L’Aquila è morta, ora. Nessuno si azzarda a stimare quanti soldi, quanto lavoro, quanto tempo servirà per rimettere in piedi una città che, circondario compreso, contava centomila abitanti. Un problema che per adesso non si pone nessuno: la priorità, dicono alla Protezione Civile e al Comune, è risolvere l’emergenza, far uscire prima dell’inverno dalle tendopoli le quasi 20.000 persone ancora alloggiate nei campi, riaprire le scuole. Ma dopo l’emergenza si rischia di trovare un deserto economico, sociale, urbanistico.
Oggi la «popolazione assistita» dal commissario straordinario Guido Bertolaso ammonta a 47.961 persone: 19.857 nelle tendopoli, 18.729 negli alberghi, 9.631 in case private. Di questi 48.000 sfollati, 27.886 vivevano in case attualmente del tutto inagibili (il 30,7% del totale). Circa 15.000 (4500 entro la fine di settembre, altrettanti dopo il 16 ottobre, e poi a seguire) finiranno nei 4950 appartamenti delle C.A.S.E. antisismiche realizzate in 19 aree, alcune distanti anche diversi chilometri dall’Aquila. Altri 5000 circa andranno nelle case sfitte, ne sono state censite 2600; 1000 negli alloggi usati per il G8 nella Caserma di Coppito della GdF. Altri 5000 torneranno nelle loro abitazioni classificate A, ovvero con danni inferiori a 10.000 euro. Il resto andrà negli alberghi o in case affittate utilizzando il contributo di 600 euro al mese della Protezione Civile. E l’emergenza dell’inverno sarà superata con sistemazioni «dignitose e confortevoli», come ha detto Guido Bertolaso.
Numeri che non tranquillizzano molti aquilani, a cominciare dalle associazioni che aderiscono al Comitato 3.32 (l’ora del sisma del 6 aprile) che hanno sempre contestato la filosofia Bertolaso delle C.A.S.E., chiedendo piuttosto di imitare quanto si fece in Umbria e Marche: sistemazioni temporanee in casette/container, ora moderne e abbastanza confortevoli, e contestuale avvio della ricostruzione delle case danneggiate. Una strada considerata ancora percorribile. «Le C.A.S.E. - spiega Sara Vegni, del “3.32” - sono state localizzate senza alcun confronto con gli aquilani e senza alcun riguardo per le esigenze delle persone. La risistemazione degli edifici A, B e C, quelli poco o nulla danneggiati, è completamente ferma anche per le procedure confuse e complesse stabilite dal commissario. Si sta strappando alle sue radici un’intera popolazione, sparpagliandola fra l’entroterra e la costa, e avviando una guerra tra poveri per avere le C.A.S.E.». Guerra tra poveri - 15 mila posti per 23 mila potenziali richiedenti - che verrà resa più spigolosa dai criteri per adesso definiti dal Comune dell’Aquila per l’assegnazione: saranno favorite le famiglie con molti figli, molti anziani, e disposte a coabitare, ovvero per definizione le famiglie di stranieri o immigrati. Una donna single con madre anziana a carico in pratica non avrà speranze. Uno dei molti grattacapi da risolvere per il sindaco Massimo Cialente (Pd), di fatto senza reali poteri di governo in questa fase di emergenza.
Il sindaco Cialente - lo incontriamo emaciato, stanchissimo - è il sindaco di una città che non esiste più. «Era dal terremoto del 1908 di Messina e Reggio - spiega Luigi Vicinanza, direttore del quotidiano abruzzese “il Centro” - che non veniva colpito in modo tanto distruttivo un grande capoluogo». Un capoluogo, spiega l’urbanista Vezio De Lucia, animatore del «Comitatus Aquilanus» (anch’esso contrarissimo alla filosofia Bertolaso), «che era già fortemente diffuso. Ma che viveva grazie a un centro storico eccellente, qualificato, ricco, che attirava 15.000 studenti universitari da tutto il Sud assicurando qualità della vita e buona offerta formativa. Un centro storico che oggi non esiste più né si pensa di riattivare. Con le C.A.S.E. ha prevalso la logica della diaspora».
Ad alimentare l’economia e la vita della città, oltre agli universitari che rendevano L’Aquila tanto vivace, c’era un tessuto imprenditoriale debole, con un polo dell’elettronica già in crisi da anni. Dopo il sisma, le imprese locali non sono riuscite a inserirsi (se non in minima parte per l'edilizia) nelle attività legate all’emergenza. Persino il latte distribuito nei campi viene da fuori, anche la manodopera per le C.A.S.E. non è aquilana, nel circondario sono piovute aziende da tutta Italia. Francesco Manni, direttore dei costruttori dell’Ance dell’Aquila, è ottimista per il futuro: «Avremo spazio e lavoro per tutti, la ricostruzione sarà una cosa gigantesca». Antonio Cappelli, direttore dell’Unione Industriali, ricorda però che ora sono in cassa integrazione circa 7000 persone. E discrimina tra un’industria manifatturiera (elettronica esclusa) che «si è rimessa in moto» e un terziario (specie il piccolo commercio e l’artigianato) del tutto paralizzato.
Molti sfollati non hanno letteralmente i soldi (anche 10-20 mila euro, che verranno rimborsati) da anticipare alle ditte per sistemare le case A e B. Molti terreni agricoli vengono comprati da speculatori, e venduti in lotti dove sorgono casette di legno a blocchi di favelas. E come chiariscono alla Protezione Civile, «la vera ricostruzione sarà un problema immenso, ci possono volere dieci, venti o cinquant’anni». I soldi arriveranno, si spera. Sarà questa la speranza per L'Aquila? «La verità - conclude amaro Vicinanza, che seguì a suo tempo il sisma e il dopo-sisma in Irpinia - è che un terremoto non è mai un’occasione di sviluppo. E’ un disastro e basta».
All'Aquila in questi giorni il clima sta cambiando, di notte la temperatura precipita e presto farà troppo freddo per vivere in tenda. La gente è preoccupata e comincia ad arrabbiarsi, ma tiene ancora la voce bassa: nei campi, luoghi di concentramento coatto dove le persone dipendono completamente dall'assistenza, non ci si può riunire, il regolamento lo vieta. E senza confronto è difficile far emergere il dissenso, soprattutto quando le necessità in gioco sono irrinunciabili. Specialmente quella delle case, che mancheranno a lungo, nonostante le promesse di alloggi subito per tutti. A quattro mesi dal sisma gli aquilani sfollati continuano a essere moltissimi: più di 60.000, di cui 45.000 assistiti tra alberghi, case affittate e, soprattutto, le tendopoli, dove vivono ammassate ancora almeno 20.000 persone.
Tra pochi giorni si conoscerà il numero delle case inagibili. I cittadini residenti in edifici dichiarati tali avevano infatti tempo fino al 10 agosto per presentare la domanda di assegnazione della casa. Ai richiedenti verranno attribuiti dei punti e, sulla base della graduatoria, si farà l'assegnazione. Ma non ci saranno case per tutti. Infatti, solo 13.000 potranno alloggiare nelle palazzine del progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) che stanno sorgendo come funghi nel territorio del comune dell'Aquila. La sorte degli altri, meno fortunati, non si conosce. Per ora non c'è traccia di un concreto piano di requisizione degli alloggi sfitti o invenduti, non danneggiati o ripristinabili, che sono molti e potrebbero ospitare gran parte dei senza tetto. Non solo, gli interventi di recupero degli edifici meno compromessi stentano a partire, da un lato per le contraddizioni tecniche delle diverse ordinanze, dall'altro per i contributi che non arrivano ancora e che, comunque, riguarderanno solo i proprietari di prime case.
Invece, l'unica soluzione abitativa che sta prendendo alacremente forma, per merito degli operai delle ditte subappaltatrici che lavorano fino a notte, è il progetto Case, la new town distribuita sul territorio, tanto sostenuta da Berlusconi e Bertolaso. L'affidamento dei lavori è stato fatto in fretta: in regime di ordinanza si saltano via tutte le prescrizioni legislative sulle aggiudicazioni. Il progetto non prevede una vera e propria nuova città, come si disse all'inizio, ma tanti insediamenti più piccoli e meno invasivi, sparsi però nel vastissimo e assai differenziato territorio del comune dell'Aquila. In teoria una scelta migliore, in pratica uno scempio ambientale che innescherà un processo di allontanamento della popolazione da quel che resta della città. Infatti, molti dei 19 siti individuati dalla protezione civile (di concerto col comune) per le nuove palazzine prefabbricate, poggiate come palafitte sui piloni delle piattaforme antisismiche, non sono vicini alla città, bensì dislocati nella campagna circostante o, addirittura, arrampicati sulle pendici del Gran Sasso. «Il problema è proprio quello del posizionamento. Una localizzazione più razionale e meno attenta agli interessi economici, fondata su un criterio di prossimità alla città e sulla difesa delle specificità ambientali, avrebbe garantito agli aquilani sradicati un minimo di continuità con la propria storia spezzata, il mantenimento dell'identità e, soprattutto della socialità», come ci spiega Antonello Ciccozzi, docente di antropologia culturale all'Università dell'Aquila. Invece, quando si è trattato di scegliere dove collocare i costosissimi insediamenti (circa 3000 euro a mq), «della qualità della vita e del rapporto indissociabile tra esistenza e luogo non si è ricordato nessuno».
Il territorio comunale aquilano non potrebbe essere più vario: non solo il bellissimo centro storico oggi zona rossa interdetta alla popolazione (dove vivevano però circa 6000 persone), l'ampia periferia frutto di un'urbanizzazione non pianificata (nei cui palazzi e condomini viveva invece la maggior parte degli sfollati), la zona industriale a est e ovest, ma anche larghe zone rurali e frazioni montane poco popolate, comprese nel Parco Nazionale. Una di queste è Camarda, sulla strada che sale sul Gran Sasso. Di fronte al paese di pietra arrampicato sul monte stanno cominciando i lavori di Case. Due immense gru dominano il paesaggio, finora protetto dai vincoli del Parco. Le ruspe hanno già sbancato il terreno: resiste solo una quercia secolare, difesa strenuamente dai pochi abitanti del paese. Davanti a Camarda presto sorgeranno 4 o 5 palazzine destinate ai senza tetto aquilani con meno punti, che saranno sradicati da un contesto cittadino e trasferiti all'interno di un vero e proprio non luogo, una tipica periferia suburbana delocalizzata all'interno di una comunità montana «con effetti di completo spaesamento», spiega Ciccozzi.
Se la scelta di Camarda appare del tutto irragionevole, l'insediamento previsto ad Assergi, pochi chilometri più in alto verso il traforo, crea non meno problemi. Anche se l'individuazione del sito tra i monti ha una specie di giustificazione: in quel posto vi erano ancora i resti fatiscenti delle baracche utilizzate, più di vent'anni fa, dagli operai che hanno scavato il traforo, abbandonati dall'ultima impresa impegnata nella grande opera, Impregilo, che non si era curata di bonificare la zona, forse nemmeno dall'amianto. Adesso il progetto Case ha permesso il recupero ambientale: al posto delle baracche sorgeranno i consueti piccoli condomini che, per ora, rovineranno soltanto il paesaggio ma, più avanti, quando tra qualche anno gli aquilani deportati rientreranno a casa, si trasformeranno in contesti degradati, ben più invasivi delle baracche. Il discorso della degenerazione vale per tutti gli insediamenti, anche i più vicini alla città, che si teme diventino, nel tempo, contenitori di ogni sorta di emarginazione.
Nessuno fiata davanti a questo progetto, anzi lo si guarda come una panacea. Il rischio è essere tacciati di disfattismo o, meglio ancora, accusati di esser tutti comunisti. «Qui ci stanno aiutando, mica si può sputare sul piatto in cui si mangia».
Ma dove vanno gli aiuti, ci si chiede seguendo Ciccozzi, che parla della catena distorta della solidarietà e dice che «chi aiuta, alla fine, in varia misura aiuta anche sé stesso». E, richiamando la teoria della Shock Economy di Naomi Klein, spiega che «le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case. Favoriscono il capitalismo di conquista, che subito programma investimenti. Invece bisognava mettere al centro la difesa della qualità della vita, porsi il problema di ricucire la socialità interrotta, tutelare l'identità dei luoghi e delle persone». A chi conveniva il costosissimo Progetto Case imposto dall'alto senza negoziazione? Perché non sono stati espropriati i terreni più vicini alla città, le cui quotazioni cresceranno subito e saranno preda di facili speculazioni? E, soprattutto, perché non si è perseguita la strada della requisizione degli alloggi vuoti, che avrebbe aiutato anche le piccole imprese locali? Ad Assergi, ad esempio, un grande edificio mai completato domina con la sua mole tutta la valle. Un ecomostro da abbattere che, intanto, poteva essere reso abitabile con poco sforzo e gran risparmio di denaro pubblico e beni comuni, in primo luogo il paesaggio.
A causa di una lunga serie di scelte sbagliate, a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali, il terremoto dell'aprile scorso ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile. All'Aquila e nel resto del territorio hanno avuto la peggio chiese e edifici che da sempre rappresentano i picchi di vulnerabilità dell'intera area
Nella Cronica di Buccio di Ranallo, il più importante scrittore aquilano del XIV secolo, si racconta in versi la storia della città dell'Aquila, la cui fondazione risale alla prima metà del Duecento, quando furono riuniti in un solo centro gli abitanti di numerosi castelli sparsi sull'altipiano (novantanove secondo la leggenda, come le cannelle della famosa fontana). Da questa unione tra le genti derivò l'impianto originario dell'Aquila: tanti rioni uno accanto all'altro, ciascuno con una piazza, una chiesa, una fontana, le case.
Ferite nel tempo
Tra i fatti più salienti che Buccio richiama nelle sue quartine, spicca il terremoto del 1349, che solo all'Aquila fece più di ottocento morti, distrusse le mura, le case e le chiese e costrinse, come oggi, la popolazione a abbandonare l'abitato. Gli scienziati e gli storici hanno potuto ricostruire che quel funesto terremoto ebbe un'intensità pari al grado 6.5 della scala Richter e produsse danni valutabili attorno al decimo grado della scala Mercalli. Valori dunque leggermente superiori a quelli del terremoto che il 6 aprile scorso ha colpito l'Abruzzo, provocando, oltre alle vittime e ai gravissimi danni, anche nuove e forse insanabili ferite al patrimonio culturale.
Inventariando queste ferite, per valutare i costi e le possibilità di un intervento di recupero ancora tutto da progettare, osservando lo strazio e le macerie delle chiese, dei palazzi e dell'edilizia minuta, che insieme componevano il tessuto abbastanza compatto del centro storico aquilano, è inevitabile notare che mai come in questo caso la tragedia consumata fosse prevedibile se non addirittura annunciata. E non per lo sciame sismico che ha preceduto le scosse del 6 aprile o per i timori del ricercatore Giuliani. Lo prova il quadro delle lesioni e dei crolli del patrimonio culturale, che ricalca quello generato degli eventi sismici precedenti. Ma gli esperti della Protezione civile, che si erano riuniti proprio all'Aquila il 31 marzo per rispondere in modo tecnico alle preoccupazioni crescenti, avevano stigmatizzato l'allarmismo senza approntare alcun piano di sicurezza. Nessuna precauzione, benché L'Aquila sorga in uno dei territori a maggior sismicità della penisola e la sua storia sia profondamente segnata dai continui terremoti ricordati dalle fonti. Ripercorrere l'elenco è istruttivo: 1315, 1349, 1389, 1455, 1459, 1461 (che rase al suolo il paese di Onna e fu analogo per intensità a quello del 1349), 1501, 1646, 1672, 1762, 1789, 1848 1874, 1895, 1915 (che provocò più di 33.000 morti nella sola Avezzano) per arrivare a quelli più recenti.
Cattedrali in pericolo
Il più grave di tutti fu probabilmente il terremoto del 1703, che contò circa ottomila morti e che venne anticipato da un lunghissimo sciame sismico, proprio come oggi. Le violente scosse (6,7 della scala Richter con danni superiori al decimo grado della scala Mercalli), già in gennaio fecero crollare molte chiese: i cronisti ricordano in macerie san Quinziano, san Pietro di Sassa e san Pietro di Coppito, viste in frantumi anche oggi. A febbraio, un'altra scossa diede il colpo di grazia, facendo crollare anche le capriate del tetto della chiesa di S. Domenico, che rovinò sopra a centinaia di fedeli raccolti per la funzione. Oggi la chiesa di S. Domenico sta collassando di nuovo, anche per colpa degli interventi di restauro che hanno appesantito la copertura e irrigidito la sommità delle murature con un cordolo in cemento armato. Allora vennero giù le chiese di San Bernardino che oggi ha perso il campanile ed è lesionata nella zona absidale; San Filippo, la Cattedrale, Sant'Agostino, S. Francesco: le principali chiese della città, che abbiamo visto cedere nuovamente sotto i colpi del sisma di aprile. La cattedrale in particolare, apparentemente integra, rivela al suo interno la rovina del transetto.
Dall'altro lato della piazza, tra le più grandi e belle d'Italia, si affaccia la chiesa di santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, costruita dopo il terremoto del 1703 anche con il concorso di Valadier, che ne progettò la cupola. Proprio la cupola non ha resistito al trauma e versa in pietose condizioni, parzialmente recuperate da un tecnologico intervento di messa in sicurezza coperto da un leggerissimo ombrello, destinato a diventare uno dei simboli della macchina dei soccorsi guidata, in questi quattro mesi, soprattutto dagli ingegneri, che hanno anche progettato le puntellature dei vigili del fuoco. Invece, la grave e ininterrotta storia sismica dell'Aquila avrebbe dovuto produrre particolare attenzione nelle scelte costruttive e di restauro, negli indirizzi politici e culturali e, soprattutto, nella prevenzione del rischio: fatta di saggia valutazione della vulnerabilità, di opportuni presidi e di continua e paziente manutenzione. Ma la città, classificata fin dal tempo del terremoto del 1915 tra quelle più sismiche del paese, era stata in anni recenti declassata dalla zona 1 di massima pericolosità alla zona 2 di sismicità media, alla quale si attribuisce minor rischio e conseguenti minori limitazioni, soprattutto dal punto di vista costruttivo. Diminuire il grado di rischio comportava costi più bassi per l'edilizia e consentiva criteri diversi, assai più permissivi, ad esempio riguardo all'altezza dei nuovi edifici, subito cresciuti anche nelle zone meno sicure della città (l'area di Fossa ad esempio, dove si sono polverizzati i palazzi più recenti, tutta cava all'interno, come d'altronde dice il nome stesso).
Forse anche in ragione di queste scelte (a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali), il terremoto di aprile ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile sia all'Aquila che nel resto del territorio dove, come sempre, hanno avuto la peggio gli edifici storici scarsamente conservati e le chiese che, nella maggior parte dei casi, rappresentano, per ragioni strutturali e morfologiche, i picchi di vulnerabilità dell'intera area. Nonostante gli sforzi individuali e collettivi, la solidarietà e la partecipazione, il sisma ha rivelato, purtroppo, anche i limiti e l'impreparazione delle istituzioni deputate alla tutela del patrimonio. A fronte del ripetersi, quasi secondo copione, dei terremoti nel nostro paese, il ministero per i beni e le attività culturali non è riuscito a strutturare nel tempo un modello di gestione del patrimonio culturale nell'emergenza sismica. Facendo, ad esempio, tesoro delle esperienze passate, come quella del terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche.
Solidarietà e limiti istituzionali
Da anni si ripete che ci sarebbe bisogno di una squadra operativa aggiornata, cresciuta sul campo nel corso delle precedenti emergenze, pronta a entrare in gioco al fianco della Protezione civile al momento del bisogno e in grado di trasmettere rapidamente istruzioni e competenze ai tecnici presenti sul territorio colpito, depositari, viceversa, di conoscenze indispensabili per affrontare la specificità della situazione. Ma questo non è mai stato fatto e ogni volta si riparte da zero, senza le preziose competenze ma con la contrattazione sindacale che permette a tutti, esperti e no, di partecipare al «progetto sisma». Specialmente in questa occasione, tanto pervasivamente gestita dalla Protezione civile, che ha monopolizzato ed occupato fisicamente ogni spazio, anche quelli di pertinenza del Mibac. Anche nel campo dei beni culturali, infatti, si sta compiendo, nel laboratorio emergenziale dell'Aquila, l'esautoramento delle istituzioni pubbliche, statali e non, a favore del corpo scelto della Protezione civile, che prende in carico tutto: le scelte calano dall'alto, non c'è partecipazione diretta del ministero deputato alla tutela, tantomeno delle soprintendenze locali che presidiano il territorio. Per la prima volta il vicecommissario straordinario per i beni culturali non è nei ruoli del Mibac ma dipende direttamente dalla Protezione civile. D'altronde anche il ministero sta subendo la stessa sorte di lenta ma progressiva dismissione, tra commissariamenti e drastiche riduzioni di risorse. Per l'ufficio del vicecommissario lavorano sia i tecnici delle Soprintendenze abruzzesi che quelli degli altri uffici del ministero che a turno contribuiscono alla prima speditiva valutazione dei danni, che ha l'obiettivo di fornire anche un'indicazione economica di massima, utile a prevedere le coordinate del piano di recupero.
Ma nessuno ha un quadro completo, neppure settoriale: secondo una logica eterodiretta, si procede in maniera puntuale, senza aver chiari gli obiettivi generali, se pur ci sono. Anni luce di distanza dalla necessaria multidisciplinarietà sperimentata ai tempi del Gruppo nazionale difesa terremoti del Cnr, quando si discuteva dell'opportunità di protocolli operativi e schede di rilevamento danni anche per il patrimonio artistico (beni mobili e apparati decorativi fissi) e non solo, come adesso, per i contenitori architettonici, le chiese ed i palazzi. Manca il confronto, sotto il tallone di ferro della Protezione civile, e la partita è grande e davvero difficile.
Scelte tragiche
Non si tratta, naturalmente, di restituire L'Aquila così com'era ai suoi cittadini, come ha promesso il presidente del consiglio, bensì di studiare un piano di ricostruzione che conservi il più possibile ma non si accanisca terapeuticamente sugli edifici crollati: abbia il coraggio di demolire con coscienza laddove inevitabile. All'opera ci dovrebbero essere non solo gli ingegneri ma squadre di architetti, pianificatori, urbanisti, restauratori e storici dell'arte, che potrebbero, in tempi rapidi, progettare insieme la nuova città.
Il problema vero e critico riguarda infatti i centri storici (soprattutto quello aquilano, ma il discorso vale anche per il territorio), in cui le emergenze monumentali e gli edifici vincolati non sono isolati, bensì connessi da una fitta trama di edilizia minore. Questo è il punto chiave di cui non parla nessuno. Forse si potrà restaurare la cupola delle Anime Sante ma certo non l'edilizia storica minuta, costruita con materiali poveri malamente conservati. La partita da giocare è quella della ricostruzione e riconnessione del tessuto storico: il rapporto tra architettura contemporanea e ferite aperte della città, progetto e memoria. Nel centro storico vi saranno, inevitabilmente, dei buchi che dovranno essere studiati e riempiti senza ripetere gli errori del passato.
Per far questo bisognerebbe unire tutte le forze. Invece, mentre da un lato vertici centrali dell'amministrazione che tutela il patrimonio culturale consegnano la gestione dell'emergenza alla Protezione civile, dall'altro il mondo dei musei si è mosso in autonomia. Il presidente dell'International Council of Museum (Icom) Italia ha chiesto a tutti i soci solidarietà con l'Abruzzo e i suoi beni culturali colpiti. Sulla base di un protocollo di intesa con Legambiente, che già in passato si è distinta con interventi in favore del patrimonio culturale danneggiato dal sisma, Icom indica ai soci la strada maestra del volontariato. Legambiente, intanto, si propone e viene accreditata dalla Direzione che coordina, solitamente, l'attività locale delle Soprintendenze.
Dove il ministero fatica a mandare personale qualificato, l'associazione supplisce e entra in gioco con le sue strutture di volontari con la pettorina gialla (finora 300) che si lanciano al recupero e messa in sicurezza dei beni mobili danneggiati (circa 1300). Straordinario l'impegno dei ragazzi, dei quali qualcuno avrà ben valutato le competenze, che sostituiscono operativamente gli specialisti e i tecnici.
Alla fine i volontari vuotano chiese, palazzi e musei mentre i funzionari si impegnano a schedare i beni vincolati coinvolti (a oggi circa 1600 schede) per valutare il danno e fornire cifre di riferimento alla Protezione civile, secondo indici previsti dagli ingegneri delle università accreditate, che si occupano di danni sismici. Che poi sono le stesse che producono i progetti della messa in sicurezza e, a lungo andare, anche del recupero dei monumenti. Ma quali monumenti? La prospettiva della ricostruzione cozza contro gli ostacoli e i tempi lunghi imposti dalla smisurata messe dei danni. Il Presidente del Consiglio, rifiutando sulle prime gli aiuti internazionali, aveva detto che gli stati stranieri avrebbero potuto adottare uno dei monumenti colpiti. Da parte sua, il ministro Sandro Bondi ne aveva subito individuati quarantacinque, in pessime condizioni, anche per colpa di poco opportuni interventi di restauro recenti, basti osservare la fiancata della chiesa di San Marco, che si sta aprendo come un fiore e dentro è un cumulo di rovine, per capire come i carichi di cemento armato abbiano contributo al dissesto. L'edificio sarà ingabbiato da un ponteggio, frutto della donazione del Veneto. Solo l'intervento di messa in sicurezza costerà 240.000,00 euro: i restauri chi lo sa, magari venti volte tanto.
Il calcolo, a spanne, di quanto servirà per restaurarli parla di 450 milioni di euro, che non si sono ancora trovati, nonostante gli impegni a parole. Su queste cifre bisognerebbe cominciare a riflettere, date le precedenti esperienze di mala gestione dei finanziamenti per la ricostruzione. Chi realizzerà i restauri? Chi valuterà i progetti? Chi gestirà gli appalti, in regime di ordinanza? E, soprattutto, quanti anni ci vorranno?
Lo studio di Vezio De Lucia sul centro storico e sui guai provocati dai nuovi insediamenti. - Un libro di Giovanni Pietro Nimis, che curò il recupero dei paesi distrutti in Friuli nel 1976
L’Aquila aveva 54 mila abitanti nel 1951. 72 mila il 6 aprile scorso, quando fu distrutta dal terremoto. Nello stesso arco di tempo in cui la popolazione cresceva del 25 per cento, il suolo urbanizzato è esploso: da 590 a 3.100 ettari, oltre il 500 per cento in più. Sono numeri che impressionano, ma non diversi da quelli di altre città italiane. Con i nuovi quartieri previsti dal piano di ricostruzione - 20 insediamenti per 15 mila persone, 3 mila a settembre e il resto a novembre - questo meccanismo di una città che deborda e invade il territorio è in qualche modo programmato, viene stabilizzato. Risorge l’idea delle new town, molto criticata dalla cultura urbanistica quando Silvio Berlusconi ne parlò. «Invece che una, di new town ce ne saranno 20», dice Giovanni Pietro Nimis, l’urbanista che fu artefice dei piani di recupero di Gemona e Venzone, due dei principali comuni friulani distrutti dal terremoto del 1976 e la cui rinascita è spesso indicata come esemplare.
Nimis ha scritto un libretto, Terre mobili. Dal Belice al Friuli, dall’Umbria all’Abruzzo (Donzelli, pagg. 110, euro 14, introduzione di Guido Crainz), che confronta i diversi modelli di ricostruzione, addebitando a quello abruzzese il ritorno a un usurato centralismo - tutto nelle mani della Protezione civile - che risale alla fallimentare vicenda del Belice. Spiega Nimis: «I nuovi villaggi mescolano emergenza e ricostruzione e creano una situazione malata, che sembra solo voler stupire con promesse capaci di vincere le ragioni del tempo e dello spazio, cancellando l’esperienza del Friuli e dell’Umbria, dove erano state le Regioni a intervenire, delegando a loro volta ai Comuni».
In Friuli, racconta Nimis, la gente venne alloggiata nelle tende, poi si passò ai prefabbricati e nel frattempo si ricostruirono i centri storici, dov’erano e com’erano - si disse allora. Nessuno però immaginava di resuscitare i nuclei antichi «riproducendo in pochi anni la patina di secoli di storia». Quello slogan aveva anche un sapore terapeutico. «Era un proponimento enigmatico e generico», lo definisce Nimis, «ma nello smarrimento apparve l’alternativa efficace contro le proposte di chi farneticava di città ideali, di rifondazioni ex novo, di trasferimenti altrove».
Nell’inverno furono installati 20 mila alloggi provvisori e dopo dieci anni «nei centri storici erano state recuperate le strade corridoio, le quinte edilizie, le piazze. Com’erano e dov’erano: si fa per dire, perché era comunque scontata l’inautenticità». Progettare divenne una pratica sociale. Sollecitò una partecipazione popolare quasi frenetica. «Per ogni decisione era diventata obbligatoria l’approvazione di assemblee popolari: senza quella copertura i consigli comunali non deliberavano nulla». Erano gli anni Settanta, anni di grande fervore democratico (come sottolinea Crainz). Per Nimis non fu tutto rose e fiori. Per esempio si allargò lo scarto fra lo scopo individuale, richiesto nelle assemblee, di ricostruire le case, e l’interesse sociale di ricostruire le aree pubbliche. Inoltre riproporre tutto impedì di bonificare le aree periferiche cresciute male dagli anni Sessanta. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
A L’Aquila la strada intrapresa è diversa. Gli abitanti vengono poco coinvolti e le proteste si moltiplicano. Inoltre dalle tende si dovrebbe andare direttamente in case semidefinitive. Ma che tipo di città prefigurano i 20 nuovi quartieri sparsi nel territorio? È quel che stanno studiando Vezio De Lucia e un gruppo di collaboratori (fra gli altri, il sismologo Roberto De Marco e gli architetti Georg Frisch e Paolo Liberatore), ai quali si devono i dati citati all’inizio sull’espansione della città. «Dal dopoguerra L’Aquila è esplosa in tutte le direzioni formando innumerevoli nuclei periferici», spiega l’urbanista, che dopo il terremoto del 1980 diresse a Napoli la prima fase della ricostruzione. «I nuovi insediamenti frammenteranno ulteriormente la città, con costi drammatici per i collegamenti e per il buon funzionamento dell’organismo urbano».
Nel capoluogo, secondo i calcoli di De Lucia, gli edifici inagibili sono 8.748, molta parte dei quali - 1.855 - nel centro storico. Il che vuol dire 13.258 appartamenti: «È questa la domanda di alloggi espressa dalla popolazione de L’Aquila». Ma le case in costruzione «soddisferanno meno di un terzo di quella domanda».
E nel frattempo il centro storico resta inaccessibile. Italia Nostra ha chiesto che tutto il nucleo antico della città sia vincolato. Ma, insiste De Lucia, nel centro storico «non sono state attuate misure di protezione neanche per tutti gli edifici monumentali. Gli immobili danneggiati sono avviati alla rovina. L’architrave spezzata sulla quale si legge "Palazzo del governo" certifica l’irresponsabile sottovalutazione del recupero». Tutte le energie sono destinate ai 20 nuovi insediamenti. «Nel 2001», continua De Lucia, «circa 9.500 persone vivevano ancora nel centro storico, per cui la dispersione era comunque controbilanciata. Ora non più».
Torna alla memoria il fantasma del Belice (1968). «Fu l’ultimo caso di approccio centralistico», ricorda Nimis. Un modello, ha raccontato l’urbanista Teresa Cannarozzo, che si accostava alle linee generali della politica per il Mezzogiorno, quello fallito delle cattedrali nel deserto. La ricostruzione prevedeva rifondazione di paesi e industrializzazione. I comuni vennero esautorati. Ma dopo dieci anni non era ancora iniziato nulla. I paesi distrutti - Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa - erano compatti, percorribili a piedi. I nuovi insediamenti, invece, misuravano anche tre volte quelli vecchi. Nel frattempo i centri storici marcivano. La grande mobilitazione popolare organizzata da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera cercò di fronteggiare una politica ottusa, nazionale e locale. «Ma forse per quella politica c’era persino una giustificazione, non essendoci precedenti modelli», dice Nimis. Ora le esperienze, fallite e riuscite, qualcosa dovranno pur insegnare.
Spenti i riflettori sul G8, smontato il circo di Coppito, L'Aquila vive a due tempi. Quelli frenetici di undici villaggi in costruzione e quelli morti delle tendopoli: nei cantieri del progetto C.a.s.e. si lavora senza respiro per inaugurarne un paio entro settembre; sotto le tende si muore di caldo, si litiga, si attende. Una doppia vita sotto l'impero di Bertolaso, profeta dei due tempi: le C.a.s.e. arriveranno presto, la ricostruzione aspetterà a lungo.
Millecinquecento operai costruiscono, violando regole infortunistiche e contrattuali, le abitazioni che permetteranno a Berlusconi di passare alla storia come l'uomo che in pochi mesi ha «dato una casa arredata ai terremotati». Ventimila sfollati aspettano accampati, depressi e alienati, di partecipare alla gara d'assegnazione, sapendo che almeno la metà di loro non troverà posto nei New Village voluti da Bertolaso. Tra cantieri e tendopoli si muovono altre migliaia di persone vincolate a un tempo indefinito e schizofrenico, perché serve un gran muoversi per conquistarsi la vita quotidiana: ogni giorno fanno la spola tra gli alloggi trovati sulla costa o nei paraggi per lavorare, subire la cassa integrazione di industrie in difficoltà già prima del 6 aprile, spendere ore per ottenere il più banale dei permessi da una burocrazia sparpagliata in decine di container, mangiare un panino o un piatto freddo tra tavole calde, bar e chioschi i cui abusi edilizi sono prolificati insieme agli affari di chi il 7 aprile si è fatto spazio. Viale della Croce Rossa è il nuovo asse centrale di una città sempre più simile a una periferia rumena. Solo i palloncini volanti del McDonald appena riaperto la rende un po' americana, ma di quell'America profonda - povera e frantumata - delle cittadine minerarie dismisse.
Cantieri fuori controllo
Cese di Petruro, Bazzano, Sassa: qui i New Village sono a buon punto. Entro la fine di settembre vi abiteranno 3/4.000 persone, il numero dipenderà dalla classifica che scaturirà dai criteri d'assegnazione, da quanto la corsa al tetto spingerà i nuclei familiari ad allargarsi a dismisura. Fino al sovraffollamento, perché vincerà chi avrà più punti e i punti saranno attribuiti secondo criteri anagrafici (i bambini valgono molto, i vecchi molto meno). Dal primo agosto sarà pronto il «bando comunale», a settembre la consegna delle prime chiavi: con l'inverno incombente e i posti insufficienti, sarà naturale coptare parenti di secondo o terzo grado, pur di fare punti. Il guaio è che gli alloggi più grandi avranno una superficie di 70 mq e lì bisognerà vivere per un bel po' d'anni, anche uno sull'altro. Oppure bisognerà andarsene, prendere il contributo di 400 euro per un affitto nei paraggi, visto che il centro storico e un bel po' delle case popolari costruite tra gli anni 60 e 70 resteranno inagibili a lungo, mentre i puntellamenti - edifici storici a parte - se li fa per conto proprio solo chi ha i soldi per pagare «interventi privati».
Ma, intanto, gli occhi sono puntati sugli undici cantieri in attività, la cui frenesia fa quasi dimenticare che sarà ben difficile raggiungere l'obiettivo dei 14/15.000 posti prima della fine dell'anno, mentre entro ottobre le tendopoli - causa freddo - dovrebbero essere smantellate; così bisognerà trovare soluzione d'emergenza per un bel po' di persone. Ma in quest'estate d'attesa i giornali locali si scaldano con i tetti quasi pronti di Bazzano e Cese, con il gran lavoro dei 1.500 operai. Le ditte che appaltatrici esultano: pagamenti a 60 giorni, dei 700 milioni di spesa prevista 450 sono già stati assegnati, mano libera sulla forza-lavoro. Un paradiso per aziende - come la Taddei, dal metalmeccanico alle costruzioni - che rivendicano orgogliosamente l'inesistenza del sindacato in casa loro. E' così che fioccano i subappalti, ingaggiando lavoratori che vivono in apnea (il sud è un pozzo senza fondo) senza quasi sapere dove si trovano di preciso e disponibili a lavorare a qualunque costo. Anche su tre turni giornalieri («giorno e notte», incita Berlusconi) in un settore in cui è vietato senza una deroga sindacale, quando piove (anche questo sarebbe vietato), nascondendo gli infortuni che invece fioccano: ce ne sono stati almeno due gravi, prontamente celati. Molti di questi lavoratori dormono e mangiano in cantiere per non perdere tempo - a Sessa c'è un dormitorio che accoglie anche quelli di Bazzano -, senza badare alle regole anti-infortunistiche. Nel nome della fretta e dell'emergenza si passa sopra a tutto, si lavora nell'illegalità e sempre: «Al primo giorno d'assenza sei fuori», racconta un edile che non ha potuto partecipare alla comunione della figlia, qualche domenica fa. «E tutto questo per un'operazione di propaganda di un uomo solo al comando», commenta Rita Innocenzi, segretaria della Fillea-Cgil, nella lacerante contraddizione di una terremotata che si occupa del lavoro edile e che considera il progetto C.a.s.e. «una truffa mediatica che distruggerà la città e dilazionenà all'infinito la ricostruzione». In teoria la sindacalista dovrebbe essere contenta di vivere in quello che per il premier sarà «il più grande cantiere d'Europa». Non è così. «Qui a L'Aquila - dice - si sperimenta un modello che vale per tutto il paese: zero partecipazione, persino zero concertazione». Anche Rita ha la casa inagibile, fa la pendolare dalla costa al capoluogo e non sa dove andrà a vivere tra qualche settimana. Problema condiviso da tanti, ma separatamente.
Abbandonati in tenda
Nell'area del «cratere» - da qualche giorno allargato ad altri otto comuni - la tendenza è a cavarsela con le «casette». Molte sono «autoprodotte» da singoli che non si affidano al progetto C.a.s.e., molte arrivano dal Trentino, spesso sono offerte e costruite proprio dalle autorità di quella regione: a Onna, San Demetrio, Villa Sant'Angelo batteranno sul tempo l'inaugurazione dei primi New Village di Bertolaso. Più o meno la stessa scelta è stata fatta per le scuole (prefabbricati), mentre per l'Università dell'Aquila - la «principale azienda» della città - il punto non sono le sedi di facoltà, rimediate qua e là tra ex caserme e palazzi pubblici, quanto gli studenti. Prima del terremoto la metà degli iscritti erano fuorisede, ora dovranno alloggiare tra Avezzano e Sulmona, perché i loro antichi «tetti» sono quasi tutti inagibili: vivevano nelle «seconde case» del centro storico, quelle per cui non sono previsti rimborsi e che - semmai - finiranno nelle braccia di Fintecna. Così si prospetta un nuovo pendolarismo e molti credono che ciò determinerà il declino dell'Ateneo aquilano. Il cui sviluppo aveva portato con sé un «indotto» di socialità che il terremoto ha spazzato via con la chiusura del centro storico. Adesso, la sera, i giovani rimasti in città si danno appuntamento all'Aquilone, centro commerciale Conad-Leclerc.
Non ci vanno in molti, perché non è il massimo della vita e perché nessuno viene più a passare le serate all'Aquila dai paesi del circondario. Non ci va soprattutto il popolo delle tendopoli, composto in gran parte da anziani, non-italiani, poveri. Quelli che non hanno dove andare. Quelli che passano le loro giornate in un'alienante far nulla. Il trauma del terremoto è stato progressivamente sostituito da una situazione di «sospensione», in cui si alternano depressione e ira. Si litiga per un telo parasole, ci si dispera per quei black out elettrici che fanno saltare l'aria condizionata e trasformano le tende in forni a 40 gradi e passa.
Ma c'è anche di peggio: qualcuno ha osservato uno strano aumento dei necrologi sulla stampa locale, negli uffici comunali osservano che la mortalità degli ultrasessantenni negli ultimi tre mesi è aumentata del 15-20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Non è un dato scientifico, le statistiche si possono fare solo sul lungo periodo, ma queste cifre sembrano in perfetta sintonia con l'espressione dei volti che popolano le tendopoli. Che del G8 non si sono nemmeno accorti, che non hanno ricevuto la visita di nessun «grande» del mondo, che apprendono dai giornali della vacanza estiva che il Presidente del Consiglio farà a L'Aquila - una settimana nella caserma di Coppito - ogni tanto visitando i cantieri C.a.s.e. Con le forbici già pronte in mano per il nastro da tagliare di fronte alle telecamere. Nell'attesa, magari la sera lo ritroveremo all'Aquilone. Perfetto, per lui.
Fra la popolazione gira una battuta: il primo esodo ce lo ha imposto il terremoto e il secondo, come se non bastasse, il G8. La città è un deserto. Le forze dell'ordine hanno fatto il giro degli esercizi pubblici, consigliando la chiusura. Ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono state imposte le ferie forzate. La viabilità è sconvolta, molte strade vietate alla circolazione. Per gli abitanti delle tendopoli, la vita quotidiana in questi giorni è diventata una avventura da corso di sopravvivenza. La sicurezza dei grandi è insicurezza per gli aquilani. Chi ne aveva la possibilità, se ne è andato. Il sogno di Berlusconi, che sperava di accogliere i grandi della Terra fra ali di terremotati festanti si è infranto da tempo. Gli aquilani, aldilà delle appartenenze politiche o culturali, hanno ormai chiaro in testa ciò che sta a loro accadendo.
L'aiuto umanitario, l'assistenza alle popolazioni civili nell'emergenza, come sperimentato in tante parti del mondo, non sono neutrali. Possono essere orientati alla valorizzazione delle energie locali, alla salvaguardia dello spirito comunitario, alla partecipazione cittadina. Possono essere anche però uno strumento potente per favorire passività e dipendenza, ed è questo ciò che il Governo ha scelto di fare a L'Aquila.
I piani per la ricostruzione e i progetti per l'inverno, se esistono, sono un mistero per gli aquilani e perfino per gli amministratori locali, che hanno già espresso la propria contrarietà a quel poco che si sa. Il rapporto fra gli abitanti della città e l'intervento statale è tutto impostato in una relazione fra privati, accentuando la solitudine di chi non si può permettere di intervenire, per reddito o per gravità della distruzione, sulla propria casa.
La ricostruzione poteva essere l'occasione per un processo partecipativo e democratico teso a ridisegnare la città secondo criteri che favorissero una nuova socialità, la sostenibilità ambientale, la coesione comunitaria. Si poteva insomma ricostruire l'Aquila come si dovrebbe ricostruire il mondo del dopo crisi. Sta avvenendo il contrario, in una situazione di incertezza che distrugge l'animo di chiunque ne sia coinvolto, in un clima di militarizzazione e di controllo che diventa ogni giorno più pesante, anche prima del G8.
La gente aquilana che raccoglie i propri panni e lascia la città è, con il suo silenzio, la più forte manifestazione di dissenso che si potesse immaginare, con il suo segno tragico e la sofferenza che porta con sé. E' assai probabile che i media non ce la faranno vedere ma chiunque conosca un aquilano la sa, e ognuno di noi ha il dovere di raccontarla.Quelli che a L'Aquila rimangono, trovano il modo di esprimere la propria voce, in modo dignitoso, pacifico, anche in questi giorni difficili, così come hanno fatto in tanti nella manifestazione sotto palazzo Chigi e nella intensa e forte fiaccolata alle 3,32 di domenica scorsa, a tre mesi esatti dal terremoto.
E' un periodo in cui le persone sentono una distanza abissale dalla politica e anche dalle forze progressiste, dimentiche ormai che la loro sola forza risiede nella condivisione della vita quotidiana delle comunità locali. Le rappresentazioni simboliche di conflitto agite sulla testa, o senza il consenso, delle popolazioni che si vuole difendere secondo noi non colgono nel segno. Gli aquilani vogliono affermare il loro inalienabile diritto di rappresentarsi da sé. Questa esigenza va rispettata, sostenuta, favorita, con spirito di servizio e di solidarietà, in questi giorni assurdi e in tutti quelli che verranno poi.
Alle due del pomeriggio, caldo afoso e voglia di temporale, il signor Giuseppe, 76 anni, sfrutta un refolo d’aria e prova a dormire nella prima branda della tenda 17 tendopoli dell’Acquasanta, la sua casa dal 6 aprile scorso. Alla stessa ora, cinque chilometri più in là, nella caserma della Finanza a Coppito gli artigiani falegnami finiscono di consegnare le suite per i 39 leader del mondo in arrivo per il G8. Saranno pure spartane e però i letti sembrano comodi ed eleganti, legno e tappezzeria color crema. E il pavimento di granito non compete con il fondo di gomma della tenda 17 dove Giuseppe cerca di prendere sonno. Un’ora prima, alle tredici, Carla prende posto sulla panca della sala mensa della tendopoli di piazza d’Armi, un primo di penne con qualcosa che assomiglia alla panna (con questo caldo) e una pietanza che sembra tacchino. “Da tre mesi così” dice scacciando le mosche. “Visto quante ce ne sono?”. Alla stessa ora, sempre in caserma, i maestri falegnami stanno completando l’allestimento delle sale da pranzo per i vertici della prossima settima, ambiente climatizzato, parquet in terra, tavoli rotondi di legno, pareti di vetro oppure foderate di blu e grigio, cristallerie e porcellane, tovaglie di lino.
Due città nella stessa città. Due mondi lontanissimi negli stessi chilometri quadrati. Due facce di un volto solo e che, pure, non si parlano. C’è l’Aquila delle tendopoli, dei disagi, delle mosche, del caldo e della disperazione muta ma profonda di questa gente che a tre mesi esatti dal terremoto dice che «nulla è cambiato» nelle loro non-vite e che ancora non sanno quando cambierà qualcosa. E c’è l’Aquila del G8, i 48 ettari, i 70 campi di calcio, della caserma Vincenzo Giudice che in tre mesi ha visto tutto e il suo contrario, dalle trecento bare adagiate sul cemento della piazza d’Armi al comfort e al lusso declinati ai massimi livelli.
La città del G8 ha confini precisi, militarizzati da cinque mila uomini in divisa sui mezzi e a cavallo, appostati sulle montagne e dietro le batterie antimissili. Ha anche una precisa casella d’inizio, la rotonda tra via Fermi, la statale 80 e l’inizio di viale delle Fiamme Gialle che è stata allestita con un grande mosaico raffigurante un’aquila nera.
La città delle tendopoli comincia subito dopo la linea della militarizzazione e guarda all’altra con distacco, rabbia e diffidenza. Dice Carla mentre scaccia le mosche alla mensa di piazza d’Armi: «Là – e rivolge il volto verso Coppito – c’è il lusso, qui lo vede anche lei: nulla è cambiato nulla da tre mesi. Noi siamo riconoscenti a chi ci ha aiutato ma poi? Quanti soldi hanno speso per il G8? E quanti ne stanno spendendo sulla costa per dare un tetto a trentamila sfollati? Questi soldi non potevano essere subito impiegati qua?». Per esempio, insiste Carla, «io avevo una copisteria in centro, rilegavo tesi e facevo traduzioni. Da tre mesi chiedo se posso avviare l’attività altrove. Nessuna risposta». Eppure a Coppito la Protezione civile ha mostrato tutta la sua geometrica potenza ed efficienza nell’allestire la cittadella del G8. «Fanno tutto – insiste Carla – ma per loro. E per noi? Speriamo che almeno riescano a far restaurare qualche chiesa che sennò, altro che beffa ’sto G8».
È l’incertezza il male oscuro di chi vive nelle tendopoli, non avere date certe, una casella di ripartenza. Marco e sua moglie hanno quattro figli, la più piccola ha tre anni, il più grande ne ha 15. Da tre mesi condividono le tenda n.17 di Acquasanta con altre quattro persone sconosciute. Da allora cercano di avere una tenda tutta per loro. Non è stato possibile.
Ai loro occhi il G8 è solo «una provocazione»: «Noi vogliamo poter fare i lavori in casa e tornarci. Si dovevano concentrare su questo, altro che G8». Per le donazioni dei paesi stranieri «potevano organizzare una gita da Roma e avevamo risolto il problema». Duemila persone potranno andare a vivere nella caserma, nelle oltre mille stanze appena ristrutturate. «Duemila – scrolla la testa Marco – gli sfollati sono 55 mila e le casette basteranno per quindicimila?». I conti, in effetti, non tornano.
I piani di evacuazione dalla caserma scatteranno se e quando i sismografi misureranno scosse tra il 4 e il 4.5 della scala Richter. Gli psicologi volontari raccontano che in questi ultimi giorni l’augurio più diffuso tra gli sfollati è «una bella scossa sotto i piedi e sulla testa dei leader del mondo, così capiscono di cosa si parla».
A Coppito è tutto pronto, la mostra sul made in Italy e il made in Abruzzo, le mense, le tavole, le sale con i traduttori, tutto wifi e connessioni ultra veloci. Bruno ha compiuto 67 anni due giorni fa, vive nella tenda n.21 di Piazza d’Armi, gli hanno regalato un libro, La Gloria di Giuseppe Berto. Mostra fiero la dedica: «Ci vogliono tanti anni per diventare giovani». È un po’ commosso, l’inchiostro sta andando via, colpa dell’umidità delle tende.
Non idonei dal punto di vista idrogeologico A rischio cinque dei venti siti che dovrebbero ospitare gli sfollati abruzzesi. E solo in altri cinque i lavori sono effettivamente cominciati. Il «progetto c.a.s.e.» si avvia al flop. Ma Berlusconi arriva a L'Aquila e rassicura: «I lavori procedono alacremente». Alla vigilia del G8, si svela la beffa delle libertà
Cinque dei venti siti che dovrebbero - secondo gli impegni del governo - ospitare i terremotati abruzzesi a partire dall'autunno, non sono idonei dal punto di vista idrogeologico. Per quasi 2.500 persone "salta" così il tetto promesso «entro sei mesi». È ciò che veniamo a sapere nel giorno della sedicesima visita a L'Aquila di Silvio Berlusconi, svolta secondo un consueto copione: nessun bagno di folla a scanso di contestazioni, repentina convocazione dei media, rassicurazioni e promesse di fronte a telecamere che per tutta la giornata sono state trasportate da un angolo all'altro della caserma della Guardia di Finanza, in attesa della conferenza stampa finale: «I lavori stanno procedendo alacremente», ha assicurato il Cavaliere. Verissimo, per quanto riguarda il G8, con l'inaugurazione del rinnovato aeroporto di Preturo, l'ospedale da campo per i "grandi" a San Salvatore e la caserma di Coppito dove tutto è ormai pronto, compresa una nutrita presenza di servizi segreti mondiali. Molto meno aderenti alla realtà sono le previsioni del Presidente del Consiglio per quanto riguarda le case «provvisorie» che dovrebbero permettere lo smantellamento almeno di una parte delle tendopoli. Ma il premier insiste: «Vorremmo che entro la fine dell'anno tutte le persone che hanno perso un tetto possano avere una nuova casa completamente arredata». Magari gli arredi sono già in viaggio, ma per le abitazioni il premier rimarrà deluso nel sapere - se già non lo sa - che le promesse saranno disattese.
Per capirlo basterebbe fare un giro tra i venti siti predisposti a dar vita al "progetto C.a.s.e.", la scelta che ha soppiantato i tradizionali container e prefabbricati, «perché innovativa e conveniente», come avevano assicurato i vertici della Protezione civile. Solo in cinque casi i lavori sono iniziati: a Bazzano - il cantiere "di punta" - si stanno appena predisponendo le piattaforme su cui sorgeranno gli edifici, mentre nella maggioranza degli altri terreni dominano piante ed erbacce. Ai tanti che a L'Aquila si chiedevano il perché di questo stallo ieri è arrivata una prima risposta: almeno cinque di questi siti sono risultati inidonei dal punto di vista idrogeologico. I terreni espropriati a Monticchio, Pianola, Roio Piano, Assergi e Paganica non potranno essere utilizzati, non sono adatti a "sostenere" degli edifici. Tutto (o quasi) da rifare: localizzazione dei terreni, rilievi, espropri.... Ovvio che, stando così le cose, ben pochi degli attuali 60.000 sfollati (tra tendopoli ed esuli sulla costa adriatica) potranno avere un tetto per l'inverno.
La notizia non è ancora ufficiale, ma al comune dell'Aquila il flop del "progetto C.a.s.e." viene ormai considerato una dura realtà. Del resto da molti paventata quando - dopo le sparate sulle new town - Berlusconi e Bertolaso avevano presentato il progetto di questi piccoli villaggi (costo 700 milioni di euro) destinati a ospitare 9.000 persone a partire dalla fine del 2009 e poi - a ricostruzione avvenuta, dal 2020 in là recita il "decreto Abruzzo" - ipotizzati come campus universitari. Edifici "permanenti" - non smontabili, come invece ha affermato ieri Berlusconi - , con tutte le incognite del caso, prima fra tutte quella di contribuire alla delocalizzazione di città e paesi in tanti piccoli borghi, con la conseguente distruzione delle relazioni sociali già disgregate dal terremoto e il pericolo che quella loro "permanenza" finisca col ritardare sine die la ricostruzione dei centri storici, in primis quello dell'Aquila. Ora a questi dubbi e ai timori per simili danni si aggiunge la beffa dell'inidoneità dei siti scelti.
Ieri Berlusconi non ha parlato di tutto questo, anzi. Ha recitato la solita poesia dell'efficienza, delle «case giardino», del «male da cui può scaturire un bene». Ha esibito ai giornalisti gli «isolatori sismici - vanto della tecnica italiana - capaci di tenere in piedi un'abitazione anche quando un terremoto determina oscillazioni di 20 centimetri». E ha negato qualunque ritardo nel piano di costruzione delle C.a.s.e. Tutt'altro il clima che si respirava negli uffici comunali dell'Aquila: nei cinque siti a rischio avrebbero dovuto trovare un'abitazione quasi 2.500 sfollati, ma non sarà così. Lo dicono le relazioni tecniche che denunciano la fragilità dei terreni, lo confermano - seppur a mezza bocca - alla Protezione civile. Il risultato è che quasi un quarto delle 9.000 persone cui era stato fatto credere che era meglio passare qualche mese in tenda per poi avere una «casa già arredata», rimarranno invece in tenda. Con il risultato che - se non si ricorrerà ai vituperati container e prefabbricati, come era stato fatto in tutti i terremoti del passato - dovranno essere fatti i decreti di restituzione per le aree inutilmente espropriate. Si stanno già cercando terreni alternativi per i nuovi siti. Studiando come sono fatti "sotto", prima di decidere ed esibire cosa costruirci "sopra".
I giorni che stiamo vivendo dentro la sfortunata Repubblica Italiana, oscurata da quasi tutte le televisioni e disinformata da quasi tutti i giornali (anche se si intravedono le prime crepe nella diga che fino ad ora ha trattenuto e nascosto il liquame del regime) sono talmente vergognosi da renderci prigionieri di un dilemma: o parli solo del "casino Italia" come ha opportunamente intitolato Libero, o parli d’altro. Per esempio della folla esasperata di cittadini dell’Aquila e dell’Abruzzo che hanno sfidato la militarizzazione imposta alla città dai pasdaran della Protezione civile e sono venuti a Roma, davanti al Parlamento a dire la verità. Ovvero la loro vergogna e il loro imbarazzo per essere stati visitati e intrattenuti, a fari accesi e sotto le telecamere, da un finto capo del governo che in realtà era un abile imitatore e anzi, presumibilmente, un nemico giurato del buon governo. Quando si sono accorti del falso, dopo mesi di vita impossibile nelle tende gelate di notte, invivibili nella pioggia e roventi di sole, una specie di Guantanamo venduto per salvezza, sono venuti a Roma in cerca di verità. Non l’hanno trovata. Anche nei palazzi del potere, anche quando non ci sono feste indecorose a pagamento, non c’è il vero capo del governo, uno che accorre quando deve, promette quel che può, e mantiene subito e con rigore le promesse. C’è solo, lontano, incapace, furibondo e distratto "come uno che non sta bene" (fonte: Veronica Lario) l’attore che promette tutto e non sa mantenere niente.
Questo giornale ha dato ai lettori la cronaca di ciò che è accaduto davanti a Montecitorio, di quella folla costretta a rendersi conto della beffa subita dal governo, e dunque dallo Stato italiano, nel peggior momento della loro vita, uomini e donne, giovani e non giovani, che prima, nella loro vita, si erano dedicati alla famiglia, al lavoro, alle professioni, costretti adesso a sfilare con cartelli e striscioni come se esigessero un di più mentre denunciavano il niente. In quelle stesse ore, dentro Montecitorio, si celebrava l’altra parte della vergogna: una maggioranza parlamentare muta e succube di un governo che si occupa di trasporti per feste ma non di terremotati, e che tranquillamente promette la luna, tanto è un argomento di canzoni, non di politica. La vergogna era questa: la legge in discussione era per "Gli interventi urgenti in Abruzzo" e mancava di tutto. Mancava di soldi, di progetti, di idee, aveva saltato interi settori di attività essenziale (le scuole) e interi blocchi di cittadini, i cosiddetti proprietari di "seconde case" che non saranno ricostruite benché siano al secondo e al quarto piano dell’edificio la cui ricostruzione è teoricamente prevista. Non fissava date e non garantiva scadenze.
Tutta l’opposizione (Pd, Italia dei valori, Udc) si è impegnata, emendamento dopo emendamento, a riempire le inaccettabili omissioni, le inspiegabili incompetenze, a correggere l’ovvia e offensiva inutilità della legge. Lo spettacolo triste, durato per tre giorni, è stato il silenzio disciplinato della maggioranza di governo, uomini e donne solitamente vivi e aggressivi ridotti a una assemblea ottusa che non ascolta, non vede, non decide. Ha già deciso il governo. E così, come se questo fosse l’ultimo Parlamento, come se nessuno di questi parlamentari avesse un dopo in cui rendere conto e un elettorato che vorrà sapere, ogni emendamento dell’opposizione, per quanto utile e necessario è stato respinto, anche se diceva che non c’è più università, che è urgente ricostruire la Casa dello studente, che l’ospedale va rimesso in grado di funzionare, che dopo un simile terremoto è assurdo e impossibile distinguere fra prime e seconde case, che i soldi non bastano per cominciare, che occorrono date certe della ricostruzione, fasi realistiche, dati veri, sia per buona organizzazione sia per dare speranza.
Lo spettacolo di ciò che è accaduto dentro Montecitorio, mentre fuori una folla di cittadini normali e per bene, è costretta a gridare la sua indignazione, era anche più desolante. Una parte sorda, cieca e muta del Parlamento taceva, evitava ogni confronto, si auto-proibiva qualunque discussione, respingeva in silenzio anche le proposte ispirate a esperienza, mitezza, buon senso. Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée all’Aquila. Sta preparando, a carico dei disperati cittadini dell’Aquila il nuovo mega-spettacolo del G8. I parlamentari del partito di governo sono stati declassati a loggione. Tacciano, ignorino, lascino lavorare chi sa fare spettacolo. L’ultimo Parlamento ha abbassato la testa in segno di umile assenso.
Per fortuna non tanti nell’opposizione pensano ancora che sia estremista dire "no". In tanti si rendono conto, finalmente, che "no" è l’unica risposta possibile.
Oggi il presidente del consiglio sarà nuovamente in visita a l'Aquila «per verificare lo stato d'avanzamento dei lavori del post-terremoto». Avanzamento è una parola forte, più che altro Berlusconi potrà verificare come si disgrega una comunità. E farsi molto riprendere dalle sue televisioni.
Ieri centinaia di abruzzesi hanno fatto per la prima volta visita a Roma «per chiedere la ricostruzione di città e paesi». Anche ricostruzione è una parola forte, soprattutto di fronte a un Decreto avaro e autoritario. Avaro, perché le risorse sono molto al di sotto del necessario. Autoritario, perché impone tutto dall'alto, esalta la pratica dell'emergenza e riduce a sudditi i cittadini. Avarizia e autoritarismo si tengono stretti per mano.
Secondo il governo i terremotati d'Abruzzo dovrebbero affidarsi a qualche «gratta e vinci» in più per veder risollevare le loro case; confidare nelle disposizioni del presidente del consiglio per essere risarciti dei danni subiti; aspettare le ordinanze di Bertolaso per sapere se e dove ci saranno scuole in cui studiare, uffici e fabbriche in cui lavorare. Quanto ai loro amministratori locali, il ruolo previsto è di farsi da parte, o fare i passacarte.
Non che il governo sia impazzito. Anzi, persegue una logica precisa. Quella di sempre. Riduce la spesa pubblica ad azzardo privato: così niente «tassa di scopo» per la ricostruzione ma via libera a lotti e lotterie. Declassa una città da bene comune a insieme di proprietà individuali: così nessun piano di riedificazione urbana ma tanti risarcimenti ad personam, sperando che l'urgente bisogno di un tetto spinga all'esodo e lasci il campo libero per nuovi affari immobiliari. Trasforma l'amministrazione del territorio in gestione dell'ordine pubblico: così cancella il ruolo degli enti locali mentre accentra tutte le decisioni a palazzo Chigi, usando la Protezione civile come longa manus di un potere incontrollabile.
Chi ieri ha manifestato a Roma tutto questo lo sa bene. Cerca di spiegarlo al paese, anche senza la copertura mediatica su cui può invece contare Berlusconi. Sanno - le donne e gli uomini delle tendopoli - che in queste settimane si decide il loro futuro e quello della loro terra. Sanno anche che - nello stato in cui sono ridotte le istituzioni e la rappresentanza - dalla politica non potrà venir loro un grande aiuto. Ma hanno dalla loro le conoscenze per contestare i bluff berlusconiani e una possibilità. Un G8 che il presidente del consiglio vorrebbe vetrina di propaganda, ma che potrebbe invece essere palcoscenico di un fallimento sotto gli occhi del mondo. Comunicarlo nel modo giusto sarà decisivo. «Yes, we camp», c'era scritto su uno degli striscioni di ieri: chi ha detto che solo Berlusconi sa usare le televisioni?
«Casette a settembre? Ma chi sei, Megggaiver!!!». Bruno ha 23 anni, è un aquilano doc da due mesi senza casa e oggi, in piedi davanti a Montecitorio, racconta con questo cartello la sua rabbia. MacGyver, il ragazzo dalle mille risorse, era il suo eroe dei fumetti, quello che realizzava sogni e risolveva guai. Secondo Bruno solo MacGyver, al massimo della forma, potrebbe consegnare le “famose” casette ai terremotati d’Abruzzo. Figurarsi Berlusconi, o Bertolaso, che al suo eroe non assomigliano neanche un po’.
Si smonta, finisce in pezzi un’altra, forse la più importante delle promesse-certezze del premier. «Il 15 settembre consegneremo le prime case, a novembre nessuno sarà più in tenda» ha ripetuto Berlusconi nella sue tredici visite all’Aquila. Falso. Non vero. Anzi, mai stato vero. La verità è che sarà un Natale in tenda. O in albergo, viste le temperature nell’altopiano dell’Aquila, Non lo dicono i soliti calcoli a spanna dei soliti disfattisti criticoni. Lo dice, da sempre, anzi lo documenta da maggio, il «CRONOPROGRAMMA GENERALE», la tabella di marcia, giorno per giorno, capitolo per capitolo, del rivoluzionario progetto C.A.S.E che sta per Complessi antisismici Sostenibili Ecocompatibili, le famose casette che dovranno diventare un tetto per circa quindicimila sfollati. E’ anche l’unico capitolo finanziato nel decreto con 530 milioni di euro.
Il Cronoprogramma consegnato dalla Protezione Civile e vistato dal governo a maggio dice chiaramente che le case saranno consegnate a fine dicembre comprese arredi e collaudi. Come se dopo otto mesi di campeggio forzato uno potesse ancora andare a vivere in modo precario. Tutto questo sempre che due voci cardine del Cronoprogramma, «realizzazione degli alloggi» e «opere di urbanizzazione» (fogne, allacci gas e luce, strade di accesso), prendano il via tra la prima e la seconda settimana di luglio. In pieno G8. Difficile immaginare ruspe e camion in giro per l’Aquila, che ha due strade, mentre nella caserma di Coppito si riuniscono i grandi della terra.
«Il problema - racconta un funzionario della Protezione Civile - è che tutto il Cronoprogramma è già saltato perchè le opere di cantierizzazione dovevano cominciare il 10 di maggio. Siamo al 16 giugno e mi risultano avviate, da circa dieci giorni, solo a Bazzano e Ocre. Un ritardo normale di fronte a un intervento di questo genere». Il fatto è che da questo ritardo (la cantierizzazione), ne derivano altri. E’ l’effetto domino. «Le operazioni di scavo, fondazioni e messa in posa delle piastre dovevano cominciare, secondo Cronoprogramma, il 25 maggio ma non sono ancora cominciate».
Certo, magari sarà anche possibile consegnare un pugno di case a settembre, facendo lavorare gli operai giorno e notte. Ma sarà una goccia rispetto alle venti aree, attualmente zone di campagna, che devono diventare villaggi autonomi con scuole e farmacie e negozi. Anche sindaco e presidente della Provincia non ci credono più. «Purtroppo - dicono Cialente e Pezzopane ricevuti ieri alla Camera dal presidente Fini mentre in aula veniva discusso il decreto e fuori duemila aquilani urlavano «basta bugie» - le casette non saranno pronte per settembre. Si parla di ottobre, forse, più facile dicembre».
«Berluscò, non te fare revedè a l’Aquila» si leggeva ieri su uno dei tanti cartelli. Ci torna oggi. Dopo l’approvazione definitiva del decreto. Che garantisce solo 5 mila casette, un po’ di gratta e vinci, rinvia negli anni la ricostruzione del centro storico e non prevede risarcimenti a chi non è residente, una ricostruzione groviera visto che il 40 per cento delle abitazioni sono di aquilani che vivono altrove. Soprattutto non dice nulla a piccoli commercianti e medie imprese che erano il tessuto della città e ora non sanno più cosa sono.
Il terremoto è senza dubbio, per la severità e la globalità del suo impatto, l’evento di origine naturale più disastroso. Alcuni numeri e qualche considerazione consentono di delineare le dimensioni del problema che tale evento rappresenta per il paese: 30mila terremoti nell’ultimo millennio, oltre 200 dei quali assolutamente distruttivi, un’impressionante sequenza di eventi causa, solo nel’900, di 120.000 vittime. Anche in termini economici è un fenomeno devastante: 75 miliardi di Euro è stato valutato l’ammontare, probabilmente sottostimato, delle risorse impegnate nell’ultimo quarto di secolo per la ricostruzione.
I terremoti di minore intensità che hanno colpito il Paese in questi ultimi decenni hanno impegnato quantità di risorse relativamente più contenute, ma hanno segnato un incremento percentualmente molto consistente rispetto agli standard precedentemente seguiti nel valutare e risarcire il danneggiamento. Insomma, il post terremoto-costa sempre di più (e non sempre a causa di una migliore qualità degli interventi); questo vuol dire che se ci trovassimo di fronte ad un altro terremoto dell’Irpinia, che da solo assorbì oltre 30 miliardi di Euro, sarebbe davvero un problema complesso risolverlo con le stesse logiche risarcitorie dell’ultimo più piccolo evento (per esempio San Giuliano di Puglia). Sempre più, quindi, l’ammontare delle ingenti risorse per la ricostruzione diviene comparabile con quanto necessario per l’avvio di una diffusa ed incisiva azione di prevenzione che consentirebbe di limitare i danni ma, soprattutto, determinerebbe le condizioni per subire un minor numero di perdite di vite umane.
Per il terremoto dell’Aquila si apre ora il problema della ricostruzione; prime valutazioni del danno economico cominciano a circolare e a preoccupare. La prima individuazione dei comuni terremotati, nel numero di 49, è stato preannunciato che potrà essere integrata e, come sempre è successo, le isosiste (linee che racchiudono aree di pari intensità dell’evento) del terremoto corrono il rischio di diventare qualcosa di elastico, in grado di essere tirate da una parte e dall’altra, e con esse i maggiori costi della ricostruzione.
In questi tragici giorni si è ripetuto fino allo sfinimento che questo è un paese a elevato rischio sismico. Si è detto molto anche riguardo alla altissima vulnerabilità del nostro patrimonio edilizio, soprattutto quello più vecchio, per caratteristiche tipologiche e costruttive degli edifici che costituiscono i circa 22mila centri storici, ben oltre la metà dei quali situati nei comuni ad alto rischio.
La vulnerabilità riguarda, oltre le abitazioni, anche un insieme di altri oggetti presenti sul territorio: il sistema infrastrutturale, quello industriale e produttivo, le reti dei servizi; persino quegli edifici che sono stati individuati come strategici ai fini di protezione civile non sono in gran parte costruiti “a prova di terremoto”. E poi ci sono l’edilizia illegale, cioè abusiva, e le costruzioni fatte ignorando la legalità, disattendendo le norme edilizie o, più semplicemente, rubando. L’Italia ha anche una forte esposizione, determinata dall’alta densità di popolazione, soprattutto quella associata alle criticità del sistema urbano di molte grandi città. Infine, la diffusa presenza di un enorme patrimonio storico, artistico e culturale che non è nemmeno solo un patrimonio “nostro” ma piuttosto dell’umanità, che non riusciamo a proteggere. L’evento del ’97 in Umbria e Marche, di intensità comunque limitata, ha fortemente danneggiato circa 600 chiese e, emblematicamente, la basilica di S. Francesco d’Assisi, mettendo in evidenza proprio il problema della conservazione e tutela del patrimonio culturale, per nulla protetto dall’impatto del terremoto. Il 6 aprile a L’Aquila le cose son andate nello stesso modo.
A fronte di questa sintetica ma sufficientemente sconfortante rappresentazione delle dimensioni e delle specificità del problema sismico in Italia, l’unico momento in cui tutti vogliono parlare di terremoto, quello dopo l’ultima catastrofe, non pare offrire spunti confortanti circa la determinazione espressa sul piano politico-istituzionale. Tale determinazione dovrebbe esprimersi nel lungo periodo, indispensabile per impegnare su un concreto programma di azione chi possiede le necessarie competenze, e dovrebbe essere gestita con quella logica oggi desueta che si chiama continuità dell’azione amministrativa, che vorrebbe significare un certo grado di indipendenza nei confronti dell’avvicendarsi dei livelli di governo di questo paese. Cosa, questa, poco vista in passato e mai in questa seconda Repubblica.
E’ d’altronde illusorio che la questione, possa essere affrontata mettendo in campo un solo strumento. Dalle pagine dei giornali e dai teleschermi, come dopo ogni terremoto, arrivano tranquillizzanti annunci circa l’immediata entrata in vigore della nuova normativa sismica e dei nuovi criteri di classificazione del territorio, senza tuttavia spiegare che si tratta di norme e criteri che sostanzialmente andranno ad incidere solo sulle nuove costruzioni, quelle che debbono ancora essere costruite. Poiché queste saranno poche, essendo stato costruito in questo paese il costruibile, il risultato sarà, nell’arco dei prossimi decenni, assai modesto in termini di riduzione del rischio. D’altronde, come si diceva, è arcinoto che lo zoccolo duro del problema sismico in Italia è l’edificato più antico. E su questo poco si dice, poco ci si impegna in tempo di quiete, per una certa insensibilità al tema e per l’incapacità, a cui sopra si accennava, di varare e perseguire un lungimirante programma di prevenzione.
Eppure le conoscenze ci sono, sono state prodotte in questi ultimi trent’anni attraverso l’impegno di alcuni soggetti (progetti finalizzati, gruppi di ricerca, istituti, servizi, etc.) che si sono proposti e avvicendati sulla scena della riduzione del rischio sismico; soggetti quasi tutti oggi scomparsi, non sempre sostituiti o sostituiti bene, che hanno utilizzato risorse pubbliche, in qualche caso ingenti. Questo patrimonio di know how consentirebbe di portare a soluzione, sotto il profilo tecnico-scientifico e operativo, il problema sismico del paese, ma in gran parte resta inutilizzato proprio perché un deficit di competenza e di determinazione politica non ha consentito di realizzare la necessaria funzione di trasferimento della conoscenza in azioni concrete.
Allora, se davvero si vuol avviare un percorso, necessariamente lungo e costoso, di riduzione del problema sismico nel paese si deve recuperare quanto prodotto in termini di conoscenza e di strategie, sempre messo da parte tra un terremoto e l’altro, e sempre rispolverato, magari per stralci scarsamente funzionali, nel dibattito post evento. Si ripropone allora un sintetico elenco di cose da fare, alcune delle quali particolarmente complesse, ma certamente indispensabili.
Su ciascuno di questi punti ci sarebbe moltissimo da dire (solo qualcosa ha avuto un minimo di approfondimento in quanto ho già scritto -e magari su quello che scriverò ancora- per www.eddyburg.it, la cui redazione ringrazio per l’ospitalità) ma per tutti si può ribadire che ognuno è certamente indispensabile; alcuni poi, come si diceva, sono anche molto, molto complessi da realizzare.
Ma, d’altronde, complessa e obiettivamente difficile è la scelta di fondo, tutta politica, che si deve fare sulla sicurezza dei cittadini.
A fronte delle tante condizioni di insicurezza in cui oggi, non importa se più o meno di ieri, si vive, vi è un monte di risorse limitato, molto limitato per fare prevenzione, sia che si tratti di catastrofi “naturali”, sia di salute, di morti bianche, di stragi del sabato sera o altro ancora. Dopo l’esplosione di un’emergenza si scoprono sempre cose che si sarebbero dovute fare e non sono state invece fatte; poiché l’ultima emergenza è sempre la più importante, all’opinione pubblica indignata si promette ogni volta che quella cosa non succederà più, che finalmente la prevenzione avvierà a soluzione il problema, senza purtroppo tener conto del quadro d’insieme.
Su questi temi occorrono scelte precise incalzate da quanto sta in queste ore accadendo circa le richieste di molti comuni dell’Abruzzo per avere comunque una quota di risorse in questo dopo terremoto, per mettere in sicurezza il loro patrimonio edilizio anche se non danneggiato. Si manifestano cioè situazioni che tipicamente esplodono quando un problema grosso resta troppo a lungo non governato; situazioni determinate delle enorme difficoltà nel conciliare la sensibilità della gente con il rigore della logica che punterebbe invece ad investire risorse in prevenzione nell’ambito di un quadro generale di priorità d’intervento, esclusivamente in base alle valutazioni di rischio da tempo disponibili.
Emerge così, dalle vicende dell’Aquila, soprattutto un’esigenza di chiarezza rispetto a quanto si potrà fare subito per quelle popolazioni in così grande difficoltà, e di quanto si potrà anche fare, in prospettiva, per determinare una condizione di maggiore sicurezza per quella tanta parte del paese che con il rischio, in modo più o meno consapevole, oggi convive.
Su eddyburg, dello stesso autore e sullo stesso tema:
La prevenzione che non c'è
La fortuna dell'Italia
Millecinquecento alloggi pronti e disponibili a L'Aquila e provincia. Offerti a prezzo "politico" per accogliere i terremotati. Erano i giorni immediatamente successivi la grande scossa del 6 aprile e l'associazione dei costruttori edili abruzzese metteva sul piatto dell'emergenza la sua disponibilità: quelle case appena terminate potevano servire a ridurre il danno, offrendo un tetto, almeno provvisorio, ai 60 mila sfollati. Forse l'Ance s'era fatto prendere la mano dall'afflato solidale che attraversava l'Italia - con donazioni, concerti, offerte e quant'altro. O, forse, aveva fatto male i conti. Fatto sta che quei 1.500 alloggi, che teoricamente avrebbero potuto ospitare dalle 3.000 alle 5.000 persone, sono progressivamente diminuiti di numero giorno dopo giorno, fino a sparire nel nulla. Contemporanemente, mentre si andava definendo la mappa dei danni e delle inagibilità (circa il 40% delle abitazioni private), lievitava il prezzo per gli affitti delle case rimaste intatte.
Scemata l'attenzione, digerita l'emergenza, diradatesi le visite del Presidente del Consiglio a L'Aquila, il campo è stato occupato interamente dalle tendopoli della protezione civile, dall'esodo verso gli alberghi della costa adriatica o - nel migliore dei casi - dal rifugiarsi presso qualche parente con una stanza in più. E il terremoto è rientrato nella normalità di un paese in cui l'edilizia è uno dei più grandi business. Anche se a volte costruito su fragili fondamenta, come l'Abruzzo dimostra e l'Ance ben sa, in attesa che la magistratura scopra i responsabili di ciò che è successo alla Casa degli studenti e "dintorni".
Ma è una ben strana normalità. Lo si nota nel deserto e immobile centro storico dell'Aquila, nella vita difficile delle tende e degli alberghi, nella frantumazione del tessuto economico e nel procedere a singhiozzo della pubblica amministrazione. Ma lo si legge anche nei passaggi istituzionali, a partire dal "Decreto Abruzzo" che - dopo il varo del Senato - la prossima settimana passa alla Camera per il via libera definitivo. Anomali e inediti sono i criteri di gestione, gli obiettivi, le procedure, declinando in chiave emergenziale le tre questioni di fondo: il quando (i tempi della ricostruzione), il quanto (i fondi messi a disposizione), il come (la filosofia e le modalità del lungo viaggio verso la normalità). Sapendo che un terremoto - come un crack economico - ridefinisce tutto e mai si torna allo stato quo ante: può andare come è successo in Umbria (un "sogno" per molti abruzzesi) o finire come l'Irpinia o il Belice (un "incubo" per tutti).
Due fasi, da qui al 2033
Il provvedimento del governo - molto criticato a sinistra, dagli amministratori aquilani e dai comitati che martedì protesteranno sotto il Parlamento - è sostanzialmente diviso in due parti: l'emergenza (dall'accoglienza sfollati all'edificazione delle "casette temporanee") che si dovrebbe concludere a fine 2009 e la ricostruzione vera e propria i cui tempi si allungano fino al 2033.
Cominciamo con l'emergenza. Piantate le tende, sistemati gli sfollati sulla costa, innestata la retromarcia sulle new town, il governo si è posto l'obiettivo di realizzare abitazioni per 12.000 persone: costruite su 20 siti sparsi attorno all'Aquila, si chiamano "Case", alludente acronimo che sta per "Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili". In sostanza un serie di belle casette, costo previsto 530 milioni di euro. La consegna ha anche una sua road map: 900 abitazioni ogni quindici giorni a partire dal 15 settembre.
I lavori sono appena all'inizio e già in molti dubitano che questa tempistica possa essere rispettata. In più c'è un dato che lascia allibiti: se gli sfollati sono circa 60.000 e anche ipotizzando che la maggioranza di essi potrà rientrare nelle vecchie abitazioni (ammesso e non concesso che la soglia delle case inagibili non superi il 40% del totale), appare evidente che le nuove strutture saranno sufficienti ad accogliere più o meno la metà di chi avrebbe urgente bisogno di un tetto. Facile pensare che si riuscirà solamente a svuotare le tendopoli - ma con un ritmo troppo lento rispetto ai rigori invernali che qui si fanno sentire presto -, mentre rimarrà inalterata la situazione degli sfollati sulla costa. E poi? Una volta finita la costruzione delle "Case" che succederà? Il decreto, su questo non dice nulla. Semmai demanda tutto alla fase 2, quella della ricostruzione (su cui torneremo prossimamente), come dice ben poco su scuole, ospedali e assistenza.
Anche sul terreno dei finanziamenti per quest'opera "provvisoria" ci sono delle incongruenze. Il decreto che sta per essere varato stanzia 1.152 milioni di euro per il 2009, coperto in parte con il bonus famiglia (300 milioni), con varie riduzioni di spesa su altre voci del bilancio pubblico (altri 300 milioni) e soprattutto con le maggiori entrate di giochi e lotto (472,5 milioni). Quest'ultima voce è quella cui è demandata tutta la fase 2, cioè la ricostruzione: allo scopo già si stanno spremendo le meningi illustri studiosi per varare nuove formule "d'azzardo di stato" e mercoledì scorso si è tenuto a Roma un vertice di esperti in poker cash, bet exchange e videolottery. Il futuro dipenderà da loro ed è fin troppo facile dire che sarà una lotteria. Ma tornando ai finanziamenti per il 2009, mentre la parte del leone è riservata al fondo della protezione civile per l'assistenza alle popolazioni (580 milioni), la parte riservata alla costruzione dei moduli abitativi è di 400 milioni, 130 sotto il costo complessivo, rimandando all'anno successivo lo stanziamento di altri 300 milioni. Facile intuire che ciò ricadrà sui tempi di realizzazione del "Case", anche perché la road map di Bertolaso è già in ritardo rispetto all'avvio dei lavori.
Il progetto "Case", in realtà, lascia molta gente "per strada" e fa rientrare dalla finestra l'idea delle "new town". Il futuro di questi 20 micro-villaggi con i loro 4.500 alloggi incrocia quello del centro storico dell'Aquila e dell'Università (la principale "impresa" cittadina). Una volta svuotate dagli abitanti - quando, tra un po' d'anni, potranno ritornare in possesso di una casa vera e propria - le "casette" sono destinate ai circa 10.000 studenti fuori sede che fanno dell'Ateneo aquilano uno dei più ricercati della Penisola. Ammesso che, nel frattempo, quegli studenti non siano migrati altrove, visto che in gran parte alloggiavano nel centro storico. Dove sicuramente non torneranno più e non solo per i tempi del tutto incerti della ricostruzione, ma anche perché al "centro" è riservato un destino del tutto diverso che stimola gli appetiti delle finanziarie pronte a "valorizzare" a modo loro ciò che ci sarà dopo le macerie.
La rabbia degli amministratori
Una nuova idea di città, il dopo-terremoto come occasione per ridefinire il "diritto di proprietà". Che è, poi, la filosofia di tutto il "Decreto Abruzzo". Quella che fa più arrabbiare gli amministratori locali, come la presidente della provincia Stefania Pezzopane: "L'impostazione emergenziale, segnata da un forte accentramento dei poteri nelle mani del commissario (leggi Protezione civile e Presidenza del Consiglio, ndr), è servita al governo per millantare la propria efficienza, ma non offre risposte vere alla popolazione". Perché? "Perché - risponde la presidente - le risorse sono poche e solo per il progetto 'Case', sulla ricostruzione è tutto aleatorio e perdipiù gli enti locali sono completamente esautorati. Non contano nulla e hanno le casse vuote".
Per cambiare qualcosa c'è ancora un po' di tempo, fino all'approvazione parlamentare del decreto. Ma Pezzopane è pessimista: "Nell'ultima sua visita a L'Aquila Berlusconi aveva assicurato che il governo avrebbe trovato il modo di finanziare le casse degli enti locali svuotate dall'emergenza terremoto. Passate le elezioni, la promessa sembra svanita. All'ultima audizione parlamentare abbiamo chiesto una serie di modifiche per coinvolgere nella gestione della ricostruzione le autorità locali e la popolazione. Meno di un'ora dopo, in commissione, la maggioranza ha bocciato tutti gli emendamenti che avevamo proposto". Del resto Berlusconi lo aveva promesso: "A L'Aquila ci penserò io". In tutti i sensi. (1-continua)
Successa la tragedia, si corre ai ripari. Con imperdonabile ritardo. Un vizio che ben conosciamo. E che in questo caso riguarda tutti i governi, di centrosinistra e di centrodestra. Le Ntc, esistono dal 2005, ma finora, almeno per gli edifici privati, non c’è l’obbligo di applicarle, perché la loro entrata in vigore è stata di anno in anno puntualmente prorogata. L’ultimo rinvio poco più di un mese fa, manco a dirlo col solito decreto «milleproroghe», lo stesso usato da Prodi nel 2007. Ogni volta i governi di turno hanno ceduto alle pressioni delle lobby dei costruttori e degli ingegneri, che chiedevano più tempo per adeguarsi alle novità e temevano l’aumento dei costi. E così, ancora oggi, tutte le abitazioni private possono essere costruite ignorando le regole più stringenti introdotte in maniera organica nel 2005 e aggiornate nel 2008 per garantire la durata e la resistenza degli edifici ai terremoti e alle altre catastrofi naturali.
Ma ora, dopo il sisma in Abruzzo, la politica si è pentita e l’altro ieri nella commissione Ambiente della Camera è stata approvata col voto di tutti, maggioranza e opposizione, una mozione che impegna il governo ad annullare l’ultima proroga, quella del 27 febbraio scorso, che posticipava l’entrata in vigore delle Ntc dal 30 giugno 2009 al 30 giugno 2010. Impegno che l’esecutivo rispetterà, probabilmente col decreto legge del «piano casa». E pensare che quando si profilava l’ultima proroga non erano mancati gli avvertimenti al governo. L’Atecap, l’associazione delle imprese del calcestruzzo più qualificate (quelle che garantiscono un prodotto certificato secondo le Ntc), aveva scritto al presidente del Consiglio, ai ministri delle Infrastrutture e dello Sviluppo, al capo della Protezione civile, al presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e a tutti i gruppi parlamentari. Il continuo regime di proroga, si legge nella lettera del 23 febbraio, «costituisce un forte disincentivo ad applicare comportamenti e a fare investimenti in grado di garantire maggiore qualità in termini di durabilità e di sicurezza delle opere». Quindi concludeva con una domanda: «Perché rinunciare a livelli di sicurezza maggiori rispetto al passato?».
Una domanda che, a ben vedere, si trascina dal 2001, quando nel testo unico di edilizia si disponeva la successiva emanazione di specifiche tecniche per le costruzioni in zone sismiche. Erano passati 21 anni dal terremoto in Irpinia, 9 dall’alluvione in Valtellina, 3 dalla frana di Sarno. Le specifiche arrivarono solo nel 2003, ma la loro applicazione fu rinviata più volte fino al 2005, quando furono approvate le Norme tecniche per le costruzioni. Una disciplina organica che imponeva l’obbligo della certificazione di qualità per i materiali utilizzati nella costruzione. Priorità dettata dalla tragedia del 31 ottobre 2002, quando, per un terremoto neppure tanto forte, a San Giuliano di Puglia la scuola elementare si sbriciolò uccidendo 27 bambini e una maestra. Ma neppure questa volta le norme furono applicate, a causa di due proroghe. Finché si arriva al testo del 2008 e, almeno in parte, le nuove regole, che si adeguano con grave ritardo agli standard europei, cominciano finalmente a entrare in vigore. In particolare, per gli edifici di «interesse strategico», per esempio scuole, ospedali ed edifici pubblici in genere, c’è l’obbligo di utilizzare il calcestruzzo certificato. Per le costruzioni private, invece, se ne può fare a meno grazie appunto alle proroghe: si risparmia forse, ma le case non sono sicure.
Insieme agli edifici dell'Aquila la cosa più fragile, in Italia, è la memoria. Sembra quasi che i terremoti non siano un genere di catastrofe con la quale conviviamo da millenni. Soprattutto la mia generazione, ormai classe dirigente, sembra dimenticare di essere cresciuta guardando in televisione sobrie immagini in bianco e nero dei terremoti nel Belice, ad Ancona e a Tuscania, in Friuli. E poi l'Irpinia e l'Appennino umbro-marchigiano.
Ogni volta abbiamo guardato con stupore le macerie, abbiamo pianto morti, abbiamo assistito alle discussioni sulla «ricostruzione» e in alcuni casi alle successive polemiche sul cattivo uso dei fondi e su «famiglie che dopo quindici anni ancora abitano nei container». Chi poi come me è anche architetto sa bene che tecniche e normative si sono evolute e hanno cominciato a offrire, a chi voglia usarli, da un lato difese e protezioni abbastanza efficienti contro la violenza dei terremoti, dall'altro programmi e schemi di comportamento molto efficaci per impostare la ricostruzione.
Dal Friuli in poi il progresso tecnico-scientifico e la buona volontà amministrativa hanno permesso di rendere sempre più efficienti i meccanismi di prevenzione e i modi di reazione fino a un caso di ricostruzione davvero virtuosa come quella umbromarchigiana del terremoto del 1997, anche in quell'occasione caratterizzato da danni enormi al patrimonio storico-artistico e a quello edilizio. Per tutta questa serie di notizie, che i politici italiani dovrebbero conoscere bene, l'uscita del premier sulle «new town» è sembrata una di quelle da non prendere troppo sul serio, destinata a eccitare la fantasia e il fuoco di fila dei «commenti degli esperti» sui giornali piuttosto che a muovere azioni politiche e amministrative concrete.
Dati per scontati gli argomenti a favore del metodo «Aquila 2» - costa meno, si può fare più antisismica e magari più ecologica, produce occupazione e offre un'occasione di lavoro semplice e redditizia all'industria delle costruzioni - non ci vuole molto a mettere in luce le controindicazioni più pesanti: la perdita di memoria delle comunità, un territorio progressivamente popolato di città-fantasma, l'occupazione progressiva del poco suolo ancora disponibile, la distruzione di una delle ultime risorse - il turismo ambientale - che tengono in vita questo territorio.
Basta andarsi a fare un giro a Gibellina Nuova - la miglior «new town» post-sisma d'Italia costruita dal sindaco più illuminato e progressista con gli architetti più bravi e politicamente impegnati - per misurare la difficoltà di impiantare «a freddo» una comunità urbana. La città ha ancora un aspetto vagamente fantasmatico e tutti ci vanno solo per poter vedere l'indimenticabile opera di Burri, il «cretto» di cemento che imprigiona le rovine del vecchio paese. Quindi, visto che Burri non c'è più e che non possiamo pensare di riscattare centinaia di paesi abbandonati con altrettante opere di land-art, l'idea delle new-town rimane una trovata sensazionalistica e poco praticabile, se non per frammenti edilizi, addizioni specifiche che andranno a sostituire quelle costruzioni che davvero non vale la pena o non è il caso di ricostruire, all'interno di un progetto complessivo.
Brasilia e Chandighar in tutta questa discussione non c'entrano niente, sono città/opere d'arte, centri politici e amministrativi inventati a tavolino e realizzati dai maestri nel pieno dell'illusione eroica del modernismo, alimentati dal fatto di essere «nuove capitali» di giovani democrazie. L'Italia, come altri paesi, ha ricostruito se stessa centinaia di volte sulle proprie rovine, e l'impressione è che la sua identità profonda sia più in questa sua capacità di rigenerarsi e stratificare piuttosto che nel ricominciare ogni volta daccapo.
A prescindere da come si ricostruirà, l'aspetto più eclatante del sisma aquilano è certamente nel numero eccessivo di edifici recenti - costruzioni «antisismiche» in cemento armato - o recentemente restaurati che sono crollati all'istante, senza garantire nessuno di quei «rallentamenti» e «attenuazioni» del fenomeno che salvano in genere gli abitanti dai terremoti. Questa sì che è una notizia grave, soprattutto se messa insieme ad altre. Come quella che solo due anni fa l'area è stata inserita nelle zone di rischio sismico di primo grado (!), come il fatto che la normativa sismica in Italia, appena aggiornata, è rigorosa e adeguata e quindi chiaramente, in questo caso, non rispettata, come la costatazione, che non può non far pensare molto male, che tra gli edifici recenti che hanno reagito male ci sono alcuni edifici pubblici, il che vuol dire gare, appalti, ribassi eccetera.
L'Italia in passato ha fatto il gravissimo errore di separare, come fossero il bene e il male, la cultura della conservazione dell'antico da quella della progettazione del nuovo. Le conseguenze sono state gravissime: la conservazione è diventata immobilismo testardo e ottuso, il nuovo è diventato «brutto», casuale, non progettato, abbandonato a figure professionali inadeguate a un mercato spietato e impermeabile alle leggi. Per l'ennesima volta la fragilità con la quale il nostro territorio reagisce alle catastrofi naturali ci mette davanti a questo problema. Non è chiaro, dalle prime reazioni, se la risposta andrà a incidere su questa cultura e saprà trarre vantaggio dalle esperienze precedenti o se ci si limiterà a risarcire le comunità «dando aiuti» e incentivando l'industria edilizia.
Tremendo sarebbe costruire una New L’Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l’eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L’Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l’artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.
Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l’orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c’è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l’identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L’artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un’industria che non ha saputo reggere l’urto della globalizzazione.
A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell’architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt’altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l’esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l’identità perduta.
Il terremoto non deve esser l’occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l’assetto urbano e territoriale che a L’Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell’ambiente circostante. Non c’è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.
Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l’aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.
Ricostruire o costruire. Restaurare o cercare aree per nuovi insediamenti. Il dramma de L´Aquila e dei paesi abruzzesi interroga architetti e urbanisti. È come tornare alle radici del mestiere. Nella disgrazia, però, molti segnalano che l´Italia non parte da zero quanto a riflessioni e competenze, per esempio, sul risanamento di centri storici. Anzi, questo è uno dei settori in cui c´è sentore d´eccellenza, almeno dal punto di vista culturale.
Competenze alimentate dalle esperienze, intanto. Quelle generalmente considerate positive - Friuli (1976) e Marche e Umbria (1997). Ma anche quelle negative - Sicilia (1968) e Campania e Basilicata (1980) - quando terribili terremoti hanno prodotto soluzioni devastanti al punto da essere bollate come "un secondo terremoto". A Napoli, però (170 mila sfollati, 7 mila edifici inagibili, 170 strade chiuse), si tentò di combinare i due sistemi - risanamento e nuove edificazioni. Venne avviato il restauro del centro storico cittadino e il concetto di centro storico fu esteso ai quartieri popolari di San Giovanni a Teduccio, Barra e San Pietro a Patierno, dove vennero ristrutturati casali e altri edifici. Poi si costruirono tredicimila alloggi in aree che il Comune fece espropriare. Artefice dell´esperimento fu Vezio De Lucia: «Ereditavamo una riflessione culturale che risaliva agli anni Sessanta, alla cosiddetta Carta di Gubbio, che considerava i centri storici non solo un concentrato di monumenti, ma un tessuto urbano da tutelare nel suo complesso».
Il centro storico venne considerato il nucleo dal quale si era sviluppata in genere la città italiana. Furono messe a punto tecniche di recupero straordinariamente avanzate. La principale delle quali è l´analisi tipologica: Saverio Muratori e poi Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto individuarono un numero limitato di tecniche costruttive standard che potevano essere riprodotte sistematicamente (larghezza delle travi, distanza fra i muri portanti, ecc.). Il primo esperimento di restauro di una parte di centro storico risale al 1972. Fu Pier Luigi Cervellati ad attuarlo a Bologna. «Quelle competenze sono il grande vanto che l´urbanistica italiana può esibire in Europa e nel mondo», insiste De Lucia, «e tornano utili in situazioni drammatiche come quella abruzzese». Tecniche analoghe vennero praticate a Gemona, in Friuli, e a Sant´Angelo de´ Lombardi, in Irpinia. E a Napoli. Laddove invece i centri storici sono stati o parzialmente o del tutto abbandonati per edificare nuovi insediamenti, i risultati sono sconvolgenti, come in quei paesi campani (Laviano, per esempio), che sfoggiano abitati informi, slabbrati, senza un centro.
Per Franco Purini, architetto e professore a Roma, «il recupero di un centro antico distrutto va attuato con metodo filologico, ma nuovi quartieri sono indispensabili». Nuovi quartieri, non nuove città. «È proprio l´antico che ce lo chiede», spiega, «perché il patrimonio edilizio del passato può non andare bene per le esigenze di sostenibilità e di sicurezza. Nuovi quartieri che però creino spazi pubblici e agevolino il formarsi di comunità». Lo spettro, invece, di insediamenti senza qualità è evocato da Guido Martinotti, sociologo urbano: «Riferirsi alle new towns è del tutto infelice. L´esperienza inglese è completamente diversa, ma ci sono voluti decenni prima che molte di esse diventassero vivibili. Centri storici come quelli abruzzesi hanno valore non solo per gli aspetti fisici, ma perché offrono un invidiabile senso comunitario».
«Una soluzione buona in assoluto non esiste», interviene Italo Insolera, fra i decani dell´urbanistica italiana. «Le esperienze migliori sono avvenute usando il lanternino». Tendenzialmente la strada maestra indicata da Insolera è quella di ricostruire un centro storico "com´era, dov´era". «Le città non si possono buttare via e rifare, sono il punto in cui convergono tante funzioni - la residenza, il lavoro, gli uffici - che non si inventano. Più che alle new towns inglesi io guarderei ai quartieri Ina-Casa, realizzati in Italia dal 1949 al 1963».
Recupero dell´antico o costruzione del nuovo? «È una falsa dialettica», sintetizza l´architetto Paolo Desideri. «Spero che nessuno immagini una costruzione ex novo come alternativa al recupero del centro storico. Il disastro di un terremoto è l´occasione inesorabile per sperimentare il moderno nel centro storico. Altro che new towns». A possibili trasformazioni pensa anche l´urbanista Paolo Berdini. Ma non d´architettura: «Le distruzioni di un terremoto possono consentire di eliminare dai centri storici le alterazioni compiute negli ultimi decenni, che comunque sono le prime ad essere crollate a L´Aquila. E anche di localizzare altrove alcune funzioni che lo soffocano, i tribunali, le prefetture, le università».
Costruire una new town all’Aquila, in tempi rapidi per dare una casa agli sfollati. Una città nuova, altrove, distante dalle strade dove sono crollati i palazzi, dove la gente ha vissuto, dove ha ricordi e radici. Lancia l’idea il premier Berlusconi, memore forse della «sua» Milano2, con un occhio alle new town inglesi, alle città satellite parigine. Ma l’idea non piace agli addetti ai lavori, dall’architetto Fuksas all’urbanista Gregotti. Dubbiosi anche psicologi e sociologi, capaci di leggere la trama delle esistenze urbane ricordando la storia recente che racconta di banlieu francesi diventate da sogno di città giardino a sobborghi in fiamme, come sottolinea il sociologo Duccio Scatolero che paventa proprio il rischio di nuovi ghetti. Lontani dalle città ideali immaginate nel Rinascimento e segnate oggi da edifici di scarso valore architettonico, un mondo a parte. Semplicemente un’altra periferia.
Perché qui non si crea dal nulla, come è stato per la capitale Brasilia. «Qui c’è una città con una lunga storia. Vedo difficile abbandonare, lasciare i ruderi come se fossero le rovine di Paestum e rifare tutto altrove. Anche perché le new town erano nate per altri motivi: decongestionare Londra o riorganizzare la periferia parigina», commenta Vittorio Gregotti. Un sogno comunque fallito secondo Massimiliano Fuksas. «Oggi nessuno le fa più perché non hanno dato risultati positivi, si è cercato di riprodurre l’effetto città senza successo: non sono campagna, non sono città».
Media Giuseppe Roma, architetto direttore del Censis che ricorda come ci provò De Gasperi a fare un nuovo quartiere per gli abitanti degli insalubri Sassi di Matera. «Ma la gente si ritrovò persa nel nuovo centro: troppo asettico, mancava la vita comune». Così propone di ristrutturare parte del centro all’Aquila - «perché in una città le radici sono tutto» - e costruire quartieri nuovi ma «con edifici di alto livello e qualità, non palazzoni popolari tutti uguali. E soprattutto sentendo la gente perché non sia un progetto calato dall’alto».
Parole confermate dall’esperienza di Fabio Oblach, architetto impegnato in Friuli dopo il sisma. «La gente venne coinvolta in assemblee durante le quali ragionò coi tecnici sulla riedificazione. E fondamentale fu la conservazione della memoria: se le case furono costruite un determinato posto c’è una ragione», dice contrario allo spostamento dei terremotati d’Abruzzo nella new town. Uno spostamento dai luoghi in cui la gente è cresciuta che può provocare una perdita di sicurezza, di identità ed equilibrio, secondo lo psichiatra Francesco Cro. Ma che può in alcuni casi lenire il dolore di chi non reggerebbe a continuare a vivere nei quartieri dove ha visto morire figli, amici, genitori.
Chi ha letto il racconto di Gateano Salvemini, che si salvò dal terremoto di Messina appeso a un davanzale, sa che dai sismi e dalle loro tragedie si possono trarre motivi per potenziare la ricerca, l’attività e la strategia anche intellettuale di un popolo. Pure Benedetto Croce perse i genitori in un terremoto e ne trasse un carattere italiano di grande equilibrio, di prudenza e di stabilità. Insomma i terremoti fanno purtroppo parte della storia del nostro paese e del paesaggio delle nostre anime, magari nascosti negli anfratti del carattere nazionale. Non sono emergenze, sono violenze naturali antiche che si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, al brigantaggio, alla corruzione.
E però in Italia la magistratura ha giustamente avuto una grande attenzione vero il fenomeni della mafia e della corruzione: abbiamo dedicato seminari, libri, studi, campagne politiche e morali e sono nati persino dei partiti antimafia e anticorruzione. Ebbene, sarebbe ora che l’Italia si dotasse di una squadra di moralisti antisismici, di legislatori antisismici, di un pool di pubblici ministeri che mettano a soqquadro i catasti, gli assessorati all’urbanistica, le sovrintendenze, gli uffici tecnici, i cantieri. Non è possibile che ad ogni terremoto il mondo scopra stupefatto che l’Italia, l’amatissima Italia, è un Paese senza manutenzione.
A leggere i giornali internazionali di questi giorni si capisce subito che un terremoto in Italia non ha lo stesso effetto di un terremoto in Giappone. Anche quando non vengono colpite le città d’arte, come Firenze o Perugia, l’Italia in pericolo coinvolge di più di qualsiasi altro luogo. In gioco - ogni volta ce ne stupiamo - ci sono infatti la nostra bellezza e la dolcezza del vivere italiano, e poi i musei, il paesaggio� È solo in questi casi che ci accorgiamo come gli altri davvero ci guardano: non più sorrisi e ammiccamenti, ma dolore e solidarietà per un paese che è patrimonio dell’umanità.
Ebbene è la stampa straniera a ricordarci che ci sono città italiane incise dalle faglie, e dove le bare per i morti e l’inutile mappa dei luoghi d’incontro dei sopravvissuti sono i soli accorgimenti antisismici previsti. Ci sono città dove la questura, la prefettura, gli ospedali sono ospitati in edifici antichi che sarebbero i primi a cadere. Dal punto di vista sismico, della vulnerabilità sismica, non esiste un sud e un nord d’Italia, non esiste un paese fuori norma contrapposto a un paese nella norma. L’Italia, come sta scoprendo il mondo, è tutta fuori norma. Nessuno costruisce nel rispetto degli obblighi di legge che - attenzione! - non eviterebbero certo i terremoti che uccidono anche in Giappone e in California, anche dove la legge è legge. Neppure lì i terremoti sono prevedibili. Non ci sono paesi del mondo dove le catastrofi naturali non procurano danni agli uomini e alle cose.
Ma le norme antisismiche sono al tempo stesso prudenza e coraggio di vivere, sono la stabilità di un paese instabile, la fermezza di una penisola ballerina, sono come le strisce pedonali e la segnaletica stradale che non evitano gli incidenti ma qualche volta ne contengono i danni, ne limitano le conseguenze, ti mettono comunque a posto con te stesso e con il tuo destino. Colpisce invece che la sfida alla natura in Italia sia solo e sempre verbale: "immota manet" è il motto della città dell’Aquila ed è un paradosso, un fumo negli occhi, un procedere per contrari, una resistenza al destino che ne rivela la completa, rassegnata accettazione: la sola immobilità dei terremotati è la paura, è la paralisi.
Da sempre i terremoti intrigano i filosofi e gli scienziati. Si sa che dopo un terremoto aumentano i matrimoni e le nascite che sono beni rifugio, e si formano nuove classi sociali, si riprogetta la vita come insegna appunto Salvemini. Ma le catastrofi attirano gli sciacalli, economici certo ma soprattutto politici e morali. Ricordo che, giovanissimo, nel Belice vidi arrivare i missionari delle più strane religioni, i rivoluzionari seguaci di ogni utopia e i ladri d’anima. I soli che in Italia non arrivano mai sono gli antisismici d’assalto; le sole competenze che ai costruttori non interessano sono quelle antisismiche; e a nessun italiano viene in mente, invece di ingrandire la terrazza, di rafforzare le fondamenta della casa.
Siamo i più bravi a rimuovere, a dimenticare i lutti, a non tenere conto che la distruzione come la costruzione crea spazi e solidarietà. L’Italia sembra unirsi nelle disgrazie. Nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità. Davvero ci sentiamo e siamo tutti abruzzesi. Ci sono familiari volti e lacrime che sono volti e lacrime di fratelli. Sta tremando tutta l’Italia. E anche se non riusciremo a dominare la forza devastatrice della natura, mai più dovranno dirci che questo è un paese fuori dalla legge. Fosse pure un’illusione piccolo borghese, da impiegati del politicamente corretto, abbiamo bisogno di applicare tutti insieme la tecnica antisismica e di misurare il ferro che arma il cemento: abbiamo bisogno di costruttori, di sovrintendenti, di legislatori e di giudici di ferro.
Le macerie dell’ultimo terremoto costituiscono uno scenario immutabile nel tempo, lo sfondo sul quale più o meno si rappresenta lo stesso copione, almeno sul piano della espressione di intenzioni. Si promette il rapido superamento dell’emergenza fino al raggiungimento di normali condizioni di vita; in tempi contenutissimi si garantisce il passaggio dalle tende alle case; infinela ricostituzione del tessuto produttivo ed infrastrutturale come occasione di sviluppo dell’area. Tutte cose mai avvenute: il ritorno ad una vita normale è lungo e doloroso; il passaggio dalle tende alle case comporta una lunga permanenza in alloggi provvisori per una costosissima ricostruzione quantomeno decennale; per l’Irpinia del terremoto dell’80 si progettò quel tipo di sviluppo che fu poi costellato di illegalità e cattedrali nel deserto. Come ultima cosa si dice che quanto accaduto non dovrà mai più capitare; e si promette un impegno inderogabile sul terreno della prevenzione sismica.
Il 28 dicembre del 2008 si è celebrato l’anniversario del terremoto di Reggio Calabria e Messina. Tante paginate di giornale sulla tragicità di quell’evento, tante commemorazioni, ma la questione su cui concentrare l’attenzione doveva essere soprattutto un’altra.
Il Governo Giolitti, terrorizzato dall’immane sciagura, pochi mesi dopo inaugurò infatti la prevenzione sismica in Italia. Da quel tragico evento in poi, chiunque avesse voluto costruire un edificio in un comune iscritto nella lista di quelli sismici, lo avrebbe dovuto fare rispettando una specifica normativa in grado di conferire una più elevata resistenza agli edifici. Da allora, dopo ogni terremoto più o meno distruttivo, nuove porzioni di territorio nazionale sono state classificate: nel 2001 il territorio nazionale appariva classificato come sismico per oltre il 70%. Ma, ad una così ampia delimitazione delle zone dove le esperienze vissute dimostravano la ricorrenza del fenomeno, non ha corrisposto un analogo riscontro in termini di azione di mitigazione del rischio: dopo un secolo di attivazione dell’unico strumento organico di prevenzione, oggi, solo il 18% degli edifici, rispetto all’intero stock di edificato, risulta sismicamente protetto.
Bene, dalle immagini di L’Aquila e dintorni emerge un’enorme assenza di sicurezza e, in queste primissime ore di post-terremoto, nel rispetto delle vittime e delle strutture di soccorso che stanno cercando di fare il loro meglio per risolvere l’emergenza, emerge una macroscopica mancanza di prevenzione, il che induce ad alcune considerazioni a caldo, salvo poi ritornare, con maggior cognizione di causa, su taluni aspetti.
Il terremoto ha colpito L’Aquila e alcuni piccoli paesi abbarbicati sui versanti della Conca dell’Aterno che danno l’impronta al paesaggio dell’Appennino centro meridionale.
L’edilizia prevalente nel centro storico del capoluogo così come in quelli di Paganica, Fossa, Onna, Barisciano è intrinsecamente fragile, vulnerabile per caratteristiche tipologiche e costruttive. Insomma, rappresenta in modo emblematico l’elevato rischio sismico di cui è affetto il Paese, dovuto al patrimonio edilizio preesistente rispetto all’introduzione della classificazione sismica del territorio che ha iscritto i comuni dell’Aquila e di tutta la sua provincia dal 1915, quando il terremoto di Avezzano causò 30 mila vittime.
E’ necessaria, dopo quest’ultimo disastro, una riflessione sulla politica di prevenzione anche per queste tipologie edilizie, per i centri storici nel loro complesso, rispetto ai quali con tutta evidenza le iniziative intraprese attraverso strumenti di defiscalizzazione a favore degli interventi di manutenzione straordinaria, che hanno riguardato anche aspetti strutturali, non hanno risolto significativamente il problema. Insomma, i centri storici, ormai in modo diffuso, sono realtà che hanno riacquistato in questi ultimi anni una forte capacità attrattiva, sia sul piano residenziale che turistico. Si riqualificano sul piano estetico, si ristrutturano nel senso della vivibilità, recuperando almeno in parte la loro indispensabilità sul piano socio-culturale, mentre purtroppo, sul piano della sicurezza, sembrano mantenere intatta la loro vulnerabilità.
E’ un problema di risorse? Certamente sì. Lo Stato avrebbe dovuto far di più onorando l’impegno, più volte assunto dopo ogni catastrofe, che la messa in sicurezza del territorio sarebbe diventata la più importante opera pubblica di questo Paese. Ma di soldi, per esempio, ai Beni culturali ne sono stati dati, di interventi ne sono stati fatti, anche qui con esiti a dir poco incerti. Allora, di fronte ai disastri delle chiese e dei monumenti del capoluogo abruzzese emerge un problema di progettazione, di capacità tecniche, di giusta sintesi tra l’esigenza di proteggere dalla distruzione ed i vincoli della conservazione.
Ed infine c’è il cemento armato. Perché gli edifici in cemento "moderni" collassano, si impilano su stessi non lasciando nessuno scampo a chi li abita? Come sostiene qualcuno è un problema più da Procura della Repubblica che tecnico. D’altronde, la normativa sismica pretende che la nuova edilizia nei comuni classificati, e quindi soprattutto gli edifici in cemento armato, consenta di salvare la vita degli occupanti, pur subendo danni, e quindi non ammette giustificazioni spendibili in linea generale. Soprattutto di fronte a ciò che è avvenuto a L’Aquila oggi, alla scuola di San Giuliano di Puglia ieri e all’Ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi l’altro ieri.
In senso generale, si può affrontare un ultimo tema legato direttamente al concetto di sicurezza oltre che, evidentemente, alla tutela del territorio. Per chi si occupa di riduzione del rischio sismico, ma in realtà anche di tutte le altre tipologie di rischio naturale, il termine "condono" rappresenta una sorta di anatema, di cupo presagio. L’abusivismo, che i condoni incrementano, soprattutto diffuso nelle aree meridionali del Paese dove più elevata è la pericolosità sismica, ha assunto dimensioni devastanti, e chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità dell’area di sedime né delle caratteristiche strutturali. La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta. Certo, oggi un nuovo condono in Italia è improponibile, ma si affaccia la minaccia di appendici e superfetazioni di ogni tipo. Basta che non superino il 20% di quanto già costruito abusivamente e poi, magari, condonato.
La terra impazzita e i giuramenti mai mantenuti
Gian Antonio Stella – Corriere della Sera
"Bare. Mandate altre bare". "Ancora? ". "Ancora". Alle quattro del pomeriggio, tra i ciliegi e i meli in fiore di Onna, l’antica Villa Unda nota al papa Clemente III, è già chiaro che non bastano, tutte quelle casse di legno chiaro fatte arrivare a più riprese fin dalla mattina e allineate da una parte, sotto il tronco di una robinia. Un poliziotto stende sull’ultimo poveretto estratto dalle macerie, infagottato tra coperte e lenzuola, un pezzo di nastro adesivo da pittori. Ci scrive un nome col pennarello.
Non c’è un passero che voli, nel cielo azzurro di Onna. Non una rondine che sfrecci. Non una cinciallegra che canti. Solo il silenzio. Un silenzio gonfio di disperazione. Rotto solo dal pianto di qualche parente e dal rumore dei caterpillar che affondano le pale tra le rovine tirando su enormi cucchiaiate di quotidianità annientata. Frigoriferi sepolti sotto tonnellate di pietra con una confezione di uova rimaste miracolosamente intatte che si rompono rotolando via nella polvere. Stufe a gas. Credenze dai vetri scoppiati coi bicchierini del vermouth della domenica rovesciati tutti da una parte. Spalliere di ottone che emergono tra i travi e i mattoni luccicando gialle sotto il sole.
Silvio Berlusconi, che si è precipitato nel cuore di questo Abruzzo ferito annullando il viaggio in Russia dove era in programma una missione a fianco degli imprenditori, ha un maglioncino nero, la faccia nera e assicura che "nessuno verrà lasciato solo" ma la situazione è davvero pesantissima: "Per quanto riguarda il centro storico di L'Aquila c'è inagibilità assoluta: tutti gli edifici pubblici sono inagibili".
Invita "gli abitanti a non restare nelle case lesionate: se si ha la possibilità di portare famiglia e bambini da amici e parenti, è meglio dislocarsi altrove". Ammette che no, "non c'è nessuna possibilità di effettuare previsioni: non c'è nessuno che può dire che non ci saranno scosse nelle prossime ore o nei prossimi giorni".
Gli aquilani del centro storico e delle frazioni vicine si accoccolano spossati sui sedili delle auto parcheggiate il più lontano possibile dalle case e sospirano come don Mauro, il parroco della contrada di Sant’Elia dove il campanile si è piegato tutto da una parte e minaccia di cadere sulla canonica e la chiesa dedicata a San Lorenzo pare colpita da una granata che abbia buttato giù l’intera facciata a destra del portone e sventrato l’interno risparmiando solo la statua del santo, bianca come un fornaio.
"Si dovrà capire, poi, questa storia dell’esperto. Si dovrà capire perché non gli hanno dato retta". Ecco il dubbio che ronza nella testa di tutti: perché non è stato ascoltato Giampaolo Giuliani, il ricercatore che nei giorni scorsi aveva lanciato l’allarme avvertendo che sarebbe arrivato uno scossone devastante? "L’avevano perfino denunciato", borbotta don Mauro, sistemandosi il colletto bianco rigido slacciato, "Perfino denunciato. E invece aveva ragione lui".
Un vigile del fuoco sfatto di fatica tiene al guinzaglio un cane che tira di qua e di là annusando la morte. L’uomo si toglie la mascherina, risponde al cellulare, cerca di mettere insieme l’ennesimo bilancio. Cento morti, forse. Forse di più. Forse centocinquanta. Più di centocinquanta. A L’Aquila, dove si è accasciata la Prefettura e si è piegata tutta da una parte la Casa dello studente e si è schiantato su se stesso un condominio che svettava su un sereno giardino di pini il cui profumo si fa largo con un soffio, appena c’è un refolo di vento, tra la polvere sollevata dalle ruspe. A Paganica, la patria di Sallustio ai piedi del massiccio del Gran Sasso dove passava la via romana Claudia e dove è crollato il monastero di San Chiara ed è stata devastata la Chiesagrande.
A San Pio delle Camere, che sta adagiato ai piedi del monte Gentile e prima di finire sui giornali il giorno in cui il suo paesano Franco Marini diventò presidente del Senato, era famoso per lo zafferano, che è così delicato ed esposto ai capricci del tempo che "un anno t’arricca e uno ti spianta". La vecchia signora Rita viveva in via Massale, ai bordi di Onna. Una casetta come tante, a due piani. Prima di andare a letto, aveva accomodato ordinatamente la camicetta e la gonna su una sedia posata contro il muro della camera. La casa è venuta giù ma la sedia è rimasta lì. Al suo posto. Salda su un orlo del pavimento rimasto miracolosamente aggrappato alla parete azzurra. Dove spiccano un crocefisso e il quadretto di una madonnina. La ruspa scava sotto gli occhi dei figli, che assistono inebetiti. A un certo punto un pompiere fa un gesto. La ruspa si ferma. Un vigile si china e tira su una coperta. Poi una trapuntina. Poi un lenzuolo. Ci siamo, forse. "Indietro! Per favore, indietro ", chiede un poliziotto. "È lei?" "È lei".
Il parco giochi della scuola materna, coi suoi castelletti e gli scivoli e i tavolini e i recinti gialli e rossi e verdi e blu è rimasta l’unica cosa colorata della contrada. Tutto il resto, nella devastazione che ha annientato in pochi istanti due terzi del paese sfregiando l’ultimo terzo con crepe e finestre accecate e cornicioni precipitati al suolo, ha assunto un uniforme colore grigiastro. Il vecchio Giuseppe, il viso segnato dal sangue di una ferita alla fronte che non è ancora riuscito a lavare via, mostra la distruzione della cascina e del cortile e delle tettoie dove teneva le macchine agricole: "Io e mia moglie ci siamo salvati per un pelo. Fortuna. Vuol sapere la cosa più assurda? Si è sentito uno schianto e ci tremava la terra sotto i piedi e venivano giù le pareti e io mi sono trovato a imprecare: "Le scarpe! Dove ho messo le scarpe?"".
Suor Lucia, che con le consorelle si è sistemata su alcune seggiole davanti a ciò che resta del "Pontificio Istituto Maestre Pie Filippini", si lagna per la gamba. Si è buttata sulle ginocchia una coperta ma dice che non è servita a molto. Dolori. Dolori forti. "Siamo qui da stanotte. Ormai sta scendendo la sera e non abbiamo idea di cosa fare". Dalla vicina Casa dello studente, quando già comincia a calare la luce, salgono urla di gioia. Hanno trovato i ragazzi che erano sotto. Vivi. Si rivelerà un’illusione, ma per un po’ sembra un miracolo. Suor Lucia pensa che è merito anche delle preghiere di santa Lucia Filippini, che è riuscita a rimanere dritta sulla sua colonnina mentre tutto intorno crollava e si è guadagnata un posto accanto al buon Dio grazie al fatto che, come dicevano i santini di un tempo, "scansava le amicizie delle compagne cattive che avvelenano coi loro vizi le anime innocenti e si guardava dalla vanità ".
Quel che è sicuro, a girare per le strade del capoluogo e dei borghi dei dintorni e a vedere come sono andati giù anche certi edifici costruiti dieci o venti anni fa, è che un Paese come il nostro non può affidarsi a santa Lucia o a sant’Emidio, protettore dai terremoti. Sull’elenco telefonico di Los Angeles appena aperto, come ricordò un giorno Giorgio Dell’Arti, c’è una frase: "Ci saranno sempre terremoti in California". A seguire, tutte le istruzioni su come comportarsi: tenere a portata di mano torce e radio con batterie, una valigetta con il materiale minimo di pronto soccorso, dieci litri d’acqua… Certo, tutto ciò non basta quando la terra, per usare la frase sentita ieri ad Onna in bocca a una ragazzina che trema come una foglia al ricordo, "comincia a sbattere come la coda di un drago impazzito".
Ma i morti sì, possono essere limitati. I danni sì, possono essere contenuti, quando le case sono costruite con i progetti giusti e gli accorgimenti giusti e i materiali giusti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi italiani. Che viviamo in una terra tra le più inquiete di un mondo in cui avvengono ogni anno un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio del quinto grado della scala Richter, cioè uno ogni tre-quattro giorni e ogni tanto ne arriva uno che sconquassa tutto. E per giorni giurano tutti che basta, occorre cambiare le regole e bisogna adottare una volta per tutte i sistemi che aiutano a limitare i danni perché è stupido spendere i soldi come per decenni ha fatto lo Stato che secondo i dati del Servizio geologico nazionale è riuscito a spendere solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie oltre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 milioni di euro al mese. Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orientale nel dicembre 1990 e per quello nell’Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell’ottobre 2002… Tutti lutti seguiti da una promessa solenne: mai più. E presto dimenticata sotto la spinta di nuovi condoni, nuove elasticità urbanistiche, nuove regole più generose… Mentre cala la notte, nei paesi sotto il Gran Sasso la terra, ogni tanto, dà un nuovo scossone. Piccolo. Leggero. Sinistro. Così, tanto per ricordare chi comanda.
Piano Casa? Meglio un piano terremoto
Vittorio Emiliani – l’Unità
Domenica scorsa ho scritto sull’Unità del proposito governativo di abolire le autorizzazioni preventive per le nuove case nelle zone a bassa sismicità e di allentarle (magari solo successive e "a campione") in quelle a medio e alto rischio. "Da rabbrividire", commentavo, in Paese per circa due terzi mediamente o altamente sismico. Cosa dovremmo dire oggi, dopo la tragedia aquilana? Che non si può incentivare una ripresa edilizia "comunque" e dovunque, sfidando i vincoli paesaggistici, quelli idrogeologici e sismici. Tutta la filosofia delle misure del piano famiglia e poi del piano casa (attendiamo testi definitivi) poggia sull’abbassamento della soglia dei controlli tecnico-scientifici pubblici, a cominciare dai pareri delle Soprintendenze "non più vincolanti". Nel caso i Beni culturali riuscissero a darli in tempo, l’amministrazione locale "può procedere ugualmente al rilascio motivando specificamente sul dissenso". Incredibile.
Dunque, meno controlli preventivi, tecnici e mirati, dello Stato, e più mano libera ai privati, grandi e piccoli. Una "filosofia" che il terremoto aquilano boccia inesorabilmente. Il nostro (esclusa la Sardegna e una parte delle Alpi). è un Paese quasi ovunque a rischio sismico Ha subito almeno 30.000 fenomeni di rilievo dal 461 avanti Cristo ad oggi e 560 terremoti "forti, fortissimi o catastrofici". Il volume, tremendamente attuale, dello scienziato Enzo Boschi e del giornalista Franco Bordieri, "Terremoti d’Italia" ha un sommario durissimo: "Il rischio sismico, l’allarme degli scienziati e l’indifferenza del potere". Di qualunque potere.
Entrata in vigore nel 1989 la legge n.183 per la difesa del suolo, ventitre anni dopo le alluvioni di Firenze e Venezia, e nove dopo il terribile sisma irpino, venne poi creata l’Agenzia di Protezione Civile, diretta da Franco Barberi. Non potenziata dal governo Prodi e chiusa dal secondo governo Berlusconi: per far confluire anche le sue competenze sismiche nel mare magno della Protezione Civile, licenziando lo stesso Barberi e colpendo con un assurdo spoil system Roberto De Marco, responsabile del servizio sismico. Guido Bertolaso doveva essere a capo di tutto, sostenuto anche da forze del centrosinistra. Si indeboliva così una cultura specifica quanto mai utile nei drammatici frangenti che si ripetono spesso in Italia senza che nulla insegnino (se non agli studiosi): per esempio che le costruzioni in cemento armato sono le più rigide e quindi le meno antisismiche (nell’Aquilano vedo in tv un ospedale di quindici anni fa sbriciolato, una costruzione ancora nuova collassata su se stessa divenendo una trappola). O che è molto meglio investire miliardi veri nella prevenzione antisismica, nella lotta alle frane (un flagello), nel controllo delle cave, spesso abusive, e delle case non meno abusive, piuttosto che piangere dopo: nel 1970 la commissione De Marchi chiedeva 10.000 miliardi di lire, concessi in minima parte; fra il 1970 e la metà degli anni ’90 ne vennero però spesi oltre 60.000 soltanto per tamponare le falle. Senza contare le povere vite umane perdute, quelle sì senza prezzo. Ma, si sa, i miliardi destinati a questi scopi non fanno "parata elettorale".
Le colpe del Malpaese
Giovanni Valentini – la Repubblica
Non è certamente colpa di nessuno, tantomeno del governo in carica, se scoppia un terremoto nel cuore della notte e devasta un'area sismica già censita nelle mappe della paura, provocando una dolorosa catena di rovine, morti e feriti. Quando l'instabilità del territorio si combina purtroppo con la violenza della natura, il cataclisma diviene inarrestabile e l'uomo non può che arrendersi alla fatalità.
È doveroso ora far fronte all'emergenza, soccorrere le vittime, assistere i sopravvissuti, ripristinare al più presto condizioni di vita normali e dignitose per tutti. Ed è senz'altro opportuno accantonare per il momento qualsiasi polemica contingente, per concentrare gli sforzi in un impegno comune di solidarietà. Ma subito dopo sarà necessario anche compilare l'inventario delle responsabilità, remote e recenti, non solo per accertare che sia stato fatto davvero tutto il possibile per prevenire un evento di tale portata, quanto per impedire che possa ripetersi in futuro o perlomeno per contenerne eventualmente l'impatto.
Non vogliamo riferirci qui tanto alla "querelle" fra il tecnico che nei giorni scorsi aveva lanciato l'allarme e l'apparato della Protezione civile, sostenuto dall'establishment del mondo scientifico, secondo cui un terremoto non si può mai prevedere. Sarà pur vero che i sintomi registrati dai sismografi o da altre apparecchiature non consentono di predisporre per tempo un intervento funzionale, cioè un'evacuazione di massa delle case, dei paesi e delle città. È altrettanto vero, però, che in questo caso i segnali sono stati evidentemente trascurati e sottovalutati, fino al punto di mettere sotto inchiesta l'incauto tecnico in virtù di un paradosso giuridico che prende il nome di "procurato allarme".
La questione fondamentale è un'altra e si chiama piuttosto "cultura del territorio". Vale a dire conoscenza e rispetto della natura; sensibilità e cura per l'ambiente; tutela del paesaggio e ancor più della salute, della vita umana, di tanti destini in carne e ossa che in quel territorio incrociano la propria esistenza. Non c'è pietà per le vittime e per i sopravvissuti di questo o di altri terremoti, come di ogni disastro naturale, senza una consapevolezza profonda di un tale contesto e senza una conseguente, concreta, quotidiana assunzione di responsabilità.
Fuori oggi da una sterile polemica politica, non si può fare a meno tuttavia di registrare l'enorme distanza - propriamente culturale - fra un approccio di questo genere e il cosiddetto "piano-casa" recentemente varato dal governo di centrodestra, nel disperato tentativo di rilanciare l'attività edilizia. In un Malpaese che trema distruggendo - insieme a tante speranze e a tante vite - abitazioni, palazzi, ospedali, scuole e chiese, e dove ancora aspettano di essere ricostruiti gli edifici crollati nei precedenti terremoti come quello del Belice di quarant'anni fa, la priorità diventa invece la stanza in più, la mansarda o la veranda da aggiungere alla villa o alla villetta, in funzione di quel consumo del territorio che si configura come un saccheggio privato a danno del bene comune.
Non saranno magari le fughe di gas radon emesse dalla terra in ebollizione - come predica l'inascoltato ricercatore abruzzese - a permetterci di prevedere i terremoti, ma verosimilmente una rigorosa prevenzione anti-sismica può aiutarci a ridurre al minimo i danni e soprattutto le vittime. Tanto più nelle regioni e nelle zone dove il rischio è notoriamente più alto. Ecco una grande occasione per rilanciare l'attività edilizia nell'interesse generale, non già al servizio della speculazione immobiliare ma semmai in funzione di un investimento umano e sociale sul territorio.
Con i 150 morti finora accertati, i mille e cinquecento feriti, i settantamila sfollati, i diecimila edifici crollati o danneggiati, il triste bollettino di guerra che arriva dall'Abruzzo interpella una volta di più le ragioni di un "ambientalismo sostenibile": cioè, pragmatico, costruttivo, effettivamente praticabile. Di fronte al primo cataclisma del nuovo millennio, quello schieramento composito e trasversale che vuole difendere l'immenso patrimonio naturale, storico e artistico dell'Italia dagli egoismi individuali, è chiamato a misurarsi più che mai con la sfida della concretezza. Superata l'era delle vecchie ideologie, rosse o verdi che fossero, ora c'è da impugnare la bandiera del realismo civile.
In quelle parole è nascosta un’idea che si è trasformata in azioni: l’idea che la funzione del suolo sia quella di ospitare edifici, di lasciar sorgere su di esso case, capannoni, palazzi. Poiché il suolo serve esclusivamente a quello, qualunque atto che voglia prescrivere altre utilizzazioni è considerato un perverso vincolo: lasciare un’area all’agricoltura o alla creazione di un parco o un bosco è considerato un danno che lo “sviluppo” non può tollerare.
Per lasciare che quella “vocazione” si esprima, che quel “diritto” cancelli ogni altro diritto, che quello “sviluppo” non si arresti, bisogna rendere innocua la pianificazione delle città e dei territori: finché non si può abolirla, finchè non si può affidarla alle mani degli interessi immobiliari (come la proposta di legge sul governo del territorio del Popolo delle libertà propone) occorre consentire con ampiezza di derogare dalle sue regole.
Il Italia si è costruito troppo, al di fuori da qualunque necessità sociale. Si sono urbanizzate, e spesso degradate, aree la cui piena utilizzazione consentirebbe di ospitare tutte le necessità di una popolazione molto più ampia di quella attuale. La messa in sicurezza delle costruzioni minacciate nella loro integrità fisica dal mancato rispetto delle norme più elementari di sicurezza statica dovrebbe essere un tassello di una grande progetto di restauro del territorio, basato su un’attività di pianificazione territoriale e urbanistica che metta al suo centro la difesa delle qualità esistenti e la creazione di nuove, il rispetto della trasparenza nelle decisioni, la più ampia partecipazione alle scelte che condizionano il futuro di noi tutti.
Il terremoto si distingue dalle altre e molte calamità per la rapidità e l’indifferenza naturali: nei pochi minuti delle scosse telluriche il disastro è compiuto, ai superstiti non resta che cercare i cadaveri sepolti sotto le macerie e camminare smarriti fra ciò che resta di città e villaggi. Fra il dolore insopportabile ma come sempre sopportato da chi ha perso i suoi cari, e il silenzio degli altri sopravvissuti che li compiangono ma sanno di essere stati miracolati.
Per giorni, per anni, si parlerà delle prevenzioni non fatte, degli errori compiuti, delle malefatte per egoismi per i quali è arrivato il conto da pagare e sui giornali e alla televisione ci sarà lo spettacolo dolente e impotente dei morti, dei feriti, dei loro parenti in lacrime.
Un nome verrà ripetuto in tutte le cronache, nei commenti, nelle polemiche. Quello di Guido Bertolaso il capo della Protezione civile, il professionista dei pubblici soccorsi che tutti gli italiani conoscono anche se, per la verità, faticano a capire che è lui il vero premier di questa Italia disastrata. Il vero capo del governo è lui, non i politici che in Italia e all’estero recitano la parte dei pubblici amministratori.
Bertolaso ha una sua uniforme, veste in borghese senza gradi e senza medaglie, pantaloni normali e un pullover blu con su cucito un nastro tricolore, ma non c’è italiano che non riconosca in lui quello che promette di rimettere in piedi il paese ogni volta che va in pezzi, che promette di ricucire le sue ferite, di togliere le macerie e le immondizie, di riaprire le strade, di riportare fiumi e torrenti nei loro argini. È quello che il capo ufficiale del governo vorrebbe essere, un "dittatore" buono. Bertolaso gode infatti dei poteri necessari per mobilitare eserciti di soccorritori, migliaia di treni, di auto, di camion. Quando arriva lui con il suo pulloverino blu, con il nastrino tricolore, prefetti, questori e generali si mettono sugli attenti e gli obbediscono senza fiatare. Lui zittisce le polemiche, come ha fatto anche ieri, spiega che la tragedia non si poteva prevedere. E non importa se poi non riesce a mantenere molte delle sue promesse. Bertolaso ha i pieni poteri, è il governo più forte del governo.
C’è una cosa importante che si sta verificando anche in Abruzzo. Nel dolore e nella disperazione dei disastri maturati la gente riscopre la voglia di resistere, di riparare. E per una volta i lacci e i lacciuoli burocratici sembrano scomparire di fronte alla superiore necessità. Si mobilita in poche ore un vero esercito nazionale che è quello dei soccorsi, che si mette in marcia dal Brennero a Capo Passero secondo piani e interventi preordinati, ma anche su base volontaria e solidaristica. Sospinto dall’emozione, dal dolore, dalla fratellanza di un popolo.
E c’è un’altra lezione, un’altra cognizione che viene da questo disastro per molti aspetti feroce e impietoso. La transizione fra l’Italia antica, paese d’arte, l’Italia dei mattoni e delle ardesie, e quella moderna del cemento armato. Fra l’Italia dei borghi medievali attorno ai castelli sopra i colli e quella delle zone industriali sui piani di fondo valle. Giornali e televisioni hanno intervistato i superstiti dei terremoti in Campania e nelle Marche, amministratori, funzionari che hanno visto con i loro occhi, a volte la morte dei loro cari, i ritardi e le imprevidenze, gli errori ancora una volta compiuti, ancora una volta troppo tardi denunciati. Ancora una volta hanno ricordato l’antica e mai osservata lezione di serietà e di modestia, il dovere di provvedere oggi al necessario invece di piangere domani sulla propria imprudenza.
Il rimprovero principale che si mosse alla megalomania imperiale mussoliniana, fu di aver speso uomini e denaro per la conquista dello "scatolone di sabbia" in Libia mentre nell´Italia meridionale mancavano strade e ferrovie e la gente continuava a portare i carichi in spalla e a percorrere a piedi i tratturi. Le grandi opere sono una testimonianza di civiltà ma anche un lustro di governanti ambiziosi più che saggi. Il ponte sullo Stretto di Messina e i treni super veloci sono belli da vedere e da raccontare ma poi arriva una pioggia persistente e una delle grandi opere, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria si tramuta in quello "sfascio pendulo" che è gran parte del Meridione.
C’è infine una terza lezione da ricavare da questa modernità: non è più il tempo di correre a vedere chi è morto o senza casa. Anche la pietà e il cordoglio devono adattarsi alla modernità di massa, non intralciare sulle strade il traffico dei soccorsi. È una preghiera, ordine di Guido Bertolaso.
L'insegnamento dell'Abruzzo e la memoria fragile dell'Italia
Sergio Caldaretti
Paolo Berdini sul manifesto del 7 aprile sottolinea la mancanza di ogni sensibilità politica del governo Berlusconi verso il tema della "messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio"; e, per questo, fa riferimento al piano casa in via di definizione, che tende solo ad "aggiungere". A mio avviso, questa insensibilità non è carattere esclusivo dell'attualità, ma permane nel nostro paese da lungo tempo; e non è da imputare solo alla sfera politico-amministrativa ma è un carattere consolidato della nostra cultura. È molto diffusa la tendenza ad attribuire alla natura maligna una pervicace ostinazione nell'infierire sull'indifeso popolo italico, sottoponendolo ad ogni sorta di vessazione con terremoti, frane, alluvioni, incendi, e così via. Il problema è che un terremoto o una frana in un deserto non fanno notizia perché producono danni molto limitati, mentre una parte di collina densamente edificata che viene giù dopo qualche giorno di pioggia riempie di costernazione i mezzi di informazione quanto i cuori degli individui per l'enormità degli effetti sulle persone e cose che su quella collina si erano insediate. Non è dunque, di per sé, il fenomeno naturale a provocare danni, ma il suo impatto sui contesti insediativi che si trovano sul suo percorso; danni che sono tanto più elevati quanto minore è la capacità di resistenza dell'insediamento all'impatto.
Questa banale constatazione si insinua sempre nell'imponente dialettica mediatica che si innesca a valle di un disastro; accanto alle accorate proteste sui ritardi nei soccorsi e sull'inefficienza del sistema di gestione dell'emergenza, qualcuno si spinge infatti ad adombrare una qualche disattenzione verso i complessi rapporti tra caratteri del sistema naturale e azione dell'uomo, attribuendo a quest'ultima un ruolo non secondario nel determinare i disastrosi effetti che le televisioni mostrano. Da qui, è breve il passaggio a invocare un drastico cambiamento nelle politiche per il territorio, che dovrebbero incardinarsi, neanche a dirlo, sul principio della prevenzione. A sostegno, quattro conti che dimostrano l'enorme differenza tra quanto si è speso nei decenni passati per le ricostruzioni e quanto si sarebbe speso per mettere in sicurezza il territorio.
In particolare, dopo i terremoti del Friuli e dell'Irpinia constatazioni così banali hanno aperto qualche varco. Proprio in quel periodo ho iniziato ad occuparmi, da urbanista, dei temi legati alla mitigazione del rischio sismico, e ho così attraversato con questo sguardo i molteplici disastri che si sono succeduti nel nostro paese con un ritmo incalzante e drammatico e le reazioni che ne sono scaturite. A valle di quei due eventi si è in effetti sedimentata una certa attenzione su questi temi, sia nel contesto scientifico che nell'azione politica; ne sono testimonianza le attività del Gruppo nazionale per la difesa dai terremoti e dell'Istituto di geofisica e vulcanologia, volte a definire tecniche e procedure di mitigazione, e le sperimentazioni condotte in alcune regioni per trasferire queste indicazioni in termini normativi e gestionali. Le ricerche portate avanti sulle risposte dei sistemi costruttivi ad un terremoto hanno portato a definire nuovi protocolli di sicurezza, recepiti poi da leggi e circolari.
Nel contesto scientifico che si occupava della questione si è innescato un deciso dibattito tra chi interpretava la mitigazione del rischio sismico in termini di "sicurezza" dei manufatti, e chi (in particolare, gli urbanisti) invece attribuiva centralità ad una visione della città e del territorio come sistemi complessi, e dunque riteneva che una strategia di mitigazione dovesse andare oltre l'attenzione al singolo elemento per considerare le infinite interazioni di diversa natura che si esplicano in un contesto insediativo. Una semplice constatazione dava forza a questa seconda tesi: anche se si fosse riusciti, imponendo determinate regole, a far costruire i nuovi manufatti con tecnologie adeguate a resistere al sisma, permaneva comunque l'impossibilità concreta (anche in termini economici) di "mettere in sicurezza" tutti i manufatti esistenti.
A questa fase "dinamica" ha poi fatto seguito un progressivo affievolirsi delle attività; non che tutto si sia fermato, piuttosto l'attenzione è andata sfumando, e con lei il "senso del problema", la sua coscienza collettiva. Gli eventi più recenti, forse perché non così disastrosi come quelli della fine degli anni '70, sono passati senza trovare sedimento, sia nella sfera politica che nella memoria individuale e collettiva.
Temo che, oggi, il problema non sia (solo) il governo Berlusconi, ma qualcosa di più immanente e sedimentato: l'incapacità di una collettività di conservare memorie, e di farne discendere prospettive e strategie d'azione. (...) In conclusione, ritengo che sia essenziale una sensibilizzazione a livello individuale e collettivo. Ciò rimanda a due grandi obiettivi di portata ben più ampia: la riappropriazione della coscienza collettiva del territorio e la centralità dell'approccio politico-strategico nell'interazione tra contesti locali e contesto globale. Obiettivi che dovrebbero essere inseriti senza indugio in un programma volto a ridefinire riferimenti costitutivi e strategie della malconcia sinistra nostrana.