno che invade il loro territorio e pretende di dire come devono essere amministrate le loro comunità. Almeno una città, la vecchia Manila storica, cuore della capitale, ha dichiarato Fernando persona non grata. Altri fra i 17 sindaci hanni minacciato di trascinarlo in tribunale.

”Voglio che ci dica le cose prima, che ci consulti, prima di fare qualunque cosa che interessa la nostra città e i nostri abitanti” dice Peewee Trinidad, sindaco di Pasay City. “Non sono tenuto a farlo”, è la classica risposta di Fernando a queste proteste.

Creata dall’ultimo dittatore, Ferdinando Marcos, nel 1975, la Metro Manila Development Authority ha il compito di centralizzare la raccolta dei rifiuti, gestire il traffico e sovraintendere la manutenzione delle fogne dell’area metropolitana. Marcos ha unito le 17 municipalità confinanti, che in quel momento stavano iniziando a gonfiarsi, trasformando l’area metropolitana in una provincia: dapprima amministrata da sua moglie Imelda. Qualcuno dice che sono le radici dittatoriali dell’autorità metropolitana il motivo per cui i suoi responsabili, e più di tutti Fernando, hanno teso a imporre la propria volontà su tutti gli altri. Ma questo significa non tener conto dei precedenti di Fernando. Quando diventò sindaco di Marikina, un centro fluviale a nord di Manila che era una delle città più congestionate dal traffico delle Filippine, dieci anni fa, Fernando (che è ingegnere) mise ordine: demolì marciapiedi, bancarelle, allargò strade, ripulì le rive del fiume, ridipinse pareti. Diventò persino illegale passeggiare per strada senza camicia. E certo: pitturò la città di rosa. Un sondaggio nominò Marikina la “città più vivibile” del paese, e Fernando andò avanti vincendo tornate su tornate elettorali, per un totale di nove anni. Adesso il sindaco è sua moglie, Marides.

Quando fu nominato all’autorità metropolitana di Manila nel 2002, Fernando non impiegò molto tempo a trasformare la disordinata e scassata metropoli in una Marikina più grande. “Vai, Fernando. Siamo saldamente davanti, dietro e intorno a te” ha scritto l’economista Raul Fabella su un giornale. Fernando è così apprezzato da far pensare - l’anno scorso - a una sua candidatura alla vicepresidenza. “Fernando è un’aberrazione?" si chiede Fabella. “Questo in parte dipende da noi. La lezione fondamentale che possiamo imparare da Fernando è che le vere riforme sono dolorose”.

I critici la pensano in modo diverso. Per loro, un amministratore che ignora come le sue azioni incidano su povera gente, che sta solo tentando di vivere in un’economia debole, è un’aberrazione. Quando una mattina di gennaio gli uomini di Fernando hanno rincorso e maltrattato dei venditori ambulanti davanti a una chiesa, un testimone si è indignato al punto da spedire a Fernando una lettera acida. “Qui c’è gente che tenta di guadagnarsi onestamente qualcosa, e a cui sono negati i diritti fondamentali” ha scritto quel testimone, Sharon Joy Duremdes. “Pulire i marciapiedi posso capirlo, ma deve dare la caccia alla gente, e pestarla? Solo i fascisti fanno queste cose”.

Fernando risponde che non può essere di cuore tenero. “Per quanto ne soffra, non poso piangere coi poveri, perché se sono accecato dalle lacrime, chi li guiderà?” ha dichiarato in un’intervista.

In uno dei tanti opuscoli e fogli distribuiti dal suo ufficio, su come i filippini dovrebbero imparare a comportarsi in pubblico, Fernando, che è proprietario di una grossa ditta di costruzioni, è così citato: “Voglio essere ricordato come un costruttore di carattere”.

Ai critici, naturalmente, si rizzano i capelli davanti a questa retorica. Nel bene e nel male, Fernando ha lasciato il segno, in un modo che Imelda Marcos non avrebbe nemmeno immaginato. Ed è molto più, del colore rosa.

Nota: qui il testo originale sul sito dello International Herald Tribune (f.b.)

Sono uno degli Amministratori che ha aderito all’appello che qualche mese fa Marco Guerzoni ha lanciato dalle pagine di Liberazione. In quel documento veniva manifestata la necessità di allargare il confronto con il centrosinistra anche alla “questione territoriale”, partendo dall’esigenza di un recupero culturale rispetto questi temi. Già in precedenza, riferendomi alla proposta di confronto programmatico per le Sinistre avanzata da MicroMega, avevo lamentato una carenza proprio sulle questioni relative al governo del territorio, a conferma di una loro sottovalutazione anche a sinistra.

Su questi temi per battere Berlusconi non è sufficiente, seppur necessario, indignarsi per il condono o organizzare uno sbarco nella villa del Premier in Sardegna, è indispensabile costruire una proposta programmatica esattamente contraria allo slogan “padroni in casa nostra”; capace di fare comprendere l’aberrazione di Milano2, che troppo spesso ha rappresentato un modello anche da qualcuno all’interno del centrosinistra. Occorre un grande sforzo per promuovere questo processo poiché è necessario recuperare un’ arretratezza del nostro paese in questa materia sia dal punto di vista legislativo, con una riforma che non è arrivata, sia dal punto di vista economico e culturale.

Troppo spesso infatti per favorire la rendita immobiliare si è trattato il problema della casa come una questione privata, individuale e, di fronte alla carenza strutturale di iniziative pubbliche nel settore della casa, si consegna il cittadino nelle mani dell’immobiliarista, che a sua volta lo gira al sistema creditizio per un mutuo “agevolato” (a questo andrebbe aggiunto, come male minore, una qualità degli insediamenti quasi sempre scadente dettata da una visione esclusivamente domestica dell’abitare).

Questo blocco d’interessi non ha certo stimolato il varo di norme e interventi pubblici organici in questo settore tanto meno ha favorito la diffusione della qualità architettonica diffusa, al contrario ha spesso ridotto il piano regolatore ad un “affare” per pochi e provocato guasti che sono sotto gli occhi di tutti: dallo scempio architettonico e ambientale al congestionamento del traffico dovuto all’irrazionalità del sistema insediativo.

Occorre quindi anzitutto lavorare per superare quel blocco e al tempo stesso controbattere alla concezione che sta dietro a quello slogan: la libertà di chiudersi in casa per disinteressarsi a quanto accade fuori, salvo indignarsi quando si ritiene possa essere coinvolta la nostra sfera “domestica”. E’ necessario liberarsi dalla trappola che induce a considerare il piano regolatore come uno strumento riservato agli addetti ai lavori e ricominciare a discuterne, soprattutto con chi i terreni non li possiede, occorre rilanciare il Piano quale unico strumento capace di garantire l’interesse collettivo, superare politiche neo liberiste e derogatorie che hanno caratterizzato tutti gli anni 90, e che continuano ad imperversare, e su questo avviare un confronto a sinistra sul governo del territorio.

Sono anche questi i motivi che mi portano a condividere una recente intervista al Segretario Fausto Bertinotti in cui dice di immaginare, per un prossimo governo di centrosinistra, un Ministero dell’Economia e del Piano. Pur comprendendo che probabilmente in questo caso la mia è una lettura “interessata” ( mi rendo conto che il termine Piano va riferito prioritariamente all’esigenza di programmazione economica) è per me significativo che si torni a parlare in questi termini (di Piano). Procedendo nella lettura, mi conforta ulteriormente una serie puntuale di richieste che il Segretario avanza al centrosinistra fra cui “un piano per l’edilizia popolare che comprenda i bisogni degli immigrati”. Ritengo questi cotenuti estremamente qualificanti per il confronto programmatico in vista delle elezioni 2006, credo però che sia importante, nel frattempo, costituire un fronte comune per evitare che in questo lasso di tempo si approvino provvedimenti legislativi che possano pregiudicare un nostro futuro impegno di governo.

Finalmente questo dibattito, da più parti invocato, si sta attivando, in particolare sulle pagine del nostro giornale. Mi riferisco in particolare all’appello “Fermate la Legge Lupi”: speriamo di essere ancora in tempo per fermare una Legge che annichilisce il Piano anziché dargli centralità, subordina il potere Pubblico all’iniziativa privata, sottrae aree all’obbligo di pianificazione, cancella quelle poche conquiste degli anni 60 come la dotazione minima di spazi pubblici prevista per legge! E’ vero che il paese aspetta una riforma da sessant’anni ma non per questo dobbiamo avallare questa, come invece qualcuno sta dicendo, anche nel centrosinistra.

Titolo originale: Dan Dare and doll’s houses – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Saranno gli architetti o i vandali a costruire il Thames Gateway?

I grandi leaders analizzano bisogni e definiscono principi, per offrire una visione di lunga prospettiva. I principi che stanno alla base del rinascimento urbano sono l’inclusione sociale e un’architettura di alta qualità. Quello attuale è il primo governo britannico che incoraggia le persone a tornare verso le città, e la sua idea di città compatta, sostenibile, per vivere e lavorare, ben collegata, ha riportato vita in molti centri e quartieri in declino.

Ma c’è qualcosa di sbagliato se, a sette anni di distanza da quando John Prescott mi ha chiesto di presiedere la Urban Task Force, dobbiamo ancora competere con quanto di meglio c’è in Europa in termini di qualità delle abitazioni.

Le città che più amiamo da visitare e per viverci, hanno una cosa in comune. Dall’Atene classica alla Venezia rinascimentale, dalla Londra georgiana ai centri toscani in cima alle colline, vitalità e identità civica sono state sostenute da grandiosi spazi pubblici racchiusi da edifici ben progettati. Questi emozionanti spazi sono il risultato di uno sforzo collaborativo fra la committenza, gli architetti e i costruttori. Le città belle non capitano per caso, ma vengono costruite di proposito.

L’architettura è il processo di dar corpo alla bellezza e funzionalità nell’ambiente costruito. Porta ordine, proporzione, luce e bellezza nello spazio. Credere che la qualità architettonica sia solo soggettiva è pericolosamente irresponsabile: ci sono criteri condivisi e punti fermi per giudicare. La comprensione e l’apprezzamento vengono dagli studi, dall’esperienza, dall’affinamento della sensibilità e – forse più importante – da una buona capacità professionale. E tuttavia abbiamo miseramente evitato di porre i migliori architetti al centro del processo decisionale. La nostra è un’età dell’oro per l’architettura, ma rischiamo di ripetere gli errori del dopoguerra.

Il Thames Gateway è il più vasto piano di rigenerazione urbana in Europa, per sistemare quasi un milione di abitanti – una città grande quanto Manchester – lungo il glorioso corso del Tamigi, dalla Isle of Dogs fino a Southend. Dovrebbe essere il progetto più stimolante d’Europa, ma rimango profondamente perplesso sulle possibilità di realizzarne in pieno il potenziale.

Come presidente della Urban Task Force e più di recente come principale consulente per l’archietettura di Ken Livingstone, ho sollecitato pianificatori e politici a considerare il London Thames Gateway (i 90 chilometri quadrati del Thames Gateway interni ai confini della Greater London) come parte di una città compatta, come Manhattan o Barcellona, anziché come una catena di new towns scollegate. Dobbiamo avere un approccio generale attento, che valuti lo spazio disponibile, e comunità e i trasporti, per evitare il peggio.

Barcellona può essere un esempio. Ancora molto dopo i giochi olimpici del 1992, impressiona sia i residenti che i visitatori. Questa magnifica città mediterranea, devastata da una brutale combinazione di governi fascisti e declino industriale, si è risollevata con stile: straordinarie spiagge e quartieri vitali, dando forma fisica alla miscela di vita-lavoro-tempo libero a cui aspirano tutte le città moderne.

Londra è più ricca di Barcellona, dal punto di vista culturale e materiale, ma quando guardo a come è costruita, temo che si stia perdendo una grossa opportunità. I nostri spazi più preziosi vedono allinearsi file di case per bambole alte e basse, occasionalmente interrotte da torri di vetro e acciaio alla Dan Dare, senza alcun rapporto per il contesto o l’ambiente circostante. I bungalows si appiccicano senza direzione su per le sponde del Tamigi, uno dei più meravigliosi fiumi del mondo. Assi e tegole di plastica, pietre finte, cemento scadente e finestelle, affacciati sulle viste migliori, sono sintomi di barbarie.

Perché Barcellona è tanto vitale, e Londra ancora lotta solo per raggiungere livelli minimi di qualità? La resurrezione di Barcellona è stato il risultato di 18 anni di pianificazione urbana, con tre grandi sindaci a lavorare in stretto rapporto con architetti, artisti, studiosi e sociologi visionari, per trasformare la propria città.

L’incarico di Pasqual Maragall al grande architetto catalano Oriol Bohigas, e il suo lavoro in stretta collaborazione con lui, è stato cruciale nel dar forma alla visione. Bohigas, insieme al collega e attuale urbanista della città, Josep Acebillo, ha predisposto una strategia urbana tridimensionale, e successivamente l’ha attuata incaricando alcuni dei migliori architetti d’Europa a produrre progetti su progetti, senza mai perdere di vista né il quadro generale né i particolari.

John Prescott e Ken Livingstone credono che non ci sia rinascimento urbano senza un progetto, ma stiamo ancora lottando per raggiungere quelli che nelle altre città d’Europa considerano solo il minimo standard accettabile. Non esiste un vero quadro di politiche per l’eccellenza progettuale: ci sono troppe organizzazioni in campo, con troppa poca concentrazione sulla qualità. Governo e costruttori devono porre architetti capaci, sul fronte del rinascimento urbano. Senza di essi, non realizzeremo mai le nostre aspirazioni.

A Londra, con la necessità di realizzare almeno 400.000 nuovi alloggi entro il 2016 a contenere l’incremento demografico della capitale, Ken Livingstone ha fatto la scelta politica, brillante e audace, di contenere la crescita entro la green belt e le 32 municipalità esistenti. È andato oltre l’obiettivo governativo del 60% delle costruzioni su siti ex industriali (già edificati), mirando al 100%.

Ma i poteri del sindaco sono fortemente limitati dall’eredità di 15 anni senza governo metropolitano, e dalla mancanza di focalizzazione sul progetto che infetta tanta parte della vita politica britannica. Il piccolo gruppo che collabora con me alla Greater London Authority, la Architecture and Urbanism Unit, ha commissionato e predisposto alcuni eccellenti piani di massima, in particolare per il London Thames Gateway con la London Development Agency. Abbiamo incaricato alcuni eccezionali architetti europei attraverso concorsi aperti, ma abbiamo poteri molto limitati per realizzare edifici ben progettati, spazi pubblici o infrastrutture di trasporto. Ogni decisione è schiacciata da trattative con infiniti uffici, molti dei quali mancano di visione e competenze specialistiche.

In assenza di una struttura gerarchica, il processo decisionale è abbandonato in un pantano di mediocrità. Molti degli organismi esecutivi operano principalmente e soprattutto come gestori di terreni e contabili, interessati a numeri e gestione, non al progetto. Fra gli organismi con cui sono a contatto, solo il nuovo London Thames Gateway ha un architetto nell’ufficio direzione.

A meno che al sindaco non siano conferiti alcuni poteri, e un maggior peso in questa moltitudine di burocrati poco coordinati, non produrremo mai una politica di sostenibilità o progetti paragonabili ai migliori che si vedono all’estero. E se non si progettano buone città e quartieri anche il nostro lavoro sulla criminalità, l’istruzione, l’occupazione o l’esclusione sociale, ne usciranno compromessi.

C’è sempre un modo per prendere le cose per il verso giusto. La maggior parte della migliore edilizia oggi si realizza per concorso. Ma si tratta di una qualità buona tanto quanto le giurie. Quando ero consulente del presidente Mitterrand per i Grands Projets a Parigi, lui insisteva sul fatto che le giurie dovessero comprendere buoni architetti. Nel Regno Unito, siete fortunati a trovarne uno, in una giuria di dieci persone. E anche quando nonostante tutto si riescono a scegliere architetti di talento, non c’è alcuna garanzia che i loro progetti riescano a sopravvivere oltre la fase preliminare. Dopo essere stati usati per ottenere le autorizzazioni, gli architetti sono scaricati, e si fa spazio ai costruttori.

Se continueremo a trattare gli architetti come una “aggiunta” marginale, la quantità continuerà a prevalere sulla qualità, l’avidità sull’immaginazione. Costruire città sulla base della convinzione che disegno urbano e ambito pubblico vadano presi in considerazione solo alla fine e dopo aver sistemato tutte le questioni di proprietà, politiche di piano, fattibilità economica, significa sottoporle ad una forma di vandalismo da cui poche sapranno riprendersi.

Il giuramento dei Greci Ellenici nel momento di diventare cittadini ci lascia un potente messaggio: “Lasceremo questa città non meno, ma più grande, migliore e bella di come l’abbiamo ricevuta”. Se non diamo la possibilità ai nostri leaders di creare città belle, non solo ripeteremo gli errori del passato, ma condanneremo i nostri figli a viverci. Nota: qui il testo originale al sito del Guardian (f.b.)

La nostra Camera del Lavoro, con questa giornata di studio e di approfondimento, intende avviare un percorso volto ad elaborare un nostro autonomo punto di vista sulla qualità dello sviluppo della nostra provincia, a partire da una lettura critica del documento preliminare del piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp). L’obiettivo è quello di costruire insieme una nostra proposta, tesa a concorrere alla formazione del piano provinciale.

Il contributo di conoscenza e di esperienza di chi vive nelle diverse realtà territoriali, è decisivo. Si tratta infatti di ragionare sulla qualità dell’abitare, degli insediamenti produttivi, dei servizi, della mobilità delle merci e delle persone.

Il seminario del 24 maggio si avvale di qualificati contributi esterni che risulteranno particolarmente utili in relazione agli approfondimenti che, successivamente, saranno programmati zona per zona con l’obiettivo di aprire un cantiere finalizzato all’apertura della contrattazione sociale territoriale.

La qualità urbana insieme alla qualità sociale costituiscono infatti un pezzo rilevante della strategia che abbiamo definito nel nostro recente congresso.

Non ci sfugge come declino industriale e boom del mattone siano processi strettamente correlati.

VICENZA PREDA DEL CEMENTO

Di fronte ai problemi posti dalla ineludibile riconversione industriale molti hanno scoperto il business degli investimenti immobiliari: Tronchetti Provera e Benetton sono i nomi più noti, quelli vicentini non sono pronunciabili ma solo sussurrabili.

Ma il boom del cemento a Vicenza ha origini meno recenti. Esso è connesso allo sviluppo disordinato che abbiamo conosciuto che ha “slabbrato” e paralizzato il tradizionale assetto policentrico della nostra provincia e determinato il collasso

della viabilità. La fabbrica post fordista esternalizza, nasce l’impresa rete, il lavoro si disperde nel territorio e così nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna e nei nuovi “Pip” della Tremonti concepiti come siti a minor costo. La fabbrica just in time elimina il magazzino perchè esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.

Sono le strade mercato: la Statale 11 tra Vicenza e Montecchio, Cornedo, Thiene-Zanè, Torri di Quartesolo-Settecà, il Bassanese.

Il colpo d’occhio ci rimanda a una sequenza di case, ville, villette, capannoni, depositi, piazzali e svincoli che hanno consumato il territorio con una crescita urbana senza forma, che ha impermeabilizzato il territorio, rallentato la ricarica delle falde e nel contempo provoca frequenti esondazioni dei corsi d’acqua.

CITTÀ SPALMATE COME MARMELLATA

Si tratta della dispersione insediativa per la quale gli americani negli anni ’60 coniarono il termine di “sprawl town” letteralmente città sdraiata sguaiatamente. In sostanza un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi e vissuto come alienante dalle nuove generazioni.

A questi problemi la classe dirigente vicentina risponde in modo vecchio e settoriale.

Se c’è un problema di traffico la risposta è semplice: facciamo una nuova strada, una nuova bretella, meglio se un’autostrada. Di mezzo c’è un territorio agricolo? Meglio. Così non ci sono ostacoli. C’è una falda? “Noi ci occupiamo delle merci che devono transitare”, ci siamo sentiti rispondere.

Non è così che si progetta la “Vicenza del Terzo Millennio”.

Occorre invece pensare ad una riorganizzazione complessiva, sistemica e organica del nostro territorio, che riduca la dispersione delle attività produttive, residenziali e commerciali, attraverso il metodo della pianificazione urbanistica, mettendo al bando la sciagurata pratica dell’urbanistica contrattata che, per altro, è terreno fertile per lo sviluppo di rapporti non sempre trasparenti tra affari e politica. L’idea che proponiamo è quella di una città amica.

Significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo di incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva.

Significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti.

Occorre inoltre puntare sul trasporto pubblico e soluzioni logistiche adeguate anche per favorire la competitività delle imprese. Il tutto va connesso con una idea di sviluppo più qualificato, capace di competere nella fascia alta e innovativa delle produzioni, in grado di generare lavoro qualificato, di sostenere più elevati livelli salariali e migliori condizioni di lavoro.

LA CONTRATTAZIONE SOCIALE TERRITORIALE

Ma oggi dobbiamo fare i conti con una struttura produttiva frammentata, con un lavoro precarizzato e con tutte le conseguenze che ciò produce in termini di minor rappresentatività del sindacato.

È per noi dunque vitale riprendere il controllo sull’intero ciclo produttivo ovvero l’intera filiera di fabbricazione di un prodotto o erogazione di un servizio spesso dispersa nel territorio.

COME RIPENSARE IL LAVORO

Il controllo dei rapporti di lavoro,dell’ organizzazione del lavoro, dalle qualifiche agli orari, alla tutela della salute, dovrà essere al centro del nostro impegno futuro. Ma non si controlla il processo lavorativo se l’azione sindacale non ricomprende tutta la filiera degli appalti, delle terziarizzazioni, delle esternalizzazioni, se cioè non ridefinisce il perimetro della catena lunga e diffusa della produzione di una merce o di un servizio.

Noi vogliamo riunificare ciò che l’impresa divide e frammenta. E’ un compito arduo ma assolutamente necessario. È un salto culturale, politico e organizzativo quello che noi proponiamo: la saldatura tra la contrattazione di secondo livello e la contrattazione nel territorio.

Il territorio in quanto spazio fisico sempre più strettamente interconnesso con le dinamiche produttive diventa decisivo sia per riprendere il controllo della filiera sia perchè la contrattazione di luogo di lavoro possa disporre di una iniziativa esterna in materia di formazione, ricerca, politica industriale.

Oppure, per l’importanza di accompagnare la contrattazione del salario con una contrattazione sociale in grado di ottenere risultati su materie come gli asili nido, i servizi di assistenza, la sanità, la casa, i trasporti, i beni comuni prodotti dai servizi pubblici locali (acqua, ambiente e energia), l’integrazione dei migranti, la vivibilità urbana.

Temi questi ultimi che non possiamo delegare all’azione generosa ma inevitabilmente insufficiente del nostro Sindacato Pensionati o all’azione delle singole categorie di volta in volta interessate. Essi vanno assunti a livello confederale.

È questa una proposta di allargamento del campo d’azione del nostro lavoro sindacale per tenere insieme il luogo di lavoro e la sua inscindibile relazione con il contesto territoriale, nei suoi diversi aspetti di organizzazione e pianificazione dello spazio urbano, di equilibrio ambientale, di qualità ed efficacia del welfare locale.



Oscar Mancini è segretario generale Cgil di Vicenza

Postilla

La Camera del lavoro di Vicenza è una delle organizzazioni sindacali che aderirono, nel 2004, al seminario "La nuova proposta di sei sindacati territoriali della CGIL - Vertenze locali per reinventare città e democrazia"; i materiali furono pubblicati su un numero speciale della rivista Carta (vedi su Eddyburg l’intervista a Guglielmo Epifani e l’eddytoriale n.55.). Da allora la Cgil di Vicenza ha continuato a lavorare sul territorio come poche altre organizzazioni. Adesso ha organizzato una giornata di studio sul PTCP di Vicenza, preceduto da un lavoro di analisi, documentazione e dibattito sull’assetto del territorio provinciale, i suoi problemi, le sue prospettive, senza disdegnare l’attenzione per gli strumenti della pianificazione territoriale e, anzi, attribuendo ad essi l’importanza che meritano quando diventano materia d’interesse politico e sociale.

All’argomento è dedicato anche un numero della rivista della Cgil, Vicenza lavoro , da cui è tratto l’articolo di Oscar Mancini. Nella versione integrale della rivista, scaricabile qui sotto, trovate anche il programma della giornata di studio (che si terrà il 24 maggio), un articolo di Gian Antonio Stella sul territorio vicentino (tratto dal Corriere della sera ), un gustoso scritto su “architetti e geometri” dello scrittore Vitaliano Trevisan e una “Guida per conoscere il PTCP”.

No, l’abusivismo di necessità no. L’abusivismo di necessità è morto da tempo. Era quello dell’immediato dopoguerra, quando, soprattutto a Roma, gli immigrati dal Sud che lavoravano nei cantieri edili, senza casa e senza residenza (vigeva ancora la legge fascista contro l’urbanesimo che non consentiva l’iscrizione anagrafica nei grandi comuni), si costruivano le “casette della domenica”. Furono chiamate così perché solo la domenica e i giorni festivi manovali e muratori, potevano tirar su, con le proprie mani, le loro povere abitazioni, con spirito mutualistico e con pratiche poi definite di autocostruzione. I nuclei del primo abusivismo si concentrarono inizialmente a ridosso dei borghetti dov’erano stati deportati gli abitanti del centro storico cacciati a seguito degli sventramenti mussoliniani e intorno ai quali si è in seguito formata la sterminata periferia della capitale.

Quello era l’abusivismo di necessità. Che fu compattamente difeso dal Pci e dalla cultura di sinistra, all’incirca fino all’inizio degli anni Ottanta. Dopo, fra la sinistra e l’abusivismo c’è stato un graduale distacco, non senza residui di tolleranza. Il direttore di questo giornale sicuramente ricorda le polemiche che si svilupparono in via delle Botteghe Oscure e su l’Unità con una franchezza allora inconsueta.

Intanto, a mano a mano, l’abusivismo ha cambiato i propri connotati, è stato sfruttato dai grandi proprietari terrieri per favorire l’urbanizzazione dei loro patrimoni. Si è un po’ alla volta trasformato in industria edilizia illegale, illegale sotto ogni punto di vista: alla mancanza del permesso di costruzione si è aggiunto il mancato rispetto delle norme igieniche, di sicurezza, assicurative e previdenziali. Alla fine, è entrato nell’orbita della malavita organizzata. Da Roma in giù, in alcuni luoghi ha raggiunto livelli di produzione superiori a quelli dell’edilizia legale, grazie anche alle successive leggi di condono, tre in diciotto anni (ricordiamone gli autori: 1985, governo Craxi; 1994, governo Berlusconi; 1993, ancora governo Berlusconi). E la Campania, ha scritto il 1° maggio su l’UnitàVittorio Emiliani, “vanta da decenni un primato nazionale in fatto di concentrazione della illegalità edilizia e ambientale, con una vistosa presenza del racket camorristico che controlla le forniture di materiali e di manovalanza”.

Queste cose non possono non saperle gli amministratori di Ischia – e addirittura il presidente della regione Campania – che irresponsabilmente hanno resuscitato l’abusivismo di necessità. Operazione pericolosissima, perché oggi torna a essere grave, in molti casi drammaticamente grave, il problema della casa, e l’abusivismo non può essere una risposta. Se oltre l’80 per cento delle famiglie italiane vive in casa propria, quasi tutto il restante 20 per cento vive in condizioni abitative sempre più precarie. Sono giovani, immigrati, studenti, anziani che regrediscono verso la povertà e sono costretti a vendere il proprio alloggio. Un problema, reso acuto dalla progressiva riduzione delle risorse per l’edilizia pubblica, che dovrebbe tornare in primo piano nelle politiche locali. È questo uno, e non certo l’ultimo, dei compiti che il nuovo governo dovrà affrontare con competenza e determinazione. Insieme alla ripresa dell’impegno per il risanamento idrogeologico. Dopo i morti di Sarno del 1998, il tema aveva assunto un riconoscimento prioritario nell’azione di governo e sembrava che potesse finire l’incubo di una frana devastante dopo ogni pioggia prolungata. Ma Berlusconi alla manutenzione del territorio ha sostituito le grandi opere. La tragedia di Ischia riporta la difesa del suolo in testa all’ordine del giorno.

Altro che grandi opere, altro che tolleranza per l’abusivismo.

Un Paese fradicio, senza più manutenzione, che casca a pezzi alle prime piogge insistenti. Poche settimane fa un grande smottamento di un’area denudata dal disboscamento sopra la cabinovia di San Vigilio in Marebbe (Bolzano). Per fortuna senza vittime. Ora la tragedia di Ischia con una gigantesca colata di fango che ha provocato morti e feriti in una zona con abitazioni abusive in attesa di condono edilizio. «Abbiamo abusato del nostro territorio», afferma il responsabile della Protezione Civile, Bertolaso.

Sciaguratamente i governi Berlusconi hanno imboccato la strada elettoralistica delle cosiddette grandi opere (senza valutazione di impatto ambientale) ed abbandonato, o quasi, quella del risanamento idro-geologico percorsa con fatica dai governi dell’Ulivo dopo le tragedia di Sarno e di Soverato. Di più e di peggio: il centrodestra ha varato due devastanti condoni, uno edilizio e l’altro ambientale il cui solo annuncio ha accelerato in modo suicida, per il territorio e per chi lo abita, la corsa a nuove costruzioni illegali in zone vincolate, in aree palesemente a rischio idro-geologico, negli alvei stessi di fiumi, torrenti e fiumare. Laddove la colata di fango o l’alluvione improvvisa sono sempre in agguato con esiti mortali. Specie da quando il riscaldamento del pianeta ha reso più violente piogge e temporali, in ogni stagione.

In tale corsa all’abusivismo - al quale invano si sono opposti Comuni e Regioni contestando i condoni governativi - la Campania vanta da decenni un primato nazionale in fatto di concentrazione della illegalità edilizia e ambientale, con una vistosa presenza del racket camorristico che controlla le forniture di materiali e di manovalanza, tutto «in nero», da ogni punto di vista. L’isola di Ischia fa parte di questo sistema purtroppo, come, del resto, la stessa Capri.

Chi gira l’Italia in questi mesi vede le gru dei cantieri edili alzarsi quasi ovunque, a decine, a centinaia. Il mattone è stato la sola attività a «tirare» in mesi e mesi di stagnazione economica, sottraendo capitali e risparmi ad attività imprenditoriali vere e durevoli, destinate ad irrobustire un sistema di industrie e di servizi divenuto sempre più anemico. Da vecchio immobiliarista, Silvio Berlusconi non si è forse vantato di aver fatto aumentare nell’ultimo quinquennio il valore degli immobili italiani? Chi non è proprietario di case, è trattato alla stregua di un pezzente. Chi è in affitto, viene abbandonato alle follie del mercato speculativo. Un’autentica anomalia rispetto alla media dei Paesi europei più avanzati. E poi si teme sempre che scoppi la bolla speculativa...

La valanga di asfalto e di cemento, quest’ultimo spesso abusivo, ha reso ancor più fragile, dunque, più soggetto a frane e a smottamenti questo Paese antico, intensamente abitato da migliaia di anni, la cui montagna ed alta collina (due terzi dell’Italia) hanno conosciuto in passato uno spopolamento biblico, col conseguente abbandono dei boschi, dei pascoli, del sistema plurisecolare dei canali e delle canalette di scolo, dei torrenti stessi. Mentre, per contro, le zone ad alto sfruttamento turistico (da Ischia a San Vigilio in Marebbe) si costipavano di altre seconde e terze case, con strade di ogni tipo, tutte asfaltate. Tale fenomeno si è verificato, magari, in regioni anche a forte rischio sismico: in Campania, soltanto un 12-13 per cento del territorio non risulta infatti a rischio sismico alto o medio. Ma quali e quanti investimenti sono stati dedicati dalle «magiche» Finanziarie di Berlusconi-Tremonti alla manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo italiano? Sempre pochi. Anzi sempre meno. In compenso uno dei primi alti dirigenti colpiti dallo spoil-system è stato proprio il bravissimo direttore del servizio antisismico nazionale Roberto De Marco, un tecnico di autentico livello internazionale, rimosso per ragioni squisitamente politiche e mandato, se non erro, a vendere computer alle scuole. Poteva, del resto, un «comunista» continuare a reggere un simile ufficio tecnico strategico?

Al futuro governo viene quindi lasciata un’Italia ancor più vittima di frane, smottamenti, alluvioni, ancor più povera di misure preventive contro le colate di fango (autentico problema nazionale) e contro i movimenti tellurici. Si tratta di riavviare, per altro in tempi di finanza statale dissestata, una autentica «ricostruzione» del Paese partendo da una aggiornata mappa dei rischi. Altrimenti avremo altre vittime, altri senzatetto, altri ambienti feriti a morte e inabitabili per decenni. Molto tempo fa, Antonio Cederna - di cui ricorrono quest’anno i dieci anni dalla scomparsa - ripeteva una sorta di suo sarcastico slogan: quando piove l’Italia viene giù. Dopo gli ultimi cinque anni berlusconiani va anche peggio. Per non spendere qualche miliardo in più nella prevenzione, ne spendiamo e ne spenderemo decine a disastri avvenuti.

La Società Stretto di Messina ha firmato il contratto con Impregilo S.p.A. per l’affidamento a Contraente Generale della progettazione definitiva, esecutiva e della realizzazione del Ponte tra Calabria e Sicilia. Questo rappresenta un grave affronto alle procedure di infrazione avviate dalla Comunità Europea ed ai procedimenti da parte della magistratura sull’infiltrazione mafiosa negli appalti e le presunte violazioni amministrative nel corso dell’iter concorsuale. La gara di appalto è stata caratterizzata da una serie di gravi anomalie: l’inserimento di clausole contrattuali che prevedono una penale stratosferica in caso di recesso da parte dello Stato (il 10 per cento dell'importo totale, cioè 388 milioni, più le spese già affrontate dal General Contractor) dopo la definitiva approvazione dell'opera; l'improvvisa defezione dei grandi gruppi esteri proprio alla vigilia dell'apertura delle buste; l'ingiustificato ribasso del 12,33% praticato dalla cordata guidata da Impregilo che tradotto in cifre vuol dire 500 milioni di euro e cioè 1000 miliardi di lire, su una base d'asta di circa 4 miliardi di euro.

Ancora più grave, la fitta rete di conflitti d'interesse sviluppatasi tra società concessionaria, aziende in gara per il General Contractor e i rispettivi gruppi azionari di riferimento.

Nella speciale commissione giudicatrice istituita dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l'appalto ad Impregilo, ha partecipato l'ingegnere danese Niels J. Gimsing.

Oltre ad essere stato membro (dal 1986-93) della commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, Gimsing ha lavorato nella realizzazione dello Storbelt East Bridge, progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d'imprese guidato da Impregilo ha affidato l'elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto.

Alberto Lina, amministratore delegato di Impregilo, è stato dal 1995 al 1998 presidente di Coinfra, la società dell'IRI che ha partecipato come fornitore alla realizzazione del ponte Storebelt insieme a Cowi, e quindi ha collaborato con l'ing. Niels Gimsing.

Se poi si passa alla lettura del curriculum vitae di alcuni membri del consiglio di amministrazione della Stretto di Messina si scorge più di un feeling con il colosso delle costruzioni di Sesto San Giovanni.

Nell’aprile del 2005, è stato nominato quale membro del CdA della concessionaria del Ponte il dottor Francesco Paolo Mattioli, ex manager Fiat e Cogefar-Impresit (oggi Impregilo), consulente della holding di Torino e responsabile del progetto per le linee ad alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e Torino-Milano di cui Impregilo ricopre il ruolo di General Contractor.

Il 22 febbraio 1993 Francesco Paolo Mattioli fu arrestato su ordine della Procura di Torino interessata a svelare i segreti dei conti esteri della Fiat, dove risultavano parcheggiati 38 miliardi di vecchie lire destinati a tangenti. Nel maggio ‘99 arrivò per Mattioli la condanna a un mese di reclusione, pena confermata in appello e infine annullata in Cassazione per “sopravvenuta prescrizione del reato”.

Nel consiglio di amministrazione della Stretto di Messina siede pure il Preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza" di Roma, prof. Carlo Angelici. Angelici è pure consigliere della Pirelli & C. e di Telecom Italia Mobile (TIM), società controllate dalla famiglia Benetton, che è tra i maggiori azionisti di Impregilo.

Edizioni Holding della famiglia Benetton, attraverso Schemaventotto, detiene anche il 51 % della Società Italiana per Azioni il Traforo del Monte Bianco, gestore della parte italiana. Di questa società è consigliere un altro membro "riconfermato" del Cda della Stretto di Messina, il direttore generale ANAS Francesco Sabato.

Come se non bastasse l’"anomalia" della presenza di più di un consigliere della Stretto di Messina nelle società controllate dai signori del Ponte, va rilevato che sindaco effettivo di Autostrade-Benetton è la riconfermata sindaco effettivo della Stretto di Messina, dottoressa Gaetana Celico.

Presenze ingombranti anche all’interno di Società Italiana per Condotte d’Acqua, altro partecipante alla cordata General Contractor del Ponte sullo Stretto. Condotte d'Acqua è controllata per il 98,85% dalla società Fedina S.p.A., holding finanziaria di partecipazione. Ebbene, nei consigli di amministrazione di Fedina e di Condotte Immobiliare (la immobiliare di Condotte d'Acqua) compare uno dei membri – sino al giugno 2005 – del Cda della Società Stretto di Messina, il professore Emmanuele Emanuele, voluto dalla Regione Calabria. Emanuele, di Fedina, è persino vicepresidente. E' anche presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, una dei maggiori azionisti, insieme all'olandese ABN Amro, del gruppo bancario Capitalia, azionista di Impregilo e della finanziaria Gemina (secondo gruppo azionario della società di costruzioni di Sesto San Giovanni). Capitalia controlla pure un rilevante pacchetto azionario di Astaldi, la società "concorrente" nella gara per il General Contractor del Ponte sullo Stretto. Presidente del Cda di Astaldi è il professore Ernesto Monti, docente di Finanza aziendale presso la Facoltà di Economia della Luiss. Monti è consigliere di amministrazione di Fintecna, la finanziaria statale principale socio di riferimento della Stretto di Messina S.p.A..

Tra i più stridenti conflitti d'interesse, c'è quello legato alla partecipazione delle coop "rosse" – su schieramenti contrapposti, la C.G.C. Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la C.M.C. Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna (con Impregilo). Con 1"anomalia", che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate della cooperativa “madre”, CCC di Bologna.

Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che "si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo".

L'ipotesi di violazione di queste norme da parte delle due coop durante la prequalifica alla gara per il Ponte è stato sollevato da Terrelibere.org, WWF Italia e dalla parlamentare Anna Donati. Il WWF, in particolare, è ricorso davanti all'Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiederne l'annullamento.

Intanto, anche al fine di denunciare la scarsa trasparenza dell'affaire, ha preso il via la campagna nazionale "Boicotta il ponte”. Basta compilare, firmare e inoltrare una lettera-diffida (il modulo è disponibile on line sul sito www.retenoponte.org) alle banche e assicurazioni che controllano i pacchetti azionari delle società di costruzioni italiane facenti parte della cordata Generai Contractor o che hanno espresso la disponibilità a finanziare la realizzazione della megaopera. Al bando, dunque, i prodotti Benetton - da quelli tessili a alla catena di ristorazione Autogrill - e pure i gruppi BPM-Banca Popolare di Milano, Capitalia, Banca Intesa, Monte dei paschi di Siena, Unicredit, Efibanca-Banca Popolare Italiana, Unipol Bank, Carige e Assicurazioni Generali.

Intervista di Federico Orlando

Altro che ponte di Messina. La vera grande opera nazionale del ventunesimo secolo sarebbe recuperare Messina e le altre cento città d'Italia, e quelle nuove cresciute di recente. Recuperare significa non solo abbattere, qualche volta, come nel caso irrecuperabile di Punta Perotti a Bari. Significa sostituire i nuovi centri ai non luoghi, in cui l'anticultura degli ultimi decenni ha trasformato quasi tutte le nuove periferie e perfino centri storici dove ai caffè sono subentrate le jeanserie e alle abitazioni le rappresentanze commerciali. Fare di ogni periferia un nuovo centro significa fare la nuova città. Non la città ideale, che non esiste, ma la città urbana moderna.

Ne parliamo con Pier Luigi Cervellati alla vigilia del governo di centrosinistra, se nascerà dalle urne di domani. A gennaio, il Mulino aveva pubblicato un suo articolo il futuro della non città, appunto la città dei non luoghi nella quale viviamo da alcuni decenni. Cervellati insegna recupero e riqualificazione urbana a Venezia; è autore di opere come La città postindustriale, La città bella, L'arte di curare la città; è stato per anni assessore all'urbanistica di Bologna. Ora, nella polemica tra l'architetto romano Massimiliano Fuksas (che dice: Punta Perotti è solo l'inizio, bisogna abbattere lo Zen di Palermo, le Vele di Secondigliano, il Corviale di Roma ed altri ecomostri simbolici nazionali) e l'architetto milanese Vittorio Gregotti (che difende il suo Zen e le Vele, addebitandone il degrado all'occupazione selvaggia e alla debolezza della politica), lui, Cervellati, sta con Gregotti: il problema non è abbattere il brutto, ma sottoporlo a chirurgia plastica e a cura ricostituente funzionale. E non già perché, come dice Gregotti, «la bellezza non è l'unico elemento per giudicare l'architettura, che va sempre oltre il bello, il brutto e la forma»; ma perché occorre recuperare le periferie: «Renderle omologhe alle citta, come si fa nei paesi del Nord dove esiste ancora la cultura della pianificazione urbanistica».

Che vuol dire omologare? Prima di tutto, stoppare quella «razionalizzazione ed efficienza modernizzante» delle città storiche che Jùnger definì "imbiancamento". E non aveva ancora visto la nuova Ara Pacis a Roma. Un imbiancamento che batte perfino il marmo fascista di piazza Augusto Imperatore. Si perde così l'identità storica e culturale delle città. Ma il ministro Urbani, trasferendo i poteri delle Sovrintendenze nelle 26 divisioni del ministero dei Beni Culturali, aveva l'ambizione un po' bottaiana di rifare le città sulla base dell'architettura razionalista della società industriale.

«La città storica non può essere razionalistica o razionalizzata - spiega Cervellati -. Il razionalismo va affermato nelle periferie, cresciute anarchicamente, in non luoghi come ipermercati e svincoli autostradali, o villettopoli casarecce, casermoni e strade, capannoni e parcheggi, che hanno mangiato il territorio espandendosi all'americana. Solo in America, il territorio è tanto e da noi pochissimo. Modernizzare le città non significa riqualificare un quartiere del Seicento in edifici razionalistici, ma creare legami (cominciando dai trasporti) tra la città storica e le sue periferie, ciascuna coi suoi luoghi di convivenza, che si acculturano reciprocamente. La città dispersa e non collegata ci richiude invece nel nostro orto o giardinetto, nell'isolamento culturale. Un governo di centrosinistra non dovrebbe puntare tanto a nuove costruzioni del privato quanto a un'edilizia pubblica che provveda alla casa per chi non ce l'ha, alla socializzazione per chi è isolato, e alla qualità della vita urbana per tutti, oggi sopraffatta dal degrado e dalla dispersione». I non luoghi hanno creato la non città e a questa si associa la non campagna. La grande opera pubblica nazionale, cioè la ricostruzione del legame città-campagna e urbanizzazione-ambiente," è stata descritta da Cervellati e riassunta dal Mulino ancor prima che questa legislatura di destra nascesse. «Le mappe storiche (riportiamo in sintesi) ci guidano nell'individuare le aree da rinaturalizzare. Esse sono uno strumento orientativo per organizzare il territorio e riqualificare la progettazione edilizia». Dunque Prodi non sbaglia quando parla di bellezza, estetica, etica, "felicità". I padri costituenti sapevano quel che scrivevano quando nella Costituzione promisero "La repubblica tutela il paesaggio". «La ricostruzione del territorio, col recupero del tessuto edilizio, deve coniugarsi con interventi di organizzazione e localizzazione di servizi, funzioni, necessità. Il piano regolatore è uno strumento irrinunciabile per riqualificare la periferia in città, e dev'essere scritto nella natura e nella storia del territorio». Esse, natura e storia, «hanno risposte omogenee e consentono di individuare un obbiettivo generale, l'integrità fìsica e la salvaguardia culturale del territorio, su cui misurare qualità e quantità dello sviluppo» (Eduardo Zarelli).

Perciò bisogna fermare l'espansione urbana a megalopoli anarchica e tornare ai "luoghi", cioè alle citta-comunità, con rapporto corretto fra i vari luoghi di cui il centro storico è solo l'archetipo. È questo il policentrismo comunitario, lo sforzo per conquistare il nuovo senza rinunciare all'identità storica. Del resto, come insegnava Benevolo, «la città italiana ha i centri entro le mura». Si può tornarvi, in qualche modo, stipulando un patto di cittadinanza con chi abita fuori le "mura" perché possa non solo abitarci ma viverci "felicemente". Farà sorridere molti italiani di oggi, ma nella Costituzione americana, tra i vari diritti dei cittadini, è previsto proprio quello di «cercare la felicità».

Oggi e domani mattina metteremo le nostre schede nelle urne elettorali. Domani sera conosceremo i risultati. Ciascuno si metta la mano sulla coscienza e faccia le sue scelte.

Inutile e forse sciocco invocare soltanto la ragione, perché si sceglie anche d'istinto, per simpatie e antipatie, per antiche appartenenze giuste o sbagliate che siano, per interessi, per valori partecipati o per slogan mal digeriti.

Questo giornale non ha bisogno di dichiarare le sue preferenze poiché le scelse nel momento stesso in cui nacque trent'anni fa e da allora non le ha mai cambiate.

Siamo stati e siamo per l'eguaglianza nella libertà, per il mercato che dia a tutti pari punti di partenza, per il sostegno dei deboli e l'inclusione degli esclusi, per l'innovazione, per la crescita, per l'Europa, per lo stato di diritto. Insomma per la democrazia nelle forme e nella sostanza.

Questi sono gli ideali positivi per i quali ci siamo battuti. Quelli negativi sono il loro esatto contrario: l'autoritarismo, il populismo, la demagogia, l'egoismo, l'interesse proprio contrapposto a quello comune, l'autarchia e il protezionismo economico, la menzogna politica, la corruzione, l'insicurezza, la pigrizia intellettuale, il conformismo.

Non sono parole vuote. Ad ognuna di essa corrisponde una visione del bene comune e del paese che vorremmo.

Corrisponde una cultura, un assetto politico, una squadra di governo, un tipo di legislazione. La soluzione di problemi antichi troppo a lungo rimasti inevasi e di malanni e storture più recenti che hanno deturpato la nostra democrazia ancora fragile e incerta.

Mi auguro che domani sera un primo nodo sarà stato sciolto. Se così avverrà, agli altri si potrà pensare con più serena e pacata attenzione e con il concorso di tutte le persone di buona volontà. Se la nottata sarà passata.

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Non è retorica dire che il mondo ci guarda: l'Italia non è una sperduta nazione, un segmento irrilevante della comunità internazionale senza storia e senza memoria. Ha dato un contributo di grandissimo rilievo alla cultura antica e a quella moderna. Ha fornito modelli di comportamento nel costume, nella politica, nell'economia, nel diritto, nella scienza.

E' stata ed è una grande nazione, ma da molti secoli le è mancata l'esperienza e la cultura dello Stato. Troppo a lungo siamo stati colonia di questa o quella potenza estera, funzionali a interessi sovrastanti, pedine di giochi altrui. I centri del vero potere erano fuori dal nostro controllo. L'egemonia politica economica militare era altrove. Non c'erano diritti ma favori, non cittadini ma sudditi, non forze politiche radicate e autonome ma consorterie, clientele, oligarchie tributarie di lontane sovranità. Perciò lo Stato è stato vissuto come un potere estraneo e potenzialmente ostile, comunque sospettabile.

Questa situazione si è protratta anche quando lo Stato è finalmente nato anche da noi. La nostra lunga storia "coloniale" aveva infatti creato un retaggio di individualismo anarcoide che i centocinquant'anni di storia unitaria e i più recenti sessant'anni di storia repubblicana non sono riusciti a dissipare completamente.

Tracce visibili di quella vocazione anarchica restano tuttora e si rivitalizzano tutte le volte che l'insicurezza etica e sociale evoca la presenza di personaggi che dell'individualismo politico fanno un valore, della demagogia uno strumento possente e della politica un mercato di scambio per gli interessi delle "lobbies" nel quale tutto si può vendere e comprare. In fondo al tunnel la deriva plebiscitaria.

Quante volte ci capita di ascoltare la frase "io di politica non mi occupo" detta come la manifestazione virtuosa di un rifiuto del male. La politica come sentina delle nequizie anziché come luogo dove si amministrano gli interessi e il destino della città, della "polis".

I paesi che hanno dato forma alla nazione attraverso la presenza dello Stato danno i loro figli alle istituzioni che dello Stato costituiscono la nervatura, alle scuole dalle quali esce la classe dirigente del Paese. Ma qui da noi questa vocazione non c'è mai stata, questa selezione è inesistente. In politica, ma non soltanto. Il capitalismo italiano è altrettanto debole. La pubblica amministrazione non è motivata ed è priva di spirito di corpo. Di analoghe debolezze soffrono tutti i corpi intermedi, i poteri e le classi dirigenti locali.

Ecco dove dovrà fare le sue prove il riformismo forte evocato da Romano Prodi se il voto di oggi e di domani riuscirà a sgombrare il campo dall'anomalia berlusconiana.

I mali che abbiamo qui elencato sono antichi, appartengono alla nostra storia nazionale e Silvio Berlusconi non ne è certo la causa, così come non fu lo al suo tempo Benito Mussolini. Essi anzi, personaggi dissimili tra loro ma non privi di affinità profonde e analogie sorprendenti, sono stati il prodotto di quei mali. Ma li hanno cavalcati, risvegliati, attualizzati laddove bisognava invece e bisognerà curarli con somma attenzione affinché le istituzioni pubbliche e il concetto stesso della "res publica" si radichino nella coscienza civile degli italiani.

Da questo punto di vista la Costituzione repubblicana è uno dei pochi punti di riferimento che l'Italia abbia avuto nel sessantennio repubblicano e alcune figure istituzionali che da essa hanno tratto vigore e alla difesa dei suoi valori hanno dedicato la loro opera meritano riconoscenza e ricordo.

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Uso ancora con trepida incertezza la particella dubitativa "se".

L'evidenza della situazione in cui il paese è stato portato dalla pessima squadra che l'ha guidato negli ultimi cinque anni farebbe infatti supporre che in favore del cambiamento si conti domani una valanga di voti. Temo invece che l'auspicata vittoria sia risicata, tanta è stata la violenza emotiva con la quale l'anomalia berlusconiana ha risvegliato gli antichi malanni e vizi nazionali.

E comunque: se quella anomalia sarà rimossa dal voto bisognerà seguire con la massima attenzione lo svolgersi dei fatti fino all'insediamento del nuovo governo nato dalle urne. Ci vorranno infatti non meno di quaranta giorni prima che l'inquilino di Palazzo Chigi e i suoi ministri sgombrino le stanze del governo dalla loro presenza.

Quaranta giorni sono brevi per persone normali, chiamate soltanto a gestire l'ordinaria amministrazione in attesa che il nuovo Parlamento sia insediato, elegga il nuovo Capo dello Stato e questi a sua volta nomini il nuovo presidente del Consiglio e i ministri seguendo le indicazioni del voto popolare. Nel frattempo si svolgeranno alcune importanti elezioni comunali, l'elezione regionale in Sicilia e infine il referendum istituzionale sulla legge cosiddetta della "devolution".

Spero con tutto il cuore di ingannarmi, ma non sono tranquillo pensando a quei quaranta giorni durante i quali la squadra berlusconiana sarà senza più potere ma occuperà ancora le stanze e le manopole del governo. Mi auguro che, almeno alla fine della loro avventura, prevalga il senso dello Stato. Ove mai il loro leader covasse la folle idea d'un gran finale sulla falsa riga del "Caimano", mi auguro che i suoi corrivi compagni di strada glielo impediscano.

Sarebbe almeno un merito, tardivo ma importante, per aprire una pagina nuova e pulita e per ricominciare.

MILANO - L´estate calda di Gianpiero Fiorani, che stava per diventare uno dei banchieri più potenti d´Italia, è durata veramente poco. Nel giro di meno di sei mesi è passato dai trionfi azionari alle dimissioni e al carcere. Se a luglio era convinto di aver già in mano il controllo della Banca Antoveneta (contesa anche dagli olandesi della Abn-Ambro), all´inizio di agosto si trovava sotto inchiesta da parte della magistratura, con le azioni Antoveneta sequestrate, e, da lì a poco, spinto alle dimissioni da tutte le sue cariche nel gruppo Banca Popolare di Lodi (nel frattempo ribattezzata Popolare Italiana per prepararla ai più alti destini a cui sembrava destinata).

In Italia Fiorani non è il primo raider che conclude la sua carriera in modo drammatico, ma è certamente quello che è durato meno e, in un certo senso, è stato anche il primo raider istituzionale. Nel senso che si è mosso sotto l´ala protettrice della Banca d´Italia, cosa mai successa in questo paese.

La sua carriera è molto semplice e lineare fino al gennaio dello scorso anno. Sbarcato quasi per caso nella Popolare di Lodi, sonnolenta banca di provincia per facoltosi agricoltori e vivaci commercianti locali, ne cambia rapidamente la natura, facendone un istituto molto dinamico che si lancia nell´acquisto di altre banche di periferia.

Cattolico, tutto casa, ufficio e famiglia, entra presto nelle grazie del governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio, che non è molto diverso. Se Fiorani ha l´animo del grande conquistatore di banche, Fazio ha quello del monarca assoluto. E quindi gli va bene questa specie di colonnello che si incarica di terremotare la geografia bancaria del Nord.

Al Governatore i grandi banchieri di Milano e di Torino stanno francamente sulle scatole. Sono bravi, girano il mondo e hanno l´aria di essere un po´ troppo indipendenti. E, soprattutto, pensano. Una volta sono arrivati addirittura al progetto di fare un´Opa sulla Comit e sulla Banca di Roma. Lui li ha fermati, grazie ai suoi super- poteri, ma da quel giorno non si è più fidato.

Da lì l´idea di trovare qualcuno che prendesse le misure ai Signori del Nord. Insomma, Fiorani. Un uomo con un pedigree bancario quasi ridicolo (la Lodi e basta, mai stato in una banca più grande), ma spregiudicato e fedele. E allora via con il sostegno pubblico, ostentato, nelle riunioni dei banchieri e, privatamente, l´invito a procedere.

Quando all´inizio del 2005 gli olandesi dell´Abn-Ambro (stufi di sentirsi dire di no dal governatore), decidono di lanciare la loro Opa sulla Banca Antoveneta, Fiorani e Fazio sono già pronti. Il primo si mette a comprare azioni di nascosto (servendosi di una rete di complici ai quali assicura lauti guadagni), il secondo tira tardi nella concessione delle autorizzazioni agli olandesi. Quando finalmente queste arrivano (perché non si può fare altrimenti), Fiorani e i "furbetti del quartierino" sono già pieni di azioni Antoveneta e sono in grado di far fallire l´Opa.

Ma gli olandesi presentano un esposto alla magistratura nel quale parlano dei loro sospetti. Scattano le indagini che porteranno prima al sequestro delle azioni Antoveneta comprate di nascosto (senza lanciare una regolare Opa), e poi alla rovina dello stesso Fiorani.

Nello stesso periodo erano partite altre due scalate: quella (insensata) di Stefano Ricucci alla Rcs e quella di vari immobiliaristi romani alla Bnl (che era sotto Opa da parte degli spagnoli della Bbva). Il Ricucci, un ex odontoiatra romano diventato ricco con palazzi comprati e venduti, si impantana quasi subito. E la stessa cosa capita agli immobiliaristi romani (fra cui c´è anche Ricucci) fino a quando non arriva l´Unipol, la punta di diamante della "finanza rossa" a rilevare la loro impresa.

Intanto le indagini dei magistrati proseguono a ritmo sostenuto e ben presto salta fuori che le tre scalate della calda estate del 2005, se non sono la stessa cosa, sono molto vicine. Un po´ tutti (compresi gli uomini dell´Unipol) hanno partecipato agli stessi affari e si sono fatti diversi favori. Nel caso di Ricucci e Fiorani i legami sono addirittura imbarazzanti. Se Ricucci ha rastrellato azioni Antoveneta (tenute, ovviamente, a disposizione di Fiorani), Fiorani ha finanziato quasi per intero la stupida scalata dello stesso Ricucci alla Rcs (e infatti quelle azioni stanno, come inutili e costosi rottami, nei forzieri della banca lodigiana).

Insomma, sul piano politico i più avvertiti si rendono conto che c´è stato un piano per dare l´assalto alle banche del Nord (attraverso la creazione di un mega-gruppo guidato da Fiorani) e alla Rcs (e quindi al Corriere della Sera), cioè a quello che si è soliti definire come l´establishment del Nord, poco in sintonia con il Governatore (ma anche con la maggioranza di governo).

Non a caso gli scalatori dell´estate ottengono un appoggio entusiasta da parte della Lega, un appoggio più moderato dagli altri settori della maggioranza e, purtroppo, anche da qualche esponente dei Ds (fra i raider dell´estate c´è la finanza rossa dell´Unipol, alla ricerca di un po´ di gloria e di promozione nella scena finanziaria).

Il dibattito politico sull´estate degli scalatori non fa molta strada, per la verità. Si muove invece molto velocemente la magistratura. Prima vengono accertate palesi violazioni delle norme che devono regolare il mercato azionario (acquisti clandestini delle azioni delle società contese), poi accertano arricchimenti illeciti di Fiorani e dei suoi amici. Saltano fuori conti segreti, finanziamenti occulti e conti "a rendimento garantito" (solo per gli amici, compresi alcuni parlamentari strenui difensori di Fazio).

È probabile che non tutto sia venuto alla luce e che i "furbetti del quartierino" avessero ancora la possibilità di manovrare, nascondere risorse, imbrogliare le carte, benché allontanati da tempo dalle loro cariche. E così alla guardia di Finanza è stato impartito l´ordine di radunare i più esposti e di accompagnarli in carcere.

Finisce così una stagione complicata e segnata da molte, troppe complicità ai maggiori livelli. Adesso si aspetta che, prima o poi, venga a galla tutta la storia di un assalto che per qualche settimana ha fatto tremare le roccaforti del capitalismo italiano e che da mesi continua a suscitare interrogativi. Possibile che nessuna delle autorità di controllo si sia mai resa conto di niente?

Ci sono almeno due poste in gioco nel caso-Bologna che vanno aldilà del caso-Bologna. Una riguarda l'idea di governo, l'altra l'idea di legalità. Comincio dalla prima, che è più semplice. Secondo uno dei refrain che imperversano in questi giorni, l'esperimento Cofferati ha dimostrato una volta per tutte un teorema lapalissiano, questo: la sinistra può fare l'estremista finché sta all'opposizione e parla dalla piazza, ma una volta che va al governo deve governare, levarsi i grilli dalla testa e fare le cose che si devono fare quando si governa. Di qualsiasi colore sia il governo, la governabilità è governabilità, la governance è governance, la sicurezza è sicurezza, la responsabilità è responsabilità, l'equilibrio è equilibrio e se ci vogliono le ruspe contro gli immigrati o il pugno forte contro i centri sociali ci vogliono le ruspe e il pugno forte. Il teorema non è nuovo; nuovo è che a farsene portatori siano molti paladini del bipolarismo come garanzia dell'alternanza. Domanda: se il governo è governo a prescindere dal colore che ha, a che servono il bipolarismo e la competizione fra due schieramenti alternativi? Tanto varrebbe farla finita con questa finzione e computerizzare la funzione di governo, un bel robot e via, con gli stessi imput, le stesse priorità, la stessa bussola fissa sul centro moderato e sulle sue ossessioni.

Ma che dovrebbe fare un robot con la legalità? Facile, applicare le leggi, senza se e senza ma, così come sono e senza guardare in faccia nessuno.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe, non in un campo di rom ma fra i proprietari di case in affitto in una città come Bologna, o, per guardare più in alto, nei vertici di governo in un paese come l'Italia. E qui si dimostra un altro teorema lapalissiano, questo: che la legalità è legalità, ma i criteri e le priorità con cui la si applica, a livello locale, nazionale e internazionale sono politici. Si può cominciare dai lavavetri o dai proprietari di case. Dalle bottiglie di birra o dalla mafia. Dai clandestini o dal cpt di Agrigento. Dai ladri di biciclette o dal conflitto d'interessi. Dai centri sociali o dalle guerre preventive: questione di scelte.

Questo per dire che siamo tutti d'accordo che la legalità è uno dei due pilastri (l'altro è la legittimazione popolare, ovvero il voto) di una repubblica costituzionale, ma non siamo affatto tutti d'accordo sul rapporto che c'è fra legalità, potere e politica della trasformazione (se ancora ce n'è una).

In un paese come l'Italia in cui l'illegalità è al potere, e chi è al potere urla da alcuni lustri che gli bastano i voti e della legalità se ne infischia, è giusto e dovuto pretendere che il potere si sottoponga al vincolo della legge. Ma non è né giusto né dovuto imbrigliare nella legalità qualsiasi forma di pressione sociale o di politica, per quanto moderata, del cambiamento, che ha l'obbligo non di subire ma di spostare i confini della norma e gli equilibri sociali che la norma produce.

Sergio Cofferati è convinto del contrario, tanto da sostenere, contro un paio di secoli di storia, che tutta la vicenda del movimento operaio è una vicenda di lotta dentro le regole, per le regole. Il che inquieta ma non stupisce, se si considera la vicenda politica di Cofferati scremandola dall'investimento immaginario di cui la sua figura era stata fatta oggetto pochi anni or sono. Ma dovrebbe interrogare molti che a quell'investitura avevano partecipato agitando in buona fede la bandiera della legalità non contro i rom ma contro palazzo Chigi. Forse quella bandiera è venuto il momento di issarla con qualche criterio.

idomini@ilmanifesto.it

L´odierna discussione della «questione cattolica» è resa particolarmente difficile da una comune ma opposta disposizione d´animo diffusa sia nel mondo cattolico che in quello laico. La si potrebbe dire una sindrome da accerchiamento. È stupefacente constatare che molti cattolici, in perfetta buona fede, considerano la propria religione insidiata nella sua stessa esistenza dalla laicità, identificata con relativismo etico, edonismo, materialismo, scientismo; che per molti laici, altrettanto in buona fede, è invece l´attivismo politico della Chiesa a minacciare i principi stessi su cui il loro mondo si fonda: pluralismo di fedi, convinzioni e modi di vivere, rispetto delle coscienze, autonomia del diritto dalla morale, libertà della scienza. Per ognuna delle parti, l´altra è una minaccia. È la condizione più favorevole allo scontro e meno favorevole al dialogo. Ma il dialogo, tuttavia, per preservare le fondamenta, è tanto più necessario quanto più difficile. Benemerito chi, nell´uno e nell´altro campo, opera per tenerlo vivo.

La «questione cattolica» è una messe di questioni: cristianesimo e identità, Chiesa e Stato, Chiesa e democrazia. Iniziamo dal primo binomio.

Identità è la parola magica di tutti coloro che pensano al Cristianesimo come religione civile, come strumento di governo delle società. Le discussioni sul Preambolo del fallito progetto di Costituzione europea sono state dominate dalla questione dell´identità cristiana. La stessa idea si riaffaccia ogni volta che, nel nostro Paese, si parla della posizione materiale e simbolica che è giusto assegnare alla religione nella vita pubblica. Nella controversia circa l´esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, alla libertà e uguaglianza delle coscienze si contrappone l´identità religiosa come valore nazionale. I privilegi che la Chiesa rivendica come diritti (insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, finanziamenti diretti e indiretti, agevolazioni tributarie, posti nelle più diverse istituzioni, ecc.) si vogliono giustificare con l´essenza cattolica dell´identità nazionale. Ancora l´identità è invocata tutte le volte che si toccano temi di morale tradizionale, come la famiglia e la procreazione. Infine l´identità in pericolo è l´argomento principe di coloro che – cattolici e non cattolici – propugnano una politica di difesa aggressiva nei confronti dell´Islam.

In tutti i casi, identità è la cittadella assediata, l´ultimo fortino da difendere, magari attaccando, prima della capitolazione. Questa resistenza unisce cristiani credenti e cristiani non credenti che si dicono tali per ragioni politiche (teo-con, atei-devoti o come altrimenti li si denominino).

La spendita politica del Cristianesimo va di pari passo con una triplice riduzione: A) dell´identità a storia; B) della storia europea a Cristianesimo e C) del Cristianesimo a Chiesa. In tal modo, il gioco è fatto: la difesa dell´identità finisce con l´allineamento alla Chiesa. Vediamo.

A). Identità è un modo per dire «carattere essenziale». Nel dibattito pubblico, la parola è stata banalizzata. Quasi non c´è «opinionista» o uomo politico che non se ne serva a piene mani. Ma la banalità nasconde le ambiguità. Soprattutto, occulta la domanda se l´identità sia un fatto oppure, nei limiti in cui siamo capaci di elaborare e selezionare culturalmente il nostro passato e progettare un avvenire, un´elezione. Come se non potesse essere altrimenti, la si assume come fatto o, meglio, insieme di fatti, cioè storia. La questione dell´identità, nella sua essenza, è una questione di filogenesi storica, di competenza della storiografia.

Siamo prodotti della storia e non possiamo negare la storia senza negare noi stessi. Quante volte si è detto: non possiamo recidere le radici! E le radici sono un dato della vita naturale.

Questa concezione dell´identità è acritica e aggressiva e corrisponde all´idea di sé propria delle società tribali. E´ acritica, perché nell´identità in cui dovremmo riconoscerci starebbero, allo stesso titolo e col medesimo valore, il centurione che presso il Colosseo ci ricorda il panem et circenses, l´Accademia dei Lincei che rinnova il ricordo dell´Umanesimo italiano, la Marcia su Roma e le Fosse Ardeatine, per fare qualche esempio. Non è forse una coincidenza se una certa storiografia revisionista che, tramite assoluzioni generalizzate e appiattimento dei valori, chiede l´assunzione in blocco del passato nella nostra identità «nazionale» è la stessa che difende il Cristianesimo come religione civile. Ma questa concezione è anche aggressiva. Di fronte alle sfide, non ci possiamo mettere in discussione. Se lo facessimo, tradiremmo noi stessi o il gruppo cui apparteniamo. L´unica possibilità è l´autodifesa e qualunque mezzo è a priori legittimo, anzi santo. Appellarsi all´identità equivale a battere il pugno sul tavolo contro gli estranei che sono o si affacciano tra noi.

Una volta «chiarita» la nostra autentica identità, che cosa dovrebbe fare chi non vi si riconosce o, peggio, non vi è riconosciuto dagli altri? Dovrebbe accettarla obtorto collo, per non essere meno cittadino? O dovrebbe addirittura scomparire, se i caratteri dell´identità (come l´etnia o la «razza») non permettessero adattamenti? E´ una storia antica. Non si è compreso che, dietro una parola apparentemente dotta, minacciosamente fa di nuovo capolino il nazionalismo etico. Ma non dovrebbe essere la Chiesa a rifiutare questa idea di identità: proprio la Chiesa cattolica che, tra tutte le chiese, è la più orientata all´azione missionaria? Il proselitismo nel campo occupato da tutte altre tradizioni religiose non si basa forse sull´idea che ogni persona e i popoli interi possono essere artefici della loro identità, che non l´ereditano come un fagotto obbligatorio?

B). La civiltà europea come storia solo cristiana è un´idea onnivora, già a prima vista bizzarra. Eppure, è proprio questo che gli apologeti della religione civile cristiana sostengono quando attribuiscono al cristianesimo la primogenitura in tutto ciò che oggi ci pare buono e bello. Si dice, ad esempio, che la democrazia - vanto dell´Occidente - non vive senza condizioni: fiducia reciproca, pari dignità degli esseri umani, senso di responsabilità e di giustizia, tolleranza e rispetto; che tutto ciò è ethos cristiano e che dunque la democrazia è figlia del Cristianesimo. Così, però, si gioca sull´equivoco. L´affermazione può valutarsi diversamente a seconda che per Cristianesimo s´intenda messaggio cristiano o storia della Chiesa.

Limitiamoci al rispetto e alla tolleranza. Certamente, il messaggio cristiano non giustifica nulla che faccia violenza alla libertà. Il Cristo non obbliga nessuno. Nella grande tentazione satanica del deserto (Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13), egli rifiuta la coercizione delle coscienze: rifiuta il comando che costringe, il miracolo che seduce, i beni materiali che corrompono. Nessuna sanzione colpisce chi rifiuta la chiamata, se non un poco di tristezza (Mt 19, 23; Mc 10, 22; Lc 18, 23). La conversione è, per antonomasia, l´atto di libertà della coscienza. Ma chi oserebbe negare che nei secoli la Chiesa abbia invece piuttosto avversato la democrazia e appoggiato ogni sorta di autocrazia, che abbia praticato più l´imposizione che il rispetto delle coscienze? Chi potrebbe dimenticare la violenza di cui è stata dispensatrice in nome della fede che custodiva? Chi può avere la memoria così breve da ignorare che l´unica «libertà» riconosciuta è stata a lungo quella di aderire alla vera religione e che ogni rivendicazione di libertà diversamente indirizzata è stata oggetto di dure condanne?

Le libertà provengono piuttosto dalla contestazione dell´autorità della Chiesa: una contestazione che, in taluni casi, ha preso a base lo spirito evangelico dell´uguale dignità dei figli di Dio per rivolgergliela contro ma, in molti altri, ha avuto radici apertamente razionaliste, immanentiste, teiste, scientiste, atee: in genere a - o anti-cristiane. Senza di ciò, la Chiesa stessa non sarebbe quella che è: la Chiesa che si è disposta ad accettare la sfida del «mondo moderno», cioè del nemico contro il quale per molti secoli aveva militato.

La storia d´Europa non è dunque storia solo cristiana, nemmeno storia cresciuta tutta entro le contraddizioni generate dalle possibilità del logos cristiano.

Non ci sono ragioni d´opportunità o d´opportunismo che giustifichino autentiche appropriazioni indebite, per esempio in tema di diritti umani. Secondo la tradizione cattolica, aristotelico-tomista, il diritto è l´ordine naturale oggettivo, al quale il singolo deve conformarsi. Per la tradizione moderna, che inizia col Rinascimento, la prospettiva si rovescia addirittura e il diritto diventa prerogativa dell´individuo che autonomamente agisce nella società. Scavando nelle controversie tra papato e ordini monastici, nelle glosse dei giuristi medievali e nella filosofia della cosiddetta seconda scolastica, qualche studioso ha rintracciato qua e là rari e sempre discutibili indizi di uso del termine ius in senso soggettivo, invece che oggettivo, e ha concluso che nemmeno la concezione moderna dei diritti può ascriversi a un pensiero diverso da quello cristiano. Tali tentativi di revisione storiografica hanno avuto una ragione di politica culturale precisa, legittimare quella che a molti, all´interno del mondo cattolico, poteva apparire una cesura nelle radici: l´adesione del Concilio Vaticano II allo spirito moderno dei diritti umani.

La fondatezza di questi studi, pur mossi dalle migliori intenzioni, è però più che dubbia. Ma è bastato il tentativo perché ci si sia buttati senza discernimento, non temendo di relegare in secondo piano, quasi come sottoprodotto, i diritti umani sorti dalle comunità riformate, dal razionalismo, dal liberalismo, dal socialismo: diritti che la dottrina della Chiesa ha per secoli condannato e, sotto certi aspetti, ancor oggi condanna nei suoi massimi documenti normativi.

Questa cedevolezza fondata sulla dimenticanza non è solo fastidiosa. È è anche dannosa, perché appiattisce le cose nel più insulso degli accomodamenti, concettualmente e moralmente privo di nerbo. Tutto sembra la stessa cosa. Invece, la dottrina laica dei diritti non è quella cattolica, come risulta da un punto cruciale: per la prima, il limite dei diritti è l´uguale diritto altrui; per la seconda, l´ordine naturale giusto. La differenza è capitale. La prima dottrina mira alla libertà; la seconda, alla giustizia.

Valori diversi e, in certi casi, anche in conflitto, come constatiamo, ad esempio, a proposito del riconoscimento delle unioni al di fuori della famiglia tradizionale: per gli uni, non fanno male a nessuno; per gli altri, sono comunque «disordinate».

Solo mantenendo le differenze si può salvare la ricchezza delle diverse tradizioni: nella specie la tensione alla libertà (contro il quietismo oppressivo della giustizia) e la tensione alla giustizia (contro la prepotenza senza limiti).

C). In ogni caso, il Cristianesimo non è solo istituzione mondana. La riduzione dell´uno all´altra ucciderebbe lo spirito cristiano, espressione della parola divina trascendente ogni concretizzazione storica. Lo spirito cristiano non è una cultura dominante, una scala di valori temporali definita o una forma politico-culturale realizzata. Addirittura, non può nemmeno mai identificarsi pienamente con un´organizzazione confessionale, una chiesa o una «comunione di santi» storicamente determinate.

Sarebbe comunque riduzione mondana, culturale, etica, politica o chiesastica, nella quale il finito pretenderebbe di costringere l´infinito. Una tale riduzione ucciderebbe la speranza nello spirito e la Chiesa, secondo un monito di Soren Kierkegaard, sarebbe addirittura «annientata».

Il Cristianesimo è «spada che divide» il mondo (Mt 10, 34-35; Lc 12, 51-53); è «dal mondo» ma non «del mondo» (Gv 15, 19). Il Cristianesimo come «religione civile» sarebbe una confusione letteralmente anti-cristiana. Il messaggio di Gesù di Nazareth diventerebbe un´ideologia come un´altra, un collante sociale ambiguo e mellifluo, al servizio di ordinamenti costituiti. Per questo, è segno di totale sbandamento, è anzi motivo di scandalo, l´applauso opportunistico che certi «cristiani per fede» (chierici e laici) tributano oggi a certi «cristiani solo per politica».

«La Chiesa è una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino»; essa «è visibile ma dotata di realtà invisibili [...], presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina»: dice il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 771), aggiungendo una splendida citazione da Bernardo di Chiaravalle ove, a commento del Cantico dei cantici, si paragona così la donna amata alla Chiesa: «corpo di morte, tempio di luce [...] Bruna sei, ma bella, o figlia di Gerusalemme [Ct 1,5]: se anche la fatica e il dolore del lungo esilio ti sfigura, ti adorna tuttavia la bellezza celeste». Su questa doppia natura, proprio la Chiesa cattolica ha costruito la dottrina che le consente di passare indenne attraverso errori e anche nefandezze dei suoi uomini.

Essi, per quanto infedeli al Vangelo di Cristo, non ne intaccano lo spirito. Non si giudica il Cristianesimo solo a partire dai cristiani: nonostante i loro peccati, la Chiesa è santa e non per la virtù dei suoi figli ma in virtù dello spirito. Questa tensione è ciò che immunizza la Chiesa - institutio divina ma «sempre bisognosa di purificazione» (Catechismo, n. 827) - dall´effetto mortifero dei suoi peccati. Ma se la Chiesa rinnega la sua dualità? Se i suoi uomini si attribuiscono il pieno possesso dello spirito confondendolo così con quel mondo che essi sono, come potrà non valere anche per la Chiesa la legge inesorabile di tutte le istituzioni «secolarizzate» che si insudiciano della corruzione dei loro membri e, alla fine, ne sono travolte?

All´inizio del terzo Millennio, il papa Giovanni Paolo II ha ritenuto necessario chiedere perdono a Dio per un´impressionante sequela di misfatti della Chiesa cattolica, tutti dovuti a commistioni di fede e potenza mondana. È stata un´ammissione di colpa rivolta al passato ma nulla impedisce di ipotizzare che altre ammissioni domani dovranno ripetersi con riguardo al nostro presente, quando sarà anch´esso passato. Questa è umiltà cristiana. Sbagliare compromettendo nell´errore lo spirito divino, oltre che se stessi, sarebbe invece il massimo dell´orgoglio.

In breve, ricapitolando i tre punti, possiamo dire che la riduzione dell´identità a mera storia è una seduzione tribale; la riduzione della storia europea a storia cristiana, un falso storico; la riduzione del Cristianesimo a Chiesa, un peccato contro lo spirito. Che ne viene, allora? Allora, non limitiamoci a confrontarci su ciò che siamo stati ma ragioniamo soprattutto di quel che vogliamo essere; diamo al Cristianesimo il posto che gli spetta nella storia spirituale europea, non come tutto bensì come parte di un tutto assai più vasto e composito; riconosciamo alla Chiesa il pieno diritto di partecipare, insieme agli altri, alla definizione delle nostre identità collettive, ma in parità morale con ogni interlocutore, senza che il nome cristiano giustifichi una pretesa d´incontestabilità.

Ci sono dei periodi, nella storia di un Paese, in cui la decisione, sia personale che politica, è quella di stare da una parte o dall’altra, perché le strade del percorso comune si dividono e non c’è modo di sovrapporle in un punto benevolmente chiamato “centro”.

Per esempio, a un certo punto della nostra vita personale, l’Italia ha dovuto scegliere tra la monarchia e la Repubblica. Il problema non era se demonizzare il re o celebrare come sola salvezza la forma repubblicana dello Stato. Il problema era se continuare su una strada che aveva portato a risultati tragici, o se intraprendere una strada nuova. Molti onestamente erano incerti. Da ragazzino (e repubblicano) quale ero allora, ricordo che certi adulti preoccupati definivano la Repubblica “un salto nel buio”. Avrebbero voluto stroncare la discussione sul passato sostenendo che un’altra strada verso il futuro era troppo pericolosa.

Altri erano certi, e lo erano con passione, che una nuova Italia libera e democratica doveva per forza buttare dalla finestra, come in un simbolico 31 dicembre, le ingombranti masserizie della monarchia colpevole. Nessuno fingeva che ci fosse un più quieto e giudizioso rifugio a mezza strada. Certe volte il centro non esiste.

Vogliamo un esempio solo in apparenza meno drammatico? È il no di De Gasperi alla alleanza con i neofascisti per le elezioni comunali di Roma del 1946, voluta fermamente da Pio XII per timore che la “città santa” avesse un sindaco comunista. Quel no è stato lacerante e immensamente costoso per il leader centrista De Gasperi. La sua saggezza è stata di capire il senso devastante che avrebbe avuto, sull’Italia appena rinata alla libertà, una decisione che gli veniva raccomandata come “moderata” e protettrice del centro.

De Gasperi non sarebbe mai più stato ricevuto in udienza dal Papa. Non poteva cedere e non ha ceduto. Si è spostato, ha lasciato vuoto il mitico spazio “centro” e ha salvato il Paese. Certe volte il centro non esiste.

Prendiamo il non dimenticato 18 aprile, la clamorosa vittoria elettorale della Democrazia cristiana contro il Fronte popolare dei Comunisti dei Socialisti. In quel momento il mondo andava da una parte o dall’altra, ed era in gioco la dislocazione dell’Italia sull’orlo di quattro rischiosi decenni di guerra fredda. In quella campagna elettorale nessuno ha finto di fare il moderato. Sono stati messi in campo argomenti estremi perché non c’erano punti di sovrapposizione possibile fra una offerta politica e l’altra. Certe volte il centro non esiste.

***

Quando esiste? Forse quando ci sono elezioni (e campagne elettorali e situazioni esistenziali e politiche) talmente noiose che è possibile immaginarle come la bilancia di un farmacista, sposti gli ingredienti un pochino di qua o un pochino di là e ottieni la giusta posizione. Se a quella posizione fosse stato aggiunto un pizzico in più di estremismo, sarebbe diventata veleno.

Nella vera vita io non ricordo situazioni simili, e non credo che sia a causa di una mia interpretazione drammatica degli eventi. Per farmi capire faccio ricorso alla esperienza americana. Tutte le campagne elettorali che ho vissuto in quel Paese sono state contrapposizioni dure, nette, senza mezze misure e sono avvenute anche al costo di spezzare all’interno l’una o l’altra o entrambe le parti politiche.

Si devono accettare i neri e proclamare uguali diritti civili di tutti nella società americana, o tenerli fuori per non fare “un salto nel buio” e rischiare “il meticciato” (era una delle accuse a John Kennedy)? Si deve fare o fermare la guerra nel Vietnam? Bob Kennedy e Johnson, Humphrey e Goldwater si sono giocati la loro vita fisica e politica. Si può tollerare che un presidente (Nixon) menta al Paese, consenta il furto con scasso a danno del partito avversario e violi la Costituzione?

L’America Latina con cui stabilire nuovi legami è quella del generale Videla e del generale Pinochet o è quella della “Alleanza per il progresso” di Carter, che restituisce ai panamensi il Canale di Panama? Volete l’America dei sindacati, del Welfare, delle cure mediche garantite o l’America dei potentati economici che diventano sempre più grandi, delle imprese gigantesche, delle immense bolle speculative, dei lavoratori e dei risparmiatori che devono proteggersi e arrangiarsi da soli nella speranza di diventare ricchi come i ricchi e di ritrovare i diritti perduti attraverso “il merito” dell’accumulo di denaro?

John Kennedy è stato combattuto con odio, al punto che poche ore prima del suo assassinio a Dallas, un ex generale (uno di quelli che avrebbe voluto sganciare la bomba atomica su Cuba) ha piantato davanti alla sua casa la bandiera confederale (quella degli schiavisti) rovesciata, segno di condanna capitale. Carter è stato accusato con disprezzo per non avere fatto la guerra all’Iran che aveva catturato e teneva in ostaggio 68 diplomatici e impiegati dell’ambasciata americana a Teheran. Clinton è stato perseguitato e accusato con decine di inchieste giudiziarie e parlamentari per avere progettato una riforma sanitaria che avrebbe tolto potere all’impero delle assicurazioni private. Nixon, Reagan e Bush figlio hanno diviso (i commentatori americani dicono spesso: “spaccato”) l’America a metà. Bush figlio ha vinto le ultime elezioni attraverso una violentissima campagna di accuse personali al suo avversario John Kerry che pure era un eroe pluridecorato del Vietnam. Non c’è stata in lui o nei suoi consiglieri la minima preoccupazione di smorzare i toni e cooptare un po’ di elettori democratici nell’area mitica del centro. La parola era “guerra”. Guerra in Iraq, come strumento di difesa dal terrorismo. E guerra alla figura, alla vita, alla reputazione del candidato avversario.

***

Credo che i lettori capiscano che in questa riflessione non ha importanza il giudizio su George Bush figlio e sulla sua scelta di campagna elettorale. È solo l’esempio più recente che viene dal Paese del bipartitismo perfetto. Dimostra che vince l’estrema determinazione di mettere fuori gioco il contendente, di far capir forte e chiaro chi è il vero leader, chi ha il controllo del campo. C’era di tutto con Bush, comprese le retrovie del conservatorismo fondamentalista cristiano, politicamente estremista e impegnato in furibonde e antiche campagne contro chiunque non creda nell’insegnamento letterale di una Bibbia pietrificata. Eppure c’è chi ti spiega che ha vinto perché Bush “è moderno”. La modernità consisterebbe nella totale libertà lasciata alle imprese che galoppano indisturbate sopra il diritto di tutti puntando verso un paleocapitalismo privo di argini e diretto verso un mondo alla Dickens.

Questa presunta “modernità” giova a quanto pare al presidente più antico dell’America contemporanea, che viene percepito - nonostante la teoria estrema dell’unilateralismo in politica estera e della assenza di regole in politica economica - come “centrista”. In altre parole, “il centro” viene visto come l’occhio del tifone, un punto limitato e silenzioso dove non tira vento, mentre intorno le trombe d’aria spazzano il territorio.

È ciò che si legge in un interessante articolo di Michele Salvati, economista di valore, sul Corriere della Sera del 17 agosto. Per costruire “il centro” che, lui pensa, sarebbe salvifico in Italia, fa alla fotografia del centrosinistra italiano ciò che si fa in certe famiglie dopo brutte liti: si tagliano le figure degli zii, cugini e suoceri indesiderabili, in modo che i bambini non li vedano più nell’album di famiglia, nemmeno in immagine.

Nella fotografia del centrosinistra italiano che forma, tutto insieme, la coalizione guidata da Romano Prodi, Salvati taglia via i sindacati (dalla Cisl alla Cgil), taglia via un pezzo dei Ds («che si annidano nella pancia del partito ed esprimono le domande di protezione delle regioni rosse, del pubblico impiego, degli artigiani, delle cooperative, del sindacato»), taglia via i militanti «romantici e tradizionalisti della sinistra radicale che ostacolano un processo di riforma adeguato alla bisogna». Taglia via una buona metà della Margherita, taglia via tutta Rifondazione. E lui stesso, da intellettuale e da economista, sa quanta parte della cultura e della visione del mondo sta tagliando, da Paul Krugman ad Amartya Sen, da Alain Minc a Luciano Gallino.

Il metodo della fotografia tagliata è curioso perché svela il legame tra sogno del centro e sistema proporzionale, una vistosa nostalgia emergente. È un luogo di pace instabile e inesistente come l'occhio del tifone (adesso c’è ma poi all’improvviso si sposta) che si realizza solo con sistemi elettorali che ti inchiodano a un “prima” che ben pochi rimpiangono. L’unico pregio di Berlusconi è di averci fatto sbattere la faccia sul “dopo”. In quel dopo, come in tutti i momenti importanti della Storia, e in tutte le situazioni cruciali del sistema maggioritario, le strade si dividono. Con la legalità, con la Costituzione, con la legge uguale per tutti. Oppure con il mondo dei condoni, della grande evasione, dei conti falsi.

Certe volte il centro non esiste. E se esiste, fa bene ad allearsi con una grande coalizione decisa a vincere, senza tagliare le foto di famiglia.

ROMA — «Libero fischio in libero Stato, diceva Sandro Pertini, e io sono assolutamente d'accordo». Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, non si scandalizza per la rumorosa accoglienza che Bologna ha riservato a Giulio Tremonti: «E' sbagliato indignarsi».

Approva il comportamento della folla?

«I fischi sono sempre legittimi, i sassi mai. Invece di scandalizzarsi, bisognerebbe interrogarsi sul perché questo avvenga e avere più rispetto per i sentimenti di persone che da 25 anni aspettano delle risposte».

Quindi, fosse stato in piazza, si sarebbe unito alla contestazione?

«Ci sono mille buone ragioni per fischiare Tremonti, ma è ovvio che stavolta non ce l'avevano direttamente con lui. Ha pagato la colpa di essere un governante, e i governanti sono stati sempre fischiati in quella piazza, e di essere di destra, perché alla destra viene addebitata la strage».

Ma lei avrebbe fischiato o no?

«No. O meglio, avrei fischiato Tremonti solo in quanto rappresentante di tutti i governi dal 1980 ad oggi, compresi quelli di centrosinistra».

Però Cofferati e Bolognesi avevano chiesto una cerimonia composta e anche secondo Prodi sarebbe stato meglio evitare le contestazioni.

«E' andata così, non facciamone un dramma. Invece di insultare chi fischia bisogna capirne le ragioni, tenere conto delle emozioni della piazza».

La Casa delle libertà parla di odio, accusa la sinistra di strumentalizzare queste manifestazioni in funzione anti-Berlusconi.

«Era tutta la piazza a fischiare e comunque anche i governanti di centrosinistra in passato sono stati contestati. Ripeto: è necessario comprendere il clima di sdegno per una strage di cui ancora non si conoscono i mandanti e di cui ora si vorrebbero mettere in dubbio pure gli esecutori».

Si riferisce alla «pista araba» di Cossiga?

«Allora lui era presidente del Consiglio e uno dei massi dirigenti della Democrazia cristiana, è coinvolto in quegli anni terribili in cui la destra faceva politica tirando le bombe contro la sinistra. Se sa qualcosa di vero lo dica, altrimenti abbia il buon gusto di tacere».

Quindi non è d'accordo con chi chiede la riapertura del processo?

«Non mi pare ci siano fatti nuovi. Piuttosto è ora di eliminare il segreto di Stato, cosa di cui il centrosinistra dovrà farsi carico se tornerà al governo. Anzi, mi chiedo perché non l'abbia già fatto».

Ci sono mille buone ragioni per prendersela con Tremonti, ma questa volta ha pagato solo la colpa di essere un governante. Più rispetto per i sentimenti delle persone che attendono risposte da 25 anni

In quattro anni, dal 2001 a oggi, i prezzi dei servizi bancari sono cresciuti del 38%, i prezzi dell'assicurazione sulle auto del 31%, ristoranti e alberghi del 18 e 15%, rispettivamente. I prezzi dei prodotti industriali, invece, sono aumentati solo del 6%, meno di 1,5% l'anno.

Questa diversa crescita dei prezzi si è puntualmente riflessa in una diversa redditività delle aziende. Un'analisi svolta dai ricercatori di Unicredit mostra che nel settore dei servizi il rendimento prima delle imposte (misurata dalla mediana dei rapporti tra utile e patrimonio netto, «roe») è stato, nel 2003, superiore al 20%, con punte del 33% nelle attività immobiliari e nei servizi professionali. Al confronto, la redditività preimposte delle aziende manifatturiere è stata del 13%.

Osservano i ricercatori di Unicredit: «I settori che sono in grado di generare maggiori profitti sono quelli meno esposti alla concorrenza o che operano in regime di quasi monopolio, come le utilities (ove operano la maggior parte delle grandi imprese e che spiega almeno in parte il loro recupero di redditività), mentre i settori più esposti alla concorrenza, in particolare l'industria manifatturiera, ha sofferto una sensibile riduzione degli utili». In Germania, dove l'inflazione è un terzo che in Italia, per salvaguardare il potere d'acquisto dei salari, basta che questi crescano dell'1% l'anno: in Italia devono crescere tre volte di più. Il risultato è che in pochi anni la quota delle nostre esportazioni sul commercio mondiale è scesa dal 5 al 3% e non per colpa dell'euro, perché nello stesso periodo le imprese tedesche hanno guadagnato, se pur leggermente, quote di mercato. E' il trasferimento di ricchezza dal settore produttivo dell'economia a chi vive di rendita che sta affossando l'industria italiana.

Non bisogna poi sorprendersi se molti imprenditori si spostano verso i servizi e se i giovani scelgono corsi di laurea che li avviano a professioni protette.

Perché in Italia c'è tanta acquiescenza verso le posizioni di rendita? Perché è tanto difficile liberalizzare i servizi e spostare la tassazione in modo da colpire meno il lavoro e più la rendita immobiliare e finanziaria? Un po' dipende dal fatto che molte delle imprese protette sono ancora in parte pubbliche. Finché lo Stato incassa ricchi profitti dalle aziende di luce e gas, che interesse ha a privatizzare e liberalizzare? Tassare i cittadini attraverso il caro-tariffe è politicamente meno costoso che tassarli con le imposte. Forse non è un caso che dal Dpef approvato ieri sia scomparso ogni riferimento agli incassi previsti da privatizzazioni.

Ma vi è un motivo ancor più preoccupante. L'Italia invecchia rapidamente e gli anziani vivono del rendimento della ricchezza finanziaria e immobiliare accumulata in una vita. Più aumenta il numero degli elettori anziani, più cresce il partito di coloro che si oppongono a una tassazione favorevole al lavoro e meno alla rendita. Un mese fa il ministro dell'Economia fece una battaglia sacrosanta per ridurre gli oneri sociali, tassando di più case e Bot. Di questa battaglia nel Dpef di ieri non c'è più traccia.

Le elezioni si avvicinano per tutti. Piero Fassino, formatosi a Torino, nel cuore industriale dell'Italia, conosce certamente le fabbriche ma proprio da lui ci saremmo aspettati una posizione più chiara sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese.

giavazzi-f@yahoo.com

Molte delle critiche all´Europa – sia da destra che da sinistra – si basano sull´assunto che in una società e in una politica europeizzate possa avvenire un ritorno all´idillio nazional-statale. Ovunque risuona la lamentazione secondo cui l´Europa è una burocrazia senza volto; l´Europa distrugge la democrazia; l´Europa seppellisce la pluralità delle nazioni. In questa critica, per quanto sommariamente formulata, c´è qualcosa di giusto; essa però diventa problematica in quanto parte da presupposti erronei e si impiglia in una falsa alternativa. Ovviamente, si può e si deve criticare la politica dell´Unione Europea e il suo deficit di democrazia. Ma questa critica è insidiosa se muove dal principio dell´ontologia nazionale: senza nazione, niente democrazia.

Il tarlo si nasconde nella logica nazional-statale (e non nella realtà dell´Europa), poiché in base ad essa un´Europa post-nazionale non può che essere – in termini di pura logica dei concetti – un´Europa post-democratica, secondo il motto: "Quanta più Europa, tanto meno democrazia" (Ralf Dahrendorf).

Questa argomentazione è sbagliata per tutta una serie di motivi – e in essa si possono anche evidenziare le limitatezze dello sguardo nazionale. In primo luogo, i suoi sostenitori disconoscono il fatto che la via dell´Europa alla democrazia non è e non può essere identica al concetto e alla modalità nazional-statali della democrazia, che invece esso applica come criterio all´Unione Europea. In termini storici, l´europeizzazione è qualcosa di concettualmente diverso e questo emerge già dal fatto che l´Unione Europea è costituita da stati democratici, ma a sua volta non è uno stato nel senso tradizionale del termine. Così, in secondo luogo, sorge la questione se i modelli di democrazia sviluppati per lo stato moderno si possano applicare all´Unione Europea o se per la legittimazione democratica della politica europea non vadano applicati altri modelli di democrazia, ossia modelli post-nazionali.

Entrambe le cose, vale a dire l´assolutizzazione del modello nazional-statale di democrazia e il fatto che venga disconosciuta la particolare via storica verso una – certo, ancora del tutto insufficiente – democratizzazione dell´Europa si fondano sulla chimera nostalgica, che assolutizza la dimensione nazionale. Corrispondentemente, questa illusione di un ritorno al buon, vecchio stato nazionale non domina affatto soltanto le menti limitate dei reazionari. Anche gli spiriti più colti e raffinati, così come i teorici politici più riflessivi, si aggrappano a questa fede nazional-statale. Mentre l´Europa e i suoi ex stati nazionali si intrecciano, si mescolano, si compenetrano, cioè mentre nelle società degli ex stati nazionali non c´è più nemmeno un angolo libero dall´Europa, nelle teste regna più che mai l´immaginazione nostalgica della sovranità nazional-statale. Essa diventa uno spettro sentimentale, un´abitudine retorica, nella quale cercano rifugio gli impauriti e i disorientati. Ma non è possibile alcun ritorno allo stato nazionale in Europa, poiché tutti gli attori sono inseriti in un sistema di dipendenze al quale potrebbero sottrarsi solo a costi estremamente elevati. Ormai, dopo cinquant´anni di europeizzazione, i singoli stati e le singole società sono capaci di agire soltanto nella sintesi europea.

La seconda chimera ampiamente diffusa in Europa, ossia la chimera neoliberista, in sostanza muove, come la chimera neonazionale, dall´assunto secondo cui sarebbe possibile e sufficiente integrare l´Europa sul terreno economico. Una progressiva integrazione sociale e politica sarebbe non solo inutile, ma anche dannosa. In base a questa idea l´Europa non dovrebbe essere nient´altro che un grande supermercato che ubbidisce esclusivamente alla logica del capitale. In questo modo, però, si disconosce il fatto che tra la neoliberalizzazione e la neonazionalizzazione dell´Europa sussiste un nesso sotterraneo: la creazione di un mercato europeo, di un´unione monetaria europea e i primi passi verso la costruzione di un comune ordinamento giuridico fanno venir meno proprio quella prospettiva di sussidiarietà che ha legittimato questo progetto europeo, suscitando in molti riflessi difensivi neonazionalistici. Infatti, la retorica della competitività globale ha pervaso la modernizzazione europea. All´insegna dell´ "integrazione dei mercati" si è scatenato il processo di una modernizzazione che cancella confini e fondamenti; esso ha tolto validità alle premesse nazional-statali della democrazia parlamentare, dello stato sociale e del compromesso di classe. Il discorso sulle "riforme" si immiserisce a una progressiva deregulation dei mercati.

Per lungo tempo lo sviluppo neoliberista dell´Europa è stato sostenuto da un consenso delle élites europee, ma fin dall´inizio la cooperazione tra i mercati regolata a livello sovrastatale è stata intesa e praticata come fattore di conciliazione. L´unità realizzata su questo minimo denominatore comune economico e il superamento dei confini nazionali con la "forza dell´economia", generalizzati a soluzione ideale neoliberista, hanno fatto sì che i fondamenti sociali e politici del progetto europeo rimanessero sottosviluppati. Certo, le sinistre europee hanno richiamato i capitoli sociali del trattato di Maastricht, che difendono la giustizia sociale contro il potere dell´economia. Tuttavia, i principi della razionalità economica generano una dinamica esattamente opposta: le possibilità statali di controllo e di organizzazione vengono minimizzate e gli stati membri vengono vincolati a una politica finanziaria, economica e fiscale che lega loro le mani. La cosa più dolorosa è forse la mancanza di mezzi efficaci per contrastare la disoccupazione – anche attraverso la destatalizzazione neoliberista, decantata come miracolosa. Nell´Europa neoliberista l´eliminazione dei deficit di bilancio e il principio della stabilità dei prezzi sono diventati i veri criteri in base ai quali commisurare la crescita o il declino.

Questa Europa minimale neoliberista non ha economicamente senso e non è politicamente realistica. I mercati non vengono soltanto costituiti politicamente, ma necessitano anche di una continua correzione politica per poter funzionare effettivamente. Se queste politiche di correzione dei mercati a livello europeo non sono possibili o non sono volute, a lungo andare ne risentirà non soltanto l´economia europea, ma il progetto europeo nel suo insieme. Infatti, le contraddizioni e le inadeguatezze dell´Europa minimale neoliberista non possono essere neutralizzate politicamente; al contrario, verranno messe allo scoperto e strumentalizzate politicamente in particolare dal risorgente populismo di destra. Esso trae forza, non ultimo, dalla chimera neoliberista, secondo la quale l´Europa potrebbe essere realizzata come un´Europa impolitica dei mercati, che lascia intatti i vecchi contenitori sociali nazional-statali. Con l´allargamento ad Est e con la votazione sulla Costituzione si affaccia la chimera degli Europei, poiché la scelta di campo per una sempre maggiore integrazione comporterà una pesante concorrenza per una Germania e una Francia economicamente indebolite e i veri problemi si porranno ai margini dell´Unione Europea, nei rapporti con i Balcani, con l´Europa post-sovietica e con il mondo arabo e musulmano.

Senza dubbio l´Europa necessita della critica, ma non di una critica cieca dinnanzi alla realtà, nostalgica, basata su chimere. Abbiamo bisogno di una teoria critica dell´europeizzazione, che sia radicalmente nuova ma nello stesso tempo si ponga in continuità con il pensiero e la politica europei. Essa sviluppa a fondo la semplice convinzione che le soluzioni comuni sono più fruttuose dei percorsi solitari nazionali. L´Europa della differenza non minaccia, ma rinnova e trasforma le nazioni e gli stati europei, aprendoli all´era globale. Questa Europa può perfino diventare una speranza per la libertà in un mondo turbolento.

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Il trionfo inglese dell’anatra azzoppata

Né i nostri centristi né i nostri riformisti hanno ragione: chi ha realmente vinto in UK è la sinistra. Da la Repubblica dell’8 maggio

MAGGIOR parte della stampa italiana e dei commentatori politici che ne illustrano le pagine ha salutato il risultato delle elezioni britanniche come una vittoria storica di Tony Blair, il leader che ha conquistato il terzo mandato consecutivo per sé e per il suo partito senza nulla concedere agli elettori del Labour anche se questa inflessibilità gli è costata un prezzo elevato in termini di seggi parlamentari e di carisma personale. "Così fanno i grandi statisti: quando avvistano un obiettivo che coincide con l´interesse generale del paese mantengono la barra del timone e alla fine ottengono rispetto e consenso", questo scrivono ammirati i nostri columnist.

Diversa, molto diversa, è stata invece la valutazione dei giornali inglesi di cui ha dato conto ieri Bernardo Valli con una precisa analisi di quanto è accaduto nella giornata elettorale di giovedì.

Il giudizio pressoché unanime del Guardian, dell´Independent, del Times e dell´Economist è che Blair sia stato ridotto dagli elettori a un´anatra azzoppata, che il suo terzo governo non durerà che pochi mesi e che nel frattempo dovrà cambiare molti punti del programma con il quale si era presentato alle urne. La sua maggioranza ai Comuni, che era di oltre 161 seggi, si è ridotta a 66, la percentuale dei voti ricevuti è arretrata dal 41 al 36 contro il 33 dei conservatori e il 23 dei liberaldemocratici. In sostanza più della metà degli elettori ha votato contro il premier; un dato che i meccanismi dell´uninominale secco non può comunque nascondere e che ha fornito a Blair una scialuppa di salvataggio costruita e guidata dal cancelliere dello scacchiere Gordon Brown, suo successore in pectore molto prima (prevedono gli analisti inglesi) di quanto lo stesso Blair abbia previsto.

I commenti italiani hanno una loro spiegazione: essi badano assai poco al significato inglese delle elezioni inglesi. Gli interessa molto di più trarre un significato italiano. Ma purtroppo per loro commettono un grossolano errore: se trattassimo gli attuali rapporti di forza italiani con la legge elettorale inglese, il Polo berlusconiano sarebbe spazzato via al punto da creare una situazione addirittura imbarazzante dal punto di vista della rappresentanza democratica.

Quanto all´inflessibilità della leadership blairiana i dubbi sono anche maggiori. Il premier riconfermato non deve aver letto i commenti encomiastici dei suoi ammirati cisalpini, visto che, subito dopo il deludente risultato, ha dichiarato: «Ho compreso il messaggio degli elettori. D´ora in poi darò il massimo ascolto alle loro richieste». Si può star certi che lo farà anche perché, se continuasse ad ignorarle, la fronda laburista e l´opposizione liberaldemocratica sarebbero in grado di costringervelo.

* * *

Alcuni politici di casa nostra, sia pure con discordanti e talora opposte finalità, a proposito delle elezioni inglesi hanno sentenziato che nelle urne di giovedì "ha vinto il centro" aggiungendo che Blair ha ottenuto il terzo mandato perché il Labour ha cambiato elettorato e chi lo vota non è più di sinistra. Queste apodittiche conclusioni portano la firma di Follini, di Enrico Letta, di Rutelli, ma anche di Prodi, Fassino, D´Alema (che però non parlano di «centro» ma di «vittoria riformista») e infine di Bertinotti che ovviamente dà alla (supposta) vittoria del "centro" un senso dispregiativo.

Ma di quale centro si tratta? Di quale riformismo? Bisogna stare molto attenti al senso delle parole e alla loro effettiva corrispondenza con i fatti reali. Di questi tempi infatti le trappole lessicali possono produrre danni, errori e fraintendimenti molto azzardati.

I conservatori inglesi non sono un partito di centro.

Rappresentano una destra alquanto ammuffita, poco liberale, pochissimo democratica. Sulla politica estera hanno fornito a Blair più di una stampella ai Comuni. La loro più memorabile battaglia è stata quella contro l´abolizione della caccia alla volpe. Del resto, nel corso di due mandati e mezzo, la "Lady di ferro" fece in loro nome tutto il lavoro che c´era da fare lasciandoli disoccupati per un gran numero d´anni, che non sono ancora interamente trascorsi. Non sono certo di centro i conservatori inglesi, eppure hanno ottenuto un consistente aumento di consensi.

Il che non ha impedito che il loro leader si dimettesse all´indomani delle elezioni: conservatori ma molto perbene.

Qui da noi fatti di questo genere non si sono quasi mai visti (salvo il D´Alema dopo le regionali del ´99).

I liberaldemocratici sono un partito di centro? Formulo meglio la domanda: si collocano alla destra o alla sinistra di Blair? Sulla guerra irachena si sono costantemente schierati contro di lui e contro Bush. È di centro questa posizione? Soprattutto si sono schierati contro di lui perché sulle motivazioni di quella guerra (preventiva) il premier ha mentito al Parlamento. Questa è anche una delle ragioni per cui il 5 per cento degli elettori ha abbandonato il Labour.

Non solo e forse non tanto per la guerra, ma per la menzogna in luogo pubblico con la quale è stata motivata.

Capisco che in Italia un´accusa del genere sarebbe accolta da clamorose risate ma in Gran Bretagna non è così. Chi viene scoperto in flagrante bugia dinanzi ai Comuni viene marcato e pagherà lo scotto. Non si può fare. Ecco perché Blair è un´anatra azzoppata. (Berlusconi, altro che azzoppato, sarebbe da tempo un leader in carriola).

Forse i liberaldemocratici sarebbero di centro nella politica economica? Non mi pare. Diciamo che vogliono servizi pubblici più efficienti e sono disposti, come Blair e come Brown, a stanziare maggiori risorse per sanità, trasporti, scuola, stringendo le spese, a cominciare da quelle militari.

Diciamo (ma lo dicono loro stessi) che sono liberali di sinistra. Dunque, per loro autentica autodefinizione, col centro hanno ben poco a che fare.

Tant´è che nei prossimi mesi li vedremo spesso votare con i laburisti di sinistra contro il governo.

Gordon Brown è di centro? Non direi. Quando si scontrò con Blair dieci anni fa per la guida del partito, Brown aveva il vecchio Labour nel cuore e ce l´ha ancora, così dice.

Con la testa ne ha aggiornato l´approccio sociale: la middle class non è rappresentata dai sindacati e perciò spetta al Labour rappresentarla. La middle class vede che la scuola pubblica inglese è uno sfascio, i trasporti ferroviari privati sono uno sfascio, la sanità alterna punti di eccellenza con punti di degrado, le diseguaglianze non sono diminuite dopo nove anni di governo laburista.

L´economia va meglio che in Europa continentale, ma i timori di recessione lambiscono anche le bianche scogliere di Dover.

Se il vero esponente della middle class è oggi Brown perché Brown è il leader che dà sicurezza alle paure di impoverimento delle frange deboli della classe di mezzo; se Brown è il vero artefice di una vittoria elettorale ottenuta con la somma algebrica d´un consenso alla politica sociale e di un dissenso sulla guerra irachena e sulle menzogne che l´hanno motivata; se queste due affermazioni riflettono la realtà dei fatti, allora è sbagliato affermare che giovedì in Gran Bretagna ha vinto il centro.

Per la semplice ragione che il centro non c´è.

Il centro non c´è più in nessuna società evoluta.

Semmai esistono molti centri che si manifestano in diverse situazioni, si intersecano, si combattono, le stesse persone e gli stessi gruppi sociali sono al tempo stesso su posizioni radicali, moderate, conservatrici, progressiste, pacifiste, interventiste. Non c´è più uno specchio ma un prisma: queste sono le società di oggi.

Due punti restano fermi e costituiscono un discrimine: la spinta verso la libertà che metta a rischio la spinta verso l´eguaglianza e addirittura provochi il suo contrario, è una posizione di destra e non di sinistra. La spinta che soppianti lo Stato di diritto con l´arbitrio della maggioranza non è né democratica né liberale.

Blair ha avuto molti meriti, soprattutto quello di cercare un welfare inclusivo in un´economia dinamica. Ma avuto anche molti demeriti. Soprattutto quello di prendere decisioni di estrema importanza contrarie ai sentimenti e alle convinzioni della larga maggioranza della pubblica opinione. Questo modo di agire non è lungimirante. Non si governano società complesse senza la partecipazione, manipolando il consenso sulla base di bugie e false informazioni.

Il risultato è dunque denso di insegnamenti per tutti.

* * *

Post scriptum. C´è ancora qualcuno che sostiene la tesi di un Iraq dove le cose si stanno mettendo finalmente sulla buona strada. Blair per esempio la pensa ancora così e lo dice. Anche Bush la pensa così, ma questo è ovvio.

Berlusconi non credo abbia ferme opinioni in materia, ma si adegua e promette che i nostri militari saranno presto in condizioni di tornare in patria «naturalmente d´accordo con gli alleati e con il governo iracheno». Il commento più pertinente su questa posizione l´ha fatto Andreotti in Senato in occasione del voto sulla fiducia: «Queste condizioni le vedremo realizzarsi tra qualche generazione».

È giusto non mescolare il doloroso caso Calipari con il ritiro delle truppe italiane dall´Iraq, ma è altrettanto giusto incalzare il governo a predisporre autonomamente la strategia di uscita dall´Iraq fissando

Anche se si trattava di elezioni locali, i risultati delle Regionali hanno messo in luce un vero e proprio andamento di carattere nazionale che va al di là delle specificità del confronto interno alle singole regioni. Ne consegue l'impressione diffusa che il valore politico della consultazione prevalga in larga misura su quello amministrativo. Lo suggerisce specialmente la notevole omogeneità territoriale di molti fenomeni, dalla variazione nella partecipazione all'intensità degli spostamenti di voto, sino, in certi casi, alle differenziazioni tra capoluogo ( ove il candidato del centrodestra ha generalmente più difficoltà) e resto della regione.

Da questo punto di vista, la novità più significativa, rispetto a tante consultazioni precedenti, sta nel fatto che questa volta si sono manifestati dei veri e propri spostamenti diretti da una coalizione all'altra e non solo da e per l'astensione. Ilvo Diamanti ha efficacemente definito questo fenomeno «la fine della glaciazione dell'elettorato italiano» .

Per la verità, alcuni di questi flussi erano già occorsi in occasione delle Europee dell'anno scorso: ma, certo, non in maniera così evidente. Non è dunque un caso, forse, se più di un quinto dei votanti afferma di avere individuato solo negli ultimi giorni il partito da scegliere. E se un altro 13% dice di averlo fatto appena qualche settimana prima.

Quanti manifestano una standing decision , dichiarando di avere deciso «da sempre» la forza politica da preferire, costituiscono ormai solo grosso modo un terzo dei votanti. La mobilità potenziale è assai elevata, così come lo è, di conseguenza, l'indecisione.

La vittoria del centrosinistra è fuori di dubbio. Se si raffronta il risultato di quest'anno con quello delle Regionali del 2000, si rileva che, a parità di partecipazione, complessivamente, il centrodestra ha perduto circa 2 milioni di voti e che altrettanti ne ha guadagnati il centrosinistra.

Ma è errato parlare genericamente di sconfitta del centrodestra. Lo possono fare i politici della coalizione, per evitare di accentuare ulteriormente i conflitti interni. I dati mostrano però come FI abbia subito una erosione molto maggiore dei suoi alleati. La Lega ha addirittura incrementato il proprio seguito. Anche per questo, forse, Fini e Bossi sono assai meno restii di Berlusconi all'ipotesi di elezioni anticipate.

Se poi si raffronta il dato odierno con quello delle Politiche del 2001, si evidenzia anche il ruolo giocato dall' astensionismo, che è tradizionalmente maggiore nelle elezioni amministrative. Anche in questo caso, i dati suggeriscono che esso abbia colpito in misura più ele vata il centrodestra e ancor più FI, mentre il centrosinistra è riuscito in larga parte a recuperare il calo comunque dovuto alla diminuzione complessiva dei votanti con l'afflusso di voti dall' esterno.

E' vero dunque che il consenso per il centrodestra e per FI, in particolare, si è progressivamente eroso attraverso un passaggio verso il non voto da parte degli elettori « delusi » della CdL.

Ma è vero anche che, in questa occasione, esso è diminuito in misura rilevante anche a causa di defezioni verso l'opposizione. Una prima stima, basata sull'analisi dei dati disponibili sin qui, suggerisce che il centrode stra abbia perduto circa il 20% dei consensi ricevuti nel 2001, con una ripartizione grosso modo eguale tra passaggi verso il fronte opposto e verso l'astensione, ma con una prevalenza di questi ultimi.

Resta da chiedersi come mai si sia aspettato il risultato elettorale delle Regionali per prendere atto del fatto che la relazione tra la CdL e l'elettorato si era, ormai da diverso tempo, incrinata.

Già le elezioni Europee, svoltesi grosso modo un anno fa, avevano mostrato come il centrosinistra ottenesse, sia pure di poco (300 mila voti), più consensi di quanto non riuscissero a fare, nel loro insieme, le forze di governo. E, ancora prima, lo evidenziavano i dati di sondaggio, anche quelli pubblicati sul Corriere della Sera . Che, da molti mesi, documentavano il vantaggio dei partiti dell'opposizione in termini di intenzioni di voto e che, anzi, indicavano nelle ultime settimane una sorta di recupero da parte della CdL. Ciò che potrebbe fare ipotizzare che le cose sarebbero andate assai peggio per le forze di governo se, per assurdo, si fosse votato a gennaio subito dopo la delusione (giustificata o meno) conseguente alla promessa riduzione della pressione fiscale. Sembra paradossale che Berlusconi, che ha insegnato agli altri politici l'uso delle ricerche di opinione e ne ha fatto apprezzare l'importanza, questa volta non ne abbia tenuto sufficientemente conto.

ROMA - Se non potesse apparire di cattivo gusto Stefano Rodotà quasi quasi si lascerebbe scappare che tutta la storia di Laziomatica e dei computer del Comune di Roma violati è, dal punto di vista dell´astrazione teorica, la conferma di quanto lui ha sostenuto tante volte in questi anni d´esperienza come Garante della privacy. Dice Rodotà: «Sono rimasto profondamente colpito perché ho avuto la prova empirica che la tutela dei dati personali è uno snodo fondamentale per la democrazia. E deriva da qui l´enorme responsabilità di un´istituzione come la nostra».

È davvero convinto che una brutta vicenda di ladroneria informatica possa essere così rivelatrice?

«Ci sono almeno tre risvolti inquietanti che mi hanno turbato profondamente sin dalle prime indiscrezioni di cronaca. Al gradino più basso c´è la notizia di un grave episodio di pirateria informatica che si manifesta con l´intrusione illegittima all´interno di una banca dati; subito dopo si pone un problema di garanzie visto che la gestione di una materia così delicata era stata affidata dalla Regione Lazio a un soggetto esterno; infine c´è la disciplina dei dati che è condizione fondante per la democrazia. Dell´avvenuta violazione stanno discutendo tutti, della garanzia dei dati si occupa l´ufficio del Garante, ma è necessario che l´opinione pubblica rifletta bene sui rischi di quanto è accaduto».

Perché questa vicenda è così grave?

«Spesso si dice che le norme sulla privacy riguardano fatti e aspetti minori, secondari, strettamente legati alla singola persona, invece il caso Laziomatica dimostra che la protezione dei dati non è fine a se stessa, non attiene al singolo che cerca di proteggere il suo orticello, ma riguarda gli organi che prendono decisioni sulla vita dei cittadini. In questo senso, la disciplina dei dati è alla base del corretto funzionamento della democrazia ed è la garanzia per l´uguaglianza tra i cittadini. Basta pensare alle conseguenze che si scatenerebbero qualora venissero violati i dati relativi alla salute e se, di conseguenza, una persona venisse discriminata a vantaggio di un´altra».

Chi sottovaluta la tutela della privacy compie un grossolano errore?

«Bisogna mettere da parte le tesi riduzionistiche, quelle che vorrebbero meno protezione, dimostrando che il rigore nella tutela dei dati non è un fatto egoistico, ma è di vitale importanza per assicurare un buon funzionamento del sistema politico».

È la ragione che l´ha spinta, nonostante il suo incarico sia giunto alla conclusione, a intervenire ugualmente sulla Laziomatica?

«Ci siamo mossi perfettamente in tempo. Risalgono a mercoledì le prime notizie della violazione, e giovedì era già in programma l´ultima riunione ufficiale del nostro collegio che ha subito deciso di far partire un´ispezione. Si è mosso il nucleo della Guardia di finanza che da tre anni lavora con l´ufficio del Garante. È un gruppo altamente specializzato».

Quest´intervento ispettivo non rischia di duplicare, e quindi disturbare o addirittura interferire, con l´indagine della procura?

«Ma noi operiamo anche per incarico della procura di Roma, e quando i risultati del nostro lavoro saranno pronti, essi verranno subito trasmessi alla magistratura».

Che obiettivo specifico si pone la vostra inchiesta?

«Innanzitutto dobbiamo chiarire le modalità della violazione, scoprire chi ne è il responsabile, quantificare che ampiezza ha avuto la penetrazione nel sistema informatico dell´anagrafe».

Questi non sono gli obiettivi di piazzale Clodio, per cui lavorano anche al Viminale, dove il ministro ha promosso un´indagine?

«Noi dobbiamo andare al di là del fatto specifico. Per questo raccoglieremo elementi per una valutazione molto più ampia e complessiva. Per esempio c´interessa scoprire come fosse configurata la situazione ancor prima dell´intrusione. Chi, all´interno della Laziomatica, era autorizzato all´accesso? E quali categorie di dati poteva ottenere? I dati inaccessibili per i tecnici della Laziomatica potevano essere acquisiti anche da altri ma con accessi legittimi? C´erano sufficienti misure di sicurezza?».

Definirebbe la vostra una sorta di doppia indagine?

«Sì, è una definizione corretta. Da un lato cercheremo di capire come si sono svolti i fatti, dall´altro lavoreremo sul contesto alla luce delle regole che tutelano la privacy. In questa vicenda, tra l´altro, è coinvolta una società privata e ciò rende la nostra attenzione sul trattamento dei dati ancor più scrupolosa. Giusto a febbraio, presentando al Senato la relazione conclusiva del garante, mi ero soffermato sui delicati aspetti dell´outsourcing. Quando, nella gestione dei dati intervengono soggetti esterni all´amministrazione, allora le garanzie debbono essere molto più elevate perché il rischio di distorsioni e di deviazioni è assai più rilevante».

Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdì la giornata più drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo così ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi «legati ai trasferimenti». Avevo imparato a capire che aria tirava dall'atteggiamento delle mie due «sentinelle», i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perché me ne andavo oppure perché restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto «so solo che te ne andrai, ma non so quando». A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: «Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma». Per Roma, hanno detto proprio così.

Ho provato una strana sensazione. Perché quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento più difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era «certo» ora si apriva un baratro di incertezze, una più pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: «Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire». Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Già mi abituavo ad una momentanea cecità. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista più i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. «Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare...tra dieci minuti ti verranno a cercare». Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano così.

Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato...che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un'altra condizione, quella della libertà? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera».

Mi ha fatto togliere la «benda» di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo «Nicola». Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si è seduto al mio fianco. L'autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto...quando...Io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.

L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, «siamo italiani, siamo italiani...», Nicola Calipari si è buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perché. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente è andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta «perché ci sono gli americani che non vogliono che tu torni». Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della più amara delle verità.

Il resto non lo posso ancora raccontare.

Questo è stato il giorno più drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. «Chiedi aiuto a tuo marito», dicevano. E l'ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è cambiata. Me lo raccontava l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due Simone, «la mia vita non è più la stessa», diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perché ho provato tutta la durezza della verità, la sua difficile proponibilità. E la fragilità di chi la tenta.

Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: «Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!». E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. «Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura». E io ribattevo, quasi a provocarli: «E' facile rapire una donna debole come me, perché non provate con i militari americani?». Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore «politico» non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra.

E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei «provocatori». Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: «Dimmi la verità, mi volete uccidere». Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. «Vieni a vedere un film in tv», mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.

I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdì, al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni mattina si alzava alla 5 per pregare, mi ha fatto le sue «congratulazioni» incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo «se ti comporti bene parti subito». Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta «Liberate Giuliana» sulla sua maglietta.

Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?». L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.

Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto?

HA FATTO molta impressione la personalità del nuovo segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, nel corso del suo recente viaggio in Europa culminato con l´incontro con Chirac a Parigi e con gli alleati della Nato e dell´Unione europea a Bruxelles. Una personalità ? è stato unanimemente riconosciuto ? dotata di grande fascino, di una lucidità mentale fuori dall´ordinario e di una evidente capacità realizzatrice.

Che cosa voleva e che cosa ha chiesto la signora Rice agli alleati europei? Due cose soprattutto: che superassero le divisioni del recente passato con gli Stati Uniti sulla guerra irachena e che, d´ora in poi, fossero disponibili a lavorare con il presidente Bush contribuendo alla ricostruzione di un nuovo Stato democratico in Iraq. Non nuove truppe da inviare, ma la preparazione di nuovi corpi militari iracheni necessari a garantire la sicurezza nel paese, nonché la selezione di una classe dirigente capace di autogovernarlo.

Una strategia di uscita dell´esercito angloamericano attualmente non c´è, ha detto la Rice, aggiungendo due corollari che tuttavia fanno a pugni tra loro. Il primo, rivolto agli europei, è stato: «D´ora in poi dovremo decidere insieme». Il secondo: «Ce ne andremo dall´Iraq quando il lavoro sarà compiuto». Ma chi deciderà che il lavoro è compiuto? E di quale lavoro esattamente si parla?

A Washington è opinione comune che per conoscere veramente i dati della situazione bisogna farsi guidare da ciò che dice la vera autorità della Casa Bianca, il vicepresidente Cheney. Mai prima di lui un vicepresidente aveva contato qualcosa. Lui invece è il vero depositario del potere.

Ebbene, Cheney, proprio mentre la Rice era in viaggio tra Europa e Medio Oriente, ha detto qualche cosa di molto preciso su quel famoso lavoro da compiere. Ha detto che esso sarà finalmente compiuto quando le forze armate irachene saranno in grado di garantire la sicurezza interna e anche quella esterna del paese. Esterna. Cioè nei confronti dei paesi confinanti. Cioè della Siria e soprattutto dell´Iran.

Questa precisazione non viene da Condoleezza ma da Cheney. È chiaro tuttavia che entrambi stanno parlando della medesima cosa, anche perché la Rice sul tasto dell´Iran ha battuto e ribattuto più volte.

L´opzione militare nei confronti di quel paese, ha detto la Rice, non è in agenda ma è altrettanto evidente che non può esser tolta dal tavolo e nessuno la toglierà.

Con l´Iran bisogna trattare duramente. Non può permettersi di arrivare sulla soglia dell´arma nucleare.

Infine, sempre nei suoi contatti con gli alleati europei, il nuovo segretario di Stato ha definito con efficace eloquenza la strategia che guida il secondo mandato presidenziale di Bush: gli Usa e l´Occidente unito debbono diffondere nel mondo gli ideali e le istituzioni della libertà e della democrazia aiutando in tutti i modi la caduta dei regimi illiberali e tirannici. Noi siamo certi che a questa missione (è sempre la Rice a parlare) che incarna al tempo stesso i valori dell´Occidente e la sua sicurezza, i nostri alleati europei parteciperanno con piena adesione e con il contributo della loro esperienza diplomatica, politica, culturale.

Il presidente Bush a sua volta è atteso in Europa nell´ultima decade di febbraio. Ricalcherà certamente, ma con la maggiore autorevolezza della carica che ricopre, le indicazioni del suo segretario di Stato. Esalterà con parole ispirate, come è solito fare, la missione salvifica dell´Occidente nel mondo.

Potrà vantare due esiti positivi: le elezioni irachene e la tregua firmata a Sharm el Sheik da israeliani e palestinesi. Sarà certamente ascoltato in tutte le capitali europee con amicizia e rispetto. E poi?

Che cosa accadrà, che cosa dovrebbe accadere poi?

* * *

Ho letto nei giorni scorsi il saggio che sta per esser pubblicato in versione italiana da Garzanti, di Chalmers Johnson, intitolato "Le lacrime dell´impero". L´autore è un americano molto critico della strategia missionaria propugnata da Bush, Rice, Cheney (quest´ultimo in verità più attento agli interessi che ai valori). Mi sembra opportuno trascriverne qualche passo (anticipato sul Corriere della Sera del 9 febbraio) che sottolinea alcuni aspetti di realtà e dà voce ad un settore importante dell´opinione pubblica americana.

"Gli americani amano ripetere che il mondo è cambiato per effetto degli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001. Sarebbe più corretto dire che quegli attacchi hanno prodotto un pericoloso cambiamento nel modo di pensare di alcuni nostri leader. Essi hanno cominciato a considerare la nostra Repubblica alla stregua d´un vero e proprio Impero, una nuova Roma, il più grande colosso della storia, non più vincolato al diritto internazionale, alle preoccupazioni degli alleati o a limiti di sorta nel ricorso alla forza militare.

Un numero crescente di persone comincia ora, in questo nostro paese, a cogliere ciò che in gran parte di non americani già sa, e cioè che gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso da ciò che affermano di essere: sono un moloc militare che punta a dominare il mondo.

Solo con estrema lentezza noi americani ci siamo resi conto del ruolo sempre più importante assunto dalle Forze armate nel nostro paese e dell´erosione dei fondamenti della nostra Repubblica costituzionale per mano del potere esecutivo, vera e propria ?potenza imperiale´.

Il raggio d´azione dell´impero americano è globale.

Nel settembre 2001 il dipartimento della Difesa contava almeno 725 basi militari al di fuori del territorio Usa. In realtà sono assai più numerose perché in molti casi operano all´interno di altre strutture sotto copertura di vario genere. E molte altre ne sono state create da allora.

Ci vorrebbe una rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democratico, per abolire la Cia o anche solo per far rispettare l´articolo 1, sezione 9, proposizione 7 della Costituzione americana: ?Nessuna somma dovrà essere prelevata dal Tesoro se non in seguito a stanziamenti decretati per legge´. Questo articolo è quello che conferisce al Congresso il suo potere e fa degli Stati Uniti una democrazia. Ebbene, per il dipartimento della Difesa e per la Cia come per tutte le altre agenzie d´intelligence quest´articolo non è mai valso.

Il militarismo, l´arroganza del potere e l´imperialismo entrano fatalmente in rotta di collisione con la struttura democratica dell´America e ne distorcono cultura e valori fondamentali".

Questa trasformazione della superpotenza americana in una democrazia imperiale, così lucidamente descritta da Chalmers Johnson, si basa su dati di fatto specifici difficilmente contestabili. È anche vero che la potenza degli Usa nel mondo è cresciuta anche a causa dell´incapacità europea di creare un soggetto unitario e del vuoto culturale e politico che ha provocato l´affermarsi in Europa e in Russia dei due totalitarismi che hanno devastato il continente e violato ogni senso di umanità. Ma è altrettanto vero che la democrazia imperiale cui l´America sembra ormai essere approdata a quindici anni di distanza dalla sua vittoria nella guerra fredda, suscita perplessità o addirittura avversione nel resto del mondo.

La strategia missionaria lanciata da Bush non sembra uno strumento adatto a superare quella perplessità e quell´avversione.

Nell´Europa moderna del resto le vocazioni messianiche non hanno mai avuto fortuna. Non attecchì neppure la rivoluzione francese quando fu portata a cavallo da Napoleone suscitando la nascita dei nazionalismi e la reazione culturale del romanticismo. Tanto meno ebbe fortuna la rivoluzione trotzkista nata dal Manifesto di Marx-Engels, né il leninismo-stalinismo sorretto dal mito dell´Armata rossa e puntellato dagli orribili lager di sterminio. Per non parlare della missione razzista di Hitler, che è addirittura fuori da ogni proponibilità mentale.

Lo Stato etico depositario di una qualsiasi morale cui educare i popoli non attecchisce fortunatamente in Europa, ci vuol altro il resistibile fascino della Rice per renderlo accettabile nella terra di Talleyrand.

* * *

Che cosa dunque si può fare per chiudere finalmente il bubbone mesopotamico e quello palestinese, che nonostante qualche tenue progresso sono ancora pericolosamente aperti?

E che cosa si può fare affinché nuovi e devastanti conflitti non esplodano nelle mani della potenza imperiale ove mai essa fosse tentata ancora una volta dall´opzione militare?

La tregua fra Israele e la Palestina è sicuramente la notizia più confortante di questa agitata fase di errori e di ritardi. Lì le condizioni per un processo positivo ci sono e lì l´unità d´azione tra Usa ed Europa può rappresentare un elemento decisivo. Bisogna arrivare al più presto alla nascita dello Stato palestinese aiutando il negoziato tra le due parti anche attraverso finanziamenti massicci che diano lavoro, dignità e reddito stabile al popolo palestinese e rinsanguino le stremate finanze di Israele. Un vincolo associativo con l´Ue potrebbe anch´esso aiutare una soluzione rapida e duratura dando speranze e prospettive di futuro alla coabitazione pacifica dei due popoli in un così stretto fazzoletto di terra.

In Iraq, nonostante le elezioni, la partita è invece ancora apertissima.

Apertissima col terrorismo, che attizza ogni giorno la guerra civile.

Apertissima con l´emergente potere sciita che reclama uno Stato coranico e con l´autonomismo federalista curdo che già si atteggia a nazione separata.

Si vedono ora gli effetti nefasti e la difficoltà di limitarli, prodotti da chi, scoperchiando il vaso di Pandora, ha consentito il diffondersi di una nube di veleni mortiferi in tutta la regione.

Gli alleati europei possono fare ben poco in quel contesto.

Possono soltanto collaborare alla preparazione delle forze di sicurezza irachene e sollecitare un graduale ritiro delle forze di occupazione. E possono auspicare il riconoscimento di solide garanzie alla minoranza sunnita.

Ma sono parole. I fatti non dipendono da noi e neppure dall´America.

Dipendono dalle tribù irachene, dal clero che le guida, dall´aiuto economico che gli Usa saranno in grado di offrire. L´Europa nel suo complesso non ha voluto questa guerra; il dopoguerra ha confermato drammaticamente che l´Europa aveva ragione. Metterci di fronte ai fatti compiuti perseverando negli intenti missionari è un tentativo patetico che rinvierebbe a tempo indefinito la guarigione della piaga irachena.

Molto, ovviamente, dipende dall´opinione pubblica americana. Pongo qui una domanda di non secondaria importanza: se nella primavera del 2003 Bush avesse chiesto al suo paese e al Congresso di autorizzare la guerra irachena con l´obiettivo di abbattere il regime saddamista, sarebbe stato autorizzato a marciare? E Blair avrebbe avuto disco verde dalla camera dei Comuni? S´inventarono la fola delle armi di distruzione di massa per ottenere quell´autorizzazione. Diversamente la risposta del Congresso e dei Comuni sarebbe stata quasi certamente negativa.

La potenza imperiale, nella primavera del 2003, barò al gioco con l´Onu, con la Comunità internazionale, con l´Europa. Ma soprattutto con l´opinione pubblica del suo paese.

È improbabile che possa farlo un´altra volta se non vogliamo inoltrarci in un ventennio d´immani tensioni costellato da conflitti militari.

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