«Chiesto il fallimento per l'autostrada più cara d'Italia. Un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla». L'Espresso, 23 luglio 2017 (c.m.c)
Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all'italiana. Si ride con l'amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l'autostrada pubblica più cara della storia d'Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.
Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all'azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un'iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s'intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.
Dietro il processo c'è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull'autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l'autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.
In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.
Fin qui c'è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l'app.
Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l'impegno se non nell'anno semigiubilare dell'Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell'anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.
La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).
Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un'azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l'espressione free-flow con "scorro gratis". Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.
Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un'azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell'A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi.
Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell'opera.
La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L'aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all'inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all'altra, per un totale di sei. L'ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l'aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell'intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).
Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell'Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l'ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l'ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l'opera "faraonica" ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D'Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.
Di Pietro e D'Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l'inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l'opera. L'eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po' quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.
Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c'è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l'opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall'ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.
Ma hanno tifato per l'infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all'inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l'opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c'è».
«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l'assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l'aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell'epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell'alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.
Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un'opera che non condivide nello schema e che ha all'origine il pasticcio chiamato Cal, l'ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell'Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo. Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l'impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l'ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell'Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un'incompiuta in più.
«Pressioni alla politica e affari dei clan ecco perché l’Italia sta bruciando. Da cittadino non accetto che mi si raccontino fandonie, ma la realtà è che il fuoco è strumento economico di “bonifica criminale”. Ogni zona ha i suoi gruppi criminali che bruciano». la Repubblica, 19 luglio 2017
Ho provato a sfatare solo alcune delle bufale più diffuse sull’origine dei roghi perché da cittadino non accetto che mi si raccontino fandonie, ma la realtà è che il fuoco è strumento economico di “bonifica criminale”. Ogni zona ha i suoi gruppi criminali che bruciano. Bande che vogliono otte
nere appalti in cambio della sicurezza delle zone boschive (o mi dai l’appalto o brucio tutto); clan che attraverso il fuoco rendono inedificabili i terreni da cui vogliono ottenere percentuali sulle concessioni edilizie e i lavori di costruzione; e ancora con il fuoco le organizzazioni trasformano parchi nazionali in spazi ideali per le discariche abusive (da materiale plastico a stoffe, rifiuti speciali il cui smaltimento comporta oneri che le aziende aggirano appaltando alla camorra).
Ora, in un Paese come l’Italia, dove i grandi ambiti di investimento e riciclaggio delle mafie sono oltre al narcotraffico proprio edilizia e rifiuti, trattare gli incendi alla stregua di calamità naturali è da dilettanti della politica. Già immagino chi dirà: ma come non vedi quanto l’Italia sia colma di turisti? Perché non dai alla politica e alla gestione del territorio il merito di aver fatto da pull factor per il turismo internazionale. Come è possibile – mi domando io, invece – che chi parla di turismo non abbia capito che l’Italia è meta residuale? Che non potendo andare altrove per timore di attacchi terroristici si viene in Italia dove peraltro, causa incendi, in Sicilia e in Toscana sono state evacuate strutture turistiche? L’assalto turistico non avviene perché è migliorata l’accoglienza, perché sono migliorati i trasporti (provate a raggiungere Puglia o Calabria in treno…), ma perché altrove per paura non si va più.
Oggi di fuoco si parla perché non è possibile ignorare quello che sta accadendo, ma non un politico che abbia descritto la situazione in maniera realistica. Anche il fuoco è usato per scopi elettorali, ma dopo aver cavalcato il disagio e l’indignazione non sarà più un argomento spendibile perché non porta voti: gli eco-reati sono percepiti come secondari rispetto alla disoccupazione, salvo poi non fare mai i conti con l’impossibilità di avere una economia florida in un Paese in cui l’economia criminale è in continua espansione. E se oggi la colpa è dei piromani, della militarizzazione del Corpo forestale, se oggi c’è un piano eversivo, se c’è una regia unica, domani in mancanza di bufale, fake news, pre e post verità, resterà solo puzza di bruciato, devastazione e silenzio. E dove c’è silenzio crescono i clan. Alla prossima estate, ai prossimi incendi.
Si, proprio nello spettacolare paesaggio della Piana di Castelluccio di Norcia , che molti vorrebbero vedere riconosciuto come patrimonio dell'umanità.qualcosadisinistra, 18 luglio 2017 (c.m.c.)
Come da copione. La ricostruzione che non ricostruisce ma spende soldi per progetti totalmente campati in aria. Un film già visto dai tempi del Belice e passato per il Terremoto dell’Irpinia, vera prova generale di un sistema poi andato a regime nei 30 anni successivi.
Succede a Castelluccio di Norcia, il borgo famoso in tutto il mondo per la fioritura di lenticchie; ne hanno parlato per mesi i giornali, anche di recente, dato che i lavori di rimozione delle macerie (nemmeno di ricostruzione del borgo) vanno a singhiozzo. Basti pensare che la strada che lo collegava al resto del mondo è stata riaperta solo una settimana fa.
Eppure, la priorità sembra essere altro, a giudicare da questa notizia, passata sotto silenzio e rilanciata sui social da alcuni comitati locali.
La Regione Umbria, per bocca del suo vicepresidente Fabio Paparelli (PD) ha annunciato la costruzione di un centro commerciale nella Piana di Castelluccio, in pieno Parco Nazionale dei Monti Sibillini, nonché in mezzo a quello spettacolo che è ancora la fioritura delle lenticchie. L’opera, sarà prevalentemente a carico della Protezione Civile e costerà tra i 2 e i 2,5 milioni di euro.
La domanda che sorge spontanea è: ma sono diventati tutti matti? E’ quello che si sono chiesti anche i cittadini umbri di questa petizione su change.org, che appoggiamo in pieno. Con quei 2 milioni di euro si possono fare tante cose per Castelluccio. L’obbrobrio qui sotto in una valle di bellezza rara, benché spacciata per “ambientalista”, anche no: ne abbiamo avute fin troppe in Italia di cattedrali nel deserto (perché questo rischia di diventare Castelluccio se le istituzioni non si muovono a renderlo nuovamente un centro abitabile).
Altro che centro commerciale: servono LE CASE.
Dalle fiamme dell'estate bollente si risveglia, irrefrenabile il cemento degli speculatori che sembrava addormentato per sempre. Fatti l'uno per l'altro. il Fatto quotidiano, online 17 luglio 2017
«In una delle poche aree scampate all'edificazione sorgerà un nuovo quartiere, mentre diverse associazioni chiedevano il recupero del patrimonio edilizio esistente ma inutilizzato. Dopo l'approvazione e l'avvio della discussione l'area, incolta da anni, è andata in fiamme
Il problema che il “resto” non è un elemento trascurabile. Si tratta dei quasi 11 ettari di Parco urbano dei quali dovrebbe occuparsi direttamente il Comune.
L’operazione che il Consiglio comunale del 1969 ha ritenuto di bocciare e che nel 1997 sembrava essere stata stralciata è stata approvata nel 2017. L’attuale amministrazione lascia intendere che non approvando tale variante vi sarebbe stato il rischio di una ancor più grande cementificazione. Il dubbio che si tratti solo di una debole giustificazione rimane, dal momento che a decidere sull’area è esclusivamente il consiglio, come testimonia la lunga e complessa storia del Centro Direzionale.
“Le previsioni contenute nel Prg del 1969 non sono applicabili alla realtà di oggi. Forse richiamare popolazione attraverso l’edilizia avrebbe avuto un senso 50 anni fa, quando Cibali era effettivamente un quartiere periferico. Oggi però è centro cittadino, dovremmo definirlo quasi centro storico. Secondo me al quartiere serve di più un piano particolareggiato, per dare a tutta la zona una vocazione culturale e turistica”, dice il consigliere comunale Sebastiano Anastasi . Non è il solo a pensarla così. “È intollerabile che si proceda con l’approvazione di varianti che hanno l’unico fine di incentivare la speculazione edilizia”, protesta, infatti, anche Catania Bene Comune lista d’opposizione a Bianco. Lo scontento, insomma, è di molti. Ma non è tutto. Perché dopo l’approvazione e l’avvio della discussione l’intera area, incolta da anni, è andata in fiamme. Una coincidenza sulla quale sempre i consiglieri di Catania Bene Comune hanno chiesto all’autorità giudiziaria di “fare luce” e dunque indagare visto che “l’incendio ha desertificato le aree oggetto di variante”.
I
«Dai lidi in Sicilia, alle scuole di Locri costruite dalle cosche passando per interi quartieri di Roma: così i “fuorilegge” ridisegnano il piano regolatore del Paese». il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2017 (p.d.)
Crescono gli atti di ferocia delle amministrazioni locali contro chi non ha nulla. Togliere le panchine, tranne quelle destinate ai turisti, aumenta il degrado degli spazi pubblici e non risolve nessun problema. Ma porta voti. La Nuova Venezia, 16 luglio 2017 (p.s.)«San Donà. Continua l’emergenza casa anche per i residenti Appello di un 50enne che vive da oltre cinque mesi in auto. Via le panchine, ma i senzatetto restano davanti all’ospedale di via Nazario Sauro. E non solo in questa zona della città».
L’Italia unita è un paese malato di autolesionismo, che ha ingaggiato una guerra senza quartiere contro la bellezza del proprio territorio ammirata in tutto il mondo, dilapidando una ricchezza formata da capolavori di interazione tra l’uomo e l’ambiente, depositati strato su strato generazioni dopo generazioni.
Il pesce purtroppo puzza dalla testa: soprattutto negli ultimi decenni lo Stato si è fatto sostenitore di interessi particolari, quelli del partito del cemento, a scapito degli interessi generali legati alla difesa del suolo, al risanamento idrogeologico, alla cura del paesaggio e dei segni della storia, alla salute dei cittadini.
Si sono succeduti governi con denominazioni varie, alcuni di centro destra, altri di centro sinistra e gli ultimi di centro sinistra destra, tutti però ammantati dallo stesso colore grigio cemento: la “Legge obiettivo” del governo Berlusconi (n.443/2001) e il più recente decreto “Sblocca Italia” del governo Renzi n.133/2014 esprimono la stessa filosofia e manifestano la stessa incoscienza.
Il risultato è che in Italia si consumano 55 ettari al giorno, pari a circa 7 metri quadrati al secondo, con opere spesso capaci di incrementare a dismisura il già cospicuo debito pubblico, senza alcun riguardo per i più gravi problemi del Pianeta: la siccità e il riscaldamento globale.
Soltanto alcune realtà municipali hanno provato a contrastare questo andazzo scriteriato affermando il principio che la terra non è risorsa infinita a disposizione di qualsiasi interesse economico immediato, ma bene limitato da preservare per le future generazioni, da coccolare per produrre cibo sano con tecniche agricole non energivore né inquinanti e per costruire il senso di appartenenza delle comunità in contesti meno sterili e amorfi di quelli attuali. Si sono affermati qua e là (fiori nel deserto arido della mercificazione) percorsi di democrazia partecipata e le Amministrazioni sono giunte a decisioni importanti confrontandosi con gruppi di cittadini informati e responsabili.
Ci sono state per esempio le esperienze di Cassinetta di Lugagnano (MI), di Grottammare (AP), di Pollica in provincia di Salerno (dopo il contrasto tra cementificatori e innovatori che ha portato all’assassinio del sindaco Angelo Vassallo).
E’ ora il caso di seguire le vicende di Condofuri (RC), la cui Amministrazione guidata da Salvatore Mafrici ragionando con i cittadini riuniti nel “Laboratorio Territoriale”, sta cercando di evitare che il suo litorale venga sacrificato al modello Rimini imperversante sulle coste di tutta la Calabria, per ripristinare invece l’ecosistema dunale e il paesaggio ormai raro delle spiagge “non attrezzate”.
Il tutto nell’ambito di una visione del territorio che cerca di ritrovare e valorizzare le sue qualità primarie (fertilità della terra, biodiversità, bellezza storica dei luoghi) puntando anche su una destagionalizzazione del turismo. Il 7 luglio, nell’aula del Consiglio comunale, si svolgerà un episodio decisivo del confronto democratico che sta portando all’approvazione di un progetto di riqualificazione costiera i cui orientamenti sono racchiusi nel concetto di “Parco a mare”.
Carlo Rovelli, famoso fisico e autorità morale, come cittadino onorario di Condofuri è intervenuto nella faccenda con un accorato parere sulle scelte che si stanno per compiere.
Lo mettiamo a disposizione dei lettori come prezioso strumento di riflessione generale.
La lettera aperta di Carlo Rovelli
Carissimi amici e concittadini di Condofuri, e caro Sindaco,
due anni fa mi avete fatto un regalo immenso, offrendomi la Cittadinanza Onoraria e accogliendomi fra voi con un calore e un affetto che ancora mi scaldano il cuore. Permettetemi di mandarvi oggi il mio parere riguardo alle difficili decisioni che Condofuri sta affrontando riguardo alla sistemazione della sua costa.
Non conosco i dettagli tecnici di una questione così complessa e purtroppo non sono lì con voi per discuterne, ma credo di poter offrire lo stesso qualche considerazione utile, perché ci sono anche aspetti della questione che si vedono forse meglio da lontano che da vicino.
Condofuri, ho continuato a ripeterlo ogni momento passato con voi, è meravigliosa, e dispone di una ricchezza immensa: da lontano, confrontandola con il resto del mondo, è evidente: la natura strepitosa e magica che vi circonda, rimasta miracolosamente intatta fino ad ora. È una ricchezza che sarebbe un errore tragico mettere in pericolo.
Quello mi preme dirvi, forse anche correggendo quello che ho letto al riguardo, è che il motivo primo per il quale Condofuri deve difendere la sua natura, non è il senso di responsabilità rispetto al pianeta o rispetto al resto del mondo. È per Condofuri stessa. La decisione è quanto rovinarsi diventando una delle innumerevoli tristi e povere cittadine balneari, o quanto invece diventare luogo privilegiato di natura e bellezza.
La scelta mi è particolarmente chiara proprio per il luogo dove vivo: in Francia, sul mare, nella cittadina di Cassis, che sta al bordo del Parco Nazionale dei Calanques. A differenza di tante altre località della Costa Azzurra, che hanno distrutto la natura riempiendosi di cemento e stazioni balneari, Cassis ha difeso la sua costa selvaggia e intatta. Sono state scelte difficili, ma oggi è chiaro a tutti che sono state le scelte vincenti: oggi Cassis è la meta più ambita e uno dei luoghi più privilegiati dell’intera costa francese.
Condofuri ha le stesse potenzialità. Non distruggetele, ve lo chiedo con il cuore. Non solo perché fareste male alla Terra, ma sopratutto perché fareste male al futuro tanto economico quanto estetico di Condofuri. Quando sono stato a Condofuri due anni fa sono tornato a vedere quel meraviglioso piccolo bosco di Eucalipti lungo il mare, accanto alla foce. Ho camminato lungo la spiaggia verso Condofuri e ho percorso lunghi tratti di costa senza cemento e stabilimenti balneari. Avete un paradiso.
Non fatevi incantare dalle sirene di un facile guadagno vicino o da interessi particolari, guardate alla ricchezza molto più grande che sta nascosta nella vostra natura, non ve ne pentirete certamente, e il futuro sarà fiero delle vostre scelte di oggi. Questo è il mio parere. Con immenso affetto,
Carlo Rovelli
Orgogliosamente cittadino onorario di Condofuri
«La legge regionale lombarda n.31/2014 così come recentemente modificata, sembra avviata, paradossalmente, ad accelerare l’attuazione delle aree programmate rimettendo in gioco anche quelle ferme da tempo». millenniourbano, 4 luglio 2017 (c.m.c.)
Il Consiglio della Regione Lombardia nella seduta del 23 maggio 2017 ha approvato una significativa modifica alla LR 31/2014 e ha contemporaneamente adottato la variante del PTR (Piano Territoriale Regionale) in attuazione di quanto previsto a fine 2014 dalla medesima legge approvata nell’autunno di quello stesso anno. La legge prevede di fissare attraverso il PTR soglie per una progressiva riduzione dell’elevato quantitativo di aree programmate e non attuate esistente nei piani comunali, e definisce a tale fine un periodo transitorio di moratoria, di circa 2 anni, entro il quale i comuni possono fare unicamente varianti di riorganizzazione dei piani, ma non possono prevedere il consumo di nuovo suolo agricolo (1).
I contenuti della prima bozza degli elaborati del PTR erano stati commentati su questo sito ad aprile 2016 (2), manifestando molte perplessità sulla loro possibile efficacia ai fini del contenimento del consumo di suolo. Gli elaborati del PTR adottato a maggio sono stati alleggeriti e resi più leggibili rispetto alla prima bozza, ma l’impostazione attuativa è rimasta invariata. In ogni caso quel poco di utile che il PTR poteva portare alla pianificazione di area vasta rischia di essere neutralizzato dai sorprendenti contenuti della contemporanea modifica alla LR 31/2014. Il tema è molto tecnico e complesso. Provo qui a sviluppare qualche considerazione preliminare attraverso un’esposizione semplificata dei contenuti della modifica, senza addentrarmi nei dettagli, per dare un’idea degli effetti che ne deriveranno.
La LR 31/2014 nel suo testo originario aveva previsto un percorso attuativo lineare, attraverso un PTR che dettasse gli indirizzi, da declinare successivamente nei PTCP/PTM (Piani Territoriali di Coordinamento Porivnciale / Piano Territoriale Metropolitano) secondo le specificità delle singole province e della Città metropolitana, e infine da attuare operativamente nei piani comunali secondo le disposizioni dei piani provinciali e metropolitano. Il tutto era calendarizzato secondo tempi stringenti, e fino all’approvazione dei PTCP/PTM le possibilità di modificare la pianificazione comunale venivano molto limitate. Il percorso è entrato in crisi quando ANCI ha fatto notare che i tempi si stavano allungando troppo: l’adeguamento del PTR ha infatti già oggi accumulato un ritardo di quasi due anni, e i PTCP probabilmente richiederanno molto più dei 12 mesi originariamente previsti.
La Regione ha così adottato una variante alla legge che ha di fatto eliminato l’obbligo per i comuni di attendere l’approvazione delle varianti dei PTCP/PTM, permettendo da subito di attuare direttamente quanto previsto dalla LR 31/2014 attraverso una sorta di autocertificazione dei comuni stessi. Gli effetti negativi della modifica normativa non si fermano qui, ve ne sono altri, che rischiano di portare al risultato esattamente opposto a quel contenimento di consumo di suolo che è fin dal titolo dichiarato come obiettivo principale della legge.
Per tutto il periodo fino all’adeguamento dei PTCP i comuni possono modificare il PGT (Piano di Governo del Territorio) a patto di realizzare un “Bilancio ecologico sostenibile” (così definito dalla legge) pari a zero. In parole semplici nel PGT per prevedere nuovi ambiti di trasformazione che impegnano suolo agricolo si deve contemporaneamente ridestinare ad uso agricolo almeno una pari quantità di superficie programmata ma non ancora attuata. Accade così che previsioni insediative che fino ad oggi non sono state attuate perché poco appetibili per il mercato si trovano improvvisamente ad assumere un valore, potendo essere scambiate per rendere edificabile una zona agricola più appetibile collocata in un’altra parte del territorio comunale.
Di fatto la modifica alla legge ha attivato un plusvalore, una sorta di rendita fondiaria, un regalo per i fortunati proprietari delle aree programmate, comprese tutte quelle società e banche che nel periodo di crescita immobiliare, prima del 2007, avevano acquisito e inserito nei loro bilanci ampie aree con prospettive edificatorie. Inoltre, a quantitativo complessivo bloccato i proprietari delle aree oggi programmate si trovano in pratica ad operare in una situazione di quasi monopolio.
Fino a ieri il mercato immobiliare fermo spingeva molti proprietari ad accettare nel PGT il ritorno a destinazione agricola delle aree programmate per evitare di continuare a pagare le salate tasse collegate con la previsione edificatoria. In questi due anni dopo l’entrata in vigore della L 31/2014 i pochi comuni che si sono avventurati nella variazione del proprio PGT hanno potuto ridurre in modo consistente le aree programmate, anche oltre il 50%, in generale senza resistenze da parte dei proprietari, con qualche eccezione. Ora, la prospettiva di potere rimettere in gioco in altri settori comunali i diritti edificatori, anche mediante permute, restituisce interesse ai proprietari. Qualche primo segnale in tale senso si vede già a un solo mese dall’approvazione della variante normativa. La legge sul contenimento del consumo di suolo così modificata sembra avviata, paradossalmente, ad accelerare l’attuazione delle aree programmate rimettendo in gioco anche quelle ferme da tempo e meno appetibili per il mercato.
Il fatto che l’approvazione dei PTCP non sia più condizione preliminare necessaria per variare i PGT allontanerà probabilmente nel tempo la redazione delle varianti dei PTCP, almeno fino a quando non si arriverà vicini all’esaurimento del quantitativo di aree programmate attraverso permute e riprogrammazioni in zone più favorevoli. Teniamo presente che oggi negli organi delle province ci sono gli amministratori comunali, e a loro spetta la decisione di quando avviare le modifiche al PTCP.
Unica via d’uscita, almeno per il periodo di transizione fino all’approvazione dei PTCP, è di rafforzare le verifiche di compatibilità delle province sui piani comunali, anche utilizzando gli importanti principi sul ruolo dei piani provinciali affermati dal Consiglio di Stato a giugno 2016 (3). La modifica alla LR 31/2014 attribuisce alle province, questo è un aspetto positivo, il compito di verificare i PGT rispetto ai criteri generali del PTR. Considerando che già oggi molti dei PTCP vigenti contengono indicazioni dettagliate che in parte si sovrappongono ai criteri generali del PTR, basterebbe raccoglierle e creare un quadro di corrispondenze rispetto a ciascuno dei criteri regionali per fornire un utile riferimento ai tecnici provinciali che hanno il compito di verificare i PGT. Tutto questo potrebbe essere fatto a normativa invariata, in attesa delle varianti dei PTCP, semplicemente riorganizzando quanto le province hanno già fatto fino ad oggi.
(1) Sulla LR 31/2014 vedere intervento su Arcipelago Milano 3 dicembre 2016.
(2) Sulla proposta di PTR vedere serie di 3 articoli su Millennio Urbano del 27 , 30 marzo , 4 aprile 2016.
(3) Sentenza del Consiglio di Stato n.2921/2016 nella quale viene definita la funzione di coordinamento territoriale sui temi di area vasta; vedere articolo su Arcipelago Milano del 13 luglio 2016.
I punti di forza della Venezia del Quattrocento. Traduzione dalla rivista francese Futuribles n° 414, settembre-ottobre 2016 a cura degli autori e di Mario Santi».Ytali, 2 luglio 2017 (c.m.c)
Nei prossimi anni, certi paesi riusciranno a svilupparsi nel lungo termine per il Bene comune, appoggiandosi su valori umanisti. Saranno dei territori creativi che avranno voluto e saputo sfruttare la creatività dei talenti locali e stranieri per produrre nuovi lavori e una migliore qualità di vita; non per un piccolo numero di privilegiati ma per tutti. La Venezia del Quattrocento ci dimostra quali sono le quattro principali condizioni per riuscire questa sfida.
Da un mezzo secolo, la Silicon Valley e la Route 128 sono prese come modelli dei territori creativi: li, le attività economiche e i posti di lavoro sono generati da sinergie tra ricercatori, imprenditori e finanzieri. Molti hanno cercato di copiarli, spesso invano. Per capire come una terra diventa creativa, aldilà delle specificità della mutazione digitale, trasferiamoci al XV esimo secolo. La nascita della stampa e dell’editoria moderne è stata ancora più fondatrice che l’arrivo, sette decenni fa, dell’informatica e delle tecniche digitale: la diffusione dei libri ha modellato le evoluzioni del mondo, al punto che il declino dell’Impero ottomano ha cominciato nello XVIesimo secolo col rifiuto della stampa.
Un’orchestrazione di tecniche antiche
In terra tedesca, Gutenberg ha innovato, come farà più tardi Steve Jobs, adattando armoniosamente tecniche esistenti. Produsse dal 1455 a Magonza 180 copie della Bibbia quarantadue, “quarantadue righe per pagina.” Ma gli mancò l’ambiente necessario per passare dall’invenzione all’innovazione capace di diffonderla. Il creativo fu spogliato, rovinato dal suo socio, il banchiere Johann Fust diventato suo rivale. L’Arcivescovo Adolf von Nassau, che salvò Gutenberg dalla miseria, ha anche, paradossalmente, assicurato la continuità del suo lavoro saccheggiando Magonza nel 1462: i dipendenti di Gutenberg e Fust fuggirono e fondarono stamperie a Bologna, Basilea, Roma … e infine a Venezia verso il 1470. Ma di tutte le città che in questo modo ebbero a disposizione le tecniche della stampa, una sola è stata capace di trarne una delle poche innovazioni rivoluzionarie che, pur basate sulla tecnica, esigono assai più che la sola tecnica. Venezia offriva un contesto in grado di attrarre e valorizzare i talenti necessari, in particolare quello di un orchestratore eccezionale, Aldo Manuzio.
Le condizioni dell’esplosione creativa
Alessandro Marzo Magno (1) descrive i punti di forza di Venezia, capitale di quasi centomila abitanti. Il Veneto era il territorio più urbanizzato e più industrializzato d’Europa, dinanzi alle Fiandre. Aveva, come la Lombardia, in gran parte peraltro conquistata dalla Repubblica di Venezia, l’energia idraulica e l’acqua pulita necessarie per produrre della carta di qualità. (2) Ma secondo Marzo Magno, i quattro atout essenziali erano immateriali. C’era una concentrazione di pensatori umanisti, letterari, filosofi, scienziati, e la vicina Università di Padova giocava un ruolo prefigurando quello di Stanford nella Silicon Valley. Ricchi mercanti volevano diversificare i lori investimenti. Disponevano d’un’alta competenza commerciale e di reti internazionali. L’ultimo atout, l’eccezionale libertà di pensiero, si è rivelato determinante. Religioni e lingue coesistevano nella città più cosmopolita del mondo, accogliente per gli stranieri. Per questo, dopo la caduta di Costantinopoli, gli studiosi bizantini si rifugiarono a Venezia e a Padova, nella Repubblica che allora difendeva ancora, tenacemente, la sua indipendenza, perfino contro il Vaticano, mantenendo una laicità relativa; l’ateismo era tollerato.
Dirigenti più colti e meno corrotti
Altri due punti di forza rinvigorivano i precedenti: il livello culturale dei dirigenti e un eccezionale rigore dello Stato contro la corruzione. Molti patrizi si formavano all’Università di Padova, diventata città veneziana nel 1405. Era un focolaio culturale di filosofia e scienza greca e araba. Contro la scolastica della chiesa, l’aristotelismo padovano difendeva le conoscenze sperimentali, chiavi del progresso scientifico. Inoltre, la Serenissima si dotò di due scuole dedicate alla formazione delle sue élite. Fondata nel 1408 da un “straniero”, un mercante fiorentino, la Scuola di Rialto (3) divenne la prima scuola pubblica e laica della Repubblica. Insegnava la logica, le scienze naturali, e le matematiche contabili. Uno dei suoi professori fu l’umanista Luca Pacioli, fondatore della contabilità moderna. Dal 1443, un’altra scuola pubblica, la Scuola di San Marco, attraeva i figli dei nobili col suo insegnamento umanistico e i suoi insegnanti in maggioranza non veneziani. Per questo, “la classe dirigente veneziana era forse la più coltivata d’Europa” (4). Un’élite, interessata alle arti, alle scienze e alle lettere, che rispettava i creativi e si metteva in valore finanziando i loro lavori. L’altra eccezione veneziana era il rigore contro la corruzione. Funzionari e patrizi erano fortemente incoraggiati a non confondere interessi privati e bene pubblico. Jean-Claude Barreau (5) osserva una qualità unica, allora: l’onestà finanziaria. I funzionari statali non erano corrotti, in un’epoca in cui grandi servitori dello Stato francese, Richelieu e Mazzarino, riempivano i loro forzieri personali attingendo nelle casse riempite dal contribuente.
Realtà osservata o rivelata?
Questo contesto ha attirato Aldo Manuzio. Nulla predestinava quell’insegnante in latino e greco, nato vicino a Roma intorno al 1449, a diventare un imprenditore innovativo, salvo il suo impegno nelle reti umanistiche. Era amico di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), l’autore d’un Discorso sulla dignità dell’uomo difendendo il libero arbitrio in quanto “creatore di se stesso.” Questo tema, allora ricorrente della dignità, doveva far fronte a violente resistenze. Pico, morto a 31 anni, probabilmente avvelenato, ha influenzato umanisti e utopici, tra cui Thomas More. Nel 1504, Thomas More tradusse in inglese una biografia di Pico. Il Movimento umanista promuoveva una visione del mondo basata sulla Ragione e, seguendo Aristotele, sull’osservazione individuale della realtà. S’opponeva alla visione dogmatica dominante che imponeva una verità rivelata da Dio e dai suoi rappresentanti, sacerdoti o sovrani. Aldo Manuzio decise di partecipare alla liberazione della Ragione grazie alla diffusione degli scritti di Aristotele e di altri pensatori antichi. Capì che la stampa sarebbe potuta diventare un formidabile promotore d’idee. Il professore si trasformò in imprenditore, tipografo ed editore, non per il denaro, ma per ideale. E divenne il più importante editore della storia e anche un esempio di capitalismo di lungo termine rispettoso dei stakeholder, delle parti interessate. Manuzio si stabilì nel 1489 a Venezia. Questo pensatore idealista si trasformò in un uomo d’azione realista, moltiplicando i contatti con intellettuali umanisti influenti e notabili colti vicini al potere. S’avvalse un tipografo importante, Andrea Torresano, prima di stabilirsi come tipografo-editore e di pubblicare un primo libro, nel novembre 1494. Lo stesso mese in cui il re francese Carlo VIII saccheggiava a Firenze la biblioteca di Lorenzo de’Medici. Una coincidenza che spiega perché Manuzio volle scrivere all’ingresso della sua bottega:Se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture. Per Aldo, la cultura greco-romana era essenziale allorché guerre immani (…) devastano tutta l’Italia e tra breve par che sommoveranno il mondo intero fin dalle fondamenta. Di qui la sua determinazione a rinunciare a “una vita tranquilla” per “dedicare la vita al vantaggio dell’umanità,” spiega Tiziana Plebani: egli credeva che si potesse far argine alle armi con le idee e offrire così agli uomini «la speranza di tempi migliori grazie ai molti buoni libri che usciranno stampati, e dai quali, ci auguriamo sarà spazzata via una buona volta ogni barbarie (Aristotele Opere logiche 1495).
In una prefazione ancora oggi d’attualità, affermava che la conoscenza della letteratura greca era una “necessità” per i giovani e per gli adulti in “tempi tumultuosi e tristi in cui è più comune l’uso delle armi che quello dei libri” (6). Aldo fondò nel 1495 la sua impresa con due azionisti, Andrea Torresano, che contribuì come professionista e finanziatore, e l’imprenditore Pierfrancesco Barbarigo, figlio e nipote di due dogi, che assicurò il sostegno finanziario e politico. Attirò i migliori collaboratori, una dozzina, dagli operai agli eruditi, che preparavano i testi appoggiandosi sui rari manoscritti esistenti. Dava importanza alla qualità della carta, acquistata a Fabriano, e dell’inchiostro fabbricato nel suo laboratorio. Primo tipografo-editore, capace di essere allo stesso tempo erudito, pedagogo, tecnico, uomo di marketing, manager, inventò, passo passo, il mestiere dell’editore moderno. Nel suo laboratorio, luogo di cultura dove si parlava greco, Aldo installò l’Accademia Aldina, che riuniva una trentina di umanisti, senatori veneziani, medici, futuri cardinali, intellettuali europei. Uno degli accademici, Giambattista Cipelli detto Egnazio, aveva scritto nel 1505 che era vitale per Venezia rispettare le acque della sua Laguna, una necessità sbeffeggiata, violata oggi da mezzo secolo.
Un’impresa incentrata sul cliente
Dato che il suo scopo non era di vendere, ma di fare leggere, Manuzio organizzò quello che oggi è chiamata l’impresa incentrata sul cliente e il libro di agevole uso. Curava l’impaginazione, introdusse l’uso dei paragrafi, della numerazione delle pagine, organizzò la punteggiatura, creò il punto e virgola, il carattere corsivo (per questo chiamato in francese italique) per condensare il testo, ridurre i prezzi e rendere i libri più accessibili. Curava la creazione di bei caratteri grechi, romani, ebraici. Il suo incisore Francesco Griffo immaginò per un libro di Pietro Bembo, futuro cardinale e amico di Manuzio, un carattere romano che influenzò Claude Garamond, padre del carattere omonimo, e il tipografo Stanley Morison, che introdusse nel 1932 il Times. Manuzio fu nel 1501, il primo a utilizzare il formato in-ottavo per pubblicare testi letterari. Questo formato, facilmente portabile, era fino allora riservato soprattutto ai libri dei religiosi. I viaggiatori che percorrevano l’Europa potevano finalmente partire con i loro libri. Il passaggio dalla lettura di libri molto pesanti a quella di libri più piccoli e spesso tascabili ripresenta una rottura paragonabile alla rivoluzione del digitale portatile, dai computer agli smartphone. Da allora, personaggi importanti si sarebbero fatti ritrarre tenendo in mano un libro tascabile, come i nostri contemporanei esibiscano il loro smartphone. Aldo dedicava prefazioni per annunciare le prossime edizioni e spiegare il suo progetto editoriale. Fu anche il primo a pubblicare cataloghi. Per differenziare le sue opere dalle imitazioni, in particolare eseguite a Lione, stampò nei suoi libri il suo logo, un’ancora e un delfino.
Una biblioteca senza limiti
Un’altra innovazione aldina fu il frequente inserimento d’immagini nei testi grazie alla nuova tecnica di xilografia sviluppata da Ugo de Carpi. L’Hypnerotomachia Poliphili, I sogni di lotte amorose di Poliphile, pubblicato nel 1499 con 172 xilografie sfruttò largamente questa tecnica. Questa opera erotica, di autore e illustratore sconosciuti, uno dei più bei libri illustrati del Rinascimento, è diventato un bestseller internazionale a partire delle sue riedizione dal 1545. Ha ispirato Rabelais, Gérard de Nerval e Roman Polanski (“Nona porta-2,1999). Le sue illustrazioni sono servite da modelli ai giardini europei nel corso di tre secoli. Aldo Manuzio morì il 6 febbraio 1515, esausto dal lavoro. Aveva pubblicato circa 130 libri in greco, latino, italiano, stampandone anche tremila copie. E’ stato riconosciuto da tutta l’Europa umanista. Erasmo, venuto nel 1507 ad abitare da lui nei nove mesi della ristampa dei suoi Adagia, ne divenne amico. Scrisse che Aldo aveva voluto “costruire una biblioteca senza altri limiti se non quelli del mondo.” Prima di Wikipedia… Nel 1516, Thomas More, amico d’Erasmo, a sua volta rese omaggio all’editore nell’Utopia. Di fatto, Manuzio ha definito norme rigorose che hanno creato le condizioni di una diffusione massiccia dei libri. Ha influenzato le abitudini, la cultura, l’arte. Le sue pubblicazioni hanno contribuito alla moltiplicazione di quadri non più religiosi ma ispirati dalla mitologia. Questo ha indotto un altro sguardo, quasi ecologico, sulla natura; cosi sono apparsi i primi paesaggi nella storia della pittura, come la Tempesta del Giorgione (circa 1503).
Censura e declino industriale
Aldo Manuzio è morto prima di vedere la sconfitta dei suoi valori a Venezia. Uno degli uomini che più hanno nuociuto alla Serenissima, Gian Pietro Carafa, aveva vissuto a Venezia, osservando con disgusto la tolleranza veneziana che consentiva lo sviluppo di movimenti favorevoli alla Riforma. Carafa fu nominato nel 1542 capo della Congregazione del Sant’Uffizio, direzione centralizzata dell’Inquisizione fino ad allora gestita a livello locale. Lanciò un’azione repressiva contro gli eretici e, diventato Paolo IV nel 1555, la perseguì. Aveva impedito, a forza di maldicenze, l’elezione a Papa di Reginald Pole, l’ultimo Arcivescovo cattolico di Canterbury, umanista amico di Bembo. Questo provocò una biforcazione storica e l’avvento della Controriforma. Dal 1548, l’Inquisizione poté imporre a Venezia la distruzione pubblica di decine di migliaia di libri “protestanti” e, nel 1553, in tutta la Repubblica, di centinaia di migliaia di libri ebraici. (7) Venezia fu costretta ad applicare in1558 l’Index vietando seicento autori tra cui Erasmo, Machiavelli e l’Aretino. Ironia crudele della storia, Paolo Manuzio, figlio d’Aldo, fu costretto a pubblicare nel 1564, l’Index Librorum Prohibitorum… L’arrivo della censura del Vaticano segnò l’inizio del declino dell’editoria a Venezia. La proporzione di libri religiosi, meno del quindici per cento delle pubblicazioni veneziane nel 1550, raddoppiò alla fine del secolo. Questo non salvò la supremazia dell’editoria veneziana. Fin dall’inizio del XVII secolo… Venezia e l’Italia cedono il passo ad Anversa, nella parte cattolica dell’Europa. Le Provincie Unite (8) stavano vivendo uno sviluppo particolarmente spettacolare [grazie al fatto che] la giovane Repubblica è un faro di tolleranza … autori e librai di diverse religioni convivono senza scontri. [Le condizioni che avevano fatto il successo di Venezia si trasferirono ad Amsterdam che sviluppò] un’industria del libro di qualità in grande parte per l’esportazione. Il veneziano, fin allora lingua a internazionale, dovette cedere il passo al francese e lo sviluppo della scienza italiana fu spezzato dal processo a Galileo Galilei.
Battaglie di visioni e valori
Se Aldo potesse ritornare, vedrebbe che Venezia non è diventata l’"archetipo" della città aperta all’utopia sperata da Italo Calvino, ma quello di un’Europa agonizzante nonostante gli eccezionali punti di forza che non osa sfruttare per ridiventare una terra creativa. Il futuro rimane aperto. Dipende dai conflitti tra visioni, valori degli attori e dalla loro volontà. Le terre creative saranno quelle dove prevarrà una visione umanistica di un mondo che si può esplorare e dove si può agire liberando la Ragione di ciascuno. Questa visione razionale e libera è attaccata, oggi come ieri, da sostenitori di una realtà rivelata e indiscutibile. Tra questi integralisti, gli islamisti operano nella scia dell’Inquisizione e dell’integrismo cristiano di Savonarola, anch’esso nutrito dall’indignazione di fronte alle disuguaglianze. I creazionisti americani, accaniti contro Darwin, distruggerebbero lo sviluppo scientifico, tecnico e, finalmente, umano delle aree là semmai si potessero impadronire delle scuole. Tutti i razionalisti che portano all’estremo l’importanza dei principi, delle osservazioni, perdendo di vista il Senso, l’Umano, aggrediscono anche la Ragione e ci conducono alla burocrazia, ai totalitarismi e alle derive transumaniste sostenute da miliardari dell’industria digitale americana. Attualmente le visioni dell’Altro come nemico progrediscono con la xenofobia e i neo-fascismi, chiudendo le menti e i territori. Questa tendenza va contro la creatività dei territori che dipende dall’attrattiva per tutti i talenti e dall’accoglienza di personalità forti, spesso disturbanti, capaci di diventare catalizzatori, come Manuzio.
Al funerale di Aldo Manuzio, la sua bara era circondata da tutti suoi libri. Lui avrebbe trovato simbolico che il suo laboratorio e la chiesa del IX secolo dove fu sepolto fossero rasati al suolo, per costruire il mediocre edificio di una banca. Saccheggio autorizzato per compiacenza. Simbolo del (temporaneo?) trionfo della rapacità (9), di fronte al capitalismo sostenibile, incarnato da Manuzio. Egli osserverebbe che Venezia sta spopolandosi, saccheggiata da molti dei suoi notabili che dimostrano come sia possibile sterilizzare e distruggere un territorio. Già nel 1887, il senatore Pompeo Molmenti denunciava la politica del delendae Venetiae. Oggi, è necessario un libro per ricordare che, ancora, “Venezia è una città”, malgrado gli sforzi dei numerosi corrotti e corruttori che vogliano trasformarla in Disneyland senza abitanti. Dalle grandi navi, che distruggono la Laguna al Fontego dei Tedeschi (10) degradato in negozi di lusso, al Mose che ha permesso di rubare un miliardo e mezzo, ci sono tanti scandali cui l’editrice Marina Zanazzo ha potuto, con grande coraggio, dedicare più di quaranta piccoli ma fondamentali libri nella collana Corte del Fontego. Purtroppo, in questo, Venezia è simbolica del nostro mondo. La tendenza lunga mondiale delle compromissioni tra politici e imprenditori ha provocato un hold-up dei finanziari di breve-termine sull’economia reale e la costruzione di plutocrazie totalitarie. Certo, gli Stati Uniti rimangono molto creativi. Ma va notato che ciò avviene perché le major del digitale mantengono ambizioni a lungo termine e riescono a sedurre i finanziatori malgrado introiti per molti anni mediocri o nulli, come quelli di Amazon e Tesla. E questi territori sono (ancora) creativi, ma negli interessi di chi? E sostenibile uno sviluppo economico basato sull’impoverimento della maggioranza? No, risponde anche il Financial Times.
I partigiani dei valori umanistici non sono condannati. Possono costruire territori creativi nel lungo termine sfruttando, anche loro, le proprietà delle reti digitali: potrebbero allora ricreare condizioni globali capaci di generare innovazione sull’esempio di quelle che consentirono il passaggio dall’umanesimo al Rinascimento: bisognerebbe creare una nuova Accademia Aldina! Ma le reti possono anche essere mafiose e gli effetti rete sono anche utilizzati oggi per dominare, spiare, imbrogliare. Esattamente come i modelli rinascimentali della Città ideale sono stati fuorviati dal Panopticon per costruire penitenziari, imprese e uffici tayloriani o manicomi come a Vienna… Oggi la nostra libertà e lo stato di diritto sono minacciati da un Panopticon digitale al servizio di qualche impresa gigantesca. Ancora una volta, tutto dipende dai valori prevalenti e dall’azione dei cittadini desiderosi di difendere la libertà. Manuzio concluderebbe sull’urgenza di fare assimilare ancora molto di più “buoni libri per sbarrare la strada a tutte le barbarie”. La battaglia delle visioni e dei valori inizia a scuola. Subiremo ancora a lungo l’insegnamento di un pensiero cartesiano che fraziona la realtà e impedisce di percepirla? O, finalmente, diffonderemo un pensiero della complessità mettendo in evidenza le interdipendenze, incoraggiando per questo la solidarietà con gli altri e con l’ambiente? La comprensione della complessità fa ammettere l’imperfezione dei nostri atti, umiltà indispensabile per il progresso tecnico. Le nostre scuole, in particolare quelle che formano i nostri dirigenti, continueranno a formare al disprezzo degli altri o stimoleranno alla fine la cooperazione e l’apertura? Persevereremo a selezionare anche i medici, secondo le loro capacita in matematica o secondo la loro empatia, le loro qualità umane? Avremo, come nella Venezia del Quattrocento, dirigenti colti e aperti alla modernità, o subiremo troppi politici altrettanto ignoranti della tecnica moderna che della storia e della cultura classica? Pronti a farsi beffa del nostro patrimonio letterario ed artistico, e a sacrificare la cultura classica? Dipende da noi.
(1) Alessandro Marzo Magno, “L’alba dei Libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo”, Garzanti 2012
(2) Brian Richarson, “Printing, Writers and Readers in Renaissance Italy”, Cambridge University Press, Cambridge, 1999
(3) Premio Luca Pacioli , Senato Accademico del 24 novembre 2010, Università Ca’ Foscari, Venezia
(4) Gino Benzoni, “Il Rinascimento. Politica e cultura. La cultura: le accademie e l’istruzione”, “Storia di Venezia”, Vol. 4, Enciclopedia Treccani,1996.
(5) Jean-Claude Barreau, “Un capitalisme à visage humain, le modèle vénitien”, Fayard, 2011
(6) Gino Benzoni, cit.
(7) Giovanni Di Stefano, “Venezia e il Ghetto”, Il Gazzettino, 2016.
(8) Il regno dei Paesi Bassi
(9) Italo Calvino, “Venezia archetipo e utopia della città acquatica”, (1974), Mondadori, 1995
(10) Joseph Stiglitz, “Le triomphe de la cupidité”, Ed. Les liens qui libèrent, 2010
(11) Paola Somma, “Benettown”, 2011, e Lidia Fersuoch, “Nostro Fontego dei Tedeschi”, 2015. Corte del Fontego
«I furbetti del mattoncino. Un caso ogni tre giorni. Gli effetti di 30 anni di condoni: un furto impunito di 21 miliardi. Dobbiamo ancora regolarizzare 5,3 milioni di condoni dal 1985». il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2017 (p.d.)
«Dalla gestione privatizzata a dieci esempi di progetti che incombono sul patrimonio idrico italiano, la gestione pubblica e partecipata è l'unica strada». acquabenecomune.org, 30 giugno 2017 (p.d.)
La cosiddetta “emergenza idrica” è provocata dalla cattiva gestione e dalla privatizzazione ma si continua a far finta di nulla e a insistere su progetti che rischiano di devastare quanto rimane del residuo patrimonio idrico italiano. I dati che stanno circolando sui media in questi giorni (diminuzione della disponibilità d'acqua, crollo delle precipitazioni e delle portate di fiumi e sorgenti, aumento delle temperature medie) fanno emergere in tutta la sua drammatica realtà l'acuirsi di una crisi idrica che viene da lontano.
E', altresì, evidente come la crisi idrica che si sta palesando in questi giorni in Italia sia il risultato del matrimonio tra il ciclo dell’acqua e il ciclo economico, essa è dovuta principalmente alla scarsità di questa risorsa. Scarsità “man-made”, cioè prodotta dall’uomo, tramite: sovrasfruttamento degli acquiferi, inquinamento delle falde e del reticolo fluviale superficiale, urbanizzazione, con conseguente diminuzione della disponibilità, divisione tra consumo agricolo, industriale, uso civile. E allora l'onestà intellettuale imporrebbe di fare marcia indietro rispetto a una serie di opere e progetti che da una parte tendono a valorizzare economicamente l'acqua e dall'altra considerano il suo depauperamento come un effetto collaterale ineluttabile.
Ne elenchiamo solo dieci delle centinaia in cantiere in Italia:
- pozzo di petrolio ENI di Carpignano Sesia, in area di ricarica della falda idropotabile di Novara, il Min.Ambiente ha appena approvato il progetto mettendo come prescrizione di "prevedere un approvvigionamento alternativo in caso di contaminazione";
-gasdotto Sulmona-Foligno della SNAM, con il tragitto su ben tre crateri sismici con un tunnel appena dietro la più grande sorgente dell'Italia Centrale, quella del Pescara a Popoli, dalla portata di 6000 litri al secondo;
- Centro Oli di Viggiano che incombe sul Lago del Pertusillo, che disseta 4 milioni di italiani in Puglia e Basilicata, sequestrato nel 2016 e oggi protagonista di un ingente sversamento di petrolio;
- Sorgente Pertuso: aumento delle captazioni presso la sorgente del Pertuso che alimenta il fiume Aniene nel Lazio;
D'altra parte si prova ad accreditare la tesi per cui i due referendum per l'acqua pubblica del 2011 siano stati la causa della situazione attuale avendo determinato un crollo degli investimenti per cui non sarebbe stato possibile l'ammodernamento delle reti idriche da parte dei gestori. Una bugia dalle gambe cortissime. Infatti, gli investimenti sono in decisa flessione sin da fine anni novanta (quindi ben prima dei referendum) nonostante le tariffe dell'acqua siano aumentate più di ogni altro servizio pubblico. Allora se le tariffe aumentano, gli investimenti diminuiscono e le perdite delle reti aumentano, appare evidente che c'è qualcosa che non torna.
La questione da porsi, che arbitrariamente viene elusa nel dibattito pubblico, è che il finanziamento del servizio idrico integrato ha dimostrato il suo fallimento dal momento in cui al principio del “full cost recovery”, ossia il costo totale del servizio deve essere interamente coperto dalla tariffa, si è associato l'affidamento a soggetti privati: entrate certe e anticipate a fronte di investimenti sempre più ridotti e dilazionati nel tempo. Con i risultati assolutamente inadeguati rispetto alle ingenti opere di cui il servizio idrico necessita. Superato il concetto del “full cost recovery” ed esautorati i soggetti gestori di natura privatistica, per gli investimenti, occorre progettare, quindi, un sistema di finanziamento sia basato sul ruolo della leva tariffaria, anche su quello della finanza pubblica e della fiscalità generale.
Insomma, il giudizio di fallimento dell'attuale sistema di gestione dell'acqua in Italia è un dato di fatto ben difficilmente contestabile che dovrebbe portare ad un'inversione di rotta immediata soprattutto alla luce della pesante crisi idrica. Diviene in sostanza irrinunciabile e urgente un cambiamento del sistema passando dalla pianificazione dell’offerta, alla pianificazione e gestione della domanda, rimettendo al centro la tutela e gestione partecipativa dell'acqua e dei beni comuni.
Roma, 30 Giugno 2017
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
«Il Progetto Rebeldìa ha presentato alcuni emendamenti imprescindibili al Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani di Pisa». perUnaltracittà online, 13 giugno 2017 (c.m.c.)
Dopo il rifiuto da parte della prima commissione consiliare di ascoltare le associazioni del territorio, il Progetto Rebeldìa ha presentato alcuni emendamenti imprescindibili al “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani di Pisa”. Nonostante le nostre proposte siano il frutto di riflessioni ed esperienze accumulate negli ultimi anni insieme ad altre realtà cittadine, non possiamo nascondere che il tempo definito per la proposta di modifiche è stato poco e di facciata.
Il testo approvato in giunta è lacunoso, come fin dalla sua pubblicazione abbiamo provveduto a far notare, cercando invano un’interlocuzione. Abbiamo dunque elaborato alcune proposte di modifica illustrate e accompagnate da una relazione che ne motivi le ragioni. L’intervento massiccio e sostanziale si è reso necessario per l’evidente inadeguatezza di un regolamento che sulla carta dovrebbe ispirare un percorso per la gestione condivisa dei beni comuni, ma che nella sostanza invece è ben accorto a ledere il meno possibile lo status quo, nell’ottica di fornire a chi detiene il potere uno strumento ben ‘temperato’ per tessere e rinforzare nuove e vecchie clientele.
Basti scorrere le lacune per le quali gli emendamenti proposti rappresentano appena un lenitivo per cogliere appieno la sostanza difettevole del Regolamento:
La tutela delle generazioni future, obiettivo fondante di qualsiasi cura dei beni comuni risulta completamente assente e va ricompresa e valorizzata in maniera esplicita; antirazzismo, antisessismo e antifascismo dovrebbero essere alla base delle relazioni di condivisione, ma sono totalmente dimenticati;nessuna attenzione all’autogestione dei Beni comuni, con una evidente svalutazione del meccanismo assembleare e delle forme di consenso democratico che virtuosamente superano i meccanicismi del voto nella gestione di un patrimonio fondamentale come i Beni comuni.
Nessuna valorizzazione sostanziale della soggettività autonoma, individuale e collettiva delle persone, ridotte nel regolamento alla categoria di “cittadini”, da tempo svuotata da una sua valenza attiva e pervasa da un’ambiguità che poco giova a un discorso che voglia essere veramente inclusivo; nessuna valorizzazione dei temi della condivisione e della fiducia reciproca tra individui, a vantaggio di una generica collaborazione di cui i contorni rimangono grigi;
Oltre alle evidenti lacune concettuali, vi sono anche le contorsioni procedurali, come quelle che attribuiscono un potere sbilanciato alla Giunta e non al Comune (inteso come l’insieme degli apparati che lo compongono) nelle gestione dei Beni Comuni. Il Progetto Rebeldia ha avanzato anche emendamenti che ripensino e riformulino l’iter procedurale affinché:
sia evidente la centralità della riflessione politica in consiglio Comunale, prima del vaglio tecnico e delle delibere di giunta;
sia esplicita la certezza dei tempi, che faccia da deterrente alle deviazioni della burocrazia comunale.
Sia ridimensionato il ruolo oggi centrale dei CPT, organi di nomina politica, che per questa loro genesi non inglobano la fondamentale componente studentesca e migrante e non possono avere poteri di censura.
sia istituito un fondo di bilancio apposito per supportare e finanziare le attività di cura e di rigenerazione dei beni comuni.
In ultimo gli emendamenti del Progetto Rebeldìa sono stati attenti a superare un manchevole coraggio amministrativo, innanzitutto con la proposta di introdurre esplicitamente tra i beni che possono essere oggetto di patti di condivisione anche i beni in alienazione. Allo stesso tempo è necessario rompere il tabù della proprietà privata, che pesa come un macigno in un percorso di condizione che sia sostanziale e non di facciata. Se oggi si arriva a trattare il tema dei beni comuni è anche grazie alle molteplici esperienze già esistenti a Pisa nel tessuto sociale. Siamo fortemente preoccupati che un regolamento così ordito non ne tenga esplicitamente di conto, e che sia solo un atto preliminare a un’eliminazione di queste dal panorama cittadino.
Disattenzione e buona fede in un documento generoso nelle intenzioni, condivisibile in molte sue parti, ma negativo nei potenziali effetti su un punto decisivo. Ecco perché non aderiamo, e preghiamo molti amici di ripensarci (in calce il testo del documento). 8 giugno 2017
Abbiamo letto l'appello dal titolo Decologo per una città ecologica (riportato integralmente in calce) a cui hanno aderito personaggi caratterizzati da una intelligente attenzione alle questioni della città e del territorio, dalla critica costante alle logiche di sfruttamento economico e sociale e di degrado delle qualità culturali, naturali e sociali di ciò che resta del Bel Paese. Citiamo tra gli altri Carlo Cellamare, Paolo Maddalena, Giorgio Nebbia, Marco Revelli, Enzo Scandurra, Guido Viale, tutte persone delle quali abbiamo la massima stima; molte delle quali collaborano sistematicamente con eddyburg.
Evidentemente la fretta e la fiducia nelle persone che hanno incautamente proposto l'appello hanno prevalso sull'attenzione di un aspetto rilevante dell'appello. In esso infatti sostanzialmente si condivide il disegno di legge governativo sul consumo di suolo (ex Catania) già approvato dalla Camera dei Deputati.
Ci permettiamo di ricordare ai nostri amici il giudizio che più volte abbiamo espresso a proposito di quel documento, riproducendo qui di seguito integralmente il contenuto del nostro Eddytoriale n.168 del 11 dicembre 2015. (e.s.)
È ferma in Parlamento la proposta di legge sul consumo di suolo. Non ne siamo affatto dispiaciuti. Prima si mette una pietra su quel documento meglio è. Abbiamo apprezzato a suo tempo l’impegno dell’allora ministro per l’Agricoltura Mario Catania ad affrontare il tema con la volontà di risolverlo, sebbene ne avessimo criticato fin da allora l’impostazione. Abbiamo seguito e criticato via via le modifiche apportate e i cospicui peggioramenti del testo iniziale, e abbiamo assistito infine al suo completo stravolgimento: così evidente che il suo originario promotore ne ha preso recentemente le distanze
Quindici anni dopo
Come è noto ai frequentatori di eddyburg siamo stati i primi a sollevare, nell’ormai lontano 2005, il problema del carattere, delle dimensioni, della dinamica del consumo di suolo nel nostro paese e a indicare l’urgenza di affrontare energicamente il fenomeno per arrestarlo.
Nella società, e in alcune, pochissime, amministrazioni locali qualcosa si è mosso. “Stop al consumo di suolo” è diventato uno slogan diffuso e ha prodotto la nascita di interessanti e positive iniziative di massa, quali l’associazione e il forum promossi dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, di cui siamo stati partecipi. La maggior parte dei comitati e dei gruppi di cittadinanza attiva impegnati nella difesa del territorio, l’ambiente, il paesaggio hanno assunto il contrasto al consumo di suolo tra i propri obiettivi.
Ma sul terreno della politique polticienne e delle istituzioni nulla si è mosso. Nessun provvedimento serio è stato preso a livello nazionale. A livello regionale una sola regione, la Toscana, ha prodotto una legge esemplare, dovuta alla sapiente determinazione dell’assessore Anna Marson e all’appoggio che per un lungo periodo le ha dato il presidente Enrico Rossi. L’espressione “consumo di suolo” ha continuato a girare nelle rotonde parole della politica e della cultura (sebbene si sia passati dallo sbrigativo “stop al consumo di suolo” al più morbido e ragionevole “contenimento del consumo di suolo”). Ma si è subito accompagnato a un’altra espressione, “rigenerazione urbana”. Espressione di per sé non disdicevole ma, come tutte le parole, suscettibile di interpretazioni diverse, e anzi opposte. Oggi, nel contesto dell’attuale discorso sul “contenimento del consumo di suolo”, è diventata la parola il cui significato concreto è “la nuova forma della speculazione immobiliare”. Vogliamo annotare subito il poderoso contributo che a questo rovesciamento di senso hanno dato l’accademia e la cultura urbanistica “ufficiale” rappresentata dall’INU, da tempo diventato il facilitatore delle fortune dei poteri immobiliari.
A che punto stanno le cose oggi?
Esiste (ancora) la proposta ferma al Parlamento nazionale. Abbiamo già detto che la sua definitiva sepoltura è del tutto auspicabile, poiché è una legge che, ove fosse approvata, non darebbe nessun risultato positivo per quanto riguarda la riduzione del consumo di suolo per le ragioni che sono state puntualmente indicate su queste pagine negli articoli di Vezio De Lucia, di Cristina Gibelli, di Ilaria Agostini. In una parola, essa prevede lo svolgersi di una tale successione di atti e di una tale concatenazione di interventi delle diverse figure istituzionali da richiedere tempi misurabili in anni se non in decenni e, soprattutto, da consentire innumerevoli interruzioni del percorso stabilito. Essa inoltre aprirebbe la strada a quella “rigenerazione urbana” speculativa cui abbiamo accennato, e su cui torneremo. Ci confortano nella nostra posizione le parole che ha recentemente espresso l’on. Mario Catania: «poi è entrata la parte della rigenerazione urbana» ha detto l’ex ministro, «e se fosse approvato sarebbe inefficace» (la Stampa, 5 dicembre2015).
La buona legge
Esiste, come abbiamo ricordato, una legge della regione Toscana, pienamente vigente. Essa ha superato un passaggio al vaglio della Corte costituzionale, che l’ha ripulita di due discutibili norme inserite nell’iter su richiesta dell’Anci, e per nulla incidenti sulla struttura della legge. È una legge di cui abbiamo ampiamente illustrato la positività, che brevemente riassumiamo.
Sulla base di una precisa definizione dei termini impiegati (in particolare la distinzione tra territori urbanizzati e territori rurali) la legge prescrive che i piani comunali delineino nettamente il confine che separa il territorio oggi urbanizzato da quello rurale. Ogni nuovo intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica deve essere collocato all’interno del territorio urbanizzato. Nel territorio rurale non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali; sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di area vasta (alla quale partecipa la Regione, con diritto di veto) cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti.
Naturalmente la legge definisce con precisione ciò che i comuni possono autorizzare o non autorizzare fino all’approvazione di nuovi piani conformi alle nuove prescrizioni regionali, nonché le regole da seguire nelle trasformazioni delle aree già urbanizzate per evitarne il degrado ambientale o sociale, per rispettare il rapporto tra aree edificate e aree libere, tra volumi e spazi aperti, tra abitanti e spazi pubblici e usi pubblici e così via. Una legge, insomma, che costituisce un piccolo manuale della buona urbanistica; essa dovrebbe costituire un testo da studiare in tutte le sedi universitarie che si occupino di trasformazioni del territorio, e siano davvero orientate alla formazione di tecnici impegnati nella progettazione e realizzazione di un corretto uso del suolo, rurale ed urbanizzato, e non nella corruzione del mestiere di urbanista in quello di facilitatore delle attività immobiliari.
“Rigenerazione urbana” alla veneta
Esiste poi un progetto di legge della regione Veneto, che illustra splendidamente che cosa si intenda in quella regione (e in tutto il mondo politico e culturale che a quell’esempio si ispira) per “rigenerazione urbana” e su cui vogliamo per questo soffermarci. E il progetto di legge n. 390 «Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione urbana e il miglioramento della qualità insediativa», ed è firmata dal presidente della Regione Zaia e da un plotone di suoi seguaci.
Cominciamo col dire che il contenimento del consumo non c’è (come del resto non c’è il miglioramento della qualità urbana. Si dichiara, è vero, di assumere l’obiettivo di «evitare il consumo di suolo non urbanizzato» e quello di «invertire il processo di urbanizzazione del territorio», ma si esenta da questo “vincolo” una serie di tipologie di aree, pubbliche o private, «finalizzate all’attuazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico».
Ne elenchiamo alcune: «edilizia residenziale pubblica o sociale», «aree pubbliche trasferite o da trasferirsi in attuazione del piano di alienazioni del patrimonio immobiliare», «aree individuate da accordi pubblico-privati» già in essere, «aree destinate a interventi di rilievo sovracomunale, previa autorizzazione della giunta regionale».
Non solo, ma nell’attesa di un successivo provvedimento regionale che stabilisca «i limiti del consumo di suolo per finalità urbanistico-edilizio» si consente comunque ai comuni di «individuare nei “piani degli interventi” vigenti fino al 50% delle superfici corrispondenti al carico insediativo aggiuntivo previsto dai “piani di assetto territoriale”», conservandone la capacità edificatoria. Si tenga conto che secondo stime autorevoli, i “piani di assetto territoriale” hanno generalmente convalidato le previsioni contenute nei PRG vigenti, i quali consentirebbero un aumento pari al 40% dell’attuale urbanizzato (vedi: Legambiente Veneto, Osservazioni al progetto di legge della Giuntaregionale del Veneto n. 390. Un parere molto critico lo ha formulato anche il Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi.
Nulla, quindi, per il contenimento del consumo di suolo, ma tranquilla prosecuzione del trend che ha fatto del Veneto, come gli stessi presentatori ammettono nell’accattivante relazione, una delle regioni peggiori d’Italia. Ma vediamo in che consiste quello che è il vero obiettivo della legge: la cosiddetta ”rigenerazione urbana” .
Per cominciare si dichiara che «sono da considerarsi d’interesse pubblico anche ai fini dell’eventuale rilascio di permessi da costruire in deroga» una serie di interventi di demolizione (manufatti privi di vincoli di protezione, o ricadenti in aree soggette a rischio idraulico o geologico, manufatti degradati, o che comunque dequalificano il tessuto urbano circostante). Si prosegue dichiarando che «è consentita la riutilizzazione propria dei manufatti demoliti con destinazioni d’uso anche diverse da quelle attuali, in loco o in altra area compresa nel tessuto urbano già consolidato».
Che cosa questo c’entri con una “rigenerazione edilizia” correttamente intesa non si comprende proprio. Basta però andare al comma successivo il quale chiarisce che: «per promuovere la rigenerazione edilizia i comuni possono prevedere «anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, un incremento premiale della volumetria o della superficie utile fino al 15%», incrementabile fino al 30% se la Giunta regionale è d’accordo.
L’esame, e l’implicita denuncia, potrebbero continuare. Ma limitiamoci a tirar fuori il succo dalle disposizioni. Rigenerazione edilizia “alla veneta” significherebbe aumento indiscriminato dei volumi edificati in ogni parte del territorio già totalmente o parzialmente edificato (comprese le aeree di completamento, cioè d’espansione, previste dai piani vigenti). Significherebbe riduzione del rapporto tra aree edificate e aree libere, tra aree e volumi di proprietà e uso privato e aree e volumi di uso pubblico (e naturalmente nessuna probabilità che all’aumentato numero di abitanti corrisponda un aumento delle dotazioni pubbliche.
Nessuna garanzia di mantenimento in loco degli abitanti già insediati e anzi promozione di un’espulsione delle famiglie e delle attività più povere. Nessuna possibilità di attuare una pianificazione finalizzata ad avere un minimo di razionalità dell’equilibrio tra le diverse funzioni sul territorio) abitazioni, commercio, attività lavorative, servizi pubblici, e quindi mobilità. Il caos primigenio, qualcosa di simile agli slums e alle favelas ma con volumi eccezionalmente maggiori e assoluta irreversibilità della trasformazione
Una proposta di eddyburg
Esiste infine una proposta di legge nazionale di un gruppo di amici di eddyburg, basata sulla possibilità costituzionalmente legittima di un intervento diretto dello Stato che costituisca un vincolo insuperabile per le regioni che volessero resistere.
Già nel 2006 un gruppo di amici di eddyburg aveva presentato una proposta di legge che fu fatta propria dai gruppi parlamentari della sinistra. La XV legislatura si concluse con un nulla di fatto. Poi le varie vicende che hanno condotto alla proposta Catania e al suo progressivo indebolimento. Ci eravamo via via convinti che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni. Se una sola di loro aveva positivamente reagito e il suo esempio non era stato seguito da nessuna delle altre (e platealmente ignorato o contrastato dalla cultura urbanistica ufficiale) occorreva aggiustare il tiro.
Fino ad allora ci si era riferiti alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione, (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali: un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli).
Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di riferirsi al comma 2, lettera s) dello stessa articolo, che elenca le materie in cui la potestà legislativa è di competenza esclusiva dello Stato. In effetti, come si afferma nella proposta, la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio.
Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale
Per concludere: due modesti obiettivi
Non nutriamo nessuna speranza che l’attuale Parlamento, dominato e di fatto sostituito dall’attuale governo, possa esprimere la volontà di affrontare l’argomento nell’unico modo che ci sembra suscettibile di un risultato positivo. E ci rendiamo anche conto che non basta contenere il consumo di suolo per risolvere tutti i problemi che una effettiva riutilizzazione delle aree giù urbanizzate pone per essere diversa da quella oggi dominante. Cosa, quest'ultima, molto facie se si torna ai principi e alle pratiche della buona urbanistica
Ci proponiamo unicamente di raggiungere due obiettivi.
Il primo è denunciare il ruolo della cultura urbanistica ufficiale. Abbiamo sentito pochissime voci opporsi all’ignobile progetto Zaia (soltanto, in sede locale, quelle di Legambiente Veneto e dell’Università IUAV di Venezia). Ne registreremo volentieri altre se ci perverranno.
Ma soprattutto riconosciamo in quel progetto di legge molti dei gravi cedimenti della corretta urbanistica (un’urbanistica al servizio di tutti gli abitanti, a cominciare dai più deboli, e non al servizio degli interessi immobiliari): i premi di cubatura, le deroghe, la perversa invenzione dei “diritti edificatori”, la possibilità di modificare ad libitum le destinazioni d’uso, i crediti edilizi collocabili al di fuori di qualunque contesto pianificatorio, la scomparsa degli standard urbanistici pubblici, la tranquilla liquidazione dei patrimoni immobiliari pubblici. Ma potremmo continuare il nostro elenco.
Il secondo obiettivo è quello di richiamare l’attenzione delle forze sociali e politiche che intendono “cambiare verso” alla distruzione del territorio e alla crescita del disagio urbano, e sollecitarle ad affrontare il tema con maggiore attenzione e maggior rigore di quello finora dimostrato. Abbiamo l’impressione che - vogliamo dirlo schiettamente - la cultura urbanistica, nel senso di una vigile comprensione del modo in cui il sistema normativo si traduce in concrete decisioni incidenti sulla qualità della vita dei cittadini attuali e futuri sia del tutto assente dalla cassetta degli attrezzi dei decisori.
Comprendiamo che i tempi sono cambiati da quelli in cui campeggiavano nell’arengo politico e amministrativo personaggi come Fiorentino Sullo o Camillo Ripamonti o Aldo Natoli o Giacomo Mancini o Piero Bucalossi, ma qualcosa di più di quello che il panorama attuale presenta si potrebbe pretenderlo. Non ci riferiamo tanto alla “destra” (per i cui esponenti il “verso” attuale è più che soddisfacente e le assicurazioni tecniche della cultura urbanistica ufficiale sono largamente sufficienti per affinità ideologica) ma soprattutto a “sinistra” o dove comunque ci si ponga l’obiettivo di rendere città e territorio più idonei a soddisfare le esigenze attuali e future dei loro abitanti.
Le proposte della comunità scientifica e della società civile per un’Italia a zero emissioni e zero veleni.
Nell’ultimo secolo si è imposto e perfezionato un modello di sviluppo mirato unicamente alla crescita economica e all’accumulazione di profitto con una caratterizzazione meramente quantitativa. Ciò che conta è far crescere il Pil il più possibile, controllare il più possibile le risorse naturali, produrre in maniera intensiva abbattendo il più possibile i costi ambientali e del lavoro, consumare il più possibile, smaltire risparmiando il più possibile. Questo sistema ha determinato conseguenze disastrose per la vita del pianeta e delle comunità umane e ha inasprito le diseguaglianze concentrando la ricchezza in un sempre minor numero di mani. Il mondo appare oggi diviso in due: da un lato chi si arricchisce, appropriandosi di risorse e ricchezze senza limiti; dall’altro chi paga il conto, risultando espropriato di ogni diritto.
Alle emergenze sociali prodotte si somma una crisi ambientale globale pervasiva e allarmante: esaurimento progressivo delle risorse, cambiamenti climatici, alti livelli di contaminazione delle matrici ambientali, gravi impatti sanitari sulle comunità esposte. Tale crisi, diretta conseguenza dell’attività predatoria dell’uomo sul pianeta, è la plateale rappresentazione del fallimento delle scelte politiche dei governi a tutti i livelli: non è esternalità casuale, degenerazione di un processo virtuoso, ma diretto prodotto dell’insieme delle scelte messe in campo, del quadro delle priorità inseguite, del modello di produzione scelto.
Le politiche attualmente in campo in termini di sfruttamento delle risorse naturali, di produzione, consumo e smaltimento degli scarti sono del tutto incompatibili con ogni istanza di giustizia ambientale, sociale e democratica.
Il nostro Paese si inserisce perfettamente in questo quadro e ne è attore protagonista: nonostante gli impegni assunti dai governi in sede europea e internazionale, l’intera economia italiana risulta ancora fondata su principi di insostenibilità: il modello energetico è basato in larga parte sullo sfruttamento di fonti fossili; il modello produttivo è fondato su un sistema lineare di sfruttamento dell’uomo e della natura; il modello infrastrutturale è ostinatamente ancorato alla necessità di costruire grandi opere impattanti e dalla dubbia utilità, la cui principale ratio è la distribuzione clientelare di appalti; il modello di gestione dei rifiuti è costruito sull’assunto che l’incenerimento sia parte fondante del processo; il modello sanitario è legato a una visione in virtù della quale si cura (poco e male) chi è malato senza immaginare meccanismi di prevenzione primaria; i processi decisionali risentono di una progressiva tendenza all’accentramento, spogliando le comunità locali e i cittadini di ogni possibilità di consapevole e attiva partecipazione.
Per queste, e per molte altre ragioni, la risposta alla crisi ambientale non può e non deve essere esclusivamente appannaggio della rappresentanza politica e dei soggetti economici privati ma è necessario innescare un meccanismo collettivo di ripensamento della società nella sua integralità: c’è bisogno di un’alleanza tra società civile e comunità scientifica che si ponga l’obiettivo di immaginare un paradigma alternativo di sviluppo e di dotarsi degli strumenti per realizzarlo.
Abbiamo moltissime urgenze sulle quali lavorare, e altrettante proposte per farlo.
La costruzione di una società ecologica non è più soltanto una necessità ma un’urgenza.
I DIECI PUNTI
1) Modello energetico
La produzione energetica in Italia è ancora primariamente concentrata sullo sfruttamento delle risorse fossili, con un aumento negli ultimi anni di nuovi progetti di ricerca ed estrazione di petrolio e gas in terra e in mare. Il boom delle fonti rinnovabili, spinto dalle discutibili politiche incentivanti 2004-2013, si è arenato sotto il peso di un drastico taglio alle agevolazioni e di un quadro riferimento normativo ostile, opaco e instabile. Di contro, continuano a essere incentivate dai fondi le fonti fossili per 14,7 miliardi di euro l’anno. Inoltre, una transizione energetica orientata al contrasto ai cambiamenti climatici, alla sicurezza di approvvigionamento e alla distribuzione di ricchezza non può ragionare soltanto della fonte energetica ma deve necessariamente investire in via prioritaria il ripensamento del modello di produzione, trasformandolo da modello centralizzato e piramidale a modello “misto”, con una forte prevalenza della generazione distribuita: una reale democrazia energetica.
Per operare un profondo ripensamento del sistema di produzione energetico è fondamentale:
Approvare una moratoria sui nuovi progetti estrattivi riguardanti combustibili fossili
Abbandonare ogni progetto di estrazione non convenzionale
Procedere all’eliminazione dei sussidi pubblici alle fonti fossili (14,7 miliardi di euro annui solo per l’Italia, 5300 miliardi a livello globale)
Introdurre un sistema di fiscalità ambientale con la previsione di una carbon tax a livello nazionale, spingendo affinché sia allargata a livello europeo e globale
Sostenere interventi di efficientamento energetico nell’agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti e nel settore manifatturiero, ecc., attraverso risorse pubbliche sottratte al patto di stabilità e un Piano Straordinario da sostenere con un Fondo ad hoc gestito, ad esempio, dalla Cassa Depositi e Prestiti, e incisive politiche di defiscalizzazione
Implementare a tappe serrate l’uscita totale dal carbone come fonte di produzione energetica entro il prossimo decennio
Adottare e implementare una road map adeguata per assicurare la completa decarbonizzazione del modello energetico al 2050
Legare l’utilizzo dell’energia da biomasse nella transizione energetica a rigidi criteri di sostenibilità ambientale e sociale, limitandosi alle sole biomasse di scarto e solo a usi complementari a quelli ottenibili con altre rinnovabili.
Promuovere un modello di produzione distribuito dell’energia, attraverso l’adeguamento e la completa digitalizzazione delle reti di distribuzione dell’energia e politiche di incentivazione ai cittadini (cd prosumer)
2) Modello produttivo
Il settore industriale italiano è quanto di più lontano ci sia da un sistema produttivo sostenibile. Un’economia basata sul consumo acritico e su un ciclo di vita lineare delle materie (estrazione, produzione, consumo e smaltimento) ha costi ambientali e sociali troppo elevati. Il combinato di crisi economica e ambientale è un segnale chiaro dell’urgenza di una svolta che deve coincidere con una radicale conversione ecologica del tessuto produttivo, del modo in cui produciamo e del modo in cui consumiamo, a favore di un’economia in grado di produrre (meno) beni e (più) servizi con modalità che rispettino l’ambiente e la salute. Gli elementi necessari a questa transizione sono il passaggio dal gigantismo delle strutture proprie dell’economia fossile alla diffusione, differenziazione e interconnessione delle attività produttive e alla diminuzione dell’orario di lavoro. Tale modello ridurrebbe al contempo le disuguaglianze economiche e sarebbe a maggiore densità di lavoro rispetto a quello attuale, creando occupazione degna e di qualità.
Affinché tale cambiamento sia possibile è necessario agire in queste direzioni:
Promuovere il riavvicinamento sia fisico (“Km0”) sia organizzativo tra produzione e consumo grazie ai rapporti diretti fra cittadinanza attiva, imprenditoria locale e governi del territorio che devono avere il controllo congiunto dei servizi pubblici e partecipare alla definizione delle risorse a sostegno della conversione ecologica
Sottrarre ai vincoli del patto di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle conversioni produttive e ridurre il debito pregresso nell’ambito dei servizi locali in misura sufficiente a non essere di ostacolo a questi processi
Rivedere il Piano Nazionale Industria 4.0 che si limita alla mera digitalizzazione dei processi produttivi prevedendo incentivi all’efficientamento e alla decarbonizzazione e affrontando le ricadute sociali e ambientali del modello produttivo attuale.
Applicare la Direttiva Europea sull’ Economia Circolare promuovendo distretti produttivi simbiotici e rendendo obbligatorio l’uso razionale e il riuso delle materie prime e delle risorse tramite eco-progettazione (a monte), filiere sostenibili e corretto trattamento degli scarti (a valle);
Incentivare la conversione lavorativa attraverso la riqualificazione professionale e la formazione dei lavoratori affinché possano usufruire delle nuove opportunità date dai settori industriale, edile, artistico e dei servizi che usano soluzioni e tecniche di produzione ecosostenibili.
Varare politiche di inclusione sociale, favorendo l’inserimento di categorie vulnerabili e soggetti in condizioni di difficoltà e di svantaggio.
Prevedere azioni di controllo contro politiche di greenwashing, riferibili alle aziende, organizzazioni e istituzioni politiche che costruiscono un’immagine di sé ingannevolmente verde danneggiando consumatori, aziende e ambiente.
3) Modello agricolo e alimentazione
Il modello di produzione agricolo, in Italia come altrove, è sempre più basato su sistemi di coltivazione intensiva e sull’utilizzo massiccio di agrotossici. Tali pratiche impoveriscono i terreni, rendono insalubri e spesso tossici gli alimenti prodotti e contribuiscono ad alimentare un sistema di sfruttamento intensivo non solo dei campi, ma anche della forza lavoro, attraverso il ricorso al caporalato e con condizioni di lavoro inaccettabili per i braccianti. Si assiste inoltre alla progressiva concentrazione di grandi quantità di terre in poche mani. Stesse considerazioni valgono per i sistemi intensivi di allevamento zootecnico, che si traducono nella produzione di cibo di scarsa qualità, con l’aggravante del trattamento disumano degli animali. Tra le varie attività umane, il settore dell’allevamento è quello che richiede il maggiore utilizzo di terreni, e contribuisce in maniera sensibile al consumo di acqua e alle emissioni di gas climalteranti. Occorre infine considerare che in totale lo spreco alimentare domestico annuo in Italia ha un valore calcolato di 13 miliardi di euro, che corrispondono all’1% del Pil.
Per l’affermazione di un modello agricolo sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale sarebbe necessario:
Privilegiare produzioni di piccola scala, sia nelle coltivazioni che nell’allevamento di bestiame
Vietare l’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche e prediligere sistemi organici e biologici
Estendere in maniera capillare le maglie del controllo sullo sfruttamento dei lavoratori agricoli in modo da eradicare la pratica del caporalato
Non limitarsi a vietare l’utilizzo di sementi Ogm ma vietare altresì l’importazione e la vendita in Italia di prodotti provenienti da colture Ogm.
Non implementare colture energetiche dedicate privilegiando la produzione di cibo di qualità
Rendere accessibile il cibo di qualità attualmente proibitivo per le fasce di popolazioni più vulnerabili
Creare sistemi di tracciabilità dei prodotti in etichetta affinché sia possibile per i cittadini risalire alle informazioni relative al luogo di produzione, alle sostanze utilizzate per la produzione, alla distribuzione del valore attraverso la filiera etc.
Tutelare la diversità genetica dei semi a livello locale promuovendo e foraggiando le tecniche tradizionali di cura e rigenerazione delle sementi da parte degli agricoltori
Sottrarre alla Grande Distribuzione il monopolio del mercato del cibo, rafforzando relazioni di prossimità tra produttore e consumatore, ad esempio attraverso i Gruppi di Acquisto Solidale e la messa a sistema delle reti esistenti di distribuzione sostenibile.
Modificare le produzioni agricole per ridurre drasticamente l’impronta idrica e andare verso produzioni agricole carbon neutral incrementando il carbonio organico nei suoli.
4) Cementificazione e consumo di suolo
Secondo l’ultimo rapporto sul consumo di suolo elaborato dall’Ispra, tra il 2013 e il 2015 la cementificazione ha invaso 250 km2 di territorio, 35 ettari al giorno. In Italia si perdono circa 4 metri quadrati di suolo ogni secondo. Sebbene nel 2016 sia stato approvato un DDL sul contenimento del consumo di suolo, esso risulta parziale e poco efficace per raggiungere gli obiettivi auspicati: per rendere il provvedimento efficace occorrerebbe anzitutto includere all’interno della definizione di consumo di suolo, tra le altre, le superfici destinate ai servizi di pubblica utilità di livello generale e locale, le aree destinate alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari, le aree in cui sono previsti gli interventi connessi in qualsiasi modo alle attività agricole. L’esclusione di tali categorie è il primo ostacolo per il raggiungimento degli obiettivi di contenimento fissati per legge.
Per tali ragioni urge:
Stabilire obiettivi di riduzione del consumo di suolo sempre più stringenti di anno in anno in modo tale da garantire il raggiungimento dell’obiettivo “consumo di suolo zero al 2050”
Promuovere e sostenere il recupero del patrimonio esistente e la rigenerazione urbana, in modo da scoraggiare il nuovo edificato su suolo vergine e mirando tali processi all’inclusione sociale e la riconversione ecologica dell’esistente.
Evitare ulteriore cementificazione degli spazi urbani e industriali da recuperare e aumentare il livello di rinaturalizzazione.
Incentivare il monitoraggio partecipativo del consumo di suolo.
Incentivare il coinvolgimento delle realtà locali nei processi di pianificazione urbana e di rigenerazione.
5) Grandi opere e infrastrutture
Il solo decreto Sblocca Italia varato nel 2014 ha sbloccato 14 grandi opere per un valore stimato di quasi 29 miliardi di euro, sostenendo uno schema di investimenti pubblici che favorisce la costruzione di infrastrutture impattanti e dalla dubbia utilità a scapito di interventi diffusi di risanamento del dissesto idrogeologico dilagante nel paese. Tale orientamento della spesa pubblica comporta una consistente diminuzione del welfare, cui si sommano, gli impatti ambientali, sociali prodotti dalle opere finanziate. Ulteriore elemento di criticità riguarda il carattere impositivo insito nella definizione e implementazione delle mega infrastrutture, che depauperano sistematicamente le comunità impattate dalla possibilità di partecipare ai processi decisionali.
Cambiare il modello infrastrutturale necessita di un profondo ripensamento, che non può non partire dal:
Ripensare le infrastrutture strategiche per il paese in un’ottica low carbon, come indicato tra gli altri dal Report della Global Commission on Economy and Climate presieduta da Nicholas Stern.
Rinunciare alla costruzione di mega infrastrutture energetiche legate all’utilizzo delle fonti fossili
Rinunciare ai progetti infrastrutturali connessi alla difesa militare, a partire da quelli stranieri e legati a servitù militari, ripristinando la sovranità nazionale sul territorio
Riorientare gli investimenti pubblici per le mega opere impattanti in investimenti per il risanamento idrogeologico del territorio. Il dissesto interessa l’82% dei comuni italiani, circa 30.000 kmq di territorio da nord a sud del paese ed è costato in termini di danni causati da calamità naturali tra il 1944 e il 2011 più di 240 miliardi di euro di fondi pubblici, circa 3,5 miliardi di euro all’anno. (Fonte: Anci-Cresme).
6) Gestione dei rifiuti
Il modello nazionale di gestione dei rifiuti è caratterizzato da gravi inefficienze e, soprattutto, dall’incapacità di costruire strategie basate sulla corretta gerarchia di gestione dei rifiuti: riduzione a monte, riuso, riciclo, recupero energetico, smaltimento. Nonostante le gravi conseguenze sanitarie e ambientali – provate da una vasta letteratura scientifica – discariche e inceneritori restano infatti i cardini della gestione rifiuti a livello nazionale. Con il decreto Sblocca Italia, il dicastero dell’Ambiente ha elevato gli inceneritori a “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale” dichiarando di fatto una precisa volontà politica: incentivare e favorire il business dell’incenerimento dei rifiuti. L’attuazione di una gestione sostenibile dei rifiuti passa al contrario e necessariamente per l’applicazione delle direttive comunitarie (come la Direttiva 2008/98/CE), per il rispetto del principio di precauzione e per la messa a sistema di una corresponsabilità tra enti, cittadini e imprenditoria.
Per intraprendere la strada della sostenibilità occorre:
Applicare la corretta gerarchia della gestione in un’ottica Rifiuti Zero.
Dismettere gli impianti di incenerimento, eliminando gli incentivi economici pubblici per qualsiasi forma di combustione dei rifiuti e abbandonando i processi di combustione, prima causa della scadente qualità dell’aria nel nostro paese.
Abrogare l’articolo 35 del decreto Sblocca Italia e rinunciare alla costruzione della nuova impiantistica prevista dal Decreto Inceneritori.
Potenziare la raccolta differenziata porta a porta con il sistema di tariffazione puntuale.
Sviluppare strumenti fiscali per incentivare la raccolta differenziata di qualità
Sviluppare una gestione orientata alla massima efficienza economica dei servizi di raccolta e smaltimento.
Riorganizzare il sistema dei consorzi CONAI con una regolazione pubblica dei contributi per renderli inversamente proporzionale alla riciclabilità dei materiali immessi a consumo.
Promuovere e incentivare la realizzazione di impianti finalizzati al recupero di materia: impianti a freddo per il trattamento di materiali accoppiati (come il tetra-pak) e multimateriali non recuperabili con il porta a porta.
Privilegiare la realizzazione di impianti di compostaggio aerobico eventualmente accompagnato da digestione anaerobica di qualità
Incentivare e promuovere iniziative, incentivi, azioni e progetti che consentano di prevenire a monte la produzione dei rifiuti.
Incentivare buone pratiche di riuso, riciclo, riduzione come il compostaggio domestico e di comunità.
Tenere in considerazione, in fase di progettazione dei prodotti, la scomponibilità e recuperabilità degli oggetti per favorire la re-immissione dei materiali nei cicli produttivi
Disincentivare l’acquisto di prodotti non riciclabili e usa e getta.
7) Mobilità
Il modello di trasporti può dirsi sostenibile quando risponde efficacemente alle esigenze dei cittadini, riduce il traffico, migliora la qualità dell’aria, taglia i consumi energetici. Il sistema di trasporto pubblico in Italia è invece caratterizzato da gravi inefficienze, dall’insufficienza di offerta di sistemi di mobilità sostenibile (trasporti su rotaie, piste ciclabili, sistemi di car sharing etc.) e dalla netta prevalenza di sistemi di trasporto su gomma, con preminenza dei veicoli privati anche per gli spostamenti quotidiani. Altrove, la direzione verso la mobilità sostenibile ha preso da tempo la via della multimodalità: integrare modelli di trasporto diversi e a basso impatto, una direzione ancora molto lontana dal modello diffuso nel nostro paese.
Per promuovere un modello di trasporti realmente sostenibile occorrerebbe anzitutto:
Rafforzare le reti di trasporto pubblico, con preferenza per i veicoli elettrici e su rotaia in riferimento sia alle reti urbane sia alle reti extraurbane per gli spostamenti pendolari, contribuendo così a ridurre smog, rumore, ingorghi e ritardi.
Investire, dal punto di vista della politica industriale, sull’ampliamento del parco autobus elettrico.
Implementare una vasta rete per la ciclabilità urbana ed extraurbana, come risposta alle esigenze di trasporto urbano e alla domanda di turismo “dolce”
Implementare sistemi di monitoraggio della qualità dell’aria con particolare attenzione a sorgenti significative (autostrade/tangenziali) e agli inquinanti non rivelati come le particelle ultrafini (0.1 micron).
Istituire aree verdi e zone pedonali per disincentivare l’uso di vetture private nei centri urbani.
Investire nella multimodalità, prevedendo l’integrazione e l’interconnessione tra diversi sistemi di mobilità sostenibile.
Implementare e promuovere sistemi di uso condiviso, come bike sharing e car sharing elettrico, agevolandone l’utilizzo massiccio attraverso misure incentivali.
Spostare il traffico merci su ferro ed evitare la costruzione di nuove strade a larga percorrenza.
Come da indicazioni del Parlamento Europeo ridurre le emissioni di ossidi di azoto e di particolato sottile (<2.5 micron) su tutti i territori del 65% e del 50% e nelle aree ad alto inquinamento almeno del 75% (NO2) e del 60% (particolato) per ridurre la mortalità da smog.
8) Acqua e servizi pubblici essenziali
Il modello di gestione del servizio idrico e, più in generale, dei servizi pubblici essenziali, è stato oggetto nel 2011 di un referendum abrogativo che ha portato all’affermazione di un’idea di gestione pubblica e ha sancito il carattere dell’acqua quale bene comune e diritto umano universale, prevedendo peraltro che non potesse essere inserita in bolletta alcuna quota di profitto per il gestore. Da allora si è tuttavia assistito a una rinnovata strategia di rilancio dei processi di privatizzazione del servizio idrico e degli altri servizi pubblici locali. Attualmente, attraverso processi di aggregazione e fusione, quattro colossi multiutilities – A2A, Iren, Hera e Acea – già collocati in Borsa, stanno progressivamente inglobando la totalità delle società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici.
Per invertire la rotta e restituire alle autorità pubbliche e alle comunità il controllo sui servizi pubblici essenziali occorre:
Ripubblicizzare il servizio idrico favorendo la partecipazione popolare diretta alla pianificazione e gestione del servizio idrico integrato e che consenta l’accesso ai dati e alle informazioni.
Prevedere sistemi di gestione pubblica e partecipata dei servizi pubblici essenziali in generale, rafforzata dallo sviluppo di processi di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori.
Promuovere investimenti indirizzati prevalentemente alla ristrutturazione della rete idrica, con l’obiettivo di ridurre strutturalmente le perdite di rete, e verso le nuove opere, in particolare del sistema di depurazione e di fognatura.
Garantire sistemi di controllo della qualità delle acque con accesso ai dati per la popolazione e rapidi interventi di risanamento ove necessario.
Promuovere un nuovo sistema di finanziamento del servizio idrico basato sul ruolo fondamentale, oltre che della leva tariffaria, della finanza pubblica e della fiscalità generale; in altre parole il servizio idrico deve tornare a essere una delle priorità nel bilancio statale.
9) Ambiente e diritto alla salute
L’emergenza sanitaria legata alla contaminazione ambientale in Italia è grave, conclamata e capillarmente diffusa. Tale situazione di grave violazione del diritto umano alla salute, costituzionalmente garantito, è stato indagato nel rapporto epidemiologico S.E.N.T.I.E.R.I. realizzato dall’ISS in 44 delle aree vaste contaminate identificate come SIN (Siti di Interesse Strategico Nazionale per le bonifiche) dal Ministero dell’Ambiente. I risultati del rapporto mostrano le gravi conseguenze in termini di incidenza di malattie, ricoveri e morti premature sulle popolazioni insediate. L’emergenza tuttavia va ben oltre i perimetri dei SIN ed è elevata in ogni zona che ospita impianti contaminanti, centrali energetiche, poli estrattivi, produttivi, di smaltimento, etc. Alla mancanza di politiche di prevenzione primaria si somma l’insufficienza del sistema sanitario nel garantire accesso alle cure e standard comparabili nelle varie regioni italiane.
Per garantire il diritto alla salute è dunque prioritario:
Garantire il pieno e integrale rispetto del principio di precauzione e dunque di politiche di prevenzione primaria attraverso la chiusura e la conversione in senso ecologico degli impianti gravemente contaminanti.
Garantire programmi di prevenzione e di screening (monitoraggio sanitario e prevenzione secondaria) nei territori ritenuti a rischio o già contaminati
Garantire programmi di ricerca e analisi che aiutino a individuare e prevenire le ricadute sanitarie della contaminazione.
Non soffermarsi alla previsione delle linee guida ma implementare lo strumento della V.I.S. – Valutazione di Impatto Sanitario obbligatoria per tutti i progetti di sviluppo, infrastrutturale, industriale, energetico, ecc.
Provvedere a rapidi ed efficaci processi di bonifica dei territori attraverso il coinvolgimento attivo delle popolazioni.
Garantire massima applicazione al principio “chi inquina paga”, assicurandosi che siano le stesse aziende responsabili della contaminazione a finanziare le bonifiche dei territori inquinati.
Riformare radicalmente il sistema dei monitoraggi ambientali e sanitari, sottraendo le figure apicali degli enti di controllo a procedure di nomina politica e caratterizzandone le attività per trasparenza, indipendenza, efficacia e continuatività. Le risultanze di tali rilievi devono essere recepiti senza esitazione nella formulazione di politiche a tutela della salute pubblica.
Adeguare i livelli essenziali di prestazioni in ambito sanitario alle necessità dei territori cui essi sono applicati, estendendo la gamma degli interventi di prevenzione, monitoraggio e cura delle patologie connesse all’esposizione ambientale.
10) Comunità e democrazia
Elemento dirimente per garantire una corretta e sostenibile gestione dei territori, la salubrità dell’ambiente e la tutela della comunità insediate è l’esistenza di strumenti di partecipazione popolare e di inclusione della cittadinanza nei processi decisionali. Da questo punto di vista, all’insufficienza degli strumenti esistenti si unisce la tendenza a un progressivo accentramento dei processi decisionali e di depotenziamento degli enti di prossimità, erodendo la possibilità di garantire alle comunità reale incidenza nelle scelte che riguardano il proprio destino. Ciò riduce pericolosamente lo spazio democratico favorendo un modello di delega incapace di rispondere alle istanze partecipative. Accanto a ciò, la prassi di governo continua a individuare nel ricorso a stato d’emergenza e a decretazione d’urgenza ulteriori strumenti per imporre dall’alto decisioni spesso invise alla cittadinanza.
Per colmare il gap democratico e rispondere alla richiesta di partecipazione cittadina è necessario:
Provvedere a fornire informazioni adeguate e complete riguardo nuovi progetti di sviluppo, infrastrutturale, industriale, energetico, etc. con impatti potenziali sul territorio.
Garantire in generale pieno accesso alle informazioni in campo ambientale, precondizione per esercitare a pieno le facoltà e i diritti connessi alla cittadinanza
Istituire e implementare strumenti partecipativi, soprattutto a livello locale, in merito alle politiche ambientali, garantendo la capillare partecipazione della cittadinanza e degli stakeholders sociali attraverso la previsione di strumenti deliberativi e non meramente consultivi
Garantire accesso alla giustizia per l’opposizione a progetti invisi, per la riparazione del danno prodotto e per il perseguimento delle responsabilità penali, ove presenti.
Rinunciare alla riforma nel procedimento di V.I.A. – Valutazione di Impatto Ambientale in discussione, evitandone lo svilimento e rafforzandone al contrario la funzione di garanzia di tutela ambientale e protezione delle comunità insediate.
Rafforzare anziché depotenziare il ruolo degli enti di prossimità nei processi decisionali.
Rafforzare le fattispecie di ecoreati recentemente introdotte nel codice penale per garantire una piena applicazione del principio Chi Inquina Paga.
RE.S.E.T. – Rete Scienza e Territori per una società ecologica
ADESIONI
(in continuo aggiornamento)
COMUNITÀ SCIENTIFICA
Stefania Albonetti – Dipartimento di Chimica Industriale, Università di Bologna
Leonardo Altieri – Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia Univ. Bologna
Nicola Armaroli – Direttore di Ricerca, ISOF CNR
Marco Armiero – Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology, Svezia
Lorenza Arnaboldi – Medico chirurgo, specialista in pediatria, ASL RMC Roma
Micaela Azzalli – Medico chirurgo, specialista in pediatria, PLS, Ferrara
Vincenzo Balzani – Chimico, Prof. emerito Università di Bologna
Francesco Luca Basile – Prof. associato, Dip. chimica industriale Univ. Bologna
Andrea Baranes – Presidente Fondazione Finanza Etica
Alberto Bellini – Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Univ. Bologna
Mario Berveglieri – Medico chirurgo, specialista in Pediatria e Scienza dell’Alimentazione,
Giacomo Bergamini – Ricercatore chimico Dipartimento di Chimica Univ. Bologna
Elena Bernardi – Ricercatrice, Dip. di chimica industriale, Univ. Bologna
Enrico Bonatti – Senior Scientist, Scienze della Terra, Columbia University
Alessandra Bonoli – Professore Ass. Ingegneria delle Materie Prime, Univ Bologna
Carlo Cacciamani – Fisico, Direttore Servizio IdroMeteoClima, Arpa Emilia-Romagna
Carla Cafaro – Medico chirurgo, specialista in Pediatria PLS, Ferrara
Romano Camassi – Ricercatore INGV Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Daniele Caretti – Dip. Chimica Industriale “Toso Montanari”, Univ. Bologna
Thomas Casadei – Docente associato di Filosofia del diritto Univ. Modena e Reggio Emilia
Sergio Castellari – Fisico, INGV Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e CMCC
Adriano Cattaneo – Epidemiologo IRCSS materno Infantile Burlo Garofolo, Trieste e membro Osservatorio italiano per la salute globale
Daniela Cavalcoli – Prof. associato Fisica della Materia Univ. Bologna
Fabrizio Cattaruzza – Chimico, collaboratore Istituto Struttura della Materia – ISM CNR
Fabrizio Cavani – Dipartimento di Chimica Industriale Università di Bologna
Marco Cilento – Prof. Comunicazione e ricerca sociale, Univ. Sapienza Roma
Carlo Cellamare -Dip. Ingegneria Civile Edile e Ambientale DICEA, Univ. Sapienza Roma
Marco Cervino – Fisico dell’atmosfera e del clima, Ricercatore ISAC-CNR
Andrea Contin – Professore fisica, dip. di Fisica e Astronomia, Univ. Bologna
Federico Demaria – Research & Degrowth, ICTA Universitat Autonoma de Barcelona
Salvatore De Rosa – Ricercatore, Dipartimento Human Geography LundUniversity
Enzo Di Salvatore – Prof. Diritto Costituzionale Università di Teramo
Margherita Eufemi – Prof. biochimica, Dip. Scienze Biochimiche, Univ. Sapienza Roma
Maria Cristina Facchini – Dirigente di Ricerca ISAC – CNR
Antonio Faggioli – Docente d’Igiene, Univ. Bologna
Silvano Falocco – Economista ambientale, Direttore Fondazione Ecosistemi
Cristina Femoni – Prof.ssa associata dip. Chimica industriale, Univ. Bologna
Paolo Figini – Prof. Economia Politica, Univ. Bologna
Lorenzo Fioramonti – Prof. Economia Politica, Università di Pretoria, Sud Africa
Sandro Fuzzi – Dirigente di Ricerca ISAC – CNR
Enrico Gagliano – Docente Scienze dell’Amministrazione Università Teramo
Anna Rosa Garbuglia – Laboratorio Virologia, INMI Lazzaro Spallanzani, Roma
Patrizia Gentilini – Oncologa ed Ematologa, Comit. Scient. ISDE e Medicina Democratica
Antonio Giordano – Oncologo e genetista, direttore Sbarro Health Research Organization USA
Federico Grazzini – Meteorologo, Arpae -SIMC / LMU München
Michele Grandolfo – Già Dirigente di ricerca in epidemiologia e biostatistica, ISS
Luigi Guerra – Direttore Dip. Scienze Educazione, Università di Bologna
Emanuele Leonardi – Ricercatore, Centre for Social Studies, Università di Coimbra
Maria Giulia Loffreda – Public Health, Erasmus Medical Center, Rotterdam
Franco Lupano – Medico di famiglia, CISO – Piemonte
Paolo Maddalena – libero docente Diritto Romano, vicepresid. emerito Corte Costituz.
Monica Malventano – pediatra, Ferrara
Roberto Mamone – Biologo marino
Giulio Marchesini Reggiani – Prof. Dip. Medicina e Chirurgia DIMEC, Univ. Bologna
Vittorio Marletto – Agrometeorologo, Arpa Emilia-Romagna
Federico Martelloni – Prof. Associato di Diritto al Lavoro Università di Bologna
Mariacristina Martini – Medico chirurgo, Internista e Pneumologa, Primario medicina generale Ospedale Villa D’Agri
Franco Medici – Dip. Ingegneria Chimica Materiali Ambiente, Univ. Sapienza Roma
Giorgio Nebbia – Prof. emerito di Merceologia Facoltà di Economia, Univ. di Bari
Alessia Nulli – docente scienze della formazione università Bicocca di Milano
Rosalba Passalacqua – Dip. Scienze chimiche, biologiche, farmac. ed ambientali, Univ. Messina
Siglinda Perathoner – Dip. Scienze chimiche, biologiche, farmaceutiche e ambientali, Univ. Messina
Marco Revelli -storico e sociologo, docente scienza della politica, Univ. Piemonte orientale
Gianpiero Ruani – ricercatore Istituto studio materiali nanostrutturati – ISMN CNR
Gianni Ruocco – Dipartimento di Scienze Politiche, Università Sapienza di Roma
Enrico Sangiorgi – Ingegnere Elettronica, professore di Elettronica, Univ. Bologna
Enzo Scandurra – Docente emerito di Sviluppo sostenibile – Univ. Sapienza Roma
Leonardo Setti – Dipartimento di Chimica Industriale, Università Bologna
Micol Todesco – Geologa l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia INGV, Bologna
Mauro Valiani – Ex direttore dip. Prev. Empoli
Margherita Venturi – Professore ord. Chimica, Università di Bologna
Guido Viale – Sociologo e saggista
Stefano Zamagni – Economista, prof. Economia e statistica, Università di Bologna
Gabriele Zanini – Fisico, ricercatore ENEA di Bologna
SOCIETÀ CIVILE
A Sud
Abitanti Attivi – S.Maria Capua Vetere (CE)
Accademia Kronos
Acqua Alma Onlus
Acqua Bene Comune Venezia
Acqua bene comune Venezia
ACU – Associazione Consumieristica Utenti
Agenda 21 – Carditello
AIEA Onlus
Altro Modo Flegreo – Laboratorio di Cittadinanza attiva Pozzuoli
Amici della terra Lago d’Idro
Amigos MST
AMO Bologna associazione Onlus
ANPI Montirone,
Aqua Alma onlus
Arcadia – Associazione di Volontariato – Gricignano (CE)
ARCI
ARCI Bolzano
Associazione Noimessidaparte
Associazione Abruzzo Beni Comuni – Tortoreto (Te)
Associazione ambientalista e culturale Unione Giovani Indipendenti – Colleferro
Associazione Antigone Oppido Lucano
Associazione Articolo 9
Associazione BBB Spinoza – Empoli
Associazione Briganti d’Italia
Associazione Carte in regola
Associazione culturale CaTaliTe
Associazione culturale Oltre La Crescita
Associazione Il Tempio di Apollo – Arte, cultura e sociale
Associazione Noi genitori di tutti onlus
Associazione Nuovo Senso Civico
Associazione passo dopo passo
Associazione Radicali Lucani
Associazione Roverella Padenghe S G.
Associazione Terra mia – Mondragone (CE)
Associazione Un’altra Storia Varese
Attac Italia
Bici per la Città – Frattamaggiore (NA)
Borgo Solare,
Campi Aperti – Bologna
Campo de’ Fiori – Officina del Libero Pensiero, S.Maria a Vico (CE)
Caritas Parrocchiale Arienzo
Caritas per la Custodia del Creato: Parrocchia di Sant’Andrea di Arienzo (CE)
Caritas per la Custodia del Creato: Parrocchia Maria SS Assunta di S.Maria a Vico (CE)
CDCA – Centro Documentazione Conflitti AmbientaliCEAS – Centro di Educazione Ambientale Eco di Gea
Centro sociale 28 maggio
Carmine Piccolo cittadino reattivo
CETRI TIRES – Club Europeo Terza Rivoluzione Industriale
Circolo ARCI ” Montefortino “93
Città Visibile – Orta di Atella (CE)
Cittadini per il riciclaggio
CittAttivi – Frattamaggiore (NA)
Codisa
Com. Prov. Rifiuti zero
Comitato “La collina dei castagni” Castenedolo
Comitato acqua pubblica Brescia
Comitato Acqua Pubblica di Salerno
Comitato Acqua Pubblica Forlì
Comitato ambiente Brescia sud
Comitato aria pulita di Travagliato
Comitato Campagnoli
Comitato cittadini ambiente e salute Travagliato
Comitato cittadini Calcinato
Comitato carta
Comitato Cittadini Calvisano
Comitato Cittadini per l’Ambiente
Comitato di cittadini contro il collegamento autostradale delle Torricelle
Comitato di quartiere Casazza
Comitato di quartiere Chiesanuova
Comitato di quartiere Lamarmora
Comitato G.A.I.A. Gavardo
Comitato di quartiere Torrino Decima – IX Municipio
Comitato duomo Rovato
Comitato di quartiere centro storico nord
Comitato Fuochi sez. Marcianise
Comitato iolotto – Bologna
Comitato Lamarmora per l’ambiente Comitato Macogna Berlingo
Comitato Montichiari contro Green Hill
Comitato Mamme NO MUOS
Comitato Mamme Volanti di Castenedolo, Brescia
Comitato No Stoccaggio Gas Poggio fiorito
Comitato Pendolari FR8a Carrozza (Roma-Nettuno)
Comitato per la salute rinascita salvaguardia del centro storico
Comitato mamme Travagliato
Comitato porta a porta Botticino
Comitato provinciale Rifiuti Zero Brescia
Comitato Visano respira
Commissione ambiente ACLI Provinciale
Condotta Slow Food Emplese –Valdelsa
Consiglio di quartiere centro storico nord
Cooperativa Sociale ” ‘E Pappeci” – Bottega del Mondo
Coord. Comitati Ambientalisti Lombardia
Coordinamento Comitati Ambientalisti Lombardia
Coordinamento Comitati No Triv Lombardia
Coordinamento Donne per il territorio Gela
Coordinamento Nazionale No TRIV
Coordinamento No elettrodotto Villanova
Coordinamento No TAV Bs-Vr
Coordinamento Nord Sud del Mondo
COSPE Onlus
Cova Contro – Policoro (MT)
CSA Intifada – Empoli
daSud
DES Basso Garda
Donne del 29 agosto – Acerra (NA)
Eco gruppo Chiari
EHPA – Basilicata Oppido Lucano
Energia per l’Italia
Essere Animali
Ethos – Casalnuovo (NA)
Facciamo rivivere Vobarno
Gavardo in movimento
Fairwatch
Fateci Respirare – Lusciano
Fondazione Micheletti
Fondazione UniVerde
For After life foundation
Forum Ambientalista
Forum Ambientalista – Grosseto
Forum italiano movimenti per l’acqua
Forum Pontino Diritti e Beni Comuni
Gruppo empatia Brescia
Gruppo mamme di Castenedolo
Il fauno – cultura e ambiente basso Mella
ISDE – Medici per l’Ambiente
Istituto EcoAmbientale
La nostra terra – Brescia
Laboratoire Triangle-ENS Lyon
Laboratorio per Viggiano
Laboratorio progressista
Legambiente Brescia
Legambiente circolo Ancipa
Legambiente del Vercellese
Legambiente Franciacorta
Legambiente Montichiari
Montichiari SOS Terra
Lello Volpe con i bambini – Orta Di Atella (CE)
Liberacittadinanza
Link – Coordinamento Universitario
Mamme per la Salute e l’Ambiente Onlus, Venafro
Medicina Democratica
Movimento C’at accis a salute – Casalnuovo (NA)
Movimento decrescita felice Brescia
Pianeta VIOLA
Movimento NO al Carbone – Brindisi
Movimento per la Decrescita Felice – Gruppo Di Salerno
Navdanya International
No ai tralicci – Frattamaggiore (NA)
No Coke Alto Lazio
NoGrazie
Noi genitori di tutti – Caivano (NA)
Osservatorio Popolare per la Val D’Agri
Prima le Persone
Pro Loco Lusciano
Rete custodi del creato Brescia
Rete della conoscenza
Rete della Conoscenza – Acerra (NA)
Ridateci le Lucciole – Gricignano d’Aversa (CE)
Rivista Valori
ScanZiamo le Scorie
Si alle fonti Rinnovabili, No al Nucleare
SoloBio
Sottoterra Movimento Antimafie – Frattamaggiore (NA)
STOP MULTINAZIONALI
Stop TTIP Italia
Terra Nuova
Terra! Onlus
Transform! Italia
Travagliato in movimento
UdS – Unione degli Studenti
Un futuro per Ghedi
Rete Antinocività Brescia
V.IN.CI. – Volontari Interforze e Cittadini onlus – Cesa (CE)
Visano per basta veleni
Volontari Antiroghi Acerra (NA)
«Le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia». come sa chi ha imparato che il ventre dal quale strisciano fuori le guerre è (e rimane) il capitalismo. Corriere della Sera, 3 giugno 2017 con riferimenti
Possiamo naturalmente sperare che le armi vendute dal presidente Trump all’Arabia Saudita per 110 miliardi di dollari (350 miliardi nel corso del prossimo decennio) non vengano usate. Ma se usciranno dagli arsenali, il bersaglio sarà verosimilmente l’Iran. Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l’Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del Sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto.
Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell’islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell’Isis; o addirittura aprire la strada all’avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L’America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1961.
Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente americano definì un «complesso militare-industriale», vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L’industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l’uniforme, hanno avuto rapporti di committenza.
Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l’hanno perduta economicamente le grandi imprese dell’Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d’occupazione americane.
Ancora più potente l’industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e «intelligenti» hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre.
Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump.
Riferimenti
Per il lettore giovane, e per quello smemorato, può essere utile leggere e riflettere su Guerra alla guerra: Brecht e Fortini, tratto da L'ospite ingrato, Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini
«A più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione Trilaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere: si è riusciti, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. il Fatto Quotidiano online, blog Gianluca Ferrara, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
Nel totale occultamento dei mass media nostrani è cominciato a Chantilly, in Virginia, l’incontro annuale del gruppo Bilderberg. Fino al 4 giugno questa cupola composta da banchieri, manager, politici, militari e giornalisti discuteranno su come perseverare con quel sistema neoliberista che permette a 8 persone di possedere una ricchezza pari a 426 miliardi di dollari, una somma equivalente a quella che hanno 3,6 miliardi di persone.
Il gruppo Bilderberg, annualmente raduna, in lussuosi alberghi a porte chiuse, il gotha della plutocrazia mondiale. Il nome del club deriva dal nome dell’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, nei Paesi Bassi dove si tenne nel 1954 la prima riunione.
Tra i 130 partecipanti di Chantilly saranno presenti il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, David Cohen ex vicedirettore della Cia, José Manuel Barroso presidente della Goldman Sachs e Christine Lagarde direttore del Fondo Monetario Internazionale. In nostra “rappresentanza” oltre al solito John Elkann ci saranno Lilli Gruber e Beppe Severgnini. Ovviamente nulla potranno riferire perché, proprio come accade con la Mafia e la Massoneria, è vietatissimo far uscire notizie; viene da domandarsi cosa ci vadano a fare dei giornalisti se poi non possono svolgere quello che dovrebbe essere il loro compito e cioè informare i cittadini. Perché i maggiori organi di “informazione” non reputano sia importante dare la notizia che gli uomini più potenti del mondo si incontreranno per alcuni giorni tutti insieme e a porte chiuse?
In questi incontri vengono stabilite le nostre sorti, quel che resta del nostro futuro di cittadini. Verranno spartite quelle poche ossa rimaste di ciò che un tempo erano gli Stati. Si pensi che le multinazionali hanno più potere degli Stati, delle prime 100 entità economiche, 67 sono multinazionali e 33 governi. Oggi questa élite transnazionale gestisce ogni aspetto delle nostra struttura sociale, controlla i mass media, l’industria agroalimentare, la stampa della moneta e purtroppo, dramma dei nostri tempi, anche la politica.
Gli incappucciati 2.0 del gruppo Bilderberg, in nome del dogma neoliberista che ha come unico fine privatizzare e liberalizzare, anche quest’anno ratificherà quel progetto sociale che causa la morte dai 30 ai 50 milioni di persone per fame. Eppure basterebbero soltanto 40 miliardi di dollari per porre fine a questo sterminio, ma i signori del Bilderberg non si incontrano per salvare vite ma proteggere e aumentare ricchezze. Ciò giustifica i circa 1800 miliardi di dollari che si investono annualmente in armamenti.
A mio avviso il vero dramma è che a più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione trlaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere. Questo perché si è riuscito, ed è tipico delle dittature, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. La vera sfida è liberare i più da questa ipnosi collettiva e riprenderci le chiavi del nostro futuro.
NON SENTIRSI AL CENTRO
Oggi usiamo i termini“ CENTRO” E “ PERIFERIA” sia per parlare della città che per riferirci al mondo. In entrambi i casi, questi termini sono estremamente problematici. In relazione alla città, nella sua accezione sociale, la periferia può occupare delle parti del “ centro” e, nello stesso tempo, vediamo che, per quanto riguarda il mondo, compaiono dei nuovi “ centri”. Parallelamente, è spesso nelle “ periferie” urbane che si concentrano delle iniziative culturali ed è lì che vanno a risiedere persone che appartengono alla borghesia benestante. Inoltre, bisogna considerare quella forma di privatizzazione degli spazi urbani da parte delle élite che avviene quando queste si chiudono in cittadelle protette o in quartieri separati. E ancora: da un lato aumentano gli spazi di consumo, di circolazione, di comunicazione, dall’altro non tutti possono usufruirne allo stesso modo.
Per tutte queste ragioni oggi sarebbe meglio evitare un linguaggio unicamente “spaziale” o “geografico” e parlare piuttosto di privilegiati ed esclusi, perché sono categorie che si lasciano scomporre: siamo più o meno privilegiati o più o meno esclusi. In questo senso gli esclusi sono poveri in un mondo che celebra la ricchezza: è l’immagine della città nel suo centro glorioso che nutre l’opposizione città/non città.
Non dobbiamo dimenticarci che la grande città è stata il luogo delle utopie ( per esempio, Le Corbusier) e rimane tale nella misura in cui l’intero pianeta si urbanizza. L’ideale però si è scontrato con la realtà e con le incapacità: la crescita demografica ha condannato i progettisti urbani all’improvvisazione e le politiche ( o le non politiche) sociali hanno lasciato che si creassero delle zone di esclusione. Le città europee hanno generalmente un passato urbano monumentale molto ricco e non hanno mai osato liberarsene. I grattacieli parigini non hanno la bellezza e la forza di quelli di New York o Chicago. Gli esperimenti architettonici più innovativi non si realizzano in Europa, ma in Asia o in Medio Oriente.
Tra un secolo o due il mondo sarà diventato come una sola grande città. Per questo ci serve la definizione di città globale: il pianeta si urbanizza molto rapidamente e i pannelli che consultiamo negli aeroporti evocano sempre più quelli delle stazioni ferroviarie o perfino della metropolitana. Per i privilegiati questo è già accaduto: il mondo è un luogo dove si orientano bene e lo considerano come una città in scala planetaria. Ma non tutti hanno lo stesso accesso alle cose. Dunque da un lato si produce omologazione ma dall’altro diversità. Ed è questo a produrre le contraddizioni che stiamo vivendo.
La sfida che dobbiamo affrontare è proprio questa: il mondo si unirà solo se si democratizza nello stesso momento in cui si urbanizza. Ma il mondo si urbanizza riducendo le diseguaglianze. La storia ci mette il suo tempo, ma progressivamente riguarderà tutti gli esseri umani urbanizzati. Il senso della cosa comune non si è perso, ma deve allargarsi. Nel dirlo, so che sto considerando una scala temporale lunga: forse alcuni secoli, ma la storia corre più in fretta!
La METAFORA
DEL GRATTACIELO
di Marino Niola e Joseph Rykwert
«Lloyd Wright ne sognava uno alto un miglio. A Jedda sarà “solo” di mille metri La corsa a costruire i giganti urbani, simbolo dello squilibrio»
Una città non è mai una mera realtà fisica. È sempre una forma simbolica che incarna la visione del mondo di chi l’ha costruita nel tempo e di chi continua incessantemente a ricostruirla. Molte città antiche nascevano a immagine di un ordine celeste che veniva tradotto in disegno politico-religioso. Le metropoli contemporanee, invece, sono l’immagine spaziale della speculazione finanziaria, il business che prende forma urbana. Come dire che gli edifici sparati verso il cielo dalle archistar traducono in edilizia il sogno della crescita infinita.
Già la prima archistar moderna, Frank Lloyd Wright, proponeva nel lontano 1957, un grattacielo alto un miglio, la bellezza di 1600 metri. Il solo disegno era lungo sette metri! Ma c’è voluto più di mezzo secolo perché quest’idea diventasse realtà a opera dei finanziatori sauditi, che hanno deciso di investire a Jedda, punto di sbarco per i pellegrini della Mecca. Gli ingegneri, però, hanno ridimensionato quel sogno, limitando l’altezza della torre che buca il cielo a un solo chilometro. Duecento piani, cinquanta già costruiti. Ma la storia ci insegna che spesso queste ambizioni prometeiche hanno le gambe corte. Come è accaduto nel caso del Burj Khalifa a Dubai, che attualmente guida la hit dell’altezza abitabile. I lavori sono iniziati in un clima di ottimismo ma si sono conclusi in piena crisi finanziaria. E ancora prima il celebre caso dell’Empire State Building e del Chrysler di New York, incappati nel terribile crash del 1929. Viene da chiedersi se la torre di Jedda non finisca come quella di Babele, presagio di un altro disastro.
L’ingombrante struttura di questo colosso ostacola qualsiasi rapporto fisico con l’ambiente circostante. Le stesse presentazioni lo mostrano isolato e circondato, a distanza, da edifici infinitamente più bassi. Il mondo intero è tutto un pullulare di grattacieli ipertrofici: come la Torre Shanghai e il vicinissimo World Financial Centre, o le due torri Petronas a Kuala Lumpur e tante altre. Il risultato di questi enormi investimenti edilizi è una pletora di immensi palazzi di vetro e acciaio che fanno da vetrina lussuosa ed esclusiva ai marchi globali. Un’aura urbana scintillante e noiosamente uguale dappertutto. E nel contempo le politiche di molti Paesi, in particolare quelle cinesi, promuovono un’espansione urbana ipertrofica svuotando le campagne mentre delocalizzano l’agricoltura accaparrandosi immense distese di terra in altri continenti, soprattutto in Africa. Di fatto stiamo assistendo a una nuova forma di colonialismo.
In questo modo le città diventano emblemi di una mondializzazione economica e culturale che ha le sue nuove acropoli nei centri sempre più scintillanti e ostaggio delle multinazionali. Gli scarti vengono nascosti in anomici retrobottega della tarda modernità: che sono le periferie degradate e anche i Paesi-margine, discariche dove si concentra la tossicità planetaria, ecologica e sociologica.
In questo orizzonte oscuro si intravedono però barlumi di speranza. Qualche esempio: in Russia il collasso dell’agricoltura collettiva ha stimolato la crescita di imprese locali, persino familiari, dando vita anche a nuovi sistemi di distribuzione. Nei Paesi dell’Africa orientale, soprattutto in Kenya, cresce un’economia agricola di piccola scala, legata a un efficiente sistema di rifornimento delle città. Mentre in Ghana e in alcuni stati dell’America Latina si stanno affermando movimenti di self- help e di self- build. Sono modelli di sharing life che si diffondono anche in Italia. E vengono insegnati persino in certe scuole di architettura.
Flebili germogli di culture locali, eccezioni in uno scenario caratterizzato da una crescente carenza di risorse alimentari, conseguenza diretta dell’aggiotaggio di terre coltivabili da parte delle superpotenze. Forse l’unico antidoto per scongiurare questa minaccia apocalittica sarebbe di ritrovare, dov’è ancora possibile, un equilibro tra le città e i loro territori, prima che la proliferazione urbana diventi un flagello, una no man’s land dell’umano, una città di Caino. Che, non va mai dimenticato, è stato il primo fondatore di città.
CENTO SFUMATURE
DI PERIFERIA
di Carlo Olmo
«La città non è bipolare: il centro è diventato una scena teatrale allestita per il turismo, ma il resto del tessuto urbano è attraversato da molte identità»
Imbottigliato in un pomeriggio qualunque di un qualunque giorno feriale sul Boulevard Périphérique tra Porte de la Chapelle e Porte de Clignancourt, lo sguardo dal taxi si perde tra sedi di compagnie internazionali, residui di un’edilizia povera e simulacri ancora abbandonati di architettura industriale.
Non c’è in quest’esperienza condivisa con migliaia di parigini neanche la rabbia di Corinne e Richard in uno dei più noti piani sequenza del cinema: quello di Week End di Jean- Luc Godard. C’è solo una rassegnata attesa. In realtà di périphérique quell’anello ha solo il nome. Il paesaggio urbano attorno non porta tracce di quella distanza tra centro e faubourgs che fu la prima matrice di una parola, periferia appunto, ormai diventata un contenitore senza patria e genealogia.
Una parola che è nata in una cultura e a fronte di politiche che disegnavano e raccontavano una metropoli bipolare, costituita da un centro e da quartieri, borghi, faubourgs distanti, unicamente residenziali e quasi autonomi, ha perso quasi di senso. Quella metropoli forse così non è mai esistita, certamente oggi è profondamente diversa.
Convivono fianco a fianco nella stessa periferia parti progettate e realizzate, spesso nei diffamati anni Venti e Trenta, che recuperate e restaurate sono diventate esempi quasi didascalici di gentrification, capannoni un tempo industriali trasformati in loft che ospitano piccole industrie innovative o variegate forme di art publique, nuclei di emarginazione, povertà e segregazione sociale, possibili germi di radicalizzazione religiosa e politica. Oggi gli immaginari e lo stesso statuto scientifico della periferia sono in discussione. Ed è questa profonda diversità che è necessario indagare e rispetto alla quale mobilitare politiche non banali o superate prima ancora di… iniziare.
Si è periferici rispetto a un centro, ma anche il centro ha mutato la sua natura e le sue funzioni. Anne Clerval ha riassunto nel settembre 2013 questa nuova condizione urbana con un titolo brutale: Paris sans le peuple. E la sua analisi può essere, almeno in Europa, estesa a molte città: da Londra a Bruxelles, da Roma a Madrid, da Francoforte a Stoccolma o a Rotterdam. In questo contesto anche alcuni miti della pianificazione degli anni Venti e Trenta del Novecento hanno subìto, nel porto delle nebbie di una trasformazione urbana vagamente indicata come urban sprawl — le Siedlungen a Francoforte, i quartieri funzionalisti di Paul Hedqvist e David Dahl a Stoccolma — un processo di violenza sociale e simbolica.
Collocati volutamente lontani da centri che erano sinonimi di quella possibilità di incontro casuale che è la vera ricchezza della metropoli, negli ultimi quindici- vent’anni questi quartieri, inizialmente in nome di un altro mito delle politiche urbane rifomiste, la mixité sociale e funzionale, hanno subìto una valorizzazione patrimoniale che ha sfruttato il loro ormai acquisito valore simbolico per mutarne funzione e struttura sociale. L’arrivo di popolazioni più ricche, in grado di investire per riabilitare architetture, da espediente per rigenerare quartieri in abbandono è diventato il fine di operazioni non solo immobiliari. Il caso del quartiere Le Corbusieriano di Pessac nell’allora periferia di Bordeaux, testimonia quali conflitti tra associazioni di proprietari si possano attivare sull’appropriazione di architetture simboliche e sul significato stesso della loro originalità.
E questo avviene mentre i centri delle città diventano sempre più scene di rappresentazione ( della storia della città e dei suoi cittadini illustri) per un turismo globalizzato che trasforma la storia in un valore aggiunto di una narrazione necessariamente semplificata e funzionale a un consumismo turistico che ha in Belleville — nella periferia parigina — e in Kreuzberg, a Berlino, due esempi sin troppo iconici. La patrimonializzazione è allora l’ennesima espressione delle Gorgoni dell’urbanistica contemporanea in epoca neoliberale?Oggi in realtà un’altra, storica funzione urbana sta mutando: il processo di continuo filtering che la città opera nei confronti dei ceti sociali più deboli è entrato in crisi, come per altro tutte le forme di mobilità sociale.
La rigidità di questo nuovo funzionalismo di mercato è in realtà reso più estremo dal consumo turistico e di residenza occasionale dei cosiddetti centri storici: oggi persino il Café de Flore, luogo di incontro preferito di Sartre, Camus, Queneau nel Quartiere Latino è entrato nei tour delle più ricercate agenzie turistiche. Tutta l’architettura che ha una storia (antica o novecentesca) entra nell’orbita di una visione mordi e fuggi della città e di una residenza brutalmente distribuita secondo le regole di un mercato tutt’altro che impersonale e che usa simboli, valori storici, persino architetture autoriali, per differenziarne uso e destinazioni.
La periferia che non entra in questo processo di patrimonializzazione esiste: è la periferia che in Francia si chiama pavillonnaire e nei Paesi anglossassoni della residenza back to back.
Quelle strade costruite da case di un piano fuori terra tutte eguali o da case unifamiliari, divise solo da un muro o da un minuscolo cortile. Proprio quell’architettura che era la forma estrema dell’individualismo Hobbesiano o se si vuole una delle figure fondamentali dell’individualità abitativa, con un paradosso quasi blasfemo resta al di fuori dal nuovo funzionalismo di mercato e contemporaneamente offre alle diverse forme di marginalità ospitalità e protezione. Se a Londra esistono quartieri come Enfield e Ponders End, luoghi privilegiati di disordini sociali e etnici sin dal 2011, questi sopravvivono anche perché in quelle architetture si può scomparire come nelle soffitte della Parigi del secondo Settecento raccontate da Daniel Roche in Le peuple de Paris.
Il nuovo funzionalismo ha bisogno di questi spazi in cui le regole informali non creano solo disagio. Studiando Saint- Denis e Aubervilliers (diventati dopo il Bataclan quasi sinonimo di classes étrangères et lieux dangereuses, facendo il verso a un famosissimo testo dello storico francese Louis Chevalier), Marie- Hélène Bacqué e Yves Sintomer avevano offerto, già nel 2001, le chiavi per decifrare quelle che loro chiamavano affiliations et désafilliations: parole che diversamente declinate diventeranno autentiche ossessioni. Quelle che è improprio persino chiamare periferie generano oggi forme di solidarietà e di condivisione, non solo di esclusione: e richiedono, per poter essere raccontate, immaginari molto diversi.
Nel 2015 due studiose di Oxford, Juliet Carpenter e Christina Horvath curano un testo — Regards croisés sur la banlieue — esito di ricerche e di un seminario del 2013. Le tesi che quel libro sostiene riguardano la forza delle narrazioni e l’inesistenza di forme narrative che nascano dagli abitanti delle periferie, in grado di mettere in discussione equazioni ormai quasi ossessive, spesso tradotte in politiche profondamente semplificatrici: periferia e degrado, banlieue e marginalità, suburbia e violenza. Gillian Jein racconta invece l’evoluzione dei quartieri parigini lungo il Canal de l’Ourcq che segna la banlieue nord di Parigi, attraverso i volti delle persone che li hanno abitati dal dopoguerra.
Da dove allora ricominciare per parlare di politiche urbane?
Escono in questi anni libri in ogni lingua su quelle aree urbane che con un’immagine che è restata la più affascinante, Sébastien Mercier già nel 1781 chiamava Jardins du Soubise: quelle aree delle metropoli, residuali e interstiziali in cui le regole sociali che gestivano quegli spazi erano del tutto informali. Oggi con l’ennesimo paradosso quelle aree sono indicate come gli spazi pubblici della città contemporanea da cui ripartire con politiche di ricucitura urbana sociale: le aree del nuovo progetto pubblico, come sottolinea nelle sue conclusioni del recente Spazi che contano Cristina Bianchetti.
Paolo Grossi racconta — vale la pena richiamarlo — già nel 1992 come in realtà privato e pubblico siano una costruzione sociale ottocentesca. Oggi forse ripensare quali siano gli spazi che contano potrebbe almeno evitare di farne un sinonimo di spreco, rischio e spesso di corruzione. La scena della riesumazione delle salme dal vecchio Cimitero Flaminio di Prima Porta in Sacro GRAL forse meglio di tutte aiuta a restituire gli scheletri negli armadi che parole come periferia si portano dietro e a iniziare davvero un’altra narrazione. Su questa base, sulla base cioè di una capacità di non ridurre la realtà a immagini semplici e ovviamente comunicative si possono avviare politiche che valorizzino processi già in atto, come quelli che hanno popolato il porto di Marsiglia e quello di Porto, non più di vent’anni fa impraticabili, di una vita sociale impensata. Quelli che erano luoghi in cui non si poteva entrare, oggi sono laboratori sociali, artistici, scientifici.
COM'È INIQUA
LA CITTÀ LIBERAL
di Ross Douthat
«Le metropoli fanno grande l’America o sono isole di privilegio per l’élite?»
L’era di Trump ha spinto alla riflessione la nostra élite — nottate passate a leggere Elegia americana per lo più, — ma ha anche sollevato un’ondata di orgoglio cosmopolita. Alla promessa elettorale di Trump di fare l’America di nuovo grande, Hillary Clinton rispondeva dicendo che l’ « America è già grande » , intendendo dinamica, multiculturale, tollerante e orientata al futuro, tutte caratteristiche che Trump sembra rifiutare e che paiono spaventare i suoi elettori.
Il concetto che l’America sia già grande è stato ribadito in molte sedi dall’élite e la settimana scorsa Will Wilkinson del Niskanen Center, sul Washington Post, ne ha dato una motivazione precisa: a far grande l’America sono le sue grandi, fiorenti città liberali. Secondo Wilkinson, Trump ama denigrare le metropoli americane, dandone immagini da incubo, stile Il giustiziere della notte o Quel pomeriggio di un giorno da cani perché il nostro presidente sente il bisogno di “diffondere l’idea che la metropoli poliglotta sia un pericoloso fallimento”. In realtà invece le nostre città sono effettivamente già grandi: più sicure che mai, ricche culturalmente, dense di innovazione politica, motori del nostro futuro economico. Sono sempre più luogo di aggregazione di immigrati e laureati che, grazie alla cooperazione e allo scambio, associano le competenze producendo innovazione, mentre l’entroterra trumpiano marcisce nell’astio e nella nostalgia.
Mi permetto di dissentire. È vero che per molti dei loro abitanti, in particolare i giovani e i più abbienti, le nostre città progressiste sono luoghi piacevoli in cui lavorare e divertirsi. Ma pur essendo multiculturali sotto certi aspetti, per altri sono segregate, a partire dalle cosiddette whiteopias (utopie per bianchi), a maggioranza di popolazione bianca, come Portland, fino alle città balcanizzate, come la capitale o Chicago. Se sono dinamiche è pur vero che sono talmente ricche — e rigidamente vincolate sotto il profilo urbanistico — che la classe media non può permettersi di abitarvi e all’interno dei loro confini le nascite sono in calo.
La loro rapida crescita è spesso legata ai finanziamenti pubblici e alle tutele garantite secondo il principio del “troppo grande per fallire”; sono capitali di innovazione ma in una forma che genera meno posti di lavoro rispetto allo sviluppo tecnologico del passato. Se producono un certo fermento intellettuale è anche vero che sono il recinto della nostra intellighenzia progressista e in realtà hanno indebolito il liberalismo, concentrandone i voti.
Davvero l’apogeo di questi agglomerati meritocratici ha fatto più grande l’America? Secondo me no. Nell’era della città liberale — che coincide, si può dire, con la ripresa urbana degli anni Novanta — la crescita economica si è indebolita, l’inadeguatezza politica si è aggravata, e il progresso tecnologico al di fuori del settore online ha subito un rallentamento. Il liberalismo è diventato più tronfio e fuori dalla realtà; il conservatorismo più anti-intellettuale e buffone.
La genialità della coscienza collettiva prodotta dalla concentrazione delle intelligenze migliori ci ha dato fantastiche app e qualche programma televisivo di cui fare indigestione, ma gli anni 2000 e 2010 non sono esattamente paragonabili al rinascimento fiorentino.
Veniamo a una delle mie proposte inverosimili se non addirittura ridicole: dovremmo trattare le città progressiste come i progressisti trattano i grandi monopoli — non come fonte di crescita, ma alla stregua di concentrazioni di ricchezza e potere che cospirano contro il bene pubblico. E invece di tentare di renderle più egualitarie grazie a vincoli urbanistici meno rigidi e a un’edilizia più accessibile, dovremmo seguire l’esempio di Teddy Roosevelt e cercare di farle a pezzi. Partiamo con la cosa più semplice: prendiamo gli uffici del governo federale, oggi concentrati nel vampiresco agglomerato urbano della Greater Washington D.C., e dislochiamoli in stati più poveri e in città più piccole, che hanno bisogno di essere rivitalizzate.
Ma fare a pezzi Washington servirebbe a poco. Per questo andremo oltre, a partire dalle ricche università d’élite. Tasseremo pesantemente le loro donazioni offrendo invece esenzioni agli atenei che espandono il loro corpo studentesco con sedi satellite in aree dal reddito ben inferiore alla media. Il Mit a Flint suona bene. E lo stesso vale per Stanford-Buffalo, o Harvard sul Mississippi. Una tassazione analoga si applicherebbe alle grandi organizzazioni senza scopo di lucro: per ottenere l’esenzione fiscale totale bisogna dar prova di impiegare personale in stati e città a basso reddito. La Federal Trade Commission (Ftc) dovrebbe considerare la concentrazione geografica di un’impresa come indicatore di monopolio, approvando fusioni nell’ottica di disseminare l’occupazione.
Traduzione di Emilia Benghi
NEL VILLAGGIO DEI “RURBANI”
di Fabrice Lardreau
«Bruère-Allichamps è al centro esatto della Francia: qui è possibile capire il sentimento di abbandono di chi vive in provincia. Parigi è a 275 chilometri: ma per chi ci abita è molto più lontana»
Conoscete Bruère- Allichamps? Probabilmente no. Eppure questo comune di seicento abitanti, nel dipartimento dello Cher, è considerato come l’esatto centro geografico della Francia. L’ho scoperto nel 1976 — all’età di dieci anni — grazie a L’argent de poche di François Truffaut. L’incipit del film ha affascinato la mia mente infantile: lo spettatore scopre un bar e poi una piazza piantata nel bel mezzo di una strada statale, ove troneggia una colonna in pietra sormontata da una bandiera tricolore, a simboleggiare il centro del Paese.
A quarant’anni di distanza, quest’immagine continua ad affascinarmi. Attraverso le sue prospettive e il gioco d’insieme dei suoi elementi, mi sembra dotata di una geometria perfetta, come un qualcosa che trovi la sua collocazione. L’immagine di una nazione? Ma quale? Sono venuto qui per incontrare gli abitanti e cercare di comprendere cosa significhi vivere al “ centro esatto” della Francia… E devo dire, senz’ombra di ironia, che per me questo viaggio di duecentosettantacinque chilometri da Parigi a Bruère-Allichamps è stato, in assoluto, il più istruttivo e toccante che abbia fatto finora.
Al tempo di internet, in un’epoca ricca come mai in passato di mezzi d’informazione e comunicazione, è impressionante scoprire quante cose si ignorano del proprio Paese. I miei incontri con gli abitanti mi hanno permesso di tratteggiare, come in un assemblaggio di dati cartografici e umani, un ritratto di quello che si è soliti definire il “francese medio” — ma preferisco il termine di “mediano”. In contrasto con l’immagine di arroganza — a volte giustificata — che i miei connazionali veicolano all’estero, ho incontrato uomini e donne prudenti, di una profonda semplicità. Un po’ chiusi e inizialmente diffidenti, i miei interlocutori hanno dimostrato un’affettuosa, commovente generosità.
Come hanno sottolineato tutti gli abitanti più anziani, Bruère- Allichamps, che pure possiede un ricco patrimonio storico e un tessuto associativo dinamico, è diventata una «città dormitorio». In questo comune rurale prevale ormai l’anonimato delle grandi città. «Le giovani coppie che vengono a vivere qui non cercano più di integrarsi, bastano a se stesse » , mi hanno spiegato. « Non c’è più l’interesse di prima per la vita del villaggio. Non siamo neanche più veramente in campagna… ». Si tratta di un fenomeno specifico della Francia?
Bruère- Allichamps è emblematica di una mutazione fondamentale della nostra società, iniziata una ventina d’anni fa: questo villaggio fa parte di quella che recentemente il geografo Christophe Guilluy ha definito “ la Francia periferica”. Contrariamente alla Bourgogne in cui sono cresciuto negli anni Settanta, popolata di agricoltori e allevatori, le campagne di oggi sono abitate per lo più da famiglie operaie o provenienti dai ceti popolari. Cacciate dalle città dove il costo della vita è divenuto esorbitante, si sono spostate oltre le banlieue, nelle zone “ periurbane”.
Per questi cittadini di tipo nuovo si è coniato il termine rurbain (rurale e urbano). Il rurbain francese vive nel verde ma lavora in città. Da questo punto di vista Bruère-Allichamps è esemplare. Nel 2012 gli operai rappresentavano il quaranta per cento della popolazione attiva, e gli agricoltori… lo zero per cento. Gli abitanti lavorano per lo più nelle città di Bourges, Montluçon o Vierzon, e si fanno anche centocinquanta chilometri al giorno per recarsi al lavoro.
In questi spazi periurbani vive oggi quasi l’ottanta per cento dei ceti popolari. Si è colpiti dal constatare fino a che punto questa nuova cartografia sociologica coincida con quella elettorale. Di fatto, è in questi territori che da una quindicina d’anni l’estrema destra ha registrato un’avanzata spettacolare. Il primo turno delle presidenziali conferma l’immagine — a somiglianza degli Stati Uniti di Trump o dell’Inghilterra della Brexit — di un Paese scisso tra città e campagna. A Bruère-Allichamps, il 23 aprile Marine Le Pen (il cui partito aveva totalizzato il quaranta per cento dei voti alle regionali del 2015) è arrivata in testa col ventinove per cento; mentre nel mio comune di Bourg-la-Reine, alle porte di Parigi, è rimasta al… cinque per cento.
Come siamo arrivati a questo punto? Per molto tempo ho fatto parte di quella popolazione urbana che non comprendeva, o non voleva comprendere questo fenomeno, immaginando la campagna come l’avevo conosciuta trentacinque anni fa: prospera, agreste e ( relativamente) protetta. Oggi quei ceti popolari, colpiti in pieno dalla crisi della deindustrializzazione, privati di trasporti, strutture commerciali e servizi pubblici, vivono una sensazione profonda di abbandono, che l’estrema destra ha saputo canalizzare.
A Bruère-Allichamps non ho percepito risentimento nei riguardi della capitale, ma un’impressione di distanza. «Parigi è lontana», mi hanno detto, «è all’altro capo del mondo». Come se vivessimo in due Paesi diversi, separati da una frontiera, che non comunicano più tra loro. Credo sia tempo di riprendere il dialogo in Francia. Ci si accontenta troppo spesso di stereotipi riduttivi, a tutto vantaggio dei promotori dello scontro: da un lato i “ bobos intellos”, gli intellettuali radical chic, dall’altro i “ ploucs”, gli zotici ignoranti. L’elezione di Macron deve segnare l’inizio di un lavoro urgente e colossale: riconciliare questi due Paesi — il mio Paese.
Traduzione di Elisabetta Horvat
LA PADANIA VISTA DALL'OBLÒ
di Marco Belpoliti
«Centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati: è la più grande città estesa d’Italia. Racconto di un tour in pullman da Lambrate all’autostrada fantasma, fino a Roncadelle, patria di tutti i megastore: dodicimila metri quadrati ogni mille abitanti. È il record europeo»
Oggi si va a vedere la Padania, conglomerato urbano, città diffusa e metropoli molecolare, composta di centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati. Il pullman ci attende. Sul fianco la scritta “ Brescia Trasporti”. È fermo sul piazzale posteriore della stazione di Lambrate. Una piccola folla s’è radunata intorno: artisti, fotografi, architetti, giornalisti, scrittori. Tutti con lo zainetto. Siamo una quarantina. Appena aprono le porte dell’autobus saliamo e in breve tutti i posti sono occupati. Sono qui per la “Gita aziendale 2017” dei “ Padania Classic”. Mi sono prenotato via internet rispondendo all’email di Filippo Minelli, fotografo: “ 1 aprile 2017, faremo giro turistico in bus alla ricerca di quello che siamo diventati, una giornata paradossale sull’identità partendo dalla lettura del paesaggio contemporaneo”.
Pesce d’aprile? Ho ricevuto il programma del “ Tour del disastro”, “ricognizione collaborativa sul territorio della MacroRegione”. Si va e in breve entriamo nella tangenziale di Milano. Al microfono Filippo illustra il percorso. Ci hanno distribuito shopper con taccuino, penna sponsorizzata, macchina fotografica usa- e- getta, depliant con il percorso. Vi leggo una poesia, Ode al parcheggio: “Grazie parcheggio per essere così ampio,/ per darci la possibilità di scegliere dove stare/ con la certezza di un approdo sicuro”. Eccetera.
Due anni fa Minelli, Federico D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi hanno pubblicato un libro di settecento pagine intitolato Atlante dei Classici Padani ( Krisis Publishing). Contiene un’esplorazione visiva del nuovo paesaggio della Padania, che s’estende dai confini del Piemonte sino alle pendici dei Colli Euganei. Dentro Lombardia, Emilia, Romagna e Veneto.
Uno spazio fotografato palmo a palmo: cantieri, cave, discariche, monumenti, villette, supermercati, cartelloni, insegne, cascine, condomini, giardini, trattorie, bar, paninoteche volanti, luna park, centri sportivi, parchi acquatici, discoteche, centri massaggi, sexy shop, night club, chiese, e altro ancora. Spazio devastato e insieme vitale, dove abita quasi un terzo della popolazione italiana, dove le case monofamigliari s’alternano agli stabilimenti e ai villaggi artigiani, dove abbondano cavalcavia, viadotti, raccordi autostradali, il tutto tra filari di viti e campi di granoturco, mentre intorno appaiono discariche abusive, inceneritori, fabbriche abbandonate, muraglioni di cemento, gru, pannelli antirumore.
Il pullman procede sicuro lungo la colonna portante della Macro Regione: la A4, la Grande Madre della Padania. Fatto qualche chilometro, dopo aver superato il torracchione con i ripetitori di Mediaset, usciamo a Vimercate. La prima tappa è il Centro commercicale Mega degli anni Ottanta, precursore di questa tipologia di sviluppo. Siamo in una zona di condomini e il superstore è in realtà una piccola costruzione intorno a una cupola centrale. Colgo brani della conversazione tra due partecipanti, probabilmente architetti: « Questo è uno dei primi centri commerciali. Sembra minuscolo in confronto a quelli che sono venuti dopo. Hai notato la cupola e le colonne? Tutti questi supermercati hanno qualcosa del tempio classico o della chiesa. Passeggiare e fare acquisti».
Si va a Zingonia, città utopica fondata da Renzo Zingone, imprenditore romano, in provincia di Bergamo. Cinquantamila gli abitanti previsti. Hanno edificato capannoni industriali, torri residenziali, villette, un centro sportivo, cinema, hotel, ospedale, chiesa. Sono arrivate solo poche migliaia di persone. Oggi le torri giacciono in uno stato di degrado, abitate da una popolazione multicolore d’immigrati. A breve saranno demolite. Puntiamo sulla chiesa bunker con lunghi scivoli d’ingresso in cemento. Seguo i due architetti. Commentano: « Non è poi male. Un progetto di Vittorio Sonzogni. Le Corbusier in salsa padana».
Tutti in corriera. Si riparte. Di nuovo imbocchiamo l’autostrada. Siamo nel cuore pulsante del Paese, a destra e a sinistra una fila ininterrotta di fabbriche, impianti industriali, aziende, depositi. Qui si produce. All’improvviso compare la colonna di Giuseppe Gambirasio, torre dell’acqua a forma di colonna dorica che svetta nella campagna di Osio. I due architetti dietro di me: « Conosci la Colonna Desman che stanno per costruire vicino a Mira? Alta trecentodieci metri, quattordici di meno della Torre Eiffel. Un progetto pazzesco. Dovrebbe servire a rilanciare il turismo nella zona » . M’intrometto: « Perché la costruiscono? A cosa serve? » . « Alla gente piace salire in alto», mi risponde quello con la barba.
Il pullman ha raggiunto Orzinuovi e il centro commerciale che visiteremo. L’ingresso al paese è desolante. Sembra vi sia stata un’esplosione. Molti edifici sono abbandonati. La cattedrale è Ocean Park, progetto abortito. Dietro al centro commerciale ancora in funzione, c’è una sorta di gemello colorato: rovina piranesiana in stile neomodernista. Entriamo passando da un varco nella rete e qui, davanti al rudere, risultato di un crac immobiliare, posiamo per la rituale foto di gruppo. Ho perso di vista i due architetti, e non posso ascoltare la loro conversazione. È ora di pranzo e siamo diretti al Sushi Wok, ristorante a gestione orientale, dove ci accomodiamo. La sala non ha alcuna finestra che permetta di guardare fuori. La compagnia è allegra; il cibo mette tutti di buon umore. Mi siedo al tavolo con Filippo e uno studioso catalano, un fotografo, forse un architetto, che a Barcellona sta mappando il territorio. Si mangia e si beve piatti ibridi cucinati nel rituale tegame: cucina padano- cinese.
Ci attende lo Strip di Roncadelle, comune alle porte di Brescia: novemila abitanti con centri commerciali enormi. Annunciano al microfono i dati: dodicimila metri quadrati di megastore ogni mille abitanti. Record europeo. I due architetti si sono seduti in fondo al torpedone. Non riesco a raggiungerli. Converso con un giovane studioso. Riflettiamo su questo territorio. « Sembra un campo subito dopo la battaglia » , mi dice. « Quale? » , chiedo. « Quella che si è combattuta negli anni dell’inarrestabile sviluppo economico veneto- lombardo » . « Cosa resterà di tutto questo? » , chiedo. « Piuttosto: cosa descriverà lo zeitgeist padano di questi anni irripetibili? » , dice lui.
Andiamo dritti verso l’Autostrada Fantasma, com’è chiamata sul depliant del viaggio, un tratto autostradale detto l’Elastico, che doveva raccordare la circonvallazione di Brescia e l’autostrada A4. Scendiamo e abbracciamo ritualmente i piloni di cemento che si ergono solitari nel vuoto di questa campagna.
Mentre il pullman cerca l’imbocco di un’altra autostrada fantasma, la BreBeMi, uno dei viaggiatori, uno sconosciuto seduto proprio dietro di me, racconta la storia della ragazza fantasma. « Nel dicembre del 1999 alle 5.20 del mattino una ragazza bionda fu investita su uno svincolo autostradale dalle parti di San Pelagio, verso Venezia, A13. La stessa ragazza fu vista in altri luoghi autostradali: uno svincolo della A1 vicino a Parma, poi a San Giuseppe nei pressi di Brescia. Le fu dato un nome: Melissa. I guidatori che credevano d’averla travolta, s’incontrarono in una trattoria della zona di Brescia, per parlare dell’apparizione». Di colpo sono dentro le storie dei Narratori delle pianure di Gianni Celati, lo scrittore che negli anni Ottanta ha raccontato quello che oggi appare un luogo comune: le campagne appaiono simili alle periferie urbane delle città, luoghi abbandonati, devastati, sfigurati.
Siamo prossimi alla fine del viaggio. Tardo pomeriggio. Percorriamo la BreBeMi, superstrada che collega la campagna bresciana a quella milanese.
Non c’è nessuno. Solo qualche rara automobile. Non un distributore di benzina, non un punto di ristoro. Siamo nel nulla, un nulla che a forza di percorrere questa landa m’è entrato dentro. Cado preda del sonno. Mi risveglio quando arriviamo nel piazzale della stazione di Lambrate. Sarà stato tutto un brutto sogno?
Richard Burdett, urbanista, insegna alla London School of Economics, ha curato i progetti per le Olimpiadi del 2012 e, ancor prima, la Biennale architettura del 2006 che, come l’ultima di Alejandro Aravena, ha raccontato che cosa si fa nelle periferie di tutto il mondo per alleviare disagio, diseguaglianze, esclusione sociale. « Negli ultimi quindici anni è cresciuta la sensibilità di architetti e urbanisti verso questi temi. Parlo, ovviamente, di architetti e urbanisti che non si preoccupano solo di allestire quartieri di villette. Inoltre si è sviluppata una proficua collaborazione con amministratori locali ».
Un estremo appello alla ragione rivolto ai decisori da alcune personalità che affidano la forza della loro richiesta ad argomenti e non a lunghe liste di adesione e neppure miraggi di consensi elettorali
Al presidente del consiglio, on. Paolo Gentiloni, alla presidente della Camera dei Deputati, on. Laura Boldrini, ai presidenti dei gruppi parlamentari
Nei prossimi giorni andrà in discussione, in seconda lettura, alla Camera dei Deputati il disegno di legge Falanga così intitolato: “Disposizioni in materia di criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi”. In realtà questo provvedimento è di una gravità inaudita perché rischia di legalizzare in modo permanente l’abusivismo con effetti futuri permanenti. Gli immobili abusivi, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, purché abitati o utilizzati, saranno salvi a partire anche dalle aree sottoposte a vincolo ambientale ed archeologico.
Gli edifici che si trovano nelle aree sottoposte a vincolo ambientale, archeologico, idrogeologico, del demanio, che costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità o che sono nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa, saranno demoliti secondo questo ordine:
1 - prima quelli in corso di costruzione o non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado
2 - poi quelli non stabilmente abitati.
La legge prevede una somma di 10 milioni di euro annui per gli abbattimenti.
Le demolizioni con questa futura legge saranno fermate per due ordini di motivi:
1) perché la cifra stanziata per le demolizioni è sufficiente per eseguirne 130-140 all’anno
2) perché buona parte delle case sono abitate e quindi saranno in coda alle priorità stabilite dalla legge e perciò mai demolite.
Ma l’aspetto più grave della legge è che la sua applicazione non ha un limite di tempo. Questo significa che tra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità.
Altro aspetto grave è che si fermeranno le demolizioni gli immobili abusivi stabilmente abitati, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, anche nelle aree protette, con vincolo ambientale e idrogeologico perché la legge prevede di mettere per ultimi questi casi.
Invece di approvare norme più stringenti per demolire sul nascere l’abuso e per commissariare quei comuni, anche con lo scioglimento dei consigli comunali, che non sono rigorosi o nell'adottare strumenti urbanistici o nell’eseguire le demolizioni, si è scelta una strada assurda come quella di fermare le ruspe dietro l’alibi delle priorità e dell’inesistente abuso di necessità.
I sottoscritti e le sottoscritte firmatari/e dell’appello chiedono:
1) ai presidenti dei gruppi parlamentari e alla presidente della Camera dei Deputati di non procedere alla calendarizzazione in aula del disegno di legge Falanga, ed in ogni caso a non concedere la legislativa.
2) al presidente del consiglio on. Paolo Gentiloni di trasformare il disegno di legge in oggetto in Decreto Legge con l’eliminazione del comma 6 bis) dell’art. 1 che è la norma che consente il blocco delle demolizioni degli immobili nelle aree vincolate e prevedendo in aggiunta che la norma di acquisizione al patrimonio pubblico degli immobili abusivamente realizzati sia resa efficace.
Tomaso Montanari, Angelo Bonelli, Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Gianfranco Amendola, Giovanni Losavio, Edoardo Salzano, Sauro Turroni, Vezio De Lucia, Fabio Balocco, Luana Zanella, Domenico Finiguerra, Giuseppe Civati, Loredana De Petris, Felice Casson, Filiberto Zaratti, Annamaria Bianchi, Marco Furfaro.
«Il povero automobilista, inquinatore e ingombrante sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. La conquista della città da parte dei ciclisti sarà il tratto dominante di questo secolo». la Repubblica Robinson, 14 maggio 2017 (c.m.c)
Ammiro la determinazione dei giovani che ogni mattina, sotto casa mia, armeggiano intorno al parcheggio dei vélib’ (il bike sharing parigino), prima di lanciarsi nella ressa di automobili che continuano a stiparsi lungo le grandi arterie della capitale francese. Ci vuole costanza e coraggio per navigare in mezzo alle macchine, e per non tremare, nelle corsie riservate a loro ma anche ad autobus e taxi, quando vengono superati dai mastodonti della Ratp, guidati per fortuna da esperti molto qualificati. Forse sperano che gli irriducibili del volante alla lunga finiranno per scoraggiarsi e la smetteranno di prendere l’auto anche per fare spostamenti minimi in città, perfino quando i trasporti pubblici consentirebbero loro di giungere più facilmente a destinazione.
Quando quel giorno verrà, si troveranno in una situazione più invidiabile: quella, per esempio, dei ciclisti berlinesi. A Berlino le automobili sono meno numerose e la città è più grande; i ciclisti la fanno da padroni e a volte lo fanno sentire ai malaugurati pedoni. Regnano sulla carreggiata, ma anche sui marciapiedi, e bisogna sempre stare in guardia quando, umili pedoni, si va in giro a fare compere o una passeggiata all’aria aperta. Anche in questo campo, la presa del potere comporta spesso eccessi e abusi.
Comunque sia, a mio avviso, la conquista della città da parte delle biciclette sarà il tratto dominante del secolo in corso, insieme allo sviluppo dei trasporti pubblici. Il povero automobilista sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. Inquinatore e ingombrante, egoista e malmenato dalle vessazioni poliziesche, si rassegnerà progressivamente a fare del suo veicolo uno strumento riservato alle vacanze.
Appena comincerà a dare qualche segnale di debolezza, la bicicletta farà un balzo in avanti. Verranno rimarcati i suoi benefici: niente più inquinamento, scomparsa del frastuono dei motori e degli ingorghi che riducono, di fatto, la libertà di circolazione. Verranno sottolineati i suoi progressi tecnici, e in particolare il suo piccolo motore elettrico, invisibile e silenzioso, che le malelingue insinuano abbia aiutato certi ciclisti professionisti a valicare con maggior facilità i colli più impervi. Restituirà ai più anziani le gambe dei vent’anni e verranno aggiunte al mezzo, all’occorrenza, una o due ruote supplementari per garantire equilibrio in ogni istante.
Sono in corso ricerche, a quanto si dice, per fabbricare macchine volanti. Non osiamo immaginare cosa sarebbero gli ingorghi nel cielo urbano, e il ruolo dei vigili dell’aria per regolare la circolazione sopra le nostre teste. È concepibile, in compenso, che la circolazione aerea in città sia riservata a certe funzioni necessarie, di approvvigionamento delle cose essenziali, e che le carreggiate urbane, lo spazio cittadino, diventino il luogo esclusivo della circolazione in bicicletta: i grandi trasporti su in aria e in basso le biciclette!
Tutto concorre alla moda della bicicletta: l’attenzione per l’ecologia, il culto del corpo e la voglia di sembrare giovani. Aggiungerei anche: la centralità dell’individuo. La bicicletta è lo strumento sognato della libertà individuale: permette di reinventare i propri itinerari e di trovare scappatoie luminose nella routine del quotidiano.
Oggi tutto ci invita a riesaminare il concetto di individualismo. La pratica della bicicletta è, in questo senso, una risposta concreta a una domanda politica (la libertà individuale è possibile?) che ha un fondo filosofico (che cos’è la libertà? Che cos’è un individuo?). Inforcare la propria bici è rispondere a questi interrogativi, o riformularli efficacemente. Non dimostrare il movimento camminando, ma sperimentare la libertà pedalando. Libertà relativa allo spazio (vado dove mi pare, mi avventuro dove voglio). E libertà relativa al tempo (chi non rievoca, quando va in bici, la sua infanzia e adolescenza?).
Ma nonostante tutto questo, la pratica della bicicletta non condurrà a un individualismo egoista e sfrenato. Come la pratica dello sport in generale, permette di misurare le proprie forze e rispettare gli altri. Inoltre ha una sua storia e i suoi miti, le sue figure leggendarie (Fausto Coppi fu l’eroe della mia infanzia, ed è merito suo se sono scampato già in tenera età allo sciovinismo), e il successo popolare di competizioni come il Giro d’Italia e il Tour de France testimonia l’attaccamento di molti all’immagine che propongono di qualche minuto di verità umana.
Al di là degli aspetti, commerciali e di altro genere, che tendono a offuscare questa immagine, le persone che si accalcano sulle strade per incoraggiare i corridori rendono omaggio a uno sforzo di cui riconoscono il valore. Permettetemi una confidenza: problemi di equilibrio mi impediscono da qualche tempo di usare la bicicletta, soprattutto in una città come Parigi. Guardo con una punta di invidia i ciclisti che si intrufolano nel traffico: mi ricordano le mie corse folli e solitarie nella Bretagna degli anni Cinquanta. Ho la sensazione che abbiano rappresentato un apprendistato, che mi abbiano insegnato a guardare gli altri, a osservare i paesaggi e a sentirmi solo e al tempo stesso solidale.
Non voglio dire, naturalmente, che facessi queste riflessioni quando avevo quindici anni. Ma sono convinto che esprimono qualcosa del mio stato d’animo di allora. In ogni caso è la ragione per cui oggi parlo di quei giorni lontani senza nostalgia: se un giorno risalirò su una bicicletta, anche solo per un minuto, saprò, per intima convinzione, come i giovani che vedo partire la mattina sulle loro bici a noleggio, e come scoprivo un tempo sulle strade della Bretagna, che la vita è sempre davanti a noi, sempre a venire.
«Una volta bastava sterminarli ma oggi, per togliere di mezzo le popolazioni che vivono nei territori necessari all’avanzata del “progresso”, certi mezzi non usano più». comune-info.net, 17 maggio 2017 (p.d.)
«Una proposta di legge dei verdiniani sottoscritta da un’ampia maggioranza allontana le ruspe dai fabbricati, basta dimostrare che siano abitati. Solo in Campania sono 70 mila». il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)
il Fatto Quotidiano
ABUSI EDILIZI, VERDI: “MATTARELLA E GRASSO FERMINO
LA LEGGE CHE LI LEGALIZZA E FERMA LE DEMOLIZIONI.
È PEGGIO DI UN CONDONO”
Un provvedimento “di una gravità inaudita”, che «legalizza in modo permanente l’abusivismo con una portata peggiore del condono edilizio dal punto di vista dei suoi effetti futuri». E’ il giudizio dei Verdi sul disegno di legge che fissa i «criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi», che il 18 maggio arriverà in aula al Senato. Il coordinatore nazionale Angelo Bonelli e il responsabile territorio e paesaggio Sauro Turroni lanceranno il 16 maggio un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Senato Pietro Grasso perché la legge, che ritengono presenti «vari profili di incostituzionalità», sia fermata e non venga promulgata.
Secondo i Verdi il ddl, primo firmatario l’ex senatore di Forza Italia passato ad Ala Ciro Falanga, «produrrà effetti di continue violazioni di legge» perché «introduce l’abusivismo di necessità e le case abitate non saranno abbattute perché collocate per ultime nell’ordine di priorità anche se si trovano in zone vincolate dal punto di vista ambientale e idrogeologico».
In testa alla lista delle priorità degli abusi da demolire ci sono gli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su area demaniale o in zona soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico o a vincolo sismico o a vincolo idrogeologico o a vincolo archeologico o storico-artistico, quelli che costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità e quelli sottratti alla mafia perché nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa o di soggetti colpiti da misure di prevenzione. Tuttavia all’interno di ognuna di queste categorie sono stabiliti ulteriori gradi di priorità. Gli edifici saranno demoliti secondo questo ordine: prima quelli in corso di costruzione o non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado, poi quelli non stabilmente abitati e infine quelli abitati.
Per ciascuna delle 3 sopra dette categorie i Procuratori della Repubblica detteranno i criteri di priorità che dovranno tenere conto delle specificità del territorio di competenza, attribuendo la priorità, di regola, agli immobili in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati. Infine, per gli abbattimenti vengono stanziati 10 milioni di euro l’anno, a fronte di un costo di circa 80mila euro a demolizione.
«Le demolizioni con questa futura legge saranno fermate per due ordini di motivi», si legge nell’appello. «Perché la cifra stanziata per le demolizioni è sufficiente per eseguirne 130-140 all’anno e perché buona parte delle case sono abitate e quindi saranno in coda alle priorità stabilite dalla legge e perciò mai demolite. Ma l’aspetto più grave della legge è che la sua applicazione non ha limiti di tempo a differenza dei condoni. Questo significa che tra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità. Questo significa che il parlamento della Repubblica Italiana si accinge a legalizzare in modo perenne l’abusivismo edilizio, che anzi dalla norma riceverà ulteriori stimoli. E la norma potrà diventare uno strumento formidabile anche in mano alla criminalità che con prestanome, che corrispondano a criteri di necessità previsti della legge, potrà realizzare case abusive in spregio alla legge».
Invece, dunque, di «approvare norme più stringenti per demolire sul nascere l’abuso e per commissariare quei comuni, anche con lo scioglimento dei consigli comunali, che non sono rigorosi o nell’adottare strumenti urbanistici o nell’eseguire le demolizioni, si è scelta una strada assurda come quella di fermare le ruspe dietro l’alibi delle priorità e dell’inesistente abuso di necessità. Non è un caso che nei resoconti stenografici i senatori Falanga e Palma parlino esplicitamente di fermare le demolizioni a partire dalla Campania. Infatti sia il Presidente della regione Campania De Luca che della Sicilia Crocetta attendono con ansia questa legge dopo aver approvato in giunta provvedimenti blocca ruspe». In Campania le case abusive sono 70mila, in Sicilia ne sono state costruite 2.438 nel 2015 e 1.749 nel 2016.
L’appello è già stato firmato da Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Gianfranco Amendola, Francesco Lo Savio, Vezio De Lucia, Luana Zanella, Fabio Balocco e Mario Staderini.
il Fatto Quotidiano
IN SENATO ARRIVA IL SALVA-ABUSI
di Luciano Cerasa
«Una proposta di legge dei verdiniani sottoscritta da un’ampia maggioranza allontana le ruspe dai fabbricati, basta dimostrare che siano abitati. Solo in Campania sono 70 mila».
Giovedì arriva nell’aula del Senato il progetto di legge “blocca ruspe”. La giunta della Campania, guidata da Vincenzo De Luca, lo attende con trepidazione da mesi, al punto da averne anticipato gli effetti in una proposta di legge regionale approvata il 16 marzo scorso. E il momento è arrivato. Sembra proprio che il progetto normativo – primo firmatario il verdiniano Ciro Falanga – abbia la strada spianata, almeno al Senato. Il testo con pochi emendamenti è stato approvato nelle commissioni di Palazzo Madama con una maggioranza inedita che va dal Pd a Forza Italia e M5S.
la Repubblica
«Un appello di Verdi, urbanisti ed ex magistrati contro il Decreto Falanga: "Così si legalizza per sempre l'abusivismo edilizio". Nasce l'abuso per necessità: "Niente ruspe per chi non ha un'altra casa"».
Roma - In Senato si vota, fra tre giorni, una legge per cambiare le regole sugli abbattimenti delle abitazioni abusive. Il primo firmatario è un verdiniano, Ciro Falanga, e il decreto in dirittura d'arrivo prevede una serie di provvedimenti di peso. Oggi la maggior parte delle demolizioni è affidata alla magistratura, che interviene quando i sindaci non ottemperano (quasi sempre, in Italia). La novità del Decreto Falanga è quella di organizzare una vera e propria classifica delle priorità per l'invio delle ruspe. In fondo a questa graduatoria c'è "l'abuso per necessità".
A chi non ha un alloggio alternativo - la maggior parte di coloro che hanno commesso un abuso edilizio, d'altra parte - non si potrà tirare giù l'edificio illegale. Fosse anche una villa, fosse anche in un'area protetta. Nel testo, si legge, all'ultimo posto delle priorità sono posizionati «gli immobili abitati la cui titolarità è riconducibile a soggetti appartenenti a nuclei familiari che non dispongano di altra soluzione abitativa». Si dovranno quindi segnalare «alle competenti amministrazioni comunali» gli edifici «in possesso di soggetti in stato di indigenza».
A sostenere il decreto - è il 580-B, "Disposizioni in materia di criteri per l'esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi" - ci sono dieci milioni di euro. Una cifra che, parametrata ai costi attuali di un abbattimento, consentirebbe 130 interventi l'anno in tutto il Paese.
Il Decreto Falanga è atteso con una certa premura dai governatori della Campania e della Sicilia. In particolare, Vincenzo De Luca ha disposto a Napoli e nelle altre quattro province campane la sospensione di ogni intervento di demolizione in attesa dell'ultimo passaggio parlamentare del Ddl 580-B, appunto al Senato. Ma l'azione di Ala e Forza Italia - che fin qui non ha incontrato ostacoli da parte del Pd e del Movimento 5 Stelle, la sesta commissione ha votato favorevolmente e all'unanimità - conosce un'opposizione formale da parte dei Verdi con i suoi coordinatori nazionali Angelo Bonelli e Luana Zanella e il responsabile territorio Sauro Turroni. In questa campagna sono affiancati da urbanisti di peso come Paolo Berdini (ex assessore della Giunta Raggi) e Vezio De Lucia, ex magistrati ambientali come Gianfranco Amendola e Domenico Lo Savio, dal radicale Mario Staderini, l'intellettuale Vittorio Emiliani, l'avvocato Fabio Balocco.
Sul provvedimento si è già espresso il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello. «Se si irrigidiscono i criteri di priorità con una legge si apre la via a un contenzioso enorme», ha detto. «Gli avvocati tenteranno ogni strada, giustamente, per impedire la demolizione dell'immobile del proprio assistito. Si chiamano incidenti di esecuzione. Ogni legale alzerà un'opposizione: perché demolite la casa del mio cliente e non quella a fianco?». I criteri di priorità, sostiene il magistrato, sembrano evanescenti: «Questa legge prova a tutelare il piccolo abuso di necessità rispetto all'ecomostro, ma rischia solo di rallentare l'intero processo di demolizioni».
Nel Napoletano, dove ci sono 70.000 abitazioni fuorilegge, si era avvertita nelle ultime stagioni un'inversione di tendenza con una decrescita dei manufatti abusivi e un aumento delle autodemolizioni da parte dei proprietari: sconfitte al processo, diverse famiglie sceglievano di abbattere la costruzione avviata per evitare il conto dello Stato, più oneroso.
Nelle audizioni al Senato si parla esplicitamente di fermare le ruspe al Sud. Il senatore di Forza Italia, Nitto Francesco Palma, anche lui magistrato, ha dichiarato: «Il disegno di legge è volto a salvare dagli abbattimenti le abitazioni delle persone che vivono in Campania con un reddito assai modesto e non già i grandi gruppi alberghieri o i faccendieri che abitano dimore lussuose presso la Costiera sorrentina».
L'appello di chi si oppone al decreto è stato inviato oggi ai presidenti della Repubblica e del Senato e chiede di fermare «una legge blocca demolizioni che legalizza in modo perenne l'abusivismo edilizio». La denuncia di ambientalisti, urbanisti e scrittori sottolinea: «L'aspetto più grave del provvedimento è che la sua applicazione non ha limiti di tempo, a differenza dei condoni. Questo significa che fra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità. Significa, inoltre, che da questa norma l'abusivismo riceverà ulteriori stimoli e la criminalità organizzata potrà realizzare case abusive in spregio alla legge attraverso prestanome».
il manifesto
ABUSIVISMO,
«STOP AL DDL FALANGA»
dichiarazione di Loredana De Petris
La capogruppo di Sinistra Italiana e presidente del gruppo misto al Senato, Loredana De Petris, chiede alla maggioranza di rinviare il ddl Falanga in commissione. Il disegno di legge che porta il nome del senatore verdiniano Ciro Falanga potrebbe essere approvato dall’aula di palazzo Madama questa settimana. Sarebbe una pietra tombale sulla demolizione di case abusive - spiegano in un appello ambientalisti, urbanisti e ex magistrati - a causa del meccanismo ideato per programmare le demolizioni: una scala di priorità che ha in cima le case in costruzione, da abbattere per prime, e all’ultimo gradino quelle già abitate. «Le case già abitate di fatto sono tutte salve. Per le altre - dice il verde Angelo Bonelli - bisogna individuare l’abuso, poi arriva la sentenza che ordina la demolizione, e ci sono 90 giorni di tempo per eseguirla. In tre mesi la casa può essere finita, ci si mette dentro una famiglia, e il gioco è fatto». Anche il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, è intervenuto contro il ddl: «Se si irrigidiscono i criteri di priorità con una legge si apre la via a un contenzioso enorme. Gli avvocati tenteranno ogni strada, giustamente, per impedire la demolizione dell’immobile del proprio assistito». Il firmatario del ddl, Falanga, ovviamente difende il suo provvedimento e dice che se non sarà approvato si dimetterà da senatore.
«Negli ultimi anni il processo di urbanizzazione e la dinamica espansiva di città e agglomerati urbani ha registrato un forte incremento. Il rapporto dell’Istat "Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia"» . Sbilanciamoci info, 11 maggio 2017 (c.m.c.), con postilla
Negli ultimi anni il processo di urbanizzazione e la dinamica espansiva di città e agglomerati urbani non ha accennato a diminuire. Anzi, ha registrato un forte incremento. Questo è quello che sostiene l’ultimo rapporto dell’Istat, Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia, uno studio dettagliato che analizza l’evoluzione delle aree urbane in relazione ai fenomeni demografici, economici e sociali.
Il dato più interessante è stata la crescita, nel decennio 2001 – 2011, delle aree urbane: +8,5%, pari, in valori assoluti, a 1600 Km2. Un aumento registrato soprattutto nelle aree non urbane (9,5%), piuttosto che nelle città medie (8,2%) e in quelle grandi (7,1%).
Ma come è stata condotta la ricerca? Nello specifico il paper individua 21 sistemi locali – in poche parole le grandi aree urbane e tutto il territorio intorno – in cui i processi di urbanizzazione sono più avanzati, oltre a 86 città di medie dimensioni e a 504 piccole realtà. Per definire cosa sia l’urbanizzazione e calcolarne il grado sono stati presi in esame i principali studi nazionali e internazionali, tenendo in considerazione due diverse linee interpretative: da un lato quella demografica, relativa alla presenza della popolazione nelle aree metropolitane, dall’altra quella territoriale, che a sua volta, tiene conto di una molteplicità di fattori, tra cui il consumo del suolo, la diffusione e la concentrazione.
Dal rapporto emerge come dal 2001 tutti e 21 i sistemi urbani si sono estesi di oltre il 10%. In particolare le aree che sono cresciute di più sono Bologna (17,1%), Taranto (13,3%) e Torino (11,6%).
Se confrontiamo il livello di estensione delle principali realtà urbane, con quello di urbanizzazione possiamo comprendere appieno il fenomeno: i 21 sistemi coprono complessivamente “solo” l’8% della superficie totale nazionale – circa 27 mila Km2 – ma raccolgono oltre il 25% degli insediamenti abitativi. Di contro, le città medie coprono il 25% del territorio nazionale, ma rappresentano solo il 29% dei sistemi abitati. Roma e Milano, ad esempio, sono due centri altamente urbanizzati, con un’estensione complessiva, rispettivamente dell’1,3% e dello 0,6%, ma con una superficie totale delle aree abitate del 4% e 3,6%.
Il processo è ancora più evidente, se al posto degli insediamenti urbanizzati prendiamo in considerazione la popolazione residente: nelle principali realtà urbane vivono oltre 22 milioni di persone – il 36,3% della popolazione nazionale – mentre le quattro realtà che superano il milione di abitanti contano il 20% della popolazione nazionale complessiva. I 21 sistemi, sottolinea il rapporto, presentano anche alti livelli di densità abitativa: nel 2015 le principali realtà urbane presentavano, in media, valori pari a 828 abitanti per Km2, contro una media complessiva nazionale di 201; le città di medie dimensioni, infatti presentano un dato in linea con la media nazionale (223 abitanti per Km2), mentre nelle città piccole la densità abitativa è molto ridotta (111 abitanti per Km2).
Per capire appieno i trend storici relativi all’aumento della popolazione nelle 21 principali realtà urbane, l’Istat introduce i concetti di core – il nucleo centrale delle città – e di ring – le periferie. Nel decennio 1951 – 1961, l’aumento della popolazione nelle aree, complessivamente di 2,8 milioni, registra una crescita record nei core (+2,0 milioni) rispetto ai ring (+800000). Una tendenza che si inverte nel decennio successivo: nonostante la crescita positiva sia nei core che nei ring, le periferie sperimentano un aumento di 200 mila unità in più rispetto ai centri. Nei tre decenni che vanno dal 1971 al 2001, le aree, complessivamente, dapprima rallentano la crescita e poi decrescono: tra il 1971 e il 1981 si registra un aumento di 980000 unità, mentre nei vent’anni successivi i core registrano un decremento di 1.750.000 persone; una diminuzione non compensata dal trend leggermente positivo registrato nei ring, e che porta ad una perdita di circa 255 mila residenti. Solo nel decennio 2001 – 2011 si ha una controtendenza, con un aumento della popolazione urbana di 820 mila persone; il trend è negativo nei core (-82 mila) ma compensato dall’afflusso di persone nei ring (+903 mila).
E per quanto riguarda l’Europa? Per confrontare il caso italiano a quello di altri Paesi europei il rapporto, riprendendo i dati satellitari contenuti nel database Urban Atlas, classifica i rilevamenti in 5 macro aree (aree artificiali, agricole, boschive, umide e acque). Il parametro che rileva i livelli di urbanizzazione è quello del suolo artificiale: nel 2012 l’Italia registra una superficie artificiale del 7% su una media europea del 4,1%. I Paesi europei che presentano i valori più alti sono Malta (32,6%), Paesi Bassi (12,3%), Belgio (12,1%) e Lussemburgo (10,1%), mentre gli esempi più virtuosi sono Finlandia, Svezia e Lettonia, con una superficie artificiale solo del l,6%.
Per quanto riguarda l’Italia, l’estensione del suolo artificiale è espressa con il concetto impermeabilizzazione: tra i 21 sistemi urbani presi in considerazione la città più impermeabilizzata è Napoli (38,9%), seguita da Milano (33,1%) e da Busto Arsizio (31,6%). La media totale di impermeabilizzazione delle principali città urbane è del 13,8%, molto superiore alla media italiana, mentre quella delle città medie si attesta intorno al 5,9%, di un solo punto percentuale sotto la media. Le regioni che registrano valori superiori al 10% sono invece la Lombardia (11,7%) e Campania (10,6%).
Lo studio poi si concentra sull’analisi del consumo di suolo in Italia introducendo il concetto di urban sprawl, ossia la diffusione dei centri abitativi e delle aree cementificate. Tra il 1991 e il 2011 i centri a edificato consolidato aumentano di due punti percentuali, passando dal 4,8% al 6,7%. La tendenza è ancora più evidente nei principali sistemi urbani, dove l’edificato consolidato aumenta di 4 punti, dal 15,3% al 19,3%. In particolare, lo sprawl urbano aumenta in 157 sistemi urbani (il 26% del totale), ed è particolarmente forte nella fascia pedemontana lombarda (Milano – Bergamo – Brescia), nella pianura emiliano – veneta, in provincia di Pescara, nelle aree metropolitane di Roma e Napoli e nella Toscana settentrionale.
Tra i fattori che contribuiscono al consumo del suolo urbano, l’edificato residenziale è quello che più di altri viene associato all’insediamento antropico: dai due milioni di caseggiati presenti nel suolo italiano nel 1919, siamo passati a dodici valori. Un aumento di circa il 6,6%: nei 21 sistemi urbani l’aumento è stato del 6,9%, mentre nelle realtà medie del 6,7%. L’incremento più evidente si è registrato nelle città di Milano – passata da 20 mila edifici residenziali del 1991 a oltre 28 mila nel 2011 – e soprattutto di Roma – da 19 mila conglomerati del 1991 a 29 mila del 2011. Sempre secondo i dati dell’Istat, tra il 2001 e il 2014 sono stati progettati in Italia circa 541 mila fabbricati destinati soprattutto ad uso abitativo.
Nel corso degli anni si è andata quindi affermando, continua l’Istat, un’edilizia residenziale “aggressiva” e meno attenta al rispetto del suolo e dell’ambiente. Una tendenza in linea con le altre “con le altre dinamiche dei consumi che hanno caratterizzato lo sviluppo economico del nostro Paese dal dopoguerra in poi”.
In Parlamento è fermo da diverso tempo un Ddl che dovrebbe regolamentare il consumo di suolo e introdurre norme per limitare lo sfruttamento del territorio e la sua cementificazione. A causa del mancato accordo tra il Governo e le Regioni, la legge rischia di non vedere la sua approvazione entro la fine – oramai, prossima – della legislatura.
Anche la campagna Sbilanciamoci! da tempo denuncia gli squilibri ambientali, economici e sociali delle diverse città. Nel 2015 con l’ebook Sbilanciamo le città la campagna ha lanciato alcune proposte che, se fatte proprie e tradotte in norme da Sindaci e Giunte, potrebbero migliorare la qualità della vita e il benessere dei cittadini. Un vero e proprio programma di governo delle città improntato alla declinazione pratica delle parole d’ordine di Sbilanciamoci! nel locale: sostenibilità, inclusione, partecipazione, solidarietà, diritti. Ciò di cui i territori hanno bisogno, ora più che mai.
postilla
Purché nessuno si illuda che la legge in attesa di approvazione aiuti a risolvere il problema. Su eddyburg lo abbiamo argomentato spesso, vedi ad esempio l'articolo di Vezio De Lucia Nessuno ferma il consumo di suolo, nonchè l'eddytoriale 148. e l'articolo Eddyburg e le norme sul cosumo di suolo. Altre analisi critiche puntuali del ddl sono contenute nell'articolo di De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e quelli di Cristina Gibelli, Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani e di Ilaria Agostini del maggio 2015 Due leggi per il suolo.