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L’Aquila è morta, ora. Nessuno si azzarda a stimare quanti soldi, quanto lavoro, quanto tempo servirà per rimettere in piedi una città che, circondario compreso, contava centomila abitanti. Un problema che per adesso non si pone nessuno: la priorità, dicono alla Protezione Civile e al Comune, è risolvere l’emergenza, far uscire prima dell’inverno dalle tendopoli le quasi 20.000 persone ancora alloggiate nei campi, riaprire le scuole. Ma dopo l’emergenza si rischia di trovare un deserto economico, sociale, urbanistico.

Oggi la «popolazione assistita» dal commissario straordinario Guido Bertolaso ammonta a 47.961 persone: 19.857 nelle tendopoli, 18.729 negli alberghi, 9.631 in case private. Di questi 48.000 sfollati, 27.886 vivevano in case attualmente del tutto inagibili (il 30,7% del totale). Circa 15.000 (4500 entro la fine di settembre, altrettanti dopo il 16 ottobre, e poi a seguire) finiranno nei 4950 appartamenti delle C.A.S.E. antisismiche realizzate in 19 aree, alcune distanti anche diversi chilometri dall’Aquila. Altri 5000 circa andranno nelle case sfitte, ne sono state censite 2600; 1000 negli alloggi usati per il G8 nella Caserma di Coppito della GdF. Altri 5000 torneranno nelle loro abitazioni classificate A, ovvero con danni inferiori a 10.000 euro. Il resto andrà negli alberghi o in case affittate utilizzando il contributo di 600 euro al mese della Protezione Civile. E l’emergenza dell’inverno sarà superata con sistemazioni «dignitose e confortevoli», come ha detto Guido Bertolaso.

Numeri che non tranquillizzano molti aquilani, a cominciare dalle associazioni che aderiscono al Comitato 3.32 (l’ora del sisma del 6 aprile) che hanno sempre contestato la filosofia Bertolaso delle C.A.S.E., chiedendo piuttosto di imitare quanto si fece in Umbria e Marche: sistemazioni temporanee in casette/container, ora moderne e abbastanza confortevoli, e contestuale avvio della ricostruzione delle case danneggiate. Una strada considerata ancora percorribile. «Le C.A.S.E. - spiega Sara Vegni, del “3.32” - sono state localizzate senza alcun confronto con gli aquilani e senza alcun riguardo per le esigenze delle persone. La risistemazione degli edifici A, B e C, quelli poco o nulla danneggiati, è completamente ferma anche per le procedure confuse e complesse stabilite dal commissario. Si sta strappando alle sue radici un’intera popolazione, sparpagliandola fra l’entroterra e la costa, e avviando una guerra tra poveri per avere le C.A.S.E.». Guerra tra poveri - 15 mila posti per 23 mila potenziali richiedenti - che verrà resa più spigolosa dai criteri per adesso definiti dal Comune dell’Aquila per l’assegnazione: saranno favorite le famiglie con molti figli, molti anziani, e disposte a coabitare, ovvero per definizione le famiglie di stranieri o immigrati. Una donna single con madre anziana a carico in pratica non avrà speranze. Uno dei molti grattacapi da risolvere per il sindaco Massimo Cialente (Pd), di fatto senza reali poteri di governo in questa fase di emergenza.

Il sindaco Cialente - lo incontriamo emaciato, stanchissimo - è il sindaco di una città che non esiste più. «Era dal terremoto del 1908 di Messina e Reggio - spiega Luigi Vicinanza, direttore del quotidiano abruzzese “il Centro” - che non veniva colpito in modo tanto distruttivo un grande capoluogo». Un capoluogo, spiega l’urbanista Vezio De Lucia, animatore del «Comitatus Aquilanus» (anch’esso contrarissimo alla filosofia Bertolaso), «che era già fortemente diffuso. Ma che viveva grazie a un centro storico eccellente, qualificato, ricco, che attirava 15.000 studenti universitari da tutto il Sud assicurando qualità della vita e buona offerta formativa. Un centro storico che oggi non esiste più né si pensa di riattivare. Con le C.A.S.E. ha prevalso la logica della diaspora».

Ad alimentare l’economia e la vita della città, oltre agli universitari che rendevano L’Aquila tanto vivace, c’era un tessuto imprenditoriale debole, con un polo dell’elettronica già in crisi da anni. Dopo il sisma, le imprese locali non sono riuscite a inserirsi (se non in minima parte per l'edilizia) nelle attività legate all’emergenza. Persino il latte distribuito nei campi viene da fuori, anche la manodopera per le C.A.S.E. non è aquilana, nel circondario sono piovute aziende da tutta Italia. Francesco Manni, direttore dei costruttori dell’Ance dell’Aquila, è ottimista per il futuro: «Avremo spazio e lavoro per tutti, la ricostruzione sarà una cosa gigantesca». Antonio Cappelli, direttore dell’Unione Industriali, ricorda però che ora sono in cassa integrazione circa 7000 persone. E discrimina tra un’industria manifatturiera (elettronica esclusa) che «si è rimessa in moto» e un terziario (specie il piccolo commercio e l’artigianato) del tutto paralizzato.

Molti sfollati non hanno letteralmente i soldi (anche 10-20 mila euro, che verranno rimborsati) da anticipare alle ditte per sistemare le case A e B. Molti terreni agricoli vengono comprati da speculatori, e venduti in lotti dove sorgono casette di legno a blocchi di favelas. E come chiariscono alla Protezione Civile, «la vera ricostruzione sarà un problema immenso, ci possono volere dieci, venti o cinquant’anni». I soldi arriveranno, si spera. Sarà questa la speranza per L'Aquila? «La verità - conclude amaro Vicinanza, che seguì a suo tempo il sisma e il dopo-sisma in Irpinia - è che un terremoto non è mai un’occasione di sviluppo. E’ un disastro e basta».

All'Aquila in questi giorni il clima sta cambiando, di notte la temperatura precipita e presto farà troppo freddo per vivere in tenda. La gente è preoccupata e comincia ad arrabbiarsi, ma tiene ancora la voce bassa: nei campi, luoghi di concentramento coatto dove le persone dipendono completamente dall'assistenza, non ci si può riunire, il regolamento lo vieta. E senza confronto è difficile far emergere il dissenso, soprattutto quando le necessità in gioco sono irrinunciabili. Specialmente quella delle case, che mancheranno a lungo, nonostante le promesse di alloggi subito per tutti. A quattro mesi dal sisma gli aquilani sfollati continuano a essere moltissimi: più di 60.000, di cui 45.000 assistiti tra alberghi, case affittate e, soprattutto, le tendopoli, dove vivono ammassate ancora almeno 20.000 persone.

Tra pochi giorni si conoscerà il numero delle case inagibili. I cittadini residenti in edifici dichiarati tali avevano infatti tempo fino al 10 agosto per presentare la domanda di assegnazione della casa. Ai richiedenti verranno attribuiti dei punti e, sulla base della graduatoria, si farà l'assegnazione. Ma non ci saranno case per tutti. Infatti, solo 13.000 potranno alloggiare nelle palazzine del progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) che stanno sorgendo come funghi nel territorio del comune dell'Aquila. La sorte degli altri, meno fortunati, non si conosce. Per ora non c'è traccia di un concreto piano di requisizione degli alloggi sfitti o invenduti, non danneggiati o ripristinabili, che sono molti e potrebbero ospitare gran parte dei senza tetto. Non solo, gli interventi di recupero degli edifici meno compromessi stentano a partire, da un lato per le contraddizioni tecniche delle diverse ordinanze, dall'altro per i contributi che non arrivano ancora e che, comunque, riguarderanno solo i proprietari di prime case.

Invece, l'unica soluzione abitativa che sta prendendo alacremente forma, per merito degli operai delle ditte subappaltatrici che lavorano fino a notte, è il progetto Case, la new town distribuita sul territorio, tanto sostenuta da Berlusconi e Bertolaso. L'affidamento dei lavori è stato fatto in fretta: in regime di ordinanza si saltano via tutte le prescrizioni legislative sulle aggiudicazioni. Il progetto non prevede una vera e propria nuova città, come si disse all'inizio, ma tanti insediamenti più piccoli e meno invasivi, sparsi però nel vastissimo e assai differenziato territorio del comune dell'Aquila. In teoria una scelta migliore, in pratica uno scempio ambientale che innescherà un processo di allontanamento della popolazione da quel che resta della città. Infatti, molti dei 19 siti individuati dalla protezione civile (di concerto col comune) per le nuove palazzine prefabbricate, poggiate come palafitte sui piloni delle piattaforme antisismiche, non sono vicini alla città, bensì dislocati nella campagna circostante o, addirittura, arrampicati sulle pendici del Gran Sasso. «Il problema è proprio quello del posizionamento. Una localizzazione più razionale e meno attenta agli interessi economici, fondata su un criterio di prossimità alla città e sulla difesa delle specificità ambientali, avrebbe garantito agli aquilani sradicati un minimo di continuità con la propria storia spezzata, il mantenimento dell'identità e, soprattutto della socialità», come ci spiega Antonello Ciccozzi, docente di antropologia culturale all'Università dell'Aquila. Invece, quando si è trattato di scegliere dove collocare i costosissimi insediamenti (circa 3000 euro a mq), «della qualità della vita e del rapporto indissociabile tra esistenza e luogo non si è ricordato nessuno».

Il territorio comunale aquilano non potrebbe essere più vario: non solo il bellissimo centro storico oggi zona rossa interdetta alla popolazione (dove vivevano però circa 6000 persone), l'ampia periferia frutto di un'urbanizzazione non pianificata (nei cui palazzi e condomini viveva invece la maggior parte degli sfollati), la zona industriale a est e ovest, ma anche larghe zone rurali e frazioni montane poco popolate, comprese nel Parco Nazionale. Una di queste è Camarda, sulla strada che sale sul Gran Sasso. Di fronte al paese di pietra arrampicato sul monte stanno cominciando i lavori di Case. Due immense gru dominano il paesaggio, finora protetto dai vincoli del Parco. Le ruspe hanno già sbancato il terreno: resiste solo una quercia secolare, difesa strenuamente dai pochi abitanti del paese. Davanti a Camarda presto sorgeranno 4 o 5 palazzine destinate ai senza tetto aquilani con meno punti, che saranno sradicati da un contesto cittadino e trasferiti all'interno di un vero e proprio non luogo, una tipica periferia suburbana delocalizzata all'interno di una comunità montana «con effetti di completo spaesamento», spiega Ciccozzi.

Se la scelta di Camarda appare del tutto irragionevole, l'insediamento previsto ad Assergi, pochi chilometri più in alto verso il traforo, crea non meno problemi. Anche se l'individuazione del sito tra i monti ha una specie di giustificazione: in quel posto vi erano ancora i resti fatiscenti delle baracche utilizzate, più di vent'anni fa, dagli operai che hanno scavato il traforo, abbandonati dall'ultima impresa impegnata nella grande opera, Impregilo, che non si era curata di bonificare la zona, forse nemmeno dall'amianto. Adesso il progetto Case ha permesso il recupero ambientale: al posto delle baracche sorgeranno i consueti piccoli condomini che, per ora, rovineranno soltanto il paesaggio ma, più avanti, quando tra qualche anno gli aquilani deportati rientreranno a casa, si trasformeranno in contesti degradati, ben più invasivi delle baracche. Il discorso della degenerazione vale per tutti gli insediamenti, anche i più vicini alla città, che si teme diventino, nel tempo, contenitori di ogni sorta di emarginazione.

Nessuno fiata davanti a questo progetto, anzi lo si guarda come una panacea. Il rischio è essere tacciati di disfattismo o, meglio ancora, accusati di esser tutti comunisti. «Qui ci stanno aiutando, mica si può sputare sul piatto in cui si mangia».

Ma dove vanno gli aiuti, ci si chiede seguendo Ciccozzi, che parla della catena distorta della solidarietà e dice che «chi aiuta, alla fine, in varia misura aiuta anche sé stesso». E, richiamando la teoria della Shock Economy di Naomi Klein, spiega che «le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case. Favoriscono il capitalismo di conquista, che subito programma investimenti. Invece bisognava mettere al centro la difesa della qualità della vita, porsi il problema di ricucire la socialità interrotta, tutelare l'identità dei luoghi e delle persone». A chi conveniva il costosissimo Progetto Case imposto dall'alto senza negoziazione? Perché non sono stati espropriati i terreni più vicini alla città, le cui quotazioni cresceranno subito e saranno preda di facili speculazioni? E, soprattutto, perché non si è perseguita la strada della requisizione degli alloggi vuoti, che avrebbe aiutato anche le piccole imprese locali? Ad Assergi, ad esempio, un grande edificio mai completato domina con la sua mole tutta la valle. Un ecomostro da abbattere che, intanto, poteva essere reso abitabile con poco sforzo e gran risparmio di denaro pubblico e beni comuni, in primo luogo il paesaggio.

A causa di una lunga serie di scelte sbagliate, a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali, il terremoto dell'aprile scorso ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile. All'Aquila e nel resto del territorio hanno avuto la peggio chiese e edifici che da sempre rappresentano i picchi di vulnerabilità dell'intera area

Nella Cronica di Buccio di Ranallo, il più importante scrittore aquilano del XIV secolo, si racconta in versi la storia della città dell'Aquila, la cui fondazione risale alla prima metà del Duecento, quando furono riuniti in un solo centro gli abitanti di numerosi castelli sparsi sull'altipiano (novantanove secondo la leggenda, come le cannelle della famosa fontana). Da questa unione tra le genti derivò l'impianto originario dell'Aquila: tanti rioni uno accanto all'altro, ciascuno con una piazza, una chiesa, una fontana, le case.

Ferite nel tempo

Tra i fatti più salienti che Buccio richiama nelle sue quartine, spicca il terremoto del 1349, che solo all'Aquila fece più di ottocento morti, distrusse le mura, le case e le chiese e costrinse, come oggi, la popolazione a abbandonare l'abitato. Gli scienziati e gli storici hanno potuto ricostruire che quel funesto terremoto ebbe un'intensità pari al grado 6.5 della scala Richter e produsse danni valutabili attorno al decimo grado della scala Mercalli. Valori dunque leggermente superiori a quelli del terremoto che il 6 aprile scorso ha colpito l'Abruzzo, provocando, oltre alle vittime e ai gravissimi danni, anche nuove e forse insanabili ferite al patrimonio culturale.

Inventariando queste ferite, per valutare i costi e le possibilità di un intervento di recupero ancora tutto da progettare, osservando lo strazio e le macerie delle chiese, dei palazzi e dell'edilizia minuta, che insieme componevano il tessuto abbastanza compatto del centro storico aquilano, è inevitabile notare che mai come in questo caso la tragedia consumata fosse prevedibile se non addirittura annunciata. E non per lo sciame sismico che ha preceduto le scosse del 6 aprile o per i timori del ricercatore Giuliani. Lo prova il quadro delle lesioni e dei crolli del patrimonio culturale, che ricalca quello generato degli eventi sismici precedenti. Ma gli esperti della Protezione civile, che si erano riuniti proprio all'Aquila il 31 marzo per rispondere in modo tecnico alle preoccupazioni crescenti, avevano stigmatizzato l'allarmismo senza approntare alcun piano di sicurezza. Nessuna precauzione, benché L'Aquila sorga in uno dei territori a maggior sismicità della penisola e la sua storia sia profondamente segnata dai continui terremoti ricordati dalle fonti. Ripercorrere l'elenco è istruttivo: 1315, 1349, 1389, 1455, 1459, 1461 (che rase al suolo il paese di Onna e fu analogo per intensità a quello del 1349), 1501, 1646, 1672, 1762, 1789, 1848 1874, 1895, 1915 (che provocò più di 33.000 morti nella sola Avezzano) per arrivare a quelli più recenti.

Cattedrali in pericolo

Il più grave di tutti fu probabilmente il terremoto del 1703, che contò circa ottomila morti e che venne anticipato da un lunghissimo sciame sismico, proprio come oggi. Le violente scosse (6,7 della scala Richter con danni superiori al decimo grado della scala Mercalli), già in gennaio fecero crollare molte chiese: i cronisti ricordano in macerie san Quinziano, san Pietro di Sassa e san Pietro di Coppito, viste in frantumi anche oggi. A febbraio, un'altra scossa diede il colpo di grazia, facendo crollare anche le capriate del tetto della chiesa di S. Domenico, che rovinò sopra a centinaia di fedeli raccolti per la funzione. Oggi la chiesa di S. Domenico sta collassando di nuovo, anche per colpa degli interventi di restauro che hanno appesantito la copertura e irrigidito la sommità delle murature con un cordolo in cemento armato. Allora vennero giù le chiese di San Bernardino che oggi ha perso il campanile ed è lesionata nella zona absidale; San Filippo, la Cattedrale, Sant'Agostino, S. Francesco: le principali chiese della città, che abbiamo visto cedere nuovamente sotto i colpi del sisma di aprile. La cattedrale in particolare, apparentemente integra, rivela al suo interno la rovina del transetto.

Dall'altro lato della piazza, tra le più grandi e belle d'Italia, si affaccia la chiesa di santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, costruita dopo il terremoto del 1703 anche con il concorso di Valadier, che ne progettò la cupola. Proprio la cupola non ha resistito al trauma e versa in pietose condizioni, parzialmente recuperate da un tecnologico intervento di messa in sicurezza coperto da un leggerissimo ombrello, destinato a diventare uno dei simboli della macchina dei soccorsi guidata, in questi quattro mesi, soprattutto dagli ingegneri, che hanno anche progettato le puntellature dei vigili del fuoco. Invece, la grave e ininterrotta storia sismica dell'Aquila avrebbe dovuto produrre particolare attenzione nelle scelte costruttive e di restauro, negli indirizzi politici e culturali e, soprattutto, nella prevenzione del rischio: fatta di saggia valutazione della vulnerabilità, di opportuni presidi e di continua e paziente manutenzione. Ma la città, classificata fin dal tempo del terremoto del 1915 tra quelle più sismiche del paese, era stata in anni recenti declassata dalla zona 1 di massima pericolosità alla zona 2 di sismicità media, alla quale si attribuisce minor rischio e conseguenti minori limitazioni, soprattutto dal punto di vista costruttivo. Diminuire il grado di rischio comportava costi più bassi per l'edilizia e consentiva criteri diversi, assai più permissivi, ad esempio riguardo all'altezza dei nuovi edifici, subito cresciuti anche nelle zone meno sicure della città (l'area di Fossa ad esempio, dove si sono polverizzati i palazzi più recenti, tutta cava all'interno, come d'altronde dice il nome stesso).

Forse anche in ragione di queste scelte (a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali), il terremoto di aprile ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile sia all'Aquila che nel resto del territorio dove, come sempre, hanno avuto la peggio gli edifici storici scarsamente conservati e le chiese che, nella maggior parte dei casi, rappresentano, per ragioni strutturali e morfologiche, i picchi di vulnerabilità dell'intera area. Nonostante gli sforzi individuali e collettivi, la solidarietà e la partecipazione, il sisma ha rivelato, purtroppo, anche i limiti e l'impreparazione delle istituzioni deputate alla tutela del patrimonio. A fronte del ripetersi, quasi secondo copione, dei terremoti nel nostro paese, il ministero per i beni e le attività culturali non è riuscito a strutturare nel tempo un modello di gestione del patrimonio culturale nell'emergenza sismica. Facendo, ad esempio, tesoro delle esperienze passate, come quella del terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche.

Solidarietà e limiti istituzionali

Da anni si ripete che ci sarebbe bisogno di una squadra operativa aggiornata, cresciuta sul campo nel corso delle precedenti emergenze, pronta a entrare in gioco al fianco della Protezione civile al momento del bisogno e in grado di trasmettere rapidamente istruzioni e competenze ai tecnici presenti sul territorio colpito, depositari, viceversa, di conoscenze indispensabili per affrontare la specificità della situazione. Ma questo non è mai stato fatto e ogni volta si riparte da zero, senza le preziose competenze ma con la contrattazione sindacale che permette a tutti, esperti e no, di partecipare al «progetto sisma». Specialmente in questa occasione, tanto pervasivamente gestita dalla Protezione civile, che ha monopolizzato ed occupato fisicamente ogni spazio, anche quelli di pertinenza del Mibac. Anche nel campo dei beni culturali, infatti, si sta compiendo, nel laboratorio emergenziale dell'Aquila, l'esautoramento delle istituzioni pubbliche, statali e non, a favore del corpo scelto della Protezione civile, che prende in carico tutto: le scelte calano dall'alto, non c'è partecipazione diretta del ministero deputato alla tutela, tantomeno delle soprintendenze locali che presidiano il territorio. Per la prima volta il vicecommissario straordinario per i beni culturali non è nei ruoli del Mibac ma dipende direttamente dalla Protezione civile. D'altronde anche il ministero sta subendo la stessa sorte di lenta ma progressiva dismissione, tra commissariamenti e drastiche riduzioni di risorse. Per l'ufficio del vicecommissario lavorano sia i tecnici delle Soprintendenze abruzzesi che quelli degli altri uffici del ministero che a turno contribuiscono alla prima speditiva valutazione dei danni, che ha l'obiettivo di fornire anche un'indicazione economica di massima, utile a prevedere le coordinate del piano di recupero.

Ma nessuno ha un quadro completo, neppure settoriale: secondo una logica eterodiretta, si procede in maniera puntuale, senza aver chiari gli obiettivi generali, se pur ci sono. Anni luce di distanza dalla necessaria multidisciplinarietà sperimentata ai tempi del Gruppo nazionale difesa terremoti del Cnr, quando si discuteva dell'opportunità di protocolli operativi e schede di rilevamento danni anche per il patrimonio artistico (beni mobili e apparati decorativi fissi) e non solo, come adesso, per i contenitori architettonici, le chiese ed i palazzi. Manca il confronto, sotto il tallone di ferro della Protezione civile, e la partita è grande e davvero difficile.

Scelte tragiche

Non si tratta, naturalmente, di restituire L'Aquila così com'era ai suoi cittadini, come ha promesso il presidente del consiglio, bensì di studiare un piano di ricostruzione che conservi il più possibile ma non si accanisca terapeuticamente sugli edifici crollati: abbia il coraggio di demolire con coscienza laddove inevitabile. All'opera ci dovrebbero essere non solo gli ingegneri ma squadre di architetti, pianificatori, urbanisti, restauratori e storici dell'arte, che potrebbero, in tempi rapidi, progettare insieme la nuova città.

Il problema vero e critico riguarda infatti i centri storici (soprattutto quello aquilano, ma il discorso vale anche per il territorio), in cui le emergenze monumentali e gli edifici vincolati non sono isolati, bensì connessi da una fitta trama di edilizia minore. Questo è il punto chiave di cui non parla nessuno. Forse si potrà restaurare la cupola delle Anime Sante ma certo non l'edilizia storica minuta, costruita con materiali poveri malamente conservati. La partita da giocare è quella della ricostruzione e riconnessione del tessuto storico: il rapporto tra architettura contemporanea e ferite aperte della città, progetto e memoria. Nel centro storico vi saranno, inevitabilmente, dei buchi che dovranno essere studiati e riempiti senza ripetere gli errori del passato.

Per far questo bisognerebbe unire tutte le forze. Invece, mentre da un lato vertici centrali dell'amministrazione che tutela il patrimonio culturale consegnano la gestione dell'emergenza alla Protezione civile, dall'altro il mondo dei musei si è mosso in autonomia. Il presidente dell'International Council of Museum (Icom) Italia ha chiesto a tutti i soci solidarietà con l'Abruzzo e i suoi beni culturali colpiti. Sulla base di un protocollo di intesa con Legambiente, che già in passato si è distinta con interventi in favore del patrimonio culturale danneggiato dal sisma, Icom indica ai soci la strada maestra del volontariato. Legambiente, intanto, si propone e viene accreditata dalla Direzione che coordina, solitamente, l'attività locale delle Soprintendenze.

Dove il ministero fatica a mandare personale qualificato, l'associazione supplisce e entra in gioco con le sue strutture di volontari con la pettorina gialla (finora 300) che si lanciano al recupero e messa in sicurezza dei beni mobili danneggiati (circa 1300). Straordinario l'impegno dei ragazzi, dei quali qualcuno avrà ben valutato le competenze, che sostituiscono operativamente gli specialisti e i tecnici.

Alla fine i volontari vuotano chiese, palazzi e musei mentre i funzionari si impegnano a schedare i beni vincolati coinvolti (a oggi circa 1600 schede) per valutare il danno e fornire cifre di riferimento alla Protezione civile, secondo indici previsti dagli ingegneri delle università accreditate, che si occupano di danni sismici. Che poi sono le stesse che producono i progetti della messa in sicurezza e, a lungo andare, anche del recupero dei monumenti. Ma quali monumenti? La prospettiva della ricostruzione cozza contro gli ostacoli e i tempi lunghi imposti dalla smisurata messe dei danni. Il Presidente del Consiglio, rifiutando sulle prime gli aiuti internazionali, aveva detto che gli stati stranieri avrebbero potuto adottare uno dei monumenti colpiti. Da parte sua, il ministro Sandro Bondi ne aveva subito individuati quarantacinque, in pessime condizioni, anche per colpa di poco opportuni interventi di restauro recenti, basti osservare la fiancata della chiesa di San Marco, che si sta aprendo come un fiore e dentro è un cumulo di rovine, per capire come i carichi di cemento armato abbiano contributo al dissesto. L'edificio sarà ingabbiato da un ponteggio, frutto della donazione del Veneto. Solo l'intervento di messa in sicurezza costerà 240.000,00 euro: i restauri chi lo sa, magari venti volte tanto.

Il calcolo, a spanne, di quanto servirà per restaurarli parla di 450 milioni di euro, che non si sono ancora trovati, nonostante gli impegni a parole. Su queste cifre bisognerebbe cominciare a riflettere, date le precedenti esperienze di mala gestione dei finanziamenti per la ricostruzione. Chi realizzerà i restauri? Chi valuterà i progetti? Chi gestirà gli appalti, in regime di ordinanza? E, soprattutto, quanti anni ci vorranno?

Lo studio di Vezio De Lucia sul centro storico e sui guai provocati dai nuovi insediamenti. - Un libro di Giovanni Pietro Nimis, che curò il recupero dei paesi distrutti in Friuli nel 1976

L’Aquila aveva 54 mila abitanti nel 1951. 72 mila il 6 aprile scorso, quando fu distrutta dal terremoto. Nello stesso arco di tempo in cui la popolazione cresceva del 25 per cento, il suolo urbanizzato è esploso: da 590 a 3.100 ettari, oltre il 500 per cento in più. Sono numeri che impressionano, ma non diversi da quelli di altre città italiane. Con i nuovi quartieri previsti dal piano di ricostruzione - 20 insediamenti per 15 mila persone, 3 mila a settembre e il resto a novembre - questo meccanismo di una città che deborda e invade il territorio è in qualche modo programmato, viene stabilizzato. Risorge l’idea delle new town, molto criticata dalla cultura urbanistica quando Silvio Berlusconi ne parlò. «Invece che una, di new town ce ne saranno 20», dice Giovanni Pietro Nimis, l’urbanista che fu artefice dei piani di recupero di Gemona e Venzone, due dei principali comuni friulani distrutti dal terremoto del 1976 e la cui rinascita è spesso indicata come esemplare.

Nimis ha scritto un libretto, Terre mobili. Dal Belice al Friuli, dall’Umbria all’Abruzzo (Donzelli, pagg. 110, euro 14, introduzione di Guido Crainz), che confronta i diversi modelli di ricostruzione, addebitando a quello abruzzese il ritorno a un usurato centralismo - tutto nelle mani della Protezione civile - che risale alla fallimentare vicenda del Belice. Spiega Nimis: «I nuovi villaggi mescolano emergenza e ricostruzione e creano una situazione malata, che sembra solo voler stupire con promesse capaci di vincere le ragioni del tempo e dello spazio, cancellando l’esperienza del Friuli e dell’Umbria, dove erano state le Regioni a intervenire, delegando a loro volta ai Comuni».

In Friuli, racconta Nimis, la gente venne alloggiata nelle tende, poi si passò ai prefabbricati e nel frattempo si ricostruirono i centri storici, dov’erano e com’erano - si disse allora. Nessuno però immaginava di resuscitare i nuclei antichi «riproducendo in pochi anni la patina di secoli di storia». Quello slogan aveva anche un sapore terapeutico. «Era un proponimento enigmatico e generico», lo definisce Nimis, «ma nello smarrimento apparve l’alternativa efficace contro le proposte di chi farneticava di città ideali, di rifondazioni ex novo, di trasferimenti altrove».

Nell’inverno furono installati 20 mila alloggi provvisori e dopo dieci anni «nei centri storici erano state recuperate le strade corridoio, le quinte edilizie, le piazze. Com’erano e dov’erano: si fa per dire, perché era comunque scontata l’inautenticità». Progettare divenne una pratica sociale. Sollecitò una partecipazione popolare quasi frenetica. «Per ogni decisione era diventata obbligatoria l’approvazione di assemblee popolari: senza quella copertura i consigli comunali non deliberavano nulla». Erano gli anni Settanta, anni di grande fervore democratico (come sottolinea Crainz). Per Nimis non fu tutto rose e fiori. Per esempio si allargò lo scarto fra lo scopo individuale, richiesto nelle assemblee, di ricostruire le case, e l’interesse sociale di ricostruire le aree pubbliche. Inoltre riproporre tutto impedì di bonificare le aree periferiche cresciute male dagli anni Sessanta. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

A L’Aquila la strada intrapresa è diversa. Gli abitanti vengono poco coinvolti e le proteste si moltiplicano. Inoltre dalle tende si dovrebbe andare direttamente in case semidefinitive. Ma che tipo di città prefigurano i 20 nuovi quartieri sparsi nel territorio? È quel che stanno studiando Vezio De Lucia e un gruppo di collaboratori (fra gli altri, il sismologo Roberto De Marco e gli architetti Georg Frisch e Paolo Liberatore), ai quali si devono i dati citati all’inizio sull’espansione della città. «Dal dopoguerra L’Aquila è esplosa in tutte le direzioni formando innumerevoli nuclei periferici», spiega l’urbanista, che dopo il terremoto del 1980 diresse a Napoli la prima fase della ricostruzione. «I nuovi insediamenti frammenteranno ulteriormente la città, con costi drammatici per i collegamenti e per il buon funzionamento dell’organismo urbano».

Nel capoluogo, secondo i calcoli di De Lucia, gli edifici inagibili sono 8.748, molta parte dei quali - 1.855 - nel centro storico. Il che vuol dire 13.258 appartamenti: «È questa la domanda di alloggi espressa dalla popolazione de L’Aquila». Ma le case in costruzione «soddisferanno meno di un terzo di quella domanda».

E nel frattempo il centro storico resta inaccessibile. Italia Nostra ha chiesto che tutto il nucleo antico della città sia vincolato. Ma, insiste De Lucia, nel centro storico «non sono state attuate misure di protezione neanche per tutti gli edifici monumentali. Gli immobili danneggiati sono avviati alla rovina. L’architrave spezzata sulla quale si legge "Palazzo del governo" certifica l’irresponsabile sottovalutazione del recupero». Tutte le energie sono destinate ai 20 nuovi insediamenti. «Nel 2001», continua De Lucia, «circa 9.500 persone vivevano ancora nel centro storico, per cui la dispersione era comunque controbilanciata. Ora non più».

Torna alla memoria il fantasma del Belice (1968). «Fu l’ultimo caso di approccio centralistico», ricorda Nimis. Un modello, ha raccontato l’urbanista Teresa Cannarozzo, che si accostava alle linee generali della politica per il Mezzogiorno, quello fallito delle cattedrali nel deserto. La ricostruzione prevedeva rifondazione di paesi e industrializzazione. I comuni vennero esautorati. Ma dopo dieci anni non era ancora iniziato nulla. I paesi distrutti - Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa - erano compatti, percorribili a piedi. I nuovi insediamenti, invece, misuravano anche tre volte quelli vecchi. Nel frattempo i centri storici marcivano. La grande mobilitazione popolare organizzata da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera cercò di fronteggiare una politica ottusa, nazionale e locale. «Ma forse per quella politica c’era persino una giustificazione, non essendoci precedenti modelli», dice Nimis. Ora le esperienze, fallite e riuscite, qualcosa dovranno pur insegnare.

Spenti i riflettori sul G8, smontato il circo di Coppito, L'Aquila vive a due tempi. Quelli frenetici di undici villaggi in costruzione e quelli morti delle tendopoli: nei cantieri del progetto C.a.s.e. si lavora senza respiro per inaugurarne un paio entro settembre; sotto le tende si muore di caldo, si litiga, si attende. Una doppia vita sotto l'impero di Bertolaso, profeta dei due tempi: le C.a.s.e. arriveranno presto, la ricostruzione aspetterà a lungo.

Millecinquecento operai costruiscono, violando regole infortunistiche e contrattuali, le abitazioni che permetteranno a Berlusconi di passare alla storia come l'uomo che in pochi mesi ha «dato una casa arredata ai terremotati». Ventimila sfollati aspettano accampati, depressi e alienati, di partecipare alla gara d'assegnazione, sapendo che almeno la metà di loro non troverà posto nei New Village voluti da Bertolaso. Tra cantieri e tendopoli si muovono altre migliaia di persone vincolate a un tempo indefinito e schizofrenico, perché serve un gran muoversi per conquistarsi la vita quotidiana: ogni giorno fanno la spola tra gli alloggi trovati sulla costa o nei paraggi per lavorare, subire la cassa integrazione di industrie in difficoltà già prima del 6 aprile, spendere ore per ottenere il più banale dei permessi da una burocrazia sparpagliata in decine di container, mangiare un panino o un piatto freddo tra tavole calde, bar e chioschi i cui abusi edilizi sono prolificati insieme agli affari di chi il 7 aprile si è fatto spazio. Viale della Croce Rossa è il nuovo asse centrale di una città sempre più simile a una periferia rumena. Solo i palloncini volanti del McDonald appena riaperto la rende un po' americana, ma di quell'America profonda - povera e frantumata - delle cittadine minerarie dismisse.

Cantieri fuori controllo

Cese di Petruro, Bazzano, Sassa: qui i New Village sono a buon punto. Entro la fine di settembre vi abiteranno 3/4.000 persone, il numero dipenderà dalla classifica che scaturirà dai criteri d'assegnazione, da quanto la corsa al tetto spingerà i nuclei familiari ad allargarsi a dismisura. Fino al sovraffollamento, perché vincerà chi avrà più punti e i punti saranno attribuiti secondo criteri anagrafici (i bambini valgono molto, i vecchi molto meno). Dal primo agosto sarà pronto il «bando comunale», a settembre la consegna delle prime chiavi: con l'inverno incombente e i posti insufficienti, sarà naturale coptare parenti di secondo o terzo grado, pur di fare punti. Il guaio è che gli alloggi più grandi avranno una superficie di 70 mq e lì bisognerà vivere per un bel po' d'anni, anche uno sull'altro. Oppure bisognerà andarsene, prendere il contributo di 400 euro per un affitto nei paraggi, visto che il centro storico e un bel po' delle case popolari costruite tra gli anni 60 e 70 resteranno inagibili a lungo, mentre i puntellamenti - edifici storici a parte - se li fa per conto proprio solo chi ha i soldi per pagare «interventi privati».

Ma, intanto, gli occhi sono puntati sugli undici cantieri in attività, la cui frenesia fa quasi dimenticare che sarà ben difficile raggiungere l'obiettivo dei 14/15.000 posti prima della fine dell'anno, mentre entro ottobre le tendopoli - causa freddo - dovrebbero essere smantellate; così bisognerà trovare soluzione d'emergenza per un bel po' di persone. Ma in quest'estate d'attesa i giornali locali si scaldano con i tetti quasi pronti di Bazzano e Cese, con il gran lavoro dei 1.500 operai. Le ditte che appaltatrici esultano: pagamenti a 60 giorni, dei 700 milioni di spesa prevista 450 sono già stati assegnati, mano libera sulla forza-lavoro. Un paradiso per aziende - come la Taddei, dal metalmeccanico alle costruzioni - che rivendicano orgogliosamente l'inesistenza del sindacato in casa loro. E' così che fioccano i subappalti, ingaggiando lavoratori che vivono in apnea (il sud è un pozzo senza fondo) senza quasi sapere dove si trovano di preciso e disponibili a lavorare a qualunque costo. Anche su tre turni giornalieri («giorno e notte», incita Berlusconi) in un settore in cui è vietato senza una deroga sindacale, quando piove (anche questo sarebbe vietato), nascondendo gli infortuni che invece fioccano: ce ne sono stati almeno due gravi, prontamente celati. Molti di questi lavoratori dormono e mangiano in cantiere per non perdere tempo - a Sessa c'è un dormitorio che accoglie anche quelli di Bazzano -, senza badare alle regole anti-infortunistiche. Nel nome della fretta e dell'emergenza si passa sopra a tutto, si lavora nell'illegalità e sempre: «Al primo giorno d'assenza sei fuori», racconta un edile che non ha potuto partecipare alla comunione della figlia, qualche domenica fa. «E tutto questo per un'operazione di propaganda di un uomo solo al comando», commenta Rita Innocenzi, segretaria della Fillea-Cgil, nella lacerante contraddizione di una terremotata che si occupa del lavoro edile e che considera il progetto C.a.s.e. «una truffa mediatica che distruggerà la città e dilazionenà all'infinito la ricostruzione». In teoria la sindacalista dovrebbe essere contenta di vivere in quello che per il premier sarà «il più grande cantiere d'Europa». Non è così. «Qui a L'Aquila - dice - si sperimenta un modello che vale per tutto il paese: zero partecipazione, persino zero concertazione». Anche Rita ha la casa inagibile, fa la pendolare dalla costa al capoluogo e non sa dove andrà a vivere tra qualche settimana. Problema condiviso da tanti, ma separatamente.

Abbandonati in tenda

Nell'area del «cratere» - da qualche giorno allargato ad altri otto comuni - la tendenza è a cavarsela con le «casette». Molte sono «autoprodotte» da singoli che non si affidano al progetto C.a.s.e., molte arrivano dal Trentino, spesso sono offerte e costruite proprio dalle autorità di quella regione: a Onna, San Demetrio, Villa Sant'Angelo batteranno sul tempo l'inaugurazione dei primi New Village di Bertolaso. Più o meno la stessa scelta è stata fatta per le scuole (prefabbricati), mentre per l'Università dell'Aquila - la «principale azienda» della città - il punto non sono le sedi di facoltà, rimediate qua e là tra ex caserme e palazzi pubblici, quanto gli studenti. Prima del terremoto la metà degli iscritti erano fuorisede, ora dovranno alloggiare tra Avezzano e Sulmona, perché i loro antichi «tetti» sono quasi tutti inagibili: vivevano nelle «seconde case» del centro storico, quelle per cui non sono previsti rimborsi e che - semmai - finiranno nelle braccia di Fintecna. Così si prospetta un nuovo pendolarismo e molti credono che ciò determinerà il declino dell'Ateneo aquilano. Il cui sviluppo aveva portato con sé un «indotto» di socialità che il terremoto ha spazzato via con la chiusura del centro storico. Adesso, la sera, i giovani rimasti in città si danno appuntamento all'Aquilone, centro commerciale Conad-Leclerc.

Non ci vanno in molti, perché non è il massimo della vita e perché nessuno viene più a passare le serate all'Aquila dai paesi del circondario. Non ci va soprattutto il popolo delle tendopoli, composto in gran parte da anziani, non-italiani, poveri. Quelli che non hanno dove andare. Quelli che passano le loro giornate in un'alienante far nulla. Il trauma del terremoto è stato progressivamente sostituito da una situazione di «sospensione», in cui si alternano depressione e ira. Si litiga per un telo parasole, ci si dispera per quei black out elettrici che fanno saltare l'aria condizionata e trasformano le tende in forni a 40 gradi e passa.

Ma c'è anche di peggio: qualcuno ha osservato uno strano aumento dei necrologi sulla stampa locale, negli uffici comunali osservano che la mortalità degli ultrasessantenni negli ultimi tre mesi è aumentata del 15-20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Non è un dato scientifico, le statistiche si possono fare solo sul lungo periodo, ma queste cifre sembrano in perfetta sintonia con l'espressione dei volti che popolano le tendopoli. Che del G8 non si sono nemmeno accorti, che non hanno ricevuto la visita di nessun «grande» del mondo, che apprendono dai giornali della vacanza estiva che il Presidente del Consiglio farà a L'Aquila - una settimana nella caserma di Coppito - ogni tanto visitando i cantieri C.a.s.e. Con le forbici già pronte in mano per il nastro da tagliare di fronte alle telecamere. Nell'attesa, magari la sera lo ritroveremo all'Aquilone. Perfetto, per lui.

Fra la popolazione gira una battuta: il primo esodo ce lo ha imposto il terremoto e il secondo, come se non bastasse, il G8. La città è un deserto. Le forze dell'ordine hanno fatto il giro degli esercizi pubblici, consigliando la chiusura. Ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono state imposte le ferie forzate. La viabilità è sconvolta, molte strade vietate alla circolazione. Per gli abitanti delle tendopoli, la vita quotidiana in questi giorni è diventata una avventura da corso di sopravvivenza. La sicurezza dei grandi è insicurezza per gli aquilani. Chi ne aveva la possibilità, se ne è andato. Il sogno di Berlusconi, che sperava di accogliere i grandi della Terra fra ali di terremotati festanti si è infranto da tempo. Gli aquilani, aldilà delle appartenenze politiche o culturali, hanno ormai chiaro in testa ciò che sta a loro accadendo.

L'aiuto umanitario, l'assistenza alle popolazioni civili nell'emergenza, come sperimentato in tante parti del mondo, non sono neutrali. Possono essere orientati alla valorizzazione delle energie locali, alla salvaguardia dello spirito comunitario, alla partecipazione cittadina. Possono essere anche però uno strumento potente per favorire passività e dipendenza, ed è questo ciò che il Governo ha scelto di fare a L'Aquila.

I piani per la ricostruzione e i progetti per l'inverno, se esistono, sono un mistero per gli aquilani e perfino per gli amministratori locali, che hanno già espresso la propria contrarietà a quel poco che si sa. Il rapporto fra gli abitanti della città e l'intervento statale è tutto impostato in una relazione fra privati, accentuando la solitudine di chi non si può permettere di intervenire, per reddito o per gravità della distruzione, sulla propria casa.

La ricostruzione poteva essere l'occasione per un processo partecipativo e democratico teso a ridisegnare la città secondo criteri che favorissero una nuova socialità, la sostenibilità ambientale, la coesione comunitaria. Si poteva insomma ricostruire l'Aquila come si dovrebbe ricostruire il mondo del dopo crisi. Sta avvenendo il contrario, in una situazione di incertezza che distrugge l'animo di chiunque ne sia coinvolto, in un clima di militarizzazione e di controllo che diventa ogni giorno più pesante, anche prima del G8.

La gente aquilana che raccoglie i propri panni e lascia la città è, con il suo silenzio, la più forte manifestazione di dissenso che si potesse immaginare, con il suo segno tragico e la sofferenza che porta con sé. E' assai probabile che i media non ce la faranno vedere ma chiunque conosca un aquilano la sa, e ognuno di noi ha il dovere di raccontarla.Quelli che a L'Aquila rimangono, trovano il modo di esprimere la propria voce, in modo dignitoso, pacifico, anche in questi giorni difficili, così come hanno fatto in tanti nella manifestazione sotto palazzo Chigi e nella intensa e forte fiaccolata alle 3,32 di domenica scorsa, a tre mesi esatti dal terremoto.

E' un periodo in cui le persone sentono una distanza abissale dalla politica e anche dalle forze progressiste, dimentiche ormai che la loro sola forza risiede nella condivisione della vita quotidiana delle comunità locali. Le rappresentazioni simboliche di conflitto agite sulla testa, o senza il consenso, delle popolazioni che si vuole difendere secondo noi non colgono nel segno. Gli aquilani vogliono affermare il loro inalienabile diritto di rappresentarsi da sé. Questa esigenza va rispettata, sostenuta, favorita, con spirito di servizio e di solidarietà, in questi giorni assurdi e in tutti quelli che verranno poi.

Alle due del pomeriggio, caldo afoso e voglia di temporale, il signor Giuseppe, 76 anni, sfrutta un refolo d’aria e prova a dormire nella prima branda della tenda 17 tendopoli dell’Acquasanta, la sua casa dal 6 aprile scorso. Alla stessa ora, cinque chilometri più in là, nella caserma della Finanza a Coppito gli artigiani falegnami finiscono di consegnare le suite per i 39 leader del mondo in arrivo per il G8. Saranno pure spartane e però i letti sembrano comodi ed eleganti, legno e tappezzeria color crema. E il pavimento di granito non compete con il fondo di gomma della tenda 17 dove Giuseppe cerca di prendere sonno. Un’ora prima, alle tredici, Carla prende posto sulla panca della sala mensa della tendopoli di piazza d’Armi, un primo di penne con qualcosa che assomiglia alla panna (con questo caldo) e una pietanza che sembra tacchino. “Da tre mesi così” dice scacciando le mosche. “Visto quante ce ne sono?”. Alla stessa ora, sempre in caserma, i maestri falegnami stanno completando l’allestimento delle sale da pranzo per i vertici della prossima settima, ambiente climatizzato, parquet in terra, tavoli rotondi di legno, pareti di vetro oppure foderate di blu e grigio, cristallerie e porcellane, tovaglie di lino.

Due città nella stessa città. Due mondi lontanissimi negli stessi chilometri quadrati. Due facce di un volto solo e che, pure, non si parlano. C’è l’Aquila delle tendopoli, dei disagi, delle mosche, del caldo e della disperazione muta ma profonda di questa gente che a tre mesi esatti dal terremoto dice che «nulla è cambiato» nelle loro non-vite e che ancora non sanno quando cambierà qualcosa. E c’è l’Aquila del G8, i 48 ettari, i 70 campi di calcio, della caserma Vincenzo Giudice che in tre mesi ha visto tutto e il suo contrario, dalle trecento bare adagiate sul cemento della piazza d’Armi al comfort e al lusso declinati ai massimi livelli.

La città del G8 ha confini precisi, militarizzati da cinque mila uomini in divisa sui mezzi e a cavallo, appostati sulle montagne e dietro le batterie antimissili. Ha anche una precisa casella d’inizio, la rotonda tra via Fermi, la statale 80 e l’inizio di viale delle Fiamme Gialle che è stata allestita con un grande mosaico raffigurante un’aquila nera.

La città delle tendopoli comincia subito dopo la linea della militarizzazione e guarda all’altra con distacco, rabbia e diffidenza. Dice Carla mentre scaccia le mosche alla mensa di piazza d’Armi: «Là – e rivolge il volto verso Coppito – c’è il lusso, qui lo vede anche lei: nulla è cambiato nulla da tre mesi. Noi siamo riconoscenti a chi ci ha aiutato ma poi? Quanti soldi hanno speso per il G8? E quanti ne stanno spendendo sulla costa per dare un tetto a trentamila sfollati? Questi soldi non potevano essere subito impiegati qua?». Per esempio, insiste Carla, «io avevo una copisteria in centro, rilegavo tesi e facevo traduzioni. Da tre mesi chiedo se posso avviare l’attività altrove. Nessuna risposta». Eppure a Coppito la Protezione civile ha mostrato tutta la sua geometrica potenza ed efficienza nell’allestire la cittadella del G8. «Fanno tutto – insiste Carla – ma per loro. E per noi? Speriamo che almeno riescano a far restaurare qualche chiesa che sennò, altro che beffa ’sto G8».

È l’incertezza il male oscuro di chi vive nelle tendopoli, non avere date certe, una casella di ripartenza. Marco e sua moglie hanno quattro figli, la più piccola ha tre anni, il più grande ne ha 15. Da tre mesi condividono le tenda n.17 di Acquasanta con altre quattro persone sconosciute. Da allora cercano di avere una tenda tutta per loro. Non è stato possibile.

Ai loro occhi il G8 è solo «una provocazione»: «Noi vogliamo poter fare i lavori in casa e tornarci. Si dovevano concentrare su questo, altro che G8». Per le donazioni dei paesi stranieri «potevano organizzare una gita da Roma e avevamo risolto il problema». Duemila persone potranno andare a vivere nella caserma, nelle oltre mille stanze appena ristrutturate. «Duemila – scrolla la testa Marco – gli sfollati sono 55 mila e le casette basteranno per quindicimila?». I conti, in effetti, non tornano.

I piani di evacuazione dalla caserma scatteranno se e quando i sismografi misureranno scosse tra il 4 e il 4.5 della scala Richter. Gli psicologi volontari raccontano che in questi ultimi giorni l’augurio più diffuso tra gli sfollati è «una bella scossa sotto i piedi e sulla testa dei leader del mondo, così capiscono di cosa si parla».

A Coppito è tutto pronto, la mostra sul made in Italy e il made in Abruzzo, le mense, le tavole, le sale con i traduttori, tutto wifi e connessioni ultra veloci. Bruno ha compiuto 67 anni due giorni fa, vive nella tenda n.21 di Piazza d’Armi, gli hanno regalato un libro, La Gloria di Giuseppe Berto. Mostra fiero la dedica: «Ci vogliono tanti anni per diventare giovani». È un po’ commosso, l’inchiostro sta andando via, colpa dell’umidità delle tende.

Non idonei dal punto di vista idrogeologico A rischio cinque dei venti siti che dovrebbero ospitare gli sfollati abruzzesi. E solo in altri cinque i lavori sono effettivamente cominciati. Il «progetto c.a.s.e.» si avvia al flop. Ma Berlusconi arriva a L'Aquila e rassicura: «I lavori procedono alacremente». Alla vigilia del G8, si svela la beffa delle libertà

Cinque dei venti siti che dovrebbero - secondo gli impegni del governo - ospitare i terremotati abruzzesi a partire dall'autunno, non sono idonei dal punto di vista idrogeologico. Per quasi 2.500 persone "salta" così il tetto promesso «entro sei mesi». È ciò che veniamo a sapere nel giorno della sedicesima visita a L'Aquila di Silvio Berlusconi, svolta secondo un consueto copione: nessun bagno di folla a scanso di contestazioni, repentina convocazione dei media, rassicurazioni e promesse di fronte a telecamere che per tutta la giornata sono state trasportate da un angolo all'altro della caserma della Guardia di Finanza, in attesa della conferenza stampa finale: «I lavori stanno procedendo alacremente», ha assicurato il Cavaliere. Verissimo, per quanto riguarda il G8, con l'inaugurazione del rinnovato aeroporto di Preturo, l'ospedale da campo per i "grandi" a San Salvatore e la caserma di Coppito dove tutto è ormai pronto, compresa una nutrita presenza di servizi segreti mondiali. Molto meno aderenti alla realtà sono le previsioni del Presidente del Consiglio per quanto riguarda le case «provvisorie» che dovrebbero permettere lo smantellamento almeno di una parte delle tendopoli. Ma il premier insiste: «Vorremmo che entro la fine dell'anno tutte le persone che hanno perso un tetto possano avere una nuova casa completamente arredata». Magari gli arredi sono già in viaggio, ma per le abitazioni il premier rimarrà deluso nel sapere - se già non lo sa - che le promesse saranno disattese.

Per capirlo basterebbe fare un giro tra i venti siti predisposti a dar vita al "progetto C.a.s.e.", la scelta che ha soppiantato i tradizionali container e prefabbricati, «perché innovativa e conveniente», come avevano assicurato i vertici della Protezione civile. Solo in cinque casi i lavori sono iniziati: a Bazzano - il cantiere "di punta" - si stanno appena predisponendo le piattaforme su cui sorgeranno gli edifici, mentre nella maggioranza degli altri terreni dominano piante ed erbacce. Ai tanti che a L'Aquila si chiedevano il perché di questo stallo ieri è arrivata una prima risposta: almeno cinque di questi siti sono risultati inidonei dal punto di vista idrogeologico. I terreni espropriati a Monticchio, Pianola, Roio Piano, Assergi e Paganica non potranno essere utilizzati, non sono adatti a "sostenere" degli edifici. Tutto (o quasi) da rifare: localizzazione dei terreni, rilievi, espropri.... Ovvio che, stando così le cose, ben pochi degli attuali 60.000 sfollati (tra tendopoli ed esuli sulla costa adriatica) potranno avere un tetto per l'inverno.

La notizia non è ancora ufficiale, ma al comune dell'Aquila il flop del "progetto C.a.s.e." viene ormai considerato una dura realtà. Del resto da molti paventata quando - dopo le sparate sulle new town - Berlusconi e Bertolaso avevano presentato il progetto di questi piccoli villaggi (costo 700 milioni di euro) destinati a ospitare 9.000 persone a partire dalla fine del 2009 e poi - a ricostruzione avvenuta, dal 2020 in là recita il "decreto Abruzzo" - ipotizzati come campus universitari. Edifici "permanenti" - non smontabili, come invece ha affermato ieri Berlusconi - , con tutte le incognite del caso, prima fra tutte quella di contribuire alla delocalizzazione di città e paesi in tanti piccoli borghi, con la conseguente distruzione delle relazioni sociali già disgregate dal terremoto e il pericolo che quella loro "permanenza" finisca col ritardare sine die la ricostruzione dei centri storici, in primis quello dell'Aquila. Ora a questi dubbi e ai timori per simili danni si aggiunge la beffa dell'inidoneità dei siti scelti.

Ieri Berlusconi non ha parlato di tutto questo, anzi. Ha recitato la solita poesia dell'efficienza, delle «case giardino», del «male da cui può scaturire un bene». Ha esibito ai giornalisti gli «isolatori sismici - vanto della tecnica italiana - capaci di tenere in piedi un'abitazione anche quando un terremoto determina oscillazioni di 20 centimetri». E ha negato qualunque ritardo nel piano di costruzione delle C.a.s.e. Tutt'altro il clima che si respirava negli uffici comunali dell'Aquila: nei cinque siti a rischio avrebbero dovuto trovare un'abitazione quasi 2.500 sfollati, ma non sarà così. Lo dicono le relazioni tecniche che denunciano la fragilità dei terreni, lo confermano - seppur a mezza bocca - alla Protezione civile. Il risultato è che quasi un quarto delle 9.000 persone cui era stato fatto credere che era meglio passare qualche mese in tenda per poi avere una «casa già arredata», rimarranno invece in tenda. Con il risultato che - se non si ricorrerà ai vituperati container e prefabbricati, come era stato fatto in tutti i terremoti del passato - dovranno essere fatti i decreti di restituzione per le aree inutilmente espropriate. Si stanno già cercando terreni alternativi per i nuovi siti. Studiando come sono fatti "sotto", prima di decidere ed esibire cosa costruirci "sopra".

I giorni che stiamo vivendo dentro la sfortunata Repubblica Italiana, oscurata da quasi tutte le televisioni e disinformata da quasi tutti i giornali (anche se si intravedono le prime crepe nella diga che fino ad ora ha trattenuto e nascosto il liquame del regime) sono talmente vergognosi da renderci prigionieri di un dilemma: o parli solo del "casino Italia" come ha opportunamente intitolato Libero, o parli d’altro. Per esempio della folla esasperata di cittadini dell’Aquila e dell’Abruzzo che hanno sfidato la militarizzazione imposta alla città dai pasdaran della Protezione civile e sono venuti a Roma, davanti al Parlamento a dire la verità. Ovvero la loro vergogna e il loro imbarazzo per essere stati visitati e intrattenuti, a fari accesi e sotto le telecamere, da un finto capo del governo che in realtà era un abile imitatore e anzi, presumibilmente, un nemico giurato del buon governo. Quando si sono accorti del falso, dopo mesi di vita impossibile nelle tende gelate di notte, invivibili nella pioggia e roventi di sole, una specie di Guantanamo venduto per salvezza, sono venuti a Roma in cerca di verità. Non l’hanno trovata. Anche nei palazzi del potere, anche quando non ci sono feste indecorose a pagamento, non c’è il vero capo del governo, uno che accorre quando deve, promette quel che può, e mantiene subito e con rigore le promesse. C’è solo, lontano, incapace, furibondo e distratto "come uno che non sta bene" (fonte: Veronica Lario) l’attore che promette tutto e non sa mantenere niente.

Questo giornale ha dato ai lettori la cronaca di ciò che è accaduto davanti a Montecitorio, di quella folla costretta a rendersi conto della beffa subita dal governo, e dunque dallo Stato italiano, nel peggior momento della loro vita, uomini e donne, giovani e non giovani, che prima, nella loro vita, si erano dedicati alla famiglia, al lavoro, alle professioni, costretti adesso a sfilare con cartelli e striscioni come se esigessero un di più mentre denunciavano il niente. In quelle stesse ore, dentro Montecitorio, si celebrava l’altra parte della vergogna: una maggioranza parlamentare muta e succube di un governo che si occupa di trasporti per feste ma non di terremotati, e che tranquillamente promette la luna, tanto è un argomento di canzoni, non di politica. La vergogna era questa: la legge in discussione era per "Gli interventi urgenti in Abruzzo" e mancava di tutto. Mancava di soldi, di progetti, di idee, aveva saltato interi settori di attività essenziale (le scuole) e interi blocchi di cittadini, i cosiddetti proprietari di "seconde case" che non saranno ricostruite benché siano al secondo e al quarto piano dell’edificio la cui ricostruzione è teoricamente prevista. Non fissava date e non garantiva scadenze.

Tutta l’opposizione (Pd, Italia dei valori, Udc) si è impegnata, emendamento dopo emendamento, a riempire le inaccettabili omissioni, le inspiegabili incompetenze, a correggere l’ovvia e offensiva inutilità della legge. Lo spettacolo triste, durato per tre giorni, è stato il silenzio disciplinato della maggioranza di governo, uomini e donne solitamente vivi e aggressivi ridotti a una assemblea ottusa che non ascolta, non vede, non decide. Ha già deciso il governo. E così, come se questo fosse l’ultimo Parlamento, come se nessuno di questi parlamentari avesse un dopo in cui rendere conto e un elettorato che vorrà sapere, ogni emendamento dell’opposizione, per quanto utile e necessario è stato respinto, anche se diceva che non c’è più università, che è urgente ricostruire la Casa dello studente, che l’ospedale va rimesso in grado di funzionare, che dopo un simile terremoto è assurdo e impossibile distinguere fra prime e seconde case, che i soldi non bastano per cominciare, che occorrono date certe della ricostruzione, fasi realistiche, dati veri, sia per buona organizzazione sia per dare speranza.

Lo spettacolo di ciò che è accaduto dentro Montecitorio, mentre fuori una folla di cittadini normali e per bene, è costretta a gridare la sua indignazione, era anche più desolante. Una parte sorda, cieca e muta del Parlamento taceva, evitava ogni confronto, si auto-proibiva qualunque discussione, respingeva in silenzio anche le proposte ispirate a esperienza, mitezza, buon senso. Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée all’Aquila. Sta preparando, a carico dei disperati cittadini dell’Aquila il nuovo mega-spettacolo del G8. I parlamentari del partito di governo sono stati declassati a loggione. Tacciano, ignorino, lascino lavorare chi sa fare spettacolo. L’ultimo Parlamento ha abbassato la testa in segno di umile assenso.

Per fortuna non tanti nell’opposizione pensano ancora che sia estremista dire "no". In tanti si rendono conto, finalmente, che "no" è l’unica risposta possibile.

Oggi il presidente del consiglio sarà nuovamente in visita a l'Aquila «per verificare lo stato d'avanzamento dei lavori del post-terremoto». Avanzamento è una parola forte, più che altro Berlusconi potrà verificare come si disgrega una comunità. E farsi molto riprendere dalle sue televisioni.

Ieri centinaia di abruzzesi hanno fatto per la prima volta visita a Roma «per chiedere la ricostruzione di città e paesi». Anche ricostruzione è una parola forte, soprattutto di fronte a un Decreto avaro e autoritario. Avaro, perché le risorse sono molto al di sotto del necessario. Autoritario, perché impone tutto dall'alto, esalta la pratica dell'emergenza e riduce a sudditi i cittadini. Avarizia e autoritarismo si tengono stretti per mano.

Secondo il governo i terremotati d'Abruzzo dovrebbero affidarsi a qualche «gratta e vinci» in più per veder risollevare le loro case; confidare nelle disposizioni del presidente del consiglio per essere risarciti dei danni subiti; aspettare le ordinanze di Bertolaso per sapere se e dove ci saranno scuole in cui studiare, uffici e fabbriche in cui lavorare. Quanto ai loro amministratori locali, il ruolo previsto è di farsi da parte, o fare i passacarte.

Non che il governo sia impazzito. Anzi, persegue una logica precisa. Quella di sempre. Riduce la spesa pubblica ad azzardo privato: così niente «tassa di scopo» per la ricostruzione ma via libera a lotti e lotterie. Declassa una città da bene comune a insieme di proprietà individuali: così nessun piano di riedificazione urbana ma tanti risarcimenti ad personam, sperando che l'urgente bisogno di un tetto spinga all'esodo e lasci il campo libero per nuovi affari immobiliari. Trasforma l'amministrazione del territorio in gestione dell'ordine pubblico: così cancella il ruolo degli enti locali mentre accentra tutte le decisioni a palazzo Chigi, usando la Protezione civile come longa manus di un potere incontrollabile.

Chi ieri ha manifestato a Roma tutto questo lo sa bene. Cerca di spiegarlo al paese, anche senza la copertura mediatica su cui può invece contare Berlusconi. Sanno - le donne e gli uomini delle tendopoli - che in queste settimane si decide il loro futuro e quello della loro terra. Sanno anche che - nello stato in cui sono ridotte le istituzioni e la rappresentanza - dalla politica non potrà venir loro un grande aiuto. Ma hanno dalla loro le conoscenze per contestare i bluff berlusconiani e una possibilità. Un G8 che il presidente del consiglio vorrebbe vetrina di propaganda, ma che potrebbe invece essere palcoscenico di un fallimento sotto gli occhi del mondo. Comunicarlo nel modo giusto sarà decisivo. «Yes, we camp», c'era scritto su uno degli striscioni di ieri: chi ha detto che solo Berlusconi sa usare le televisioni?

«Casette a settembre? Ma chi sei, Megggaiver!!!». Bruno ha 23 anni, è un aquilano doc da due mesi senza casa e oggi, in piedi davanti a Montecitorio, racconta con questo cartello la sua rabbia. MacGyver, il ragazzo dalle mille risorse, era il suo eroe dei fumetti, quello che realizzava sogni e risolveva guai. Secondo Bruno solo MacGyver, al massimo della forma, potrebbe consegnare le “famose” casette ai terremotati d’Abruzzo. Figurarsi Berlusconi, o Bertolaso, che al suo eroe non assomigliano neanche un po’.

Si smonta, finisce in pezzi un’altra, forse la più importante delle promesse-certezze del premier. «Il 15 settembre consegneremo le prime case, a novembre nessuno sarà più in tenda» ha ripetuto Berlusconi nella sue tredici visite all’Aquila. Falso. Non vero. Anzi, mai stato vero. La verità è che sarà un Natale in tenda. O in albergo, viste le temperature nell’altopiano dell’Aquila, Non lo dicono i soliti calcoli a spanna dei soliti disfattisti criticoni. Lo dice, da sempre, anzi lo documenta da maggio, il «CRONOPROGRAMMA GENERALE», la tabella di marcia, giorno per giorno, capitolo per capitolo, del rivoluzionario progetto C.A.S.E che sta per Complessi antisismici Sostenibili Ecocompatibili, le famose casette che dovranno diventare un tetto per circa quindicimila sfollati. E’ anche l’unico capitolo finanziato nel decreto con 530 milioni di euro.

Il Cronoprogramma consegnato dalla Protezione Civile e vistato dal governo a maggio dice chiaramente che le case saranno consegnate a fine dicembre comprese arredi e collaudi. Come se dopo otto mesi di campeggio forzato uno potesse ancora andare a vivere in modo precario. Tutto questo sempre che due voci cardine del Cronoprogramma, «realizzazione degli alloggi» e «opere di urbanizzazione» (fogne, allacci gas e luce, strade di accesso), prendano il via tra la prima e la seconda settimana di luglio. In pieno G8. Difficile immaginare ruspe e camion in giro per l’Aquila, che ha due strade, mentre nella caserma di Coppito si riuniscono i grandi della terra.

«Il problema - racconta un funzionario della Protezione Civile - è che tutto il Cronoprogramma è già saltato perchè le opere di cantierizzazione dovevano cominciare il 10 di maggio. Siamo al 16 giugno e mi risultano avviate, da circa dieci giorni, solo a Bazzano e Ocre. Un ritardo normale di fronte a un intervento di questo genere». Il fatto è che da questo ritardo (la cantierizzazione), ne derivano altri. E’ l’effetto domino. «Le operazioni di scavo, fondazioni e messa in posa delle piastre dovevano cominciare, secondo Cronoprogramma, il 25 maggio ma non sono ancora cominciate».

Certo, magari sarà anche possibile consegnare un pugno di case a settembre, facendo lavorare gli operai giorno e notte. Ma sarà una goccia rispetto alle venti aree, attualmente zone di campagna, che devono diventare villaggi autonomi con scuole e farmacie e negozi. Anche sindaco e presidente della Provincia non ci credono più. «Purtroppo - dicono Cialente e Pezzopane ricevuti ieri alla Camera dal presidente Fini mentre in aula veniva discusso il decreto e fuori duemila aquilani urlavano «basta bugie» - le casette non saranno pronte per settembre. Si parla di ottobre, forse, più facile dicembre».

«Berluscò, non te fare revedè a l’Aquila» si leggeva ieri su uno dei tanti cartelli. Ci torna oggi. Dopo l’approvazione definitiva del decreto. Che garantisce solo 5 mila casette, un po’ di gratta e vinci, rinvia negli anni la ricostruzione del centro storico e non prevede risarcimenti a chi non è residente, una ricostruzione groviera visto che il 40 per cento delle abitazioni sono di aquilani che vivono altrove. Soprattutto non dice nulla a piccoli commercianti e medie imprese che erano il tessuto della città e ora non sanno più cosa sono.

Millecinquecento alloggi pronti e disponibili a L'Aquila e provincia. Offerti a prezzo "politico" per accogliere i terremotati. Erano i giorni immediatamente successivi la grande scossa del 6 aprile e l'associazione dei costruttori edili abruzzese metteva sul piatto dell'emergenza la sua disponibilità: quelle case appena terminate potevano servire a ridurre il danno, offrendo un tetto, almeno provvisorio, ai 60 mila sfollati. Forse l'Ance s'era fatto prendere la mano dall'afflato solidale che attraversava l'Italia - con donazioni, concerti, offerte e quant'altro. O, forse, aveva fatto male i conti. Fatto sta che quei 1.500 alloggi, che teoricamente avrebbero potuto ospitare dalle 3.000 alle 5.000 persone, sono progressivamente diminuiti di numero giorno dopo giorno, fino a sparire nel nulla. Contemporanemente, mentre si andava definendo la mappa dei danni e delle inagibilità (circa il 40% delle abitazioni private), lievitava il prezzo per gli affitti delle case rimaste intatte.

Scemata l'attenzione, digerita l'emergenza, diradatesi le visite del Presidente del Consiglio a L'Aquila, il campo è stato occupato interamente dalle tendopoli della protezione civile, dall'esodo verso gli alberghi della costa adriatica o - nel migliore dei casi - dal rifugiarsi presso qualche parente con una stanza in più. E il terremoto è rientrato nella normalità di un paese in cui l'edilizia è uno dei più grandi business. Anche se a volte costruito su fragili fondamenta, come l'Abruzzo dimostra e l'Ance ben sa, in attesa che la magistratura scopra i responsabili di ciò che è successo alla Casa degli studenti e "dintorni".

Ma è una ben strana normalità. Lo si nota nel deserto e immobile centro storico dell'Aquila, nella vita difficile delle tende e degli alberghi, nella frantumazione del tessuto economico e nel procedere a singhiozzo della pubblica amministrazione. Ma lo si legge anche nei passaggi istituzionali, a partire dal "Decreto Abruzzo" che - dopo il varo del Senato - la prossima settimana passa alla Camera per il via libera definitivo. Anomali e inediti sono i criteri di gestione, gli obiettivi, le procedure, declinando in chiave emergenziale le tre questioni di fondo: il quando (i tempi della ricostruzione), il quanto (i fondi messi a disposizione), il come (la filosofia e le modalità del lungo viaggio verso la normalità). Sapendo che un terremoto - come un crack economico - ridefinisce tutto e mai si torna allo stato quo ante: può andare come è successo in Umbria (un "sogno" per molti abruzzesi) o finire come l'Irpinia o il Belice (un "incubo" per tutti).

Due fasi, da qui al 2033

Il provvedimento del governo - molto criticato a sinistra, dagli amministratori aquilani e dai comitati che martedì protesteranno sotto il Parlamento - è sostanzialmente diviso in due parti: l'emergenza (dall'accoglienza sfollati all'edificazione delle "casette temporanee") che si dovrebbe concludere a fine 2009 e la ricostruzione vera e propria i cui tempi si allungano fino al 2033.

Cominciamo con l'emergenza. Piantate le tende, sistemati gli sfollati sulla costa, innestata la retromarcia sulle new town, il governo si è posto l'obiettivo di realizzare abitazioni per 12.000 persone: costruite su 20 siti sparsi attorno all'Aquila, si chiamano "Case", alludente acronimo che sta per "Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili". In sostanza un serie di belle casette, costo previsto 530 milioni di euro. La consegna ha anche una sua road map: 900 abitazioni ogni quindici giorni a partire dal 15 settembre.

I lavori sono appena all'inizio e già in molti dubitano che questa tempistica possa essere rispettata. In più c'è un dato che lascia allibiti: se gli sfollati sono circa 60.000 e anche ipotizzando che la maggioranza di essi potrà rientrare nelle vecchie abitazioni (ammesso e non concesso che la soglia delle case inagibili non superi il 40% del totale), appare evidente che le nuove strutture saranno sufficienti ad accogliere più o meno la metà di chi avrebbe urgente bisogno di un tetto. Facile pensare che si riuscirà solamente a svuotare le tendopoli - ma con un ritmo troppo lento rispetto ai rigori invernali che qui si fanno sentire presto -, mentre rimarrà inalterata la situazione degli sfollati sulla costa. E poi? Una volta finita la costruzione delle "Case" che succederà? Il decreto, su questo non dice nulla. Semmai demanda tutto alla fase 2, quella della ricostruzione (su cui torneremo prossimamente), come dice ben poco su scuole, ospedali e assistenza.

Anche sul terreno dei finanziamenti per quest'opera "provvisoria" ci sono delle incongruenze. Il decreto che sta per essere varato stanzia 1.152 milioni di euro per il 2009, coperto in parte con il bonus famiglia (300 milioni), con varie riduzioni di spesa su altre voci del bilancio pubblico (altri 300 milioni) e soprattutto con le maggiori entrate di giochi e lotto (472,5 milioni). Quest'ultima voce è quella cui è demandata tutta la fase 2, cioè la ricostruzione: allo scopo già si stanno spremendo le meningi illustri studiosi per varare nuove formule "d'azzardo di stato" e mercoledì scorso si è tenuto a Roma un vertice di esperti in poker cash, bet exchange e videolottery. Il futuro dipenderà da loro ed è fin troppo facile dire che sarà una lotteria. Ma tornando ai finanziamenti per il 2009, mentre la parte del leone è riservata al fondo della protezione civile per l'assistenza alle popolazioni (580 milioni), la parte riservata alla costruzione dei moduli abitativi è di 400 milioni, 130 sotto il costo complessivo, rimandando all'anno successivo lo stanziamento di altri 300 milioni. Facile intuire che ciò ricadrà sui tempi di realizzazione del "Case", anche perché la road map di Bertolaso è già in ritardo rispetto all'avvio dei lavori.

Il progetto "Case", in realtà, lascia molta gente "per strada" e fa rientrare dalla finestra l'idea delle "new town". Il futuro di questi 20 micro-villaggi con i loro 4.500 alloggi incrocia quello del centro storico dell'Aquila e dell'Università (la principale "impresa" cittadina). Una volta svuotate dagli abitanti - quando, tra un po' d'anni, potranno ritornare in possesso di una casa vera e propria - le "casette" sono destinate ai circa 10.000 studenti fuori sede che fanno dell'Ateneo aquilano uno dei più ricercati della Penisola. Ammesso che, nel frattempo, quegli studenti non siano migrati altrove, visto che in gran parte alloggiavano nel centro storico. Dove sicuramente non torneranno più e non solo per i tempi del tutto incerti della ricostruzione, ma anche perché al "centro" è riservato un destino del tutto diverso che stimola gli appetiti delle finanziarie pronte a "valorizzare" a modo loro ciò che ci sarà dopo le macerie.

La rabbia degli amministratori

Una nuova idea di città, il dopo-terremoto come occasione per ridefinire il "diritto di proprietà". Che è, poi, la filosofia di tutto il "Decreto Abruzzo". Quella che fa più arrabbiare gli amministratori locali, come la presidente della provincia Stefania Pezzopane: "L'impostazione emergenziale, segnata da un forte accentramento dei poteri nelle mani del commissario (leggi Protezione civile e Presidenza del Consiglio, ndr), è servita al governo per millantare la propria efficienza, ma non offre risposte vere alla popolazione". Perché? "Perché - risponde la presidente - le risorse sono poche e solo per il progetto 'Case', sulla ricostruzione è tutto aleatorio e perdipiù gli enti locali sono completamente esautorati. Non contano nulla e hanno le casse vuote".

Per cambiare qualcosa c'è ancora un po' di tempo, fino all'approvazione parlamentare del decreto. Ma Pezzopane è pessimista: "Nell'ultima sua visita a L'Aquila Berlusconi aveva assicurato che il governo avrebbe trovato il modo di finanziare le casse degli enti locali svuotate dall'emergenza terremoto. Passate le elezioni, la promessa sembra svanita. All'ultima audizione parlamentare abbiamo chiesto una serie di modifiche per coinvolgere nella gestione della ricostruzione le autorità locali e la popolazione. Meno di un'ora dopo, in commissione, la maggioranza ha bocciato tutti gli emendamenti che avevamo proposto". Del resto Berlusconi lo aveva promesso: "A L'Aquila ci penserò io". In tutti i sensi. (1-continua)

Il terremoto è senza dubbio, per la severità e la globalità del suo impatto, l’evento di origine naturale più disastroso. Alcuni numeri e qualche considerazione consentono di delineare le dimensioni del problema che tale evento rappresenta per il paese: 30mila terremoti nell’ultimo millennio, oltre 200 dei quali assolutamente distruttivi, un’impressionante sequenza di eventi causa, solo nel’900, di 120.000 vittime. Anche in termini economici è un fenomeno devastante: 75 miliardi di Euro è stato valutato l’ammontare, probabilmente sottostimato, delle risorse impegnate nell’ultimo quarto di secolo per la ricostruzione.

I terremoti di minore intensità che hanno colpito il Paese in questi ultimi decenni hanno impegnato quantità di risorse relativamente più contenute, ma hanno segnato un incremento percentualmente molto consistente rispetto agli standard precedentemente seguiti nel valutare e risarcire il danneggiamento. Insomma, il post terremoto-costa sempre di più (e non sempre a causa di una migliore qualità degli interventi); questo vuol dire che se ci trovassimo di fronte ad un altro terremoto dell’Irpinia, che da solo assorbì oltre 30 miliardi di Euro, sarebbe davvero un problema complesso risolverlo con le stesse logiche risarcitorie dell’ultimo più piccolo evento (per esempio San Giuliano di Puglia). Sempre più, quindi, l’ammontare delle ingenti risorse per la ricostruzione diviene comparabile con quanto necessario per l’avvio di una diffusa ed incisiva azione di prevenzione che consentirebbe di limitare i danni ma, soprattutto, determinerebbe le condizioni per subire un minor numero di perdite di vite umane.

Per il terremoto dell’Aquila si apre ora il problema della ricostruzione; prime valutazioni del danno economico cominciano a circolare e a preoccupare. La prima individuazione dei comuni terremotati, nel numero di 49, è stato preannunciato che potrà essere integrata e, come sempre è successo, le isosiste (linee che racchiudono aree di pari intensità dell’evento) del terremoto corrono il rischio di diventare qualcosa di elastico, in grado di essere tirate da una parte e dall’altra, e con esse i maggiori costi della ricostruzione.

In questi tragici giorni si è ripetuto fino allo sfinimento che questo è un paese a elevato rischio sismico. Si è detto molto anche riguardo alla altissima vulnerabilità del nostro patrimonio edilizio, soprattutto quello più vecchio, per caratteristiche tipologiche e costruttive degli edifici che costituiscono i circa 22mila centri storici, ben oltre la metà dei quali situati nei comuni ad alto rischio.

La vulnerabilità riguarda, oltre le abitazioni, anche un insieme di altri oggetti presenti sul territorio: il sistema infrastrutturale, quello industriale e produttivo, le reti dei servizi; persino quegli edifici che sono stati individuati come strategici ai fini di protezione civile non sono in gran parte costruiti “a prova di terremoto”. E poi ci sono l’edilizia illegale, cioè abusiva, e le costruzioni fatte ignorando la legalità, disattendendo le norme edilizie o, più semplicemente, rubando. L’Italia ha anche una forte esposizione, determinata dall’alta densità di popolazione, soprattutto quella associata alle criticità del sistema urbano di molte grandi città. Infine, la diffusa presenza di un enorme patrimonio storico, artistico e culturale che non è nemmeno solo un patrimonio “nostro” ma piuttosto dell’umanità, che non riusciamo a proteggere. L’evento del ’97 in Umbria e Marche, di intensità comunque limitata, ha fortemente danneggiato circa 600 chiese e, emblematicamente, la basilica di S. Francesco d’Assisi, mettendo in evidenza proprio il problema della conservazione e tutela del patrimonio culturale, per nulla protetto dall’impatto del terremoto. Il 6 aprile a L’Aquila le cose son andate nello stesso modo.

A fronte di questa sintetica ma sufficientemente sconfortante rappresentazione delle dimensioni e delle specificità del problema sismico in Italia, l’unico momento in cui tutti vogliono parlare di terremoto, quello dopo l’ultima catastrofe, non pare offrire spunti confortanti circa la determinazione espressa sul piano politico-istituzionale. Tale determinazione dovrebbe esprimersi nel lungo periodo, indispensabile per impegnare su un concreto programma di azione chi possiede le necessarie competenze, e dovrebbe essere gestita con quella logica oggi desueta che si chiama continuità dell’azione amministrativa, che vorrebbe significare un certo grado di indipendenza nei confronti dell’avvicendarsi dei livelli di governo di questo paese. Cosa, questa, poco vista in passato e mai in questa seconda Repubblica.

E’ d’altronde illusorio che la questione, possa essere affrontata mettendo in campo un solo strumento. Dalle pagine dei giornali e dai teleschermi, come dopo ogni terremoto, arrivano tranquillizzanti annunci circa l’immediata entrata in vigore della nuova normativa sismica e dei nuovi criteri di classificazione del territorio, senza tuttavia spiegare che si tratta di norme e criteri che sostanzialmente andranno ad incidere solo sulle nuove costruzioni, quelle che debbono ancora essere costruite. Poiché queste saranno poche, essendo stato costruito in questo paese il costruibile, il risultato sarà, nell’arco dei prossimi decenni, assai modesto in termini di riduzione del rischio. D’altronde, come si diceva, è arcinoto che lo zoccolo duro del problema sismico in Italia è l’edificato più antico. E su questo poco si dice, poco ci si impegna in tempo di quiete, per una certa insensibilità al tema e per l’incapacità, a cui sopra si accennava, di varare e perseguire un lungimirante programma di prevenzione.

Eppure le conoscenze ci sono, sono state prodotte in questi ultimi trent’anni attraverso l’impegno di alcuni soggetti (progetti finalizzati, gruppi di ricerca, istituti, servizi, etc.) che si sono proposti e avvicendati sulla scena della riduzione del rischio sismico; soggetti quasi tutti oggi scomparsi, non sempre sostituiti o sostituiti bene, che hanno utilizzato risorse pubbliche, in qualche caso ingenti. Questo patrimonio di know how consentirebbe di portare a soluzione, sotto il profilo tecnico-scientifico e operativo, il problema sismico del paese, ma in gran parte resta inutilizzato proprio perché un deficit di competenza e di determinazione politica non ha consentito di realizzare la necessaria funzione di trasferimento della conoscenza in azioni concrete.

Allora, se davvero si vuol avviare un percorso, necessariamente lungo e costoso, di riduzione del problema sismico nel paese si deve recuperare quanto prodotto in termini di conoscenza e di strategie, sempre messo da parte tra un terremoto e l’altro, e sempre rispolverato, magari per stralci scarsamente funzionali, nel dibattito post evento. Si ripropone allora un sintetico elenco di cose da fare, alcune delle quali particolarmente complesse, ma certamente indispensabili.

  1. conferimento di idonei livelli di protezione per le nuove costruzioni attraverso l’aggiornamento della classificazione sismica del territorio e della normativa tecnica; riconsiderazione dei criteri di controllo progettale e realizzativi nell’edilizia in zona sismica;
  2. riduzione del livello di vulnerabilità dell’edilizia più antica e dei centri storici; del patrimonio artistico e culturale; delle strutture strategiche di P.C. e di quelle destinate ad uso pubblico;
  3. contrasto del fenomeno dell’ edilizia illegale ed abbandono della pratica dei condoni edilizi; adozione di strumenti di pianificazione a carattere ordinario per conseguire, nel tempo, un riassetto del territorio che tenga conto delle problematiche poste dal rischio sismico;
  4. intervento costante sui livelli di comunicazione, informazione e sensibilizzazione della popolazione, indispensabile all’avvio di una più incisiva azione prevenzione ed alla ottimizzazione dei comportamenti in emergenza;
  5. intervento normativo per la definizione dei livelli di danneggiamento e, conseguentemente, dei criteri di indennizzo per la ricostruzione propedeutico al coinvolgimento del mercato assicurativo quale supporto all’enorme impegno dello Stato nel risarcimento, nell’ambito di un quadro generale di riduzione della vulnerabilità del patrimonio edilizio;
  6. verifica ed ottimizzazione degli standard di intervento in emergenza attraverso l’adozione degli strumenti di pianificazione.

Su ciascuno di questi punti ci sarebbe moltissimo da dire (solo qualcosa ha avuto un minimo di approfondimento in quanto ho già scritto -e magari su quello che scriverò ancora- per www.eddyburg.it, la cui redazione ringrazio per l’ospitalità) ma per tutti si può ribadire che ognuno è certamente indispensabile; alcuni poi, come si diceva, sono anche molto, molto complessi da realizzare.

Ma, d’altronde, complessa e obiettivamente difficile è la scelta di fondo, tutta politica, che si deve fare sulla sicurezza dei cittadini.

A fronte delle tante condizioni di insicurezza in cui oggi, non importa se più o meno di ieri, si vive, vi è un monte di risorse limitato, molto limitato per fare prevenzione, sia che si tratti di catastrofi “naturali”, sia di salute, di morti bianche, di stragi del sabato sera o altro ancora. Dopo l’esplosione di un’emergenza si scoprono sempre cose che si sarebbero dovute fare e non sono state invece fatte; poiché l’ultima emergenza è sempre la più importante, all’opinione pubblica indignata si promette ogni volta che quella cosa non succederà più, che finalmente la prevenzione avvierà a soluzione il problema, senza purtroppo tener conto del quadro d’insieme.

Su questi temi occorrono scelte precise incalzate da quanto sta in queste ore accadendo circa le richieste di molti comuni dell’Abruzzo per avere comunque una quota di risorse in questo dopo terremoto, per mettere in sicurezza il loro patrimonio edilizio anche se non danneggiato. Si manifestano cioè situazioni che tipicamente esplodono quando un problema grosso resta troppo a lungo non governato; situazioni determinate delle enorme difficoltà nel conciliare la sensibilità della gente con il rigore della logica che punterebbe invece ad investire risorse in prevenzione nell’ambito di un quadro generale di priorità d’intervento, esclusivamente in base alle valutazioni di rischio da tempo disponibili.

Emerge così, dalle vicende dell’Aquila, soprattutto un’esigenza di chiarezza rispetto a quanto si potrà fare subito per quelle popolazioni in così grande difficoltà, e di quanto si potrà anche fare, in prospettiva, per determinare una condizione di maggiore sicurezza per quella tanta parte del paese che con il rischio, in modo più o meno consapevole, oggi convive.

Su eddyburg, dello stesso autore e sullo stesso tema:

La prevenzione che non c'è

La fortuna dell'Italia

L'insegnamento dell'Abruzzo e la memoria fragile dell'Italia

Sergio Caldaretti

Paolo Berdini sul manifesto del 7 aprile sottolinea la mancanza di ogni sensibilità politica del governo Berlusconi verso il tema della "messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio"; e, per questo, fa riferimento al piano casa in via di definizione, che tende solo ad "aggiungere". A mio avviso, questa insensibilità non è carattere esclusivo dell'attualità, ma permane nel nostro paese da lungo tempo; e non è da imputare solo alla sfera politico-amministrativa ma è un carattere consolidato della nostra cultura. È molto diffusa la tendenza ad attribuire alla natura maligna una pervicace ostinazione nell'infierire sull'indifeso popolo italico, sottoponendolo ad ogni sorta di vessazione con terremoti, frane, alluvioni, incendi, e così via. Il problema è che un terremoto o una frana in un deserto non fanno notizia perché producono danni molto limitati, mentre una parte di collina densamente edificata che viene giù dopo qualche giorno di pioggia riempie di costernazione i mezzi di informazione quanto i cuori degli individui per l'enormità degli effetti sulle persone e cose che su quella collina si erano insediate. Non è dunque, di per sé, il fenomeno naturale a provocare danni, ma il suo impatto sui contesti insediativi che si trovano sul suo percorso; danni che sono tanto più elevati quanto minore è la capacità di resistenza dell'insediamento all'impatto.

Questa banale constatazione si insinua sempre nell'imponente dialettica mediatica che si innesca a valle di un disastro; accanto alle accorate proteste sui ritardi nei soccorsi e sull'inefficienza del sistema di gestione dell'emergenza, qualcuno si spinge infatti ad adombrare una qualche disattenzione verso i complessi rapporti tra caratteri del sistema naturale e azione dell'uomo, attribuendo a quest'ultima un ruolo non secondario nel determinare i disastrosi effetti che le televisioni mostrano. Da qui, è breve il passaggio a invocare un drastico cambiamento nelle politiche per il territorio, che dovrebbero incardinarsi, neanche a dirlo, sul principio della prevenzione. A sostegno, quattro conti che dimostrano l'enorme differenza tra quanto si è speso nei decenni passati per le ricostruzioni e quanto si sarebbe speso per mettere in sicurezza il territorio.

In particolare, dopo i terremoti del Friuli e dell'Irpinia constatazioni così banali hanno aperto qualche varco. Proprio in quel periodo ho iniziato ad occuparmi, da urbanista, dei temi legati alla mitigazione del rischio sismico, e ho così attraversato con questo sguardo i molteplici disastri che si sono succeduti nel nostro paese con un ritmo incalzante e drammatico e le reazioni che ne sono scaturite. A valle di quei due eventi si è in effetti sedimentata una certa attenzione su questi temi, sia nel contesto scientifico che nell'azione politica; ne sono testimonianza le attività del Gruppo nazionale per la difesa dai terremoti e dell'Istituto di geofisica e vulcanologia, volte a definire tecniche e procedure di mitigazione, e le sperimentazioni condotte in alcune regioni per trasferire queste indicazioni in termini normativi e gestionali. Le ricerche portate avanti sulle risposte dei sistemi costruttivi ad un terremoto hanno portato a definire nuovi protocolli di sicurezza, recepiti poi da leggi e circolari.

Nel contesto scientifico che si occupava della questione si è innescato un deciso dibattito tra chi interpretava la mitigazione del rischio sismico in termini di "sicurezza" dei manufatti, e chi (in particolare, gli urbanisti) invece attribuiva centralità ad una visione della città e del territorio come sistemi complessi, e dunque riteneva che una strategia di mitigazione dovesse andare oltre l'attenzione al singolo elemento per considerare le infinite interazioni di diversa natura che si esplicano in un contesto insediativo. Una semplice constatazione dava forza a questa seconda tesi: anche se si fosse riusciti, imponendo determinate regole, a far costruire i nuovi manufatti con tecnologie adeguate a resistere al sisma, permaneva comunque l'impossibilità concreta (anche in termini economici) di "mettere in sicurezza" tutti i manufatti esistenti.

A questa fase "dinamica" ha poi fatto seguito un progressivo affievolirsi delle attività; non che tutto si sia fermato, piuttosto l'attenzione è andata sfumando, e con lei il "senso del problema", la sua coscienza collettiva. Gli eventi più recenti, forse perché non così disastrosi come quelli della fine degli anni '70, sono passati senza trovare sedimento, sia nella sfera politica che nella memoria individuale e collettiva.

Temo che, oggi, il problema non sia (solo) il governo Berlusconi, ma qualcosa di più immanente e sedimentato: l'incapacità di una collettività di conservare memorie, e di farne discendere prospettive e strategie d'azione. (...) In conclusione, ritengo che sia essenziale una sensibilizzazione a livello individuale e collettivo. Ciò rimanda a due grandi obiettivi di portata ben più ampia: la riappropriazione della coscienza collettiva del territorio e la centralità dell'approccio politico-strategico nell'interazione tra contesti locali e contesto globale. Obiettivi che dovrebbero essere inseriti senza indugio in un programma volto a ridefinire riferimenti costitutivi e strategie della malconcia sinistra nostrana.

Nei giorni passati, di fronte al sisma dell'Aquila, è parso che fossimo all'anno zero, che il Paese non avesse più memoria di esperienze vissute soltanto pochi anni o decenni fa, in uno dei tanti terremoti. Tipica l'idea fissa del presidente del Consiglio di sperimentare all'Aquila la "new town" (una vecchissima pensata) che tanto gli piace e che in cuor suo vede come il clone di Milano 2. Come se non ci fossero stati i terremoti di Ancona, di Tuscania, del Friuli, dell'Irpinia, di Umbria e Marche (cito alcuni dei più recenti) a fornire dati di esperienza - positivi e negativi - in materia di ricostruzione e si dovesse, e potesse, costruire l'Aquila 2 limitandosi a ripulire un po' le macerie nel centro storico della città, e amen. Proviamoci allora a vedere le cose da non fare, gli errori da non ripetere.

a)avere una gran fretta di decidere, prim'ancora di possedere un quadro analitico, dettagliato, scientificamente fondato della situazione; b)promettere la ricostruzione integrale in tempi rapidi: due-tre anni. Una balla solenne. Si va da cinque anni in su per i danni gravi; c)far piovere tutto dall'alto, non ascoltare a fondo le comunità locali e regionali sul "che fare" e "come fare"; d)dopo gli attendamenti, usare su larga scala gli avvilenti containers quali abitazioni semi-stabili, per anni; e)allargare a dismisura l'area del sisma da sussidiare, soccorrere, sovvenzionare, ecc.: in Irpinia furono inclusi 122 Comuni con lesioni lievissime, in Molise, con San Giuliano di Puglia, tutta la regione divenne terremotata; f)assegnare i lavori della ricostruzione a trattativa privata, comunque senza appalti veri e garantiti.

Proviamoci per contro a vedere i buoni esempi da imitare: a)studiare, analizzare, inventariare ogni pietra, accertare insomma lo stato reale delle varie situazioni; b)tenere unite le comunità locali, coinvolgendole a fondo, ascoltandole, responsabilizzandole, dicendo loro le cose come stanno; c)ricostruire i centri storici com'erano e dov'erano mettendoli in sicurezza sul modello di Venzone, di Tuscania, o anche di certi centri umbro-marchigiani; d)ristrutturare e migliorare a fondo le periferie urbane, senza straparlare di "new town"; e)passare dagli attendamenti alle "instant house" di legno, ai prefabbricati in forma di villaggio usati con successo, per esempio, sull'Appennino umbro-marchigiano; f)andare ad appalti veri, garantiti da un Authority, non col solo criterio del massimo ribasso (dove si infila il racket), ma sulla base di una serie di parametri qualitativi.

Cerchiamo insomma di praticare le virtù, oltre della generosità nei soccorsi, della serietà, della partecipazione, della competenza specifica, della cultura urbanistica e architettonica, della trasparenza nei sussidi e negli appalti. Si può, si deve. Avendo memoria e onestà, morale e intellettuale.

Il terremoto dell'Aquila ha offerto a Silvio Berlusconi una grande visibilità. Così gli è parso opportuno riaprire il discorso del ponte sullo Stretto di Messina, una sua fissazione. Ne ha parlato in una conferenza stampa, l'8 aprile; e poi ieri l'occasione si è ripresentata in un colloquio telefonico con Maurizio Belpietro di Panorama del Giorno, rubrica quotidiana delle reti Mediaset. "Per coprire gli investimenti (necessari alla ricostruzione) potremo anche ritardare qualche opera" ma non il ponte di Messina, ha affermato. "Il ponte sullo Stretto è un'opera epocale di cui la Sicilia ha assoluto bisogno per sentirsi una parte dell'Italia a tutti gli effetti".

Il concetto di "opera epocale" era già stato proposto nel corso della conferenza stampa. "Riteniamo che sia fondamentale per l'unità e la modernità del Paese, la manderemo avanti nei tempi più veloci possibili" ha chiarito allora Berlusconi, aggiungendo di averne parlato "con il ministro Tremonti: non abbiamo preoccupazioni circa la possibilità di reperire i fondi necessari".

Il governo italiano ha dunque una scala di priorità. Le Grandi Opere sono importanti, ma non quanto la ricostruzione dell'Aquila. Importantissima, quest'ultima, anzi decisiva, ma non "epocale" come il Ponte. Gli abruzzesi, quelli delle tendopoli, quelli mandati al mare, quelli invitati nelle case berlusconiane sono infatti già italiani, senza se e senza ma; non così gli abitanti della Sicilia ai quali bisogna offrire il Ponte per far sì che l'Isola si senta una parte dell'Italia "a tutti gli effetti". E così, in particolare, Raffaele Lombardo, presidente della Regione siciliana, alleato difficile, non farà capricci: il governo ha "assoluto bisogno" che non ne faccia, che non si aprano contese anche in basso, oltre che, in alto, quelle leghiste.

Ma non era stato detto e ripetuto che il Ponte si sarebbe retto da sé, a forza di project financing, senza oneri pubblici, come del resto altre Grandi Opere? E perché rimandare le altre Grandi Opere, dovendo finanziare la Ricostruzione? L'unica spiegazione è che c'è un evidente conflitto tra spese, tutte in carico, in ultima analisi, all'erario. E che nella recessione globale, nella crisi nera della finanza creativa e delle banche, le Grandi Opere sono retrocesse di fronte al Terremoto.

Non si fa a tempo a lodare la generosità del premier che subito si incontra un altro ostacolo: messi sulla bilancia il Ponte e la Ricostruzione, è il primo a pesare di più e a prevalere.

Il Ponte dunque. Si tratta dell'idea fissa di Berlusconi. Se ne parla senza soste da trent'anni: nessun risultato. Già Napoleone duecento anni fa ci stava pensando. Ecco che arrivo io e lo faccio. E' il monumento alla mia incommensurabile grandezza. Comunisti e verdi hanno giurato che l'opera è inutile, costosa e devastante, pericolosa in termini sociali e ambientali. Che tutti, inoltre, continueranno ad andare e venire tra Continente e Sicilia con aerei e traghetti, mentre la mafia farà un solo boccone degli appalti. E poi il pericolo di terremoti, in quella zona sismica.... Ma è su questo punto che Berlusconi si erge in tutta la sua possanza.

E proprio contro il Terremoto - non avendo altri avversari con cui lottare - che vuole stabilire chi è il più forte di tutti. E come un altro grande della Terra prima di lui, Serse, frustò il mare che all'Ellesponto aveva distrutto la sua flotta, adesso tocca a lui mostrare alla natura ribelle che l'uomo, anzi l'Uomo, comanda al mare, comanda agli altri uomini, comanda al Terremoto.

Caro eddyburg,

scrivo per ringraziarti dell’ospitalità data al Comitatus Aquilanus e alle sue iniziative. Nella condizione che, in questo momento, sto vivendo, infatti, non immagini quanto io consideri di vitale importanza sapere che esistono ancora “spazi di espressione” per chi osa non omologarsi al “pensiero unico dominante”.

Quanto sta accadendo a L’Aquila mi terrorizza. Qui si sta giocando una partita importante ma molti ne sono ancora inconsapevoli. Sai, quando, in circa trenta secondi, perdi quei luoghi che hanno ospitato la tua esistenza, le tue espressioni di vita privata, le tue relazioni, il tuo lavoro, il tuo impegno sociale, le tue lacrime, i tuoi piaceri…quando perdi, in sostanza, lo spazio che ti circonda, puoi divenire terribilmente fragile. In questo stato di improvviso disagio riacquistare lucidità è faticoso, forse troppo faticoso, e può verificarsi, allora, che raccogli solo i segnali rassicuranti ed accantoni la realtà. La cruda realtà, infatti, può aggiungere quell’ulteriore malessere che, magari, hai il timore di non riuscire a sopportare.

Ecco, temo sia questo stato d’animo - composto, silenzioso ma sofferente - il sentire diffuso tra i cittadini del territorio aquilano così pesantemente colpiti dagli eventi sismici del 6 aprile scorso.

In questo contesto, il Governo - con un “formidabile” sistema decisionista – fa transitare il messaggio rassicurante del “fuori dalle tende, no alla transitorietà, da subito case vere e proprie (magari già arredate)”. In realtà, come sappiamo, dietro la “tranquillità” dei messaggi mediatici, si celano le ombre di un decreto legislativo che non dà certezze di risorse ed “appalta” la qualità della ricostruzione al progetto C.A.S.E. (e alla Società FINTECNA).

Tra mille difficoltà, ora, alcuni cittadini iniziano a contrapporsi. Sono coloro che si oppongono a chiunque voglia giocare sul futuro della città, sulla ricostituzione del suo tessuto sociale e produttivo. È questa la “molla” che ha spinto anche chi ha voluto costituirsi nel “Comitatus Aquilanus”(un nome impegnativo che ricorda la nascita della città dell’Aquila), un gruppo di persone che vuole fare della qualità e della democrazia due elementi irrinunciabili nella ricostruzione dell’Aquila.

Non rinunciare, non rassegnarsi: sono queste le sollecitazioni che guidano quei cittadini aquilani che voi avete scelto di sostenere. Grazie. Un caro saluto.

Quello che state vivendo è uno scandalo nazionale. In una piccola area sono concentrati tutti i vizi dell’Italia di oggi: quelli accumulati in un passato non brillante, e quelli di un presente che si deve definire turpe. Guai a rassegnarsi, a “omologarsi al pensiero unico dominante”. Guai a non resistere, a ogni costo. Guai a rinunciare alle difese possibili (alla resistenza) e alla conservazione degli spazi di libertà che ci sono ancora consentiti, guai a rinunciare alla tenace coltivazione di una riscossa. Buon lavoro a voi, e a tutti gli abruzzesi che condividono la vostra azione.

CLAUDIA FUSANI

"Sono tutti morti a causa dei crolli degli edifici. Non sono stati uccisi dal terremoto, ma dalle case. Eccola qui l’inchiesta. Da qui bisogna partire e senza perdere tempo: ogni palazzo crollato deve diventare il prima possibile la scena del delitto".

Enrico Di Nicola è stato a lungo procuratore capo di Pescara e poi a Bologna. Abruzzese doc vive con pena la tragedia del terremoto. Ma anche con rabbia e sdegno. Il procuratore ha da poco finito di seguire le immagini dei funerali di stato, 205 bare ma i morti sono 287. E non è finita qua.

Procuratore, qualcuno poteva essere salvato?

"La maggior parte, probabilmente. Ma dirlo adesso conta poco".

Il procuratore Rossini ha spiegato ieri all’Unità che sta valutando ogni ipotesi investigativa, dai crolli ad eventuali sottovalutazioni del rischio sismico. Fino a che punto è possibile un’indagine di questo tipo?

"Non solo è possibile ma doverosa. L’ipotesi è disastro colposo contro ignoti. Gli esperti hanno dichiarato che la magnitudo del sisma non avrebbe avuto conseguenze se gli immobili fossero stati costruiti applicando le leggi antisismiche del 1974".

Come cercare di dimostrarlo in una città che non ha più documentazione di sé? In macerie anche Comune e Prefettura.

"Ogni palazzo crollato, pubblico o privato, deve essere trattato come se fosse la scena del delitto. Ogni situazione va subito catalogata e documentata. Repertando blocchi di cemento ma anche utilizzando il materiale di tivù e giornali. Comincerei dagli edifici strategici, prefettura, comune, ospedale, tribunale".

Per ospedale e tribunale forse è più "facile" perché più recenti. Ma per gli altri, ad esempio palazzo Margherita sede del Comune, e la Prefettura, sono edifici monumentali.

"Anche se antichi, e quindi costruiti prima del 1974, ogni anno gli edifici pubblici che sono anche luoghi di lavoro devono essere valutati per idoneità e sicurezza. Esiste un protocollo definito. Lo prescrive la legge, non solo quella antisismica ma anche quella per la sicurezza sui luoghi di lavoro. E comunque anche gli edifici storici o antecedenti il 1974 possono essere messi in sicurezza specie in una zona a così alto rischio sismico".

Lei dice "catalogare e documentare le scene del delitto". In che modo?

"Il cemento armato, ad esempio. Organizzerei nuclei di investigatori e poi di periti. Vorrei avere reperti di blocchi di cemento per ogni edificio crollato e costruito dopo il 1974 per verificare la composizione del cemento ma anche il tipo di ferro utilizzato".

Detto così sembra un lavoro impossibile.

"Conosco bene gli abruzzesi, forti e tenaci ma anche facili alla rassegnazione. Questo invece è il momento in cui devono pretendere e indignarsi. Questa tragedia potrebbe diventare la molla di un grande riscatto e di una grande lezione per tutti. È chiaro che le leggi antisismiche sono state applicate solo burocraticamente, in modo formale ma non nella sostanza".

Servono denunce ed esposti di privati cittadini?

"Può essere sufficiente anche l’iniziativa del sindaco o del Prefetto che chiede l’intervento del Procuratore. Io ho fiducia. Per due motivi: perchè l’Aquila ha un prefetto nuovo appena nominato, Franco Gabrielli, che è un punto di riferimento certo; perché il procuratore Rossini è persona esperta che saprà lavorare".

Crede anche che ci si sia stata sottovalutazione del rischio sismico?

"Non credo si possa prevedere un terremoto. Né che si possa bloccare una città perché ci sono le scosse. Comunque sentirei, in questo caso nell’ambito di un’indagine preliminare senza ipotesi di reato, la Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile che tra il 30 marzo e il 6 aprile ha valutato non esserci rischi".

Molte vittime sono state trovate vestite, avevano paura del terremoto e sono andate a letto pronte per scappare.

"La paura non è un elemento valido per un’inchiesta. La percezione di un fatto non è un fatto".

Ci hanno raccontato della furia del terremoto e non ci hanno spiegato che l'Abruzzo, come una parte consistente del Paese, soprattutto nel centro-sud, è seduto su un letto di cemento impastato con sabbia di mare. Imbracato da un'anima di ferro che il sale di quella sabbia si è mangiato con il tempo, rendendolo sottile e fragile come uno stuzzicadenti.

Un portavoce di "Impregilo" (già gruppo Fiat e oggi gruppo Benetton-Gavio-Ligresti) ha spiegato ieri che quella che è oggi tra le principali imprese di costruzione del Paese (è capofila per la costruzione per il ponte sullo stretto di Messina) si aggiudicò è vero nel 1991 la gara per la messa in funzione dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, ma è "estranea alla realizzazione delle opere di cemento armato". Che non fu lei, ma "altri, nei primi anni '80", ad impastare il calcestruzzo di quello che, dall'alba di lunedì, è il simbolo accartocciato della vergogna. Ma, evidentemente, c'è di più del San Salvatore nella catastrofe abruzzese. Racconta oggi Paolo Clemente, ingegnere della task force Enea-Protezione civile al lavoro tra le macerie dell'Aquila, che gli edifici di nuova costruzione - e per "nuova" è da intendersi fino a trent'anni - sono implosi tutti allo stesso modo. Si sono prima "seduti" sulle proprie fondamenta per poi accartocciarsi al suolo sotto il proprio peso. Di più. "Per quello che è stato sin qui possibile vedere attraverso la ricognizione tra le macerie - spiega - il collasso dei piani bassi è stato prodotto dallo schianto dei pilastri in cemento".

Perché? Paolo Buzzetti, presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), è persona seria. E la mette così. "Se parliamo di sollecitazioni di grado e accelerazione pari a quelle registrate all'Aquila, il cemento armato, se fatto a regola d'arte, deve reggere. Non si discute". Dunque, non è neppure un problema di rispetto di norme antisismiche. È un problema di cemento. Paolo Clemente è d'accordo. "Purtroppo è così - dice - Quel cemento non era di qualità". Incapace di assorbire e disperdere energia, si è sfarinato come pasta frolla non appena investito da una forza di accelerazione che - spiegano gli addetti - è stata, domenica notte, tutt'altro che irresistibile. "Un buon cemento - dice l'ingegnere Alessandro Martelli, responsabile della sezione Prevenzione Rischi Naturali dell'Enea, professore di Scienza delle costruzioni in zona sismica all'università di Ferrara - deve essere in grado di sostenere un carico che oscilli almeno tra i 250 e i 300 chilogrammi per centimetro quadrato. Questa è la regola che dovrebbe valere anche per edifici non proprio recenti. Diciamo dal '70 in poi".

Non è sempre così. Anzi, molto spesso non è così. Qualche nome. Qualche luogo. Nel 2003, dopo il terremoto che nell'anno precedente ha devastato Molise, diverse regioni e comuni italiani sottopongono a verifiche statiche gli edifici scolastici. In Molise, il cemento del liceo "Romita" di Campobasso non regge più di 46 chilogrammi per centimetro quadrato (è sei volte sotto la norma). In Sicilia, a Collesano, nell'entroterra di Cefalù, i pilastri della scuola superiore non vanno oltre i 68 chilogrammi per centimetro quadrato. L'asilo, i 12 chilogrammi per centimetro quadro. Il cemento - ricorda oggi chi condusse l'ispezione - si bucava con la semplice pressione dell'indice. Ciò che restava della sua anima di ferro era uno sfilaccio rugginoso e corroso.Cosa aveva messo in quel cemento chi aveva giocato con le impastatrici e le vite degli altri? E cosa hanno messo in questi anni nel cemento delle nostre case, delle nostre scuole, dei nostri uffici? E quanto ci hanno guadagnato?

Paolo Clemente risponde da ingegnere, con la rassegnazione di chi, purtroppo, sembra sveli un segreto di Pulcinella. "Normalmente, i cattivi costruttori utilizzano sabbia di mare. Costa niente, rispetto alla sabbia da cava. Il problema è che, oltre alle molte impurità, è piena di cloruro di sodio. E quei cloruri, con il tempo, si mangiano il ferro. I margini di guadagno sono alti. Diciamo che fatto 100 il costo della costruzione, chi gioca con la qualità del cemento arriva a guadagnare fino a 50, 60. Chi costruisce a regola d'arte è al 30".

Paolo Buzzetti, mercoledì sarà all'Aquila con una propria commissione tecnica dell'Ance. L'associazione, oltre ad essersi offerta per la ricostruzione della Casa dello Studente, promette un'accelerazione: "Io non amo i processi sommari. Ma deve essere chiaro che non vogliamo difendere tutti. Che chi ha sbagliato, pagherà. Perché per questi signori non c'è spazio nell'Associazione. Chiederemo che venga reintrodotta una figura di controllo che accompagni la costruzione di un edificio dall'inizio alla fine. Evitando che i subappalti, da strumento necessario di duttilità, diventino il ricettacolo di furbizie e illegalità. Ma ci batteremo anche perché il Paese esca dalla logica del ribasso. Quella che spinge molti, pur di stare nel mercato, a costruire a prezzi impossibili. Ad abdicare alla qualità e alla sicurezza".

Successa la tragedia, si corre ai ripari. Con imperdonabile ritardo. Un vizio che ben conosciamo. E che in questo caso riguarda tutti i governi, di centrosinistra e di centrodestra. Le Ntc, esistono dal 2005, ma finora, almeno per gli edifici privati, non c’è l’obbligo di applicarle, perché la loro entrata in vigore è stata di anno in anno puntualmente prorogata. L’ultimo rinvio poco più di un mese fa, manco a dirlo col solito decreto «milleproroghe», lo stesso usato da Prodi nel 2007. Ogni volta i governi di turno hanno ceduto alle pressioni delle lobby dei costruttori e degli ingegneri, che chiedevano più tempo per adeguarsi alle novità e temevano l’aumento dei costi. E così, ancora oggi, tutte le abitazioni private possono essere costruite ignorando le regole più stringenti introdotte in maniera organica nel 2005 e aggiornate nel 2008 per garantire la durata e la resistenza degli edifici ai terremoti e alle altre catastrofi naturali.

Ma ora, dopo il sisma in Abruzzo, la politica si è pentita e l’altro ieri nella commissione Ambiente della Camera è stata approvata col voto di tutti, maggioranza e opposizione, una mozione che impegna il governo ad annullare l’ultima proroga, quella del 27 febbraio scorso, che posticipava l’entrata in vigore delle Ntc dal 30 giugno 2009 al 30 giugno 2010. Impegno che l’esecutivo rispetterà, probabilmente col decreto legge del «piano casa». E pensare che quando si profilava l’ultima proroga non erano mancati gli avvertimenti al governo. L’Atecap, l’associazione delle imprese del calcestruzzo più qualificate (quelle che garantiscono un prodotto certificato secondo le Ntc), aveva scritto al presidente del Consiglio, ai ministri delle Infrastrutture e dello Sviluppo, al capo della Protezione civile, al presiden­te del Consiglio superiore dei lavori pubblici e a tutti i gruppi parlamentari. Il continuo regime di proroga, si legge nella lettera del 23 febbraio, «costituisce un forte disincentivo ad applicare comportamenti e a fare investimenti in grado di garantire maggiore qualità in termini di durabilità e di sicurezza delle opere». Quindi concludeva con una domanda: «Perché rinunciare a livelli di sicurezza maggiori rispetto al passato?».

Una domanda che, a ben vedere, si trascina dal 2001, quando nel testo unico di edilizia si disponeva la successiva emanazione di specifiche tecniche per le costruzioni in zone sismiche. Erano passati 21 anni dal terremoto in Irpinia, 9 dall’alluvione in Valtellina, 3 dalla frana di Sarno. Le specifiche arrivarono solo nel 2003, ma la loro applicazione fu rinviata più volte fino al 2005, quando furono approvate le Norme tecniche per le costruzioni. Una disciplina organica che imponeva l’obbligo della certificazione di qualità per i materiali utilizzati nella costruzione. Priorità dettata dalla tragedia del 31 ottobre 2002, quando, per un terremoto neppure tanto forte, a San Giuliano di Puglia la scuola elementare si sbriciolò uccidendo 27 bambini e una maestra. Ma neppure questa volta le norme furono applicate, a causa di due proroghe. Finché si arriva al testo del 2008 e, almeno in parte, le nuove regole, che si adeguano con grave ritardo agli standard europei, cominciano finalmente a entrare in vigore. In particolare, per gli edifici di «interesse strategico», per esempio scuole, ospedali ed edifici pubblici in genere, c’è l’obbligo di utilizzare il calcestruzzo certificato. Per le costruzioni private, invece, se ne può fare a meno grazie appunto alle proroghe: si risparmia forse, ma le case non sono sicure.

Insieme agli edifici dell'Aquila la cosa più fragile, in Italia, è la memoria. Sembra quasi che i terremoti non siano un genere di catastrofe con la quale conviviamo da millenni. Soprattutto la mia generazione, ormai classe dirigente, sembra dimenticare di essere cresciuta guardando in televisione sobrie immagini in bianco e nero dei terremoti nel Belice, ad Ancona e a Tuscania, in Friuli. E poi l'Irpinia e l'Appennino umbro-marchigiano.

Ogni volta abbiamo guardato con stupore le macerie, abbiamo pianto morti, abbiamo assistito alle discussioni sulla «ricostruzione» e in alcuni casi alle successive polemiche sul cattivo uso dei fondi e su «famiglie che dopo quindici anni ancora abitano nei container». Chi poi come me è anche architetto sa bene che tecniche e normative si sono evolute e hanno cominciato a offrire, a chi voglia usarli, da un lato difese e protezioni abbastanza efficienti contro la violenza dei terremoti, dall'altro programmi e schemi di comportamento molto efficaci per impostare la ricostruzione.

Dal Friuli in poi il progresso tecnico-scientifico e la buona volontà amministrativa hanno permesso di rendere sempre più efficienti i meccanismi di prevenzione e i modi di reazione fino a un caso di ricostruzione davvero virtuosa come quella umbromarchigiana del terremoto del 1997, anche in quell'occasione caratterizzato da danni enormi al patrimonio storico-artistico e a quello edilizio. Per tutta questa serie di notizie, che i politici italiani dovrebbero conoscere bene, l'uscita del premier sulle «new town» è sembrata una di quelle da non prendere troppo sul serio, destinata a eccitare la fantasia e il fuoco di fila dei «commenti degli esperti» sui giornali piuttosto che a muovere azioni politiche e amministrative concrete.

Dati per scontati gli argomenti a favore del metodo «Aquila 2» - costa meno, si può fare più antisismica e magari più ecologica, produce occupazione e offre un'occasione di lavoro semplice e redditizia all'industria delle costruzioni - non ci vuole molto a mettere in luce le controindicazioni più pesanti: la perdita di memoria delle comunità, un territorio progressivamente popolato di città-fantasma, l'occupazione progressiva del poco suolo ancora disponibile, la distruzione di una delle ultime risorse - il turismo ambientale - che tengono in vita questo territorio.

Basta andarsi a fare un giro a Gibellina Nuova - la miglior «new town» post-sisma d'Italia costruita dal sindaco più illuminato e progressista con gli architetti più bravi e politicamente impegnati - per misurare la difficoltà di impiantare «a freddo» una comunità urbana. La città ha ancora un aspetto vagamente fantasmatico e tutti ci vanno solo per poter vedere l'indimenticabile opera di Burri, il «cretto» di cemento che imprigiona le rovine del vecchio paese. Quindi, visto che Burri non c'è più e che non possiamo pensare di riscattare centinaia di paesi abbandonati con altrettante opere di land-art, l'idea delle new-town rimane una trovata sensazionalistica e poco praticabile, se non per frammenti edilizi, addizioni specifiche che andranno a sostituire quelle costruzioni che davvero non vale la pena o non è il caso di ricostruire, all'interno di un progetto complessivo.

Brasilia e Chandighar in tutta questa discussione non c'entrano niente, sono città/opere d'arte, centri politici e amministrativi inventati a tavolino e realizzati dai maestri nel pieno dell'illusione eroica del modernismo, alimentati dal fatto di essere «nuove capitali» di giovani democrazie. L'Italia, come altri paesi, ha ricostruito se stessa centinaia di volte sulle proprie rovine, e l'impressione è che la sua identità profonda sia più in questa sua capacità di rigenerarsi e stratificare piuttosto che nel ricominciare ogni volta daccapo.

A prescindere da come si ricostruirà, l'aspetto più eclatante del sisma aquilano è certamente nel numero eccessivo di edifici recenti - costruzioni «antisismiche» in cemento armato - o recentemente restaurati che sono crollati all'istante, senza garantire nessuno di quei «rallentamenti» e «attenuazioni» del fenomeno che salvano in genere gli abitanti dai terremoti. Questa sì che è una notizia grave, soprattutto se messa insieme ad altre. Come quella che solo due anni fa l'area è stata inserita nelle zone di rischio sismico di primo grado (!), come il fatto che la normativa sismica in Italia, appena aggiornata, è rigorosa e adeguata e quindi chiaramente, in questo caso, non rispettata, come la costatazione, che non può non far pensare molto male, che tra gli edifici recenti che hanno reagito male ci sono alcuni edifici pubblici, il che vuol dire gare, appalti, ribassi eccetera.

L'Italia in passato ha fatto il gravissimo errore di separare, come fossero il bene e il male, la cultura della conservazione dell'antico da quella della progettazione del nuovo. Le conseguenze sono state gravissime: la conservazione è diventata immobilismo testardo e ottuso, il nuovo è diventato «brutto», casuale, non progettato, abbandonato a figure professionali inadeguate a un mercato spietato e impermeabile alle leggi. Per l'ennesima volta la fragilità con la quale il nostro territorio reagisce alle catastrofi naturali ci mette davanti a questo problema. Non è chiaro, dalle prime reazioni, se la risposta andrà a incidere su questa cultura e saprà trarre vantaggio dalle esperienze precedenti o se ci si limiterà a risarcire le comunità «dando aiuti» e incentivando l'industria edilizia.

Tremendo sarebbe costruire una New L’Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l’eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L’Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l’artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.

Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l’orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c’è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l’identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L’artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un’industria che non ha saputo reggere l’urto della globalizzazione.

A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell’architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt’altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l’esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l’identità perduta.

Il terremoto non deve esser l’occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l’assetto urbano e territoriale che a L’Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell’ambiente circostante. Non c’è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.

Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l’aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.

Ricostruire o costruire. Restaurare o cercare aree per nuovi insediamenti. Il dramma de L´Aquila e dei paesi abruzzesi interroga architetti e urbanisti. È come tornare alle radici del mestiere. Nella disgrazia, però, molti segnalano che l´Italia non parte da zero quanto a riflessioni e competenze, per esempio, sul risanamento di centri storici. Anzi, questo è uno dei settori in cui c´è sentore d´eccellenza, almeno dal punto di vista culturale.

Competenze alimentate dalle esperienze, intanto. Quelle generalmente considerate positive - Friuli (1976) e Marche e Umbria (1997). Ma anche quelle negative - Sicilia (1968) e Campania e Basilicata (1980) - quando terribili terremoti hanno prodotto soluzioni devastanti al punto da essere bollate come "un secondo terremoto". A Napoli, però (170 mila sfollati, 7 mila edifici inagibili, 170 strade chiuse), si tentò di combinare i due sistemi - risanamento e nuove edificazioni. Venne avviato il restauro del centro storico cittadino e il concetto di centro storico fu esteso ai quartieri popolari di San Giovanni a Teduccio, Barra e San Pietro a Patierno, dove vennero ristrutturati casali e altri edifici. Poi si costruirono tredicimila alloggi in aree che il Comune fece espropriare. Artefice dell´esperimento fu Vezio De Lucia: «Ereditavamo una riflessione culturale che risaliva agli anni Sessanta, alla cosiddetta Carta di Gubbio, che considerava i centri storici non solo un concentrato di monumenti, ma un tessuto urbano da tutelare nel suo complesso».

Il centro storico venne considerato il nucleo dal quale si era sviluppata in genere la città italiana. Furono messe a punto tecniche di recupero straordinariamente avanzate. La principale delle quali è l´analisi tipologica: Saverio Muratori e poi Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto individuarono un numero limitato di tecniche costruttive standard che potevano essere riprodotte sistematicamente (larghezza delle travi, distanza fra i muri portanti, ecc.). Il primo esperimento di restauro di una parte di centro storico risale al 1972. Fu Pier Luigi Cervellati ad attuarlo a Bologna. «Quelle competenze sono il grande vanto che l´urbanistica italiana può esibire in Europa e nel mondo», insiste De Lucia, «e tornano utili in situazioni drammatiche come quella abruzzese». Tecniche analoghe vennero praticate a Gemona, in Friuli, e a Sant´Angelo de´ Lombardi, in Irpinia. E a Napoli. Laddove invece i centri storici sono stati o parzialmente o del tutto abbandonati per edificare nuovi insediamenti, i risultati sono sconvolgenti, come in quei paesi campani (Laviano, per esempio), che sfoggiano abitati informi, slabbrati, senza un centro.

Per Franco Purini, architetto e professore a Roma, «il recupero di un centro antico distrutto va attuato con metodo filologico, ma nuovi quartieri sono indispensabili». Nuovi quartieri, non nuove città. «È proprio l´antico che ce lo chiede», spiega, «perché il patrimonio edilizio del passato può non andare bene per le esigenze di sostenibilità e di sicurezza. Nuovi quartieri che però creino spazi pubblici e agevolino il formarsi di comunità». Lo spettro, invece, di insediamenti senza qualità è evocato da Guido Martinotti, sociologo urbano: «Riferirsi alle new towns è del tutto infelice. L´esperienza inglese è completamente diversa, ma ci sono voluti decenni prima che molte di esse diventassero vivibili. Centri storici come quelli abruzzesi hanno valore non solo per gli aspetti fisici, ma perché offrono un invidiabile senso comunitario».

«Una soluzione buona in assoluto non esiste», interviene Italo Insolera, fra i decani dell´urbanistica italiana. «Le esperienze migliori sono avvenute usando il lanternino». Tendenzialmente la strada maestra indicata da Insolera è quella di ricostruire un centro storico "com´era, dov´era". «Le città non si possono buttare via e rifare, sono il punto in cui convergono tante funzioni - la residenza, il lavoro, gli uffici - che non si inventano. Più che alle new towns inglesi io guarderei ai quartieri Ina-Casa, realizzati in Italia dal 1949 al 1963».

Recupero dell´antico o costruzione del nuovo? «È una falsa dialettica», sintetizza l´architetto Paolo Desideri. «Spero che nessuno immagini una costruzione ex novo come alternativa al recupero del centro storico. Il disastro di un terremoto è l´occasione inesorabile per sperimentare il moderno nel centro storico. Altro che new towns». A possibili trasformazioni pensa anche l´urbanista Paolo Berdini. Ma non d´architettura: «Le distruzioni di un terremoto possono consentire di eliminare dai centri storici le alterazioni compiute negli ultimi decenni, che comunque sono le prime ad essere crollate a L´Aquila. E anche di localizzare altrove alcune funzioni che lo soffocano, i tribunali, le prefetture, le università».

Costruire una new town all’Aquila, in tempi rapidi per dare una casa agli sfollati. Una città nuova, altrove, distante dalle strade dove sono crollati i palazzi, dove la gente ha vissuto, dove ha ricordi e radici. Lancia l’idea il premier Berlusconi, memore forse della «sua» Milano2, con un occhio alle new town inglesi, alle città satellite parigine. Ma l’idea non piace agli addetti ai lavori, dall’architetto Fuksas all’urbanista Gregotti. Dubbiosi anche psicologi e sociologi, capaci di leggere la trama delle esistenze urbane ricordando la storia recente che racconta di banlieu francesi diventate da sogno di città giardino a sobborghi in fiamme, come sottolinea il sociologo Duccio Scatolero che paventa proprio il rischio di nuovi ghetti. Lontani dalle città ideali immaginate nel Rinascimento e segnate oggi da edifici di scarso valore architettonico, un mondo a parte. Semplicemente un’altra periferia.

Perché qui non si crea dal nulla, come è stato per la capitale Brasilia. «Qui c’è una città con una lunga storia. Vedo difficile abbandonare, lasciare i ruderi come se fossero le rovine di Paestum e rifare tutto altrove. Anche perché le new town erano nate per altri motivi: decongestionare Londra o riorganizzare la periferia parigina», commenta Vittorio Gregotti. Un sogno comunque fallito secondo Massimiliano Fuksas. «Oggi nessuno le fa più perché non hanno dato risultati positivi, si è cercato di riprodurre l’effetto città senza successo: non sono campagna, non sono città».

Media Giuseppe Roma, architetto direttore del Censis che ricorda come ci provò De Gasperi a fare un nuovo quartiere per gli abitanti degli insalubri Sassi di Matera. «Ma la gente si ritrovò persa nel nuovo centro: troppo asettico, mancava la vita comune». Così propone di ristrutturare parte del centro all’Aquila - «perché in una città le radici sono tutto» - e costruire quartieri nuovi ma «con edifici di alto livello e qualità, non palazzoni popolari tutti uguali. E soprattutto sentendo la gente perché non sia un progetto calato dall’alto».

Parole confermate dall’esperienza di Fabio Oblach, architetto impegnato in Friuli dopo il sisma. «La gente venne coinvolta in assemblee durante le quali ragionò coi tecnici sulla riedificazione. E fondamentale fu la conservazione della memoria: se le case furono costruite un determinato posto c’è una ragione», dice contrario allo spostamento dei terremotati d’Abruzzo nella new town. Uno spostamento dai luoghi in cui la gente è cresciuta che può provocare una perdita di sicurezza, di identità ed equilibrio, secondo lo psichiatra Francesco Cro. Ma che può in alcuni casi lenire il dolore di chi non reggerebbe a continuare a vivere nei quartieri dove ha visto morire figli, amici, genitori.

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