Tappa a Serravalle Scrivia, in quello che viene considerato il più grande “Outlet” d’Europa, che sarebbe un posto dove le più importanti griffe, con il loro marchio ufficiale, si disfanno dell’invenduto.
Impressiona, al primo impatto, la soluzione urbanistica. Uno si aspetta un grande centro commerciale coperto come tanti ce ne sono - tipo ipermercato, per intendersi - e si trova invece in un paese nuovo di zecca, con strade e case sorte dal nulla, sulla statale che da Serravalle porta a Novi Ligure, tra le dolci colline che fanno da cornice allo Scrivia. Questo nuovissimo agglomerato urbano, è circondato da un immenso parcheggio (questo si, somigliante ai centri commerciali che conosciamo) nel quale si trova sempre posto per l’automobile.
Le costruzioni, in genere a due piani, sono d’impronta tipicamente ligure. Ed è logico. Non bisogna dimenticare che ambedue le cittadine, oggi in provincia di Alessandria, appartenevano storicamente a Genova. Sono case fatte con gusto, diverse tra loro, in schiere ininterrotte che si snodano sinuose, creando vie e piazze, tutte rigorosamente riservate ai pedoni. Diversi e appropriati i colori d’ognuna. Ogni costruzione – se non fosse per il “nuovo” quasi abbagliante, sembrerebbe trapiantata li da Portofino o da Lerici o da Rapallo o da Alassio o da una delle cento cittadine della riviera ligure. Ad una delle porte-piazze d’ingresso, chiamata Piazza Levante, una “Lanterna” ci ricorda il dominio genovese su queste terre.
Il piano terra di ognuna delle costruzioni, è interamente occupato da negozi di abbigliamento e di accessori. Tutte le principali case italiane ed anche parecchie estere, sono presenti. Non disdegnano neanche Bulgari o la Villeroy e Boch. Vi sono anche un ristorante, una pizzeria, alcuni bar. Vi sono centoventi negozi, alcuni anche piuttosto grandi, uno attaccato all’altro. Al primo piano, finestre con i gerani, balconi, loggiati. L’idea dovrebbe essere quella di far credere che qualcuno vi abita, ma tutto è troppo ordinato, troppo preciso perché sia così.
Passata la prima impressione di ammirazione, comincio a vedere questo villaggio come uno di quelli costruiti per girare un film western, qualcosa di posticcio, di artificioso, di falso, insomma. Mia moglie dice che sbaglio. “Pensi siano meglio quegli squallidi mega prefabbricati di tipo industriale, come Auchan, Panorama, Ipercoop, Esselunga?” mi chiede. No, ma sono più onesti, ribatto, ché ormai devo tenere il punto. Questa Disneyland dell’abbigliamento è molto più subdola, vuol far credere di essere quello che non è. E questa storia dell’outlet, è un bello specchietto per le allodole, un modo come un altro per vendere.
La discussione potrebbe continuare all’infinito, ma ormai sono le otto di sera, mia moglie ha visto tutto quel che voleva (la fermata è a suo beneficio) i negozi cominciano a chiudere, tra poco – e fino a domattina - questa diventerà una città fantasma. “Mangiamo qualcosa qui prima che chiudano?” mi chiede lei. No dico, stanno per attuare il coprifuoco, andiamo a Novi, che è una città vera, in un locale vero, a mangiare una pizza vera. Così facciamo, finalmente d’accordo.
Fonte: http://www.medusina.com/talk/1060041498,66958,.shtml
Titolo originale: Taking a Lesson in Math to Limit Urban Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’ordine in cui si svolgono le operazioni, conta. In matematica, sappiamo che la soluzione giusta a una serie di espressioni numeriche dipende, ad esempio, dall’eseguire la moltiplicazione prima della sottrazione. Ribaltate quest’ordine, e avrete una risposta sbagliata e un sacco di tempo sprecato. Nelle faccende dello sviluppo urbano, la situazione è analoga. Ma nel mondo reale non è possibile semplicemente cancellare la risposta se si è sbagliato l’ordine delle operazioni.
L’attuale senso comune urbanistico ritiene che sostenere misure come le metropolitane leggere o la rivitalizzazione del centro stimolerà un insediamento più denso nei pressi delle stazioni, e aumenti di densità locale altrove, riducendo quindi lo sprawl, l’uso dell’auto, e l’inquinamento e congestione relativi. Un altro tipo di intervento visto con favore, in particolare nell’Ovest, sono i margini allo sviluppo urbano [UGB/Urban Growth Boundary] a cui talvolta ci si riferisce eufemisticamente chiamandoli greenbelt. Nello stesso tempo, si attuano dozzine di altri interventi che di fatto aumentano lo sprawl. Ma aggredire una componente dell’insediamento urbano senza considerarne le cause può portare a scarsi risultati, e a conseguenze indesiderate.
Pensiamo che i margini allo sviluppo urbano non conservano davvero gli spazi aperti, ma spostano l’insediamento verso altre aree, e restringendo le zone edificabili in area urbana, si genera un’artificiale inflazione dei prezzi delle case. Ancora peggio, l’urbanizzazione spesso si sposta a salti (leapfrog: un termine amato dagli urbanisti) ancora più verso l’esterno, verso spazi aperti remoti. Le metropolitane leggere entrano in competizione, in molti casi, con i percorsi degli autobus, e in molte città del paese hanno fatto poco per risolvere la congestione da traffico. Nonostante le migliori intenzioni, ci sono chiare ragioni per cui questa duplice strategia non funziona.
Esistono una serie di azioni che contribuiscono allo sprawl delle regioni urbane, come le politiche di zoning, le decisioni economiche di uso dello spazio da parte delle municipalità, il basso e inadeguato valore economico conferito alle infrastrutture e risorse naturali, un tipo di sviluppo economico sul modello di impresa da parte di alcune amministrazioni suburbane, la scarsa scelta in fatto di scuole. Senza affrontare prima queste fondamentali carenze di programmazione nelle regioni urbane, costruire grandi e luccicanti nuove infrastrutture, o tracciare linee arbitrarie attorno alle città, probabilmente avrà pochi effetti positivi.
Un ordine migliore delle operazioni, è quello che segue. Primo, conservare gli spazi aperti nelle aree più remote e incontaminate, dove al momento c’è poc
a pressione insediativa. I terreni sono a buon mercato e ci sarà meno conflittualità politica. Secondo, iniziare a dare un prezzo a infrastrutture come strade, reti idriche/fogne e altri “servizi pubblici” a seconda dell’uso. Terzo, smetterla di utilizzare le scelte di uso dello spazio per gonfiare le casse pubbliche, e smettere di compiacere gli attivisti NIMBY che vogliono limitare gli insediamenti innovativi ad alta densità. Quarto, eliminare gli ostacoli alla vita urbana e nei centri, riducendo la criminalità, offrendo possibilità di scelta delle scuole, bonificando le zone industriali contaminate note come brownfields. Consentire al mercato di rispondere a queste nuove scelte e condizioni, probabilmente creerà regioni urbane più compatte, come auspicato da pianificatori e ambientalisti. Infine, consentire alle compagnie private di trasporto collettivo di offrire servizi adeguati alle forme emergenti dello spazio urbano.
Il senso comune attuale ritiene che l’ordine in cui si svolgono le operazioni non conta, e che tracciando i limiti di sviluppo urbano, costruendo sistemi di trasporto pubblico in sede fissa, promuovendo l’urbanizzazione ad alta densità vicino alle stazioni, si rifarà la forma delle regioni metropolitane d’America, con grandi benefici ambientali. Si dice, che la riforma dello zoning potrà essere fatta poi, che applicare un prezzo alle infrastrutture non è un prerequisito per il mutamento della forma urbana. Si dice, che lo sviluppo economico locale è di fatto sempre desiderabile. Sfortunatamente, questo senso comune ignora le forze economiche che sottostanno al processo di urbanizzazione, e semplicemente mette da parte gli effetti dannosi indesiderati di queste strategie sull’ambiente, sui proprietari di case, i pendolari, i contribuenti. Agendo senza un ordine preciso, rischiamo di spendere molte risorse pubbliche con scarsi risultati, e conseguenze impreviste. Se strade, macchine, insediamenti a bassa densità non pagano i costi connessi al proprio uso dello spazio, trasporti pubblici e alte densità avranno difficoltà a competere, e qualunque sovvenzione sarà invano. Se non si cambiano lo zoning euclideo e le sue norme creatrici di sprawl, che possibilità ci sono di competere, su larga scala, per gli insediamenti compatti o di tipo new urbanist? Saranno al massimo l’eccezione in un mare di insediamento tradizionale, e con molti dei progetti realizzati a richiedere investimenti pubblici per essere ultimati.
Senza un cambio di rotta fondamentale da parte dei governi e delle amministrazioni locali, per affrontare le politiche che aggravano lo sprawl, il solo costruire metropolitane leggere e sovvenzionare alcuni progetti non avrà grandi effetti sui modi della crescita urbana o sulla tutela ambientale. Impariamo dalla matematica: si usa l’ordine giusto, e nel modo giusto si alleviano gli effetti negativi dello sprawl.
Nota: il testo originale naturalmente al sito Planetizen (f.b.)
La “morte” dei centri commerciali, come abbiamo già visto in parecchi dei contributi presentati, è ormai vista come fatto fisiologico, comunemente accettato, con cui le comunità devono in qualche modo imparare a convivere. Resta naturalmente aperto il problema ambientale e sociale di questi vuoti, che nello stesso modo di quelli militari, ferroviari, industriali, rappresentano una vera piaga, che trascina nel proprio declino la comunità e il territorio nel suo insieme. Il testo che segue si limita (a mio parere) a sfiorare il problema, anche se non ne disconosce esplicitamente la complessità. Non a caso, si deve alla corrente culturale cosiddetta New Urbanism, che come il concetto parallelo di smart growth spesso nasconde approcci ideologici, o di comodo, o un marchio come un altro per riverniciare di nuovo pratiche professionali per nulla innovative. Resta naturalmente l’interesse che suscita (oltre l’incomprensibile, o forse comprensibilissimo, fatalismo di fondo) il fatto di affrontare la questione a scala nazionale, identificando piaccia o meno un problema che va oltre qualunque logica di “progetto”, richiamando ad altre, più mature riflessioni di carattere sia disciplinare che sociale. Questioni naturalmente colte quando ad affrontarle c’è in un ruolo centrale la pubblica amministrazione: non certo progettisti che, per quanto bene intenzionati, sono pur sempre “operatori commerciali” tanto quanto i negozi in crisi che vogliono rivitalizzare. (fb)
Titolo originale Greyfields into Goldfields: from Failing Shopping Centers to Great Neighborhoods – traduzione di Fabrizio Bottini
I centri commerciali in crisi: un problema nazionale
I centri commerciali obsolescenti punteggiano il panorama urbano d’America. Per trovarli non ci vuole un’abilità particolare. Un parcheggio recintato ne tradisce la presenza. Le vendite di auto usate nel fine settimana sono un forte indizio. Le vetrine dei negozi trasformate in centri di attivismo politico comunitario e ambulatori, sono chiari segnali. Proprietari immobiliari, affittuari e investitori sono consapevoli del proprio declino. I vicini, ex commercianti, ex dipendenti, lo sanno. Chi governa la città, i rappresentanti dei cittadini, lo sanno. Ma non è che, semplicemente conoscendo il problema, conoscano anche la soluzione.
Il Congress for the New Urbanism (CNU) vede molti di questi centri commerciali come luoghi ideali per insediamenti a usi misti, orientati ad una mobilità servita dal trasporto pubblico. Alcuni di essi non sono più adatti alla distribuzione commerciale a scala regionale. Ma molti sono ben dotati delle caratteristiche di un sito a insediamento new urbanist, che comprenda abitazioni, commercio, uffici, servizi, spazi pubblici.
Will Fleissig, un costruttore della Continuum Partners di Denver, di recente ha riconvgertitio la “zona grigia” del centro commerciale Villa Italia di Lakewood, Colorado. Fleissig afferma: “Sentiamo tanto parlare di edificazione nelle zone già urbanizzate ( infill n.d.t.), di smart growth, sobborghi di prima fascia, insediamenti orientati a trasporto pubblico, e di sprawl. Se guardate ad un quadro più ampio, si tratta della principale questione d’America, oggi. Abbiamo bisogno di costruire quartieri migliori dentro le città, vicino ai mezzi di trasporto pubblici. Queste “zone grigie” sono la prima ondata di una grande quantità di terreni disponibili nelle comunità esistenti, vicino ai trasporti, dotati di servizi, con un potenziale per maggior densità”.
In questa relazione si usa il termine “zone grigie” ( greyfields n.d.t.) per descrivere aree commerciali che necessitano di un significativo intervento pubblico e privato per arrestare il declino. Più noti sono i brownfields (siti urbani contaminati) e i greenfields (aree rurali inedificate). Al contrario, le zone grigie sono aree edificate, fisicamente ed economicamente mature per importanti ristrutturazioni.
In mancanza di positivi interventi di rivitalizzazione, il valore dei centri commerciali “zona grigia” si riduce a quello del suolo, meno quello di demolizione degli edifici. Ci sono siti che hanno già raggiunto questo stadio, con gravi ripercussioni sull’economia e sulla comunità, in tutto il paese. Per una comunità locale, una zona grigia è più di un’immagine di degrado. Significa una perdita di base fiscale, perdita di opportunità di lavoro, aree di valore inutilizzate. La serietà dei danni di questo degrado è stata messa in luce quando il Daily Camera di Boulder, Colorado, ha votato la propria “storia dell’anno” per il 2000: il declino del Crossroads Mall. Gli sforzi in sede locale per rivitalizzare zone commerciali deboli o in decadenza sono piuttosto frequenti. Alcuni hanno avuto successo, altri no. Il CNU sta conducendo un’analisi a livello nazionale su come rivitalizzare queste aree, così che possano fornire risorse a comunità e proprietari. L’obiettivo, detto in poche parole, è quello di trasformare le zone grigie in miniere d’oro ( greyfields into goldfields n.d.t.).
Il New Urbanism e i centri commerciali
Il Congress for New Urbanism ha da molto tempo un interesse particolare per i centri commerciali “zone grigie”.
Dal 1989 al 1996, i new urbanists hanno contribuito a fare del centro Minzer Park di Boca Raton, Florida, da lungo tempo in decadenza, un insediamento a usi misti finanziariamente riuscito. A metà anni Novanta, un altro gruppo new urbanist ha redatto un piano per lo Eastgate Mall di Chattanooga, Tennessee. Ora è in corso di realizzazione, ed è diventato una delle cose di cui gli abitanti di Chattanooga sono più orgogliosi.
Lo scorso anno, altri centri commerciali regionali in tutto il paese hanno visto operare il new urbanism: Cinderella City a Englewood, Colorado; Plaza Pasadena a Pasadena, California; Town & Country a San Jose, California. Altri casi in cui si sono considerate le suggestioni new urbanism sono il Parole Plaza nei pressi di Annapolis, Maryland; Bannister Mall a Kansas City, Missouri; South Square Mall a Durham, North Carolina.
Altri attendono. La PricewaterhouseCoopers (PWC) stima per difetto che ci siano almeno 140 centri commerciali di scala regionale negli Stati Uniti, che sono già “zone grigie”, e altri 200-250 che si stanno avvicinando a questa condizione. Nel complesso, queste due categorie rappresentano il 18% di tutti i centri commerciali regionali a scala nazionale.
Lo Studio
Il CNU ha cominciato il suo studio dei centri commerciali “zone grigie” all’inizio del 2000. L’indagine contava su vari contributi:
Lo studio PWC si concentra sui centri commerciali regionali, e non prende in considerazione i molti altri tipi di proprietà commerciali che pongono problemi simili di ristrutturazione. La CNU si focalizza sulla scala regionale perché questi siti – con almeno 35.000 metri quadrati di spazio commerciale affittabile e un minimo di 35 negozi – hanno effetti particolarmente gravi quando entrano in declino, offrendo contemporaneamente una particolarissima opportunità per il riuso.
Caratteristiche delle “zone grigie”
Le caratteristiche dei centri commerciali in crisi citati qui si basano sui dati delle analisi PWC. La PWC ha calcolato che le zone grigie hanno una dimensione media di poco più di 20 ettari. In particolare, questi siti sono sia più piccoli che meno collegati ai sistemi di trasporto regionali, di quelli che ospitano i centri commerciali di maggior successo della nazione, che hanno dimensione media di oltre 35 ettari, visibilità dall’autostrada e accesso diretto dalla rampa d’uscita. Molte zone grigie sono localizzate entro quartieri e zone commerciali consolidate. Will Fleissig, un costruttore che recentemente ha riconvertito un greyfield in Colorado a centro città a usi misti, afferma: “Questi centri commerciali tendono a stare su arterie suburbane con servizio di autobus. Molti sono già stazioni di interscambio di autobus”.
La PWC ha rilevato che l’obsolescenza dei centri commerciali è connessa al formidabile livello di concorrenza. In media, i centri in crisi hanno 230.000 metri quadrati di spazio commerciale in competizione in 22 altri centri (compresi quelli di quartiere e urbani, oltre ad altri malls regionali) nel raggio di otto chilometri. Molti stanno dentro bacini commerciali dominati da formati più recenti e operatori di maggiori dimensioni. Sono spesso più vecchi e piccoli di quelli di maggior successo nella regione.
Mark Eppli, un ricercatore in campo commerciale alla George Washington University di Washington, D.C., afferma che le forme di rinnovamento convenzionali non sono sufficienti a dare una boccata di nuova vita per molti insediamenti: “Una plastica facciale non aiuta gran che. Anche un nuovo negozio anchor, a seconda della posizione di mercato del centro, può non servire”.
C’è bisogno di nuovi modelli di riuso: modelli che vadano oltre la plastica facciale e il tradizionale commercio regionale.
Modelli di riuso
Se i classici centri commerciali “zona grigia” sono ormai inadeguati agli standards attuali, essi generalmente offrono la superficie necessaria per creare progetti insediativi integrati, utilizzando i principi del new urbanism. In quanto localizzazioni commerciali, questi siti possono soffrire l’eccessiva distanza dalle autostrade. Ma una posizione del genere può essere vantaggiosa in un riuso new urbanism. Offre la possibilità di integrare le varie attività entro un contesto di quartiere.
Victor Dover, un architetto che ha lavorato in parecchie rivitalizzazioni new urbanism di centri commerciali, dice che questo approccio spesso è la soluzione migliore. “Qualche volta il centro commerciale va in crisi perché ha perso la propria ragion d’essere economica. Ma quasi ogni comunità ha dei bisogni. Smettiamo di pensare a questi siti come a zone commerciali fallite, e iniziamo a considerarli aree a potenziali usi misti”.
Le comunità lungimiranti, in presenza di zone grigie, stanno costruendo e sperimentando nuovi modelli di riuso. Modelli di cui ci sarà necessità urgente, visto che la dismissione dei centri commerciali è una tendenza in crescita: PWC identifica oltre 200 malls possibili candidati “zona grigia”. Se molti altri centri commerciali ben gestiti prosperano, altri non sfuggiranno all’obsolescenza. Le zone grigie saranno un problema costante, strettamente legato alla pratica contemporanea dell’insediamento commerciale per malls. Con l’emergere di nuove tendenze, e lo spostamento “verso l’alto” dei nuovi insediamenti, i siti più vulnerabili sono spinti al declino. Il rinnovamento riuscito di un centro commerciale può causare la crisi di molti altri, più vecchi, entro il bacino di utenza.
I proprietari di malls hanno tentato molte tecniche di rivitalizzazione della vivacità economica dei loro immobili. La maggior parte dei centri, semplicemente, si espande, si ridecora, attira un nuovo negozio anchor. Alcuni centri commerciali si sono convertiti a uffici secondari, o centri di elaborazione dati. In questi casi, la comunità ospite ha perso la funzione civica precedentemente offerta dal mall. Più importante, né l’ampliamento né la conversione in uffici sfociano nel fornire l’area di una combinazione di residenza, commercio, terziario, e spazi pubblici che i cittadini e i loro rappresentanti desiderano.
I principi per creare ambienti new urbanism comprendono:
Ulteriori approfondimenti
Il CNU sta continuando i propri studi e ricerche sulle “zone grigie”. Continueremo a sollecitare la partecipazione sia di esperti che di operatori del settore, a migliorare la qualità e importanza del nostro lavoro. La CNU è l’unica organizzazione finalizzata al miglioramento dei centri commerciali decaduti, sia dal punto di vista finanziario, sia per la loro capacità di perseguire più ampi fini sociali.
La prossima pubblicazione del CNU sul tema sarà un catalogo di esperimenti riusciti di rivitalizzazione new urbanist. Continueremo anche i nostri sforzi per analizzare le cause del declino dei malls, e dei catalizzatori di rivitalizzazione.
(Una breve rassegna di principi generali)
Il New Urbanism per le zone grigie: i siti dei centri commerciali abbandonati aiutano a invertire la tendenza allo sprawl urbano
Nota: seguirà, quanto prima su Eddyburg/Megalopoli, l'intero studio a scala nazionale ampiamente citato sopra (fb)
La storia commercial-territoriale che andiamo qui a raccontare, comincia nella periferia industriale bresciana. O, meglio, nel vicino Portogallo.
Portogallo che – abbastanza ovviamente se ci si pensa un secondo – non è abitato solo da seriose donne contadine vagamente baffute, o ridenti pescatori con berretto da tonno nostromo, ma anche da modernissimi managers rampanti, tali e quali a quelli che da noi, in tutta Europa e Stati Uniti, svolazzano da un moquettato ufficio all’altro, decidendo in anglofono specialistico iniziatico gergo i destini dello sviluppo, globale o locale fa lo stesso. Managers come quelli della Sonae.
Come possiamo leggere sul sito http://www.sonae.pt, Sonae nasce nel 1959 a Maia, in Portogallo, come impresa specializzata nelle lamine di legno ornamentali, sviluppandosi poi per circa vent’anni sempre nel campo dei prodotti derivati dal legno. Con gli anni Ottanta e l’entrata del Portogallo nella Comunità economica europea, le attività di impresa cominciano a diversificarsi, con l’acquisizione di una catena di supermercati, il lancio del primo ipermercato portoghese, e la creazione del ramo specializzato immobiliare finalizzato alla realizzazione di Shopping Centers. Contemporaneamente, l’impresa entra anche nei campi della comunicazione, delle tecnologie dell’informazione, delle attività per il tempo libero e turismo. Da successive espansioni internazionali e riorganizzazioni, nasce la holding Sonae Investimentos, interamente dedicata al moderno commercio, e separata dalle altre attività industriali. Gli shopping centres interessano Portogallo, Brasile, Spagna, Grecia, Germania, Italia, Austria.
L’immagine dell’impresa, in generale e in particolare nel campo dei “centri commerciali integrati” (che offrono una gamma di servizi più ampia del solo commercio) punta molto sull’idea di sviluppo ambientale sostenibile, che informerebbe di sé le politiche industriali e di mercato. Leggiamo a questo proposito: “il management ambientale è una delle priorità di impresa, e un fattore chiave”. Nel 2001 il gruppo ha pubblicato un pamphlet che delinea la sua “politica ambientale”, distribuisce ai propri dipendenti il periodico Eco-Noticias, e edita periodicamente un Environmental Report. La seconda edizione del Rapporto, quella attuale, sottolinea come sia ora che in misura
maggiore per il futuro “non intendiamo focalizzarci solo sui risultati della Sonae in campo economico e ambientale, ma anche sui progressi in campo sociale, dimostrando il nostro impegno per un progresso continuo verso la Sostenibilità Ambientale”. In effetti, scorrendo affermazioni e cifre, emerge interesse e impegno in ambiti come le emissioni, il trattamento dei rifiuti, la qualità dei prodotti e processi, l’impatto sul paesaggio, e molti altri temi di interesse per l’ambiente alle varie scale. Se si considerano tutte le azioni complesse che comporta la individuazione, progettazione, realizzazione, gestione e sviluppo di un grande centro commerciale integrato, non si può negare che nel Rapporto, anche solo considerando la parte della Sonae Immobiliare (altri spunti interessanti emergono dal resto delle attività), c’è ampio spazio per i temi ambientali in senso lato.
Rassicurante, per esempio, nel caso di un sito in un’area dismessa delle nostre città o cinture metropolitane. Ferme restando, naturalmente, le ovvie attenzioni all’ambiente inteso come sistema locale, fatto anche da cose come la infrastrutturazione, i flussi, insomma tutto quanto non si può ridurre e ricondurre ai compiti specifici dell’impresa, ma che con la sua logica si incrocia eccome.
E nel primo scorcio del terzo millennio, i destini della Sonae nel suo girovagare tra Europa e Sud America, incrociano quelli della nostra Brescia: un tempo industriale, ancora in gran parte tale, ma alle prese con una complessa e strategica trasformazione urbana e metropolitana, verso un uso del territorio tra l’altro più attento, proprio, alla questione del recupero ambientale. L’occasione è un’area dismessa abbastanza tipica per le nostre città italiane: a ridosso del centro storico, degradata, ma squisito bocconcino per chi volesse e potesse investirci in operazioni di redevelopment nel segno del commercio, terziario, e vari altri usi più lucrosi delle obsolete e fuligginose ciminiere. Siamo nel “comparto Milano” della città, noto alle cronache per i veleni che la vicina Caffaro ha sparso in tutta la provincia per generazioni, e l’area è quella già occupata dagli impianti Atb, definita dal crocicchio fra le vie Italia (una parallela ai viali di circonvallazione del centro storico) e Cassala (una radiale che dalla stessa cerchia taglia le linee ferroviarie e immette nel sistema di circonvallazione e tangenziale sud), pochi minuti a piedi a ovest della stazione. Si tratta quindi di una operazione di recupero piuttosto delicata, per la città come per gli investitori, ma ghiotta: 44 milioni di Euro investiti solo per l’acquisto dell’area, per un totale di 52 mila metri quadrati destinato a contenere commercio, uffici, intrattenimento, servizi per la città come la sede del Museo dell’Industria, per un totale di 100 milioni di Euro fra area e rinnovo. Il Giornale di Brescia ci informa tra l’altro che “la più contenta sembra la Signora Maria ... di vedere come un pezzo di città che se ne va via, giorno dopo giorno” portandosi appresso fumi, o angoli magari pericolosi e bui (Gianni Bonfadini, Bisider-Atb, le macerie e il futuro, 7.8.2002). Mai contenta, la probabilmente inventata signora Maria, quanto gli ambientalisti-capitalisti della multinazionale portoghese e della sua consociata italiana. Fermi restando i soliti dubbi dei soliti scettici, sul fatto che insieme ai fumi se ne vadano via per esempio anche cose come i contratti collettivi, pare che il passo a cui partecipa la Sonae sia decisamente in avanti. Si recupera alla città un’area strategica sinora buco nero, a ridosso della ferrovia e a snodo fra la città intermedia e la prima fascia periferica, e la si può destinare ad attività “centrali” in senso lato, ovvero non generico terziario da palazzoni per uffici in affitto, ma usi più complessi ed articolati. Resta da vedere il risultato concreto, ovviamente, ma ci sono ottime premesse di riuscita, e le garanzie offerte dall’operatore, di un approccio ambientalmente / socialmente sostenibile, sembrano rispettate (grazie, presumibilmente, all’elevata capacità di interazione tecnica e politica dell’ente locale interessato).
Come si diceva all’inizio, Brescia pedemontana è solo la tappa introduttiva della storia iniziata in Portogallo e ramificata qui. Il mondo è piccolo, figuriamoci la Lombardia vista da uno staff manageriale multinazionale. Per capirlo anche in mancanza di elicottero, basta imboccare una delle due vie che tagliano l’area industriale dismessa: viale Cassala. La strada, con l’andamento a grande curva regolare tipico delle zone industriali disegnate su tracciati e scambi ferroviari, scorre fra i muraglioni delle zone ex siderurgiche e le “sironiane” torri degli acquedotti. Poi attraversa un passaggio a livello infilandosi nel sistema di uscita meridionale da Brescia, che nel giro di qualche centinaio di metri prende il nome di via Orzinuovi, e oltre i confini comunali di provinciale 235. Raggiunta Orzinuovi dopo qualche decina di chilometri fra paesi, semafori fra il bar e il sagrato, e case sempre più rade, si incrocia un’altra 235, la Statale che lungo un grande arco percorre tutta la media pianura lombarda: dall’asse della Brescia-Goito-Mantova a Montichiari, attraverso i raccordi tangenziali di Crema e Lodi, a Pavia. Sembra un giro piuttosto lungo, ma basta provarci per scoprire che non è affatto così, e la “distanza”, come quella dell’ex zona industriale dal centro di Brescia, è soprattutto mentale: una bazzecola, per chi opera a tutto campo.
Bruce Springsteen liquiderebbe il tutto con un: the highway is alive tonight, where it’s headed, everybody knows. In effetti, anche contando semafori, traffico di piccolo cabotaggio, cantieri vari, a velocità media ci vuole circa un’ora e mezza per andare dall’ombra delle torri d’acquedotto dismesse bresciane, attraverso la pianura irrigua, fino all’incrocio per la Becca nella periferia orientale pavese, dove la 235 finisce nell’anello della tangenziale Est. Logica vorrebbe che il grande semianello, dopo aver attraversato la media pianura lombarda, girasse tutto intorno a Pavia per risalire poi, Parco Ticino permettendo, verso l’asse della Padana Superiore, ma al momento la tangenziale pavese si interrompe davanti a un grande spazio verde. Certo, il piano regolatore prevede da tempo la chiusura dell’anello attorno al capoluogo, e a ben guardare i cantieri sono già aperti e segnano una larga striscia di terra smossa che prosegue tra i campi: ma a sinistra e a destra c’è sempre e solo verde, campagna, spazio aperto. Qui dove ci siamo idealmente fermati, in territorio di Pavia e lungo la statale Vigentina per Milano, questa bella campagna si chiama parco della Vernavola, dal nome del torrente che lo attraversa. Più a nord il cuneo verde si allarga e si articola, e si chiama Parco Visconteo. E proprio al centro di questo
parco, nei terreni quasi affacciati sul nuovo tracciato della tangenziale di Pavia, c’è l’altra faccia della medaglia dell’iniziativa multinazionale e multiprovinciale Sonae, che ci eravamo lasciati alle spalle cento chilometri fa con il fiore all’occhiello del redevelopment bresciano a fianco della ferrovia: il progetto di un altro, e ben altro, Centro Commerciale Integrato.
Il celeberrimo complesso monumentale della Certosa di Pavia, famoso anche per aver dato il nome ai formaggi freschi prodotti negli stabilimenti lì vicino, ha la particolarità di non stare a Pavia, come farebbe pensare il nome. Si trova infatti nel territorio comunale omonimo, di Certosa, ed è l’estremità settentrionale di un insieme naturalistico e insediativo complesso, voluto e realizzato nei secoli dalla famiglia Visconti e per un lungo periodo anche recintato con una muraglia di 22 chilometri, dotata di porte come una vera e propria città fortificata. Solo, all’interno non c’erano palazzi e popolo, ma una grande riserva di caccia, con annessi alcuni stabili “di servizio”. Ora, il cosiddetto Parco Visconteo è uno dei punti più qualificati, se non il più suggestivo e prezioso, di una grande fascia verde più o meno continua che dai margini meridionali dell’area metropolitana milanese scende sino a lambire i margini del centro storico di Pavia, e quindi il parco del Ticino.
A differenza del parco urbano pavese della Vernavola, per esempio, il parco Visconteo “non esiste” se non nelle intenzioni di alcuni entusiasti, o nei progetti di riqualificazione annunciati dall’amministrazione provinciale, come quello di un Piano Paesistico, attuativo delle linee generali stabilite dal Piano Territoriale di Coordinamento. Il piano, si legge nel sito Metropolisinfo.it, “sarà pronto entro l’anno ... e serve ad evitare che possano sorgere strutture in contrasto con l’importanza storica del territorio”. Un territorio che comprende, ricapitolando, i comuni di Pavia a sud, Certosa all’angolo settentrionale ovest, San Genesio a quello est, e proprio al centro, fra il Naviglio e il tracciato della ferrovia, Borgarello. Proprio qui, a partire dal 2000 si sono sviluppati rapporti fra l’amministrazione comunale e la Gestione Sviluppo Commerciale di Bergamo, rappresentante italiana della portoghese Sonae, per un centro integrato che, su una superficie di 200.000 (duecentomila) metri quadri, offra un insieme di servizi commerciali, terziari, di intrattenimento, culturali. Il che, da un certo punto di vista non fa una piega, perché se ci guardiamo intorno, anche qui nelle brume tra fantasmi viscontei, cosa vuole la società? La risposta mi pare innegabile: accesso ai servizi, anche di tipo commerciale. Naturalmente qualcuno pensa che non si possa risolvere tutto con cattedrali più o meno moderniste, sparpagliate a casaccio, che crollano sulla testa della storia insediativa locale. A volte è la soluzione più semplice, e molti la accettano o la subiscono (come si vede dalle folle che si accodano ogni week-end). Ce ne sono altre? Certamente si, ma forse non si trovano nell’atteggiamento che Peter Hall chiama BANANA ( Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything), o nella proposta localistica magari in buona fede, della conservazione tout court di un sistema commerciale e servizi pensato molti anni fa per un contesto completamente diverso di bisogni, mobilità, opportunità di scelta. Quindi, occorre se non altro descrivere il campo di gioco, in cui si muovono gli attori di questa partita.
Borgarello è, praticamente e come già capivano i Visconti con la loro riserva di caccia, Pavia. Non solo, ma se lo si inserisce in un quadro più ampio si tratta anche dell’ultimo tratto della discontinua greenbelt agricolo/paesistica che dalle ultime sfrangiature dell’insediamento compatto di Milano qui arriva alle porte di Pavia, sempre più schiacciata nella convergenza (ovvia, su un capoluogo) delle grandi linee di comunicazione territoriale, ma mantenuta non solo visivamente in esistenza dai cunei verdi che arrivano fino alla prima cerchia di circonvallazione urbana. E non si tratta di modellistica astratta, ma del ragionamento primordiale di qualunque pianificazione urbanistica, o meglio di buon senso residuo, che dal Frederick Law Olmsted del Central Park di New York o della Emerald Necklace di Boston, attraverso la cultura del landscape planning anglosassone, abbiamo come al solito re-importato sotto mentite spoglie.
Uno dei cunei verdi, in questo caso specifico, è quello che contiene il piccolo insediamento di Borgarello. Il paese sta ora separato e risparmiato dai grandi flussi regionali di attraversamento, chiuso com’è a ovest dal corso d’acqua del Naviglio che costeggia la Statale 35 dei Giovi, con un unico accesso da un ponte che immette quasi direttamente sia in centro storico che nelle (proporzionalmente vistosissime) aree orientali di nuova espansione residenziale a villette, su uno schema a scacchiera monotono e artificioso (che anticipa le bellezze di una certa “modernizzazione”). A est, il territorio comunale è ulteriormente delimitato dalla linea ferroviaria Milano-Pavia, superabile con cavalcavia in corrispondenza del confine comunale a nord con Certosa (proprio di fianco alla recinzione del complesso monumentale), o con passaggio a livello nei pressi del cimitero, qualche centinaio di metri a est del centro storico.
Come già detto, il problema di qualunque sviluppo edilizio, qui, è quello da un lato di interrompere la continuità della rete di spazi aperti, e in più nel caso specifico di un “centro integrato” di scala regionale, quello di inserire un enorme attrattore di flussi che creerebbero la base alla domanda di ulteriori stravolgimenti nel sistema di accessi: quindi una reazione a catena tale da rendere quasi automatica l’abolizione - salvo residui visuali di testimonianza - dell’ambiente attuale e del sistema insediativo campi/irrigazione/viabilità secondaria. A ben vedere, un articolo dell’urbanista Giuseppe Boatti sulla Provincia Pavese del 4 ottobre scorso (“Quel che resta della Certosa”), non suona neppure troppo polemico quando osserva che il Sindaco di Borgarello vede: “La città futura fatta ... da mattoni, cemento, asfalto e metri cubi e quadri. E l’interesse comunitario finisce dove terminano i confini del proprio comune. Oltre? Ognuno per sé e Dio ce la mandi buona”. Perché la questione, qui, non sembra quella del “fare” o “non fare”, come posta nella solita prospettiva dei modernizzatori a senso unico, ma del “dove fare cosa, e per chi”. E forse vale davvero la pena di concentrarsi su quel “chi”, pensando a quanti giovani, casalinghe, pensionati, legittimamente auspicano una maggiore offerta di spazi per i servizi, il commercio, la cultura, l’intrattenimento. Basta vederli, in un giorno qualunque per non parlare del fine settimana, mentre si affollano accodati sulle strade grandi e piccole che qui percorrono il territorio su e giù. Ma, secondo i Comitati che si oppongono al Centro di Borgarello, hanno già un sacco di posti dove andare, in un raggio piccolo e medio. Sarà vero? L’unico modo per scoprirlo, come al solito, è quello di seguirli.
Quello che chiunque, nella trasferta da Brescia attraverso l’arco della Statale 235, può vedere, è che con l’eccezione di qualche angolo sull’Oglio o casuale scorcio, qui la campagna è soprattutto un ricordo: al massimo si vede “il cuore verde della Megalopoli”, come l’ha definito
Eugenio Turri. E puntualmente, a tutti gli incroci, nodi, tangenzialine, dove il grande arco incrocia le direttrici verso la linea del Po, spuntano lontano o vicino le guglie e pinnacoli plastificati dei centri più o meno complessi che offrono benzina, tonno, pannolini, cinema, danze e soprattutto grandi parcheggi. Ce n’è uno, piuttosto vistoso e ingombrante, proprio fra le tangenziali di Lodi e Pavia, in corrispondenza del casello autostradale dell’A1, di cui è naturalmente “parassita”, e che provoca ingorghi a non finire. Ma anche più vicino a Borgarello non scarseggia certamente, questo tipo di merce.
Per capirlo meglio, l’ambiente in cui si posano queste astronavi della grande distribuzione, niente meglio di un percorso abbastanza lineare di pochi chilometri, a partire dalla linea della “strada Cerca” (nome tradizionale ancora usato in alcuni tratti), che col nome ufficiale di Provinciale 40 Melegnano-Binasco taglia la fascia del Parco Sud quasi esattamente lungo la discriminante fra zone urbanizzate con qualche “vuoto”, e zone agricole con qualche (a volte parecchi) “pieno”. Il punto di partenza ideale è all’altezza di Lacchiarella, dove il centro Il Girasole, con blasone Fininvest e aggiunta di un padiglione esterno della Fiera di Milano e di altro, marca piuttosto significativamente i limiti della conurbazione compatta milanese. Proprio qui, si era vagheggiato anche di mettere la Fiera “esterna” vera e propria, ovvero quella che con i suoi cantieri aperti ora giganteggia nell’ex raffineria di Pero, un pezzo di statale 35 e mezza Tangenziale più su. A pensarci, all’immagine di quell’enormità piazzata qui in mezzo al Parco Sud, c’è davvero da tirare un sospiro di sollievo.
A sud, abbandonando le provinciali, si entra nel centro di Lacchiarella. Un paese con la via principale che scorre fra case, negozi, piazze, incroci, con il tracciato abbastanza integro nell’irregolarità dell’ex strada di campagna lungo la quale nel tempo sono cresciuti gli edifici. Alla fine del tratto urbano, quando i due tracciati centrale e di circonvallazione si ricongiungono, comincia davvero l’ambiente che, più o meno, proseguirà identico per chilometri fino al territorio comunale di Pavia.
Sono strade tortuose, asfaltate ma piuttosto strette. Citando Alabama di Neil Young, si può dire che qui le macchine viaggiano with a wheel in the ditch, and a wheel on the track. Nonostante tutto, e soprattutto nei fine settimana, il logorio della vita moderna si fa sentire anche qui, eccome: c’è parecchio traffico, direi quasi tutto locale vista l’abilità con cui i vari “piloti” si barcamenano tra le buche, i fossi a tre dita dalla ruota, e le curve tra gli angoli ciechi di vecchie cascine. Siamo comunque in un altro mondo rispetto al percorso parallelo della Statale 35, qualche centinaio di metri a ovest: case isolate, campi, macchie d’alberi, qualche insediamento un po’ più consistente, come Giussago, fino a Certosa e al monumento che spicca alla fine del rettifilo proveniente proprio da uno dei pochi ponti sul Naviglio in questa direzione. Qui è possibile proseguire lungo un percorso secondario lungo l’enorme recinzione del complesso monumentale, fino all’angolo posto sulla strada che, scavalcando la ferrovia, raccorda la SS 35 con un’altra direttrice principale da Milano per Pavia: la Vigentina. Proprio sull’angolo opposto della recinzione della Certosa si trova l’incrocio verso Borgarello, il cui territorio comunale inizia da queste parti.
La strada comunale scorre tra il tracciato della ferrovia a est, e quello del Naviglio e della Strada dei Giovi a ovest. Dopo il piccolo cimitero, ancora in piena campagna, e un nuovo bivio, la via si restringe per entrare nel piccolissimo centro storico, dietro cui si nota piuttosto vistosa tutta la zona di nuova e nuovissima espansione, più o meno a sud-est. È presumibilmente oltre queste aree, che dovrebbe sorgere il progettato Centro Commerciale (o Centro Chissàcosa), nella zona che anche visivamente ha un aspetto strutturato secondo un aspetto tradizionale, nonostante, appunto, la piccola ma decisa villettopoli che appare in vigorosa crescita. Anche sull’altro margine, lungo la strada alzaia che scorre sul lato opposto del Naviglio rispetto alla Statale 35, Borgarello si fa notare per la quantità di edificato (la “città fatta di metri cubi e quadri” stigmatizzata da Boatti), con case di due o tre piani allineate su una o anche due file, che solo dopo il confine col territorio di Pavia lasciano il posto agli spazi aperti. A collegare la strada alzaia al tracciato della Statale dei Giovi, nell’ultimo lungo rettifilo prima del bivio della Tangenziale Ovest di Pavia, un ponte “normale”, e più a sud un altro stretto passaggio selciato, in corrispondenza di una chiusa. Questo è l’ambiente generale dove il sindaco di una popolazione di un migliaio di abitanti ritiene che un centro commerciale di 200.000 metri quadrati possa chissà come atterrare a “impatto zero”.
Imboccato l’ultimo tratto della strada dei Giovi lungo il Naviglio, quasi subito si salgono le rampe della tangenziale, e si intravedono per un po’ i quartieri della città compatta, tra cui spicca la grande area ospedaliera. Il percorso taglia poi in sopraelevata attraverso le aree molto meno urbanizzate a ridosso del Ticino, e dopo il ponte sul fiume e un altro tratto la tangenziale si ricongiunge alla direttrice urbana proveniente dall’altro ponte (quello due-trecento metri a monte del famoso Ponte Coperto).
Siamo in territorio comunale di San Martino Siccomario, ovvero nell’area geografica che dovrebbe concludere i 90 chilometri della lunga striscia verde del Parco Ticino, da qui alla punta della Becca, alla confluenza col Po. Ma la continuità del parco, o delle aree libere, o di qualunque cosa, se ne è andata chissà dove chissà quando nel passato. Ora la Statale, dal confine comunale di Pavia fino a qui, e oltre a sud fino al territorio di Cava Manara, è una striscia continua di quello che gli inglesi chiamavano ribbon development, e gli americani più onestamente road slum, salvo poi abituarsi e non farci più caso, come la tosse per i fumatori. La traduzione letterale italiana in uso, di “sviluppo a nastro”, mischiata ai colori vari delle insegne luminose e delle bandiere e striscioni promozionali, forse aiuta a migliorare l’impressione, ma non certo la qualità dell’aria, o del bordo stradale, o degli accessi ai piazzali ghiaiosi che in maggioranza costituiscono da queste parti i “parcheggi attrezzati”. In questo ambiente, il centro commerciale San Martino alla confluenza fra la Tangenziale, la Statale dei Giovi e le direttrici per la Lomellina, spicca come relativa isola di ordine ed efficienza, a modo suo. E se non altro contribuisce a schermare il vecchio tracciato, che attraversa il paese e immette nell’ultima punta rurale fra Ticino e Po, dal traffico che qui imperversa a tutte le ore del giorno, più o meno incolonnato. Il centro commerciale è uno spazio senza storia: supermercato, fast-food, qualche gregario collocato ai margini del parcheggio principale, che circonda tutto quanto e fa bello spettacolo di sé (opinione personale) soprattutto nelle mattine festive e nebbiose, visto dall’ultimo tratto sopraelevato della tangenziale.
Proseguendo verso sud il traffico si dirada man mano si aprono spazi a destra e a sinistra. Contemporaneamente e ovviamente, si attenua anche il curioso effetto rue-corridor che riesce a dare questo tipo di insediamento, anche sparso. La fila delle luci di coda si dirada fino a sgranarsi nella normalità di una grande arteria interregionale al ponte sul Po, e poi al territorio di Bressana Bottarone, dove il percorso verso il tracciato della Padana Inferiore si sdoppia: a sinistra prosegue la Statale dei Giovi verso Casteggio, a destra ma solo lievemente divergente la provinciale per Voghera, che sbuca comunque sulla stessa linea pedecollinare della Padana, in territorio di Montebello della Battaglia. Qui si ripete, stavolta in forma moderna e a modo suo pianificata, l’esperienza del road slum o ribbon development che dir si voglia, già descritta. Siamo a un tiro di sasso dall’imbocco della tangenzialina di Voghera (efficientissima, a modo suo), ma l’astronave di precompresso e asfalto che ha deciso di atterrare da queste parti, ha deciso pure che può farne a meno, di quella tangenzialina, e che si costruirà un ambiente viabilistico tagliato a pennello, di cui per ora si intravedono solo sovrappassi imbandierati, pezzi di cantiere, e qualche tracciato interrotto dalle barriere conosciute come new jersey. A quell’incrocio tutti, ma proprio tutti, i flussi obbligati del percorso pedecollinare Piacenza-Alessandria (qui nei tratti urbani si usa ancora il nome “giusto” e appropriato: Via Emilia Pavese), trovano un bel semaforo, a tutto e completo servizio dell’ingresso al parcheggio, o poco più. Ovvero, come abbiamo già visto e stravisto in altri casi, si obbligano tutti, che magari con la multisala, il fast-food, l’ipermercato ecc. non hanno niente a che fare, a una coda probabilmente piuttosto pittoresca da vedere, di notte, dall’alto. Meno pittoresca da farsi, imprecando con quello che sta al telefonino e ti fa perdere il semaforo atteso da cinque turni, o spendendo tutta la moneta possibile coi due o tre schieramenti fisiologici di questuanti con o senza cartello. E sul limitare delle colline dell’Oltrepo, il percorso tra l’offerta commerciale della zona si può anche interrompere.
Tornando all’oggetto principale di questa passeggiata, si ripete: perché mai il sindaco di Borgarello ritiene che 200 metri quadrati/abitante di centro commerciale (o centro integrato che sia) possano collocarsi “senza impatto” in quel cuneo verde storico che scende dai margini del Parco Sud metropolitano milanese, e si conclude integrato con altre strisce gemelle (come quella della Vernavola) sotto le mura di Pavia? E perché mai proprio lì, con tutta l’offerta di crocicchi, spianate, triangoli, appezzamenti, cavalcavia, di cui il territorio anche prossimo sembra pullulare? La risposta potrebbe essere: perché si è convinto della bontà dell’iniziativa, e soprattutto della serietà dei proponenti, una multinazionale portoghese che nei comunicati ufficiali sembra mettere l’ambiente quasi alla pari dei bilanci.
Una risposta convincente, a modo suo, e che in teoria dovrebbe spazzare come fuscelli le solite opposizioni passatiste dei nimbies: quelli che non vogliono nulla a sporcare il proprio cortile, e poi “perdono il treno dello sviluppo”. Ma, e qui la domanda si pone ai lettori e alla fine di questi vaghi appunti in diretta dal territorio: voi (potenziali frequentatori di passerelle, scansie, mostre di pittura ecc.) siete convinti?
Un architetto progettista come Sir Richard Rogers, autore fra l’altro del grande Designer Factory Outlet a bacino di utenza “europeo”, allo sbocco britannico del Chunnel, in una recente intervista al Sole 24 Ore osservava desolato come ormai si possa andare da Torino a Venezia senza trovare significative interruzioni nella trama continua dell’edificato, delle infrastrutture doppie, triple, di un coperchio di cemento e asfalto che rischia di soffocare con la sua inefficienza sia l’ambiente che la sua ragion d’essere storica, ovvero quello che lo mantiene vivo e vitale.
Facciamo due conti, e supponiamo: se ciascun sindaco decide di adottare un “piano dei servizi” delegato a una multinazionale “ambientalista”, con uno standard di 200 metri quadri/abitante di Centro Integrato, cose ne esce? E vogliamo negare l’ingresso nel mercato, multinazionale e locale, di altri soggetti magari ancora più dinamici e “ambientalisti”?
Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Ma per averne, di posteri, forse è meglio anticipare qualche risposta qui e ora.
Relazione presentata al convegno internazionale Les trois sources de la ville-campagne , Cerisy-la-Salle, 20-27 settembre 2004, in corso di pubblicazione in Ghorra-Gobin C., Berque A.. (a cura di), Les trois sources de la ville-campagne , Paris, Belin
Considérations préliminaires
Récemment, nous avons approfondi dans nos recherches le thème de l’étalement urbain, en soulignant les coûts collectifs de différents modèles possibles de l’extension urbaine dans les agglomérations métropolitaines. Nous y avons proposé certains indicateurs permettant de mesurer ces coûts et visant à confirmer, par une analyse quantitative des dynamiques récentes d’extension urbaine dans l’agglomération métropolitaine milanaise, certaines relations causales que la littérature sur ce thème se borne à supposer. Nous avons cherché aussi à transporter le débat, souvent idéologique (ville compacte vs. ville étalée) sur le terrain des faits concrètement vérifiables (Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002a et 2002b).
Dans les réflexions qui suivent nous souhaitons avancer quelques considérations sur les racines culturelles profondes du modèle de l’étalement urbain tel qu’on l’observe en Italie, et sur ses tendances plus récentes.
En particulier, nous chercherons à montrer que:
- le phénomène de l’étalement urbain, tout récent qu’il apparaît, est par certains aspects profondément enraciné dans les processus d’urbanisation et de modernisation du « Bel Paese »;
- en effet, dans la longue période qui s’est écoulée entre l’Unification italienne et la chute du fascisme, les tendances à la concentration spatiale et les tendances anti-urbaines ont vécu côté à côté dans un projet contradictoire d’ingéniérie sociale visant, à la fois, la modernisation économique et l’embourgeoisement de la ville;
- à partir du second après guerre, aménagement et urbanisme ont privilégié – avec une certaine continuité, – une approche centrée sur la ville verticale et compacte dont on peut rapporter l’origine culturelle au Mouvement Moderne et au Rationalisme. Si ce projet ne s’est pas concrétisé de façon cohérente et qualitativement satisfaisante, c’est surtout à cause du contexte politique/administratif, qui a continué a attribuer un rôle marginal à l’aménagement du territoire, tandis que les intérêts de la rente foncière conditionnaient de façon déterminante les dynamiques de transformation spatiale;
- on assiste actuellement à une dé-légitimation radicale des outils traditionnels de la planification, produisant d’une part une intensification, voire une congestion considérable, d’initiatives spéculatives dans le secteur du bâtiment dans les villes centre et, de l’autre, une explosion symétrique de « villettopoli [1]» .
L’« Italie maltraitée » : étalement urbain et consommation des sols.
Comme il est arrivé dans d’autres pays européens, l’étalement urbain s’est affirmé en Italie dans les dernières décennies, en remettant en cause la différence entre ville et campagne. En particulier, il s’est imposé aussi dans des contextes non-métropolitains, avec des processus très évidents de rururbanisation qui accompagnent la consolidation des systèmes productifs de petite entreprise au niveau des districts industriels.
En 2001, l’Italie compte 7.500.000 maisons individuelles sur un total de 25 millions d’habitations, et le 58% des maisons bâties chaque année est constitué par des maisons individuelles. Dans les dix dernières années, 700.000 italiens ont quitté les métropoles, exaspérés par le trafic intense, la détérioration de la qualitè de la vie et la hausse des prix des maisons, tandis que 3 millions d’hectares de terrain agricole ont été urbanisés. La ressource-sol a subi par conséquent des dynamiques très marquées de consommation/gaspillage.
Dans un livre récent, au titre bien significatif – L’Italie maltraitée –, Francesco Erbani, qui se définit lui-même « journaliste social », décrit un certain nombre de mauvaises pratiques territoriales, touchant l’urbanisme et le bâtiment, qui ont eu lieu en Italie dans les dernières années. Ces monographies, synthétiques mais inquiétantes, sont précédées par des considérations générales sur la consommation des sols, la dérèglementation de l’urbanisme et l’ abusivismo (la construction sauvage et illégale), trois éléments qui caractérisent le panorama des transformations urbaines et territoriales (Erbani, 2003).
Si le Midi figure au premier rang dans les pratiques de construction illégale, destinées à être tôt ou tard entérinées par la procédure du condono edilizio[2], ce grand gaspillage de ressources territoriales affecte aussi des régions et des aires métropolitaines qui présentent un niveau de développement très avancé.
C’est le cas des structures urbaines polycentriques en organisation réticulaire de plusieures régions de l’Italie du Nord et du Centre qui semblent également destinées, à se développer souvent dans des directions analogues : les centres de taille moyenne et moyenne-petite subissent eux aussi ces phénomènes de suburbanisation et de périurbanisation, puisque le développement par le bas des activités économiques engendre des processus d’urbanisation du territoire rural et des continuités accidentelles du bâti, pendant que la mobilité urbaine augmente à rythme soutenu à cause de la complexité croissante des relations territoriales.
Le cas le plus significatif d’urbanisation de la campagne est représenté en effet par les riches régions du Nord-Est, où il est possible aujourd’hui d’apprécier les effets exercés sur le territoire par le modèle de développement de la Troisième Italie : un bon exemple en est offert par la plaine de la Région Vénétie, en particulier par la partie qui s’étend entre les provinces de Venise, Padoue et Trévise, et qui, grâce à un développement compétitif de la petite entreprise à caractère familial et des économies de district, est passée dans quelques décennies de territoire surtout agricole qu’elle était, avec son paysage harmonieux, à une série ininterrompue et désordonnée de maison individuelles, de hangars industriels et d’échangeurs routiers, saturés et encombrés par le trafic motorisé, à cause, entre autre, de l’opposition obstinée de la société locale à toute intervention infrastructurelle visant la modernisation (Indovina et al., 1990). La campagne s’est donc transformée en une Villettopoli, habitée par un peuple de « Tavernicoli »[3], dont les choix résidentiels s’avèrent dictés par la simple préférence accordée à la maison individuelle.
Mais les tendances à l’étalement se manifestent aussi dans les régions et dans les aires métropolitaines les plus avancées.
Le 57% du patrimoine en logements de la région Lombardie a été réalisé dans les trente dernières années et, si l’on eccepte la province de Milan, le 45% des habitations lombardes est constitué par des maisons individuelles. Entre 1980 et 1989, dans la Province de Milan (chef-lieu exclu) 71 millions de mètres carrés de sol agricole ont été urbanisés (Consonni, Tonon, 2001). On observe une tendance analogue dans la région, par ailleurs bien administré et aménagé, de l’Emilie Romagne où, entre 1976 et 1998, la population demeurant stable, l’urbanisation a redoublé. En particulier, la consommation de sol a redoublé dans l’aire métropolitaine de Bologne : l’étalement urbain a privilégié les territoires précieux de l’agricolture intensive de la plaine et les premières collines où, en outre, la consommation de sol est augmentée de façon exponentielle par rapport à la diminution de la taille des communes (+ 147% dans les communes avec moins de 5.000 habitants) (Regione Emilia Romagna, 2004).
Partout, dans les grandes villes de l’Italie du Nord et du Centre, les processus actuels de substitution sociale s’orientent dans la même direction, tout en présentant une intensité variable et des spécifités locales : les classes moyennes s’en vont, découragées par le prix des logements et par la médiocrité de la qualité urbaine ; ceux qui demeurent sont les groupes le plus aisés, et les anciens et nouveaux pauvres (les immigrés extracommunautaires).
2. La fortune récente de la ville étalée plonge ses racines dans une longue tradition.
Si beaucoup d’éléments, qui expliquent la fortune actuelle de la maison individuelle ou de l’étalement à basse densité dilué dans une campagne urbanisée, ressortissent en première instance aux mécanismes que l’on peut observer dans le cadre plus large du contexte européen, le cas italien présente certains caractères spécifiques qui se sont accumulés et sédimentés dans une période bien plus longue. Je les indiquerai de façon synthétique et par points, le sujet étant trop complexe pour qu’on puisse le discuter dans le détail.
2.1. Dans l’Italie du Nord, l’accumulation primitive industrielle/capitaliste a été réalisée en symbiose étroite avec la campagne.
Dans beaucoup de pays européens – cela est bien connu - le développement capitaliste-industriel a eu son essor dans les campagnes, dans le territoire rural (Landes, 1974). Dans l’Italie du Nord, en particulier dans le piedmont aride de la macro-région padane, ce modèle a obtenu un succès économique formidable, en exploitant de façon optimale cette « union intime » des villes avec leur territoire que Carlo Cattaneo déjà, au milieu du XIX siècle, mettait en évidence pour expliquer l’avantage compétitif au niveau international dont jouissait l’économie de la Lombardie, région largement laborieuse et civilisée (Cattaneo, 1975).
Avec le développement du chemin de fer et la disponibilité de nouvelles sources d’énergie, le processus de concentration urbaine de l’industrie et la croissance parallèle des dimensions des entreprises ont remplacé l’industrialisation rurale partout en Europe ; dans les grandes villes de l’Italie du Nord, pourtant, ce phénomène, qui a commencé à se manifester dans les dix premières années de 1900, n’a pas montré la même force centripète à l’oeuvre dans les grandes villes industrielles européennes. Certaines zones rurales fortement spécialisées dans la production industrielle ont continué à prospérer, dans un rapport étroit avec les grands centres urbains qui constituaient leur pôle d’encadrement directionnel et commercial[4]. Les classes dirigeantes des grandes villes industrielles de l’Italie du Nord, et de Milan en particulier, ont hésité pendant longtemps entre des options « pro-urbaines », favorables à la ville centre, qu’on considérait propices à l’essor de la grande industrie, et des nostalgies ruralistes dues aux préoccupations suscitées par la grande concentration de masses ouvrières dans les villes.
La réponse stratégique à ce dilemme des grandes villes industrielles a consisté, dès l’époque du gouvernement Giolitti (1903-1909) - lorsque le machinisme industriel et les grandes entreprises transformèrent le paysage de la première couronne des métropoles - dans l’amélioration progressive du réseau des transport (routes, chemin de fer), de façon à consentir la migration alternante efficace (d’abord hebdomadaire, puis quotidienne) d’un prolétariat logé dans des conditions de précarité extrème dans l’hinterland rural.
A la même époque on commença à transformer les centres des villes. Justifiés par des motivations de « magnificence civile » et par la nécessité de réaliser des grands équipements publiques et hygiéniques, les travaux de démolition et de renouveau se proposaient, en voie prioritaire, un but d’ingénierie sociale, visant à éloigner et à disperser sur le territoire le prolétariat et les industries, ou les activités fastidieuses et malsaines ; à permettre une substitution fonctionnelle rapide des aires les plus centrales, destinées au secteur tertiaire et au logement des groupes les plus aisés, en favorisant ainsi un embourgeoisement général des habitants du centre ville. En particulier, Milan, la « ville la plus ville » d’Italie, se distingua par son application rigoureuse de cette stratégie : d’une part, en améliorant sans cesse les possibilités d’accès, grâce à la réalisation d’un réseau serré et radial de chemins de fer et de tramways qui en feront rapidement une « città viaggiante (ville en voyage) » comptant déjà, dans la période 1924-1927, selon les chiffres officielles, 70.000 migrations alternantes (Consonni, Tonon, 2001 : 138) ; d’autre part, en opérant une série de démolitions très consistantes dans les secteurs les plus centraux de la ville, avec le résultat d’en appauvrir encore son tissu mixte et hétérogène du point de vue social et de compromettre ainsi l’intégrité des routes et des cours que Stendhal considérait parmi les plus beaux de l’Europe (Tintori, 1984).
Dans cette phase initiale de suburbanisation, la culture des classes dirigeantes des grandes villes industrielles italiennes a imposé un modèle de rapport ville/campagne qui, loin d’être inspiré par la nostalgie d’un mythe arcadien et bucolique, par la pensée des utopistes ou par un projet de ville-jardin, relevait surtout des stratégies concernant le marché du travail et le contrôle social. Les formes de l’expansion urbaine privilégièrent un modèle de stratification sociale très articulé qui suivait la rente différentielle des sols : depuis les secteurs centraux, occupés par la grande bourgeoisie, jusqu’aux banlieues urbaines habitées par les cols blancs et les petits employés.
La culture des urbanistes de l’époque participa pleinement à ce dessin : elle fut pro-urbaine en ce qui concerne les fonctions et les classes dirigeantes (ces dernières n’ayant d’ailleurs aucune envie de s’établir dans la couronne périurbaine), anti-urbaine par rapport aux couches sociales plus faibles et turbulentes.
2.2. Le fascisme prêche le ruralisme
Pendant la dictature fasciste, on assiste à une méfiance croissante envers la ville, qui va se traduire, à partir du moment où l’idéologie anti-urbaine devient l’idéologie officielle du régime, dans un penchant ruraliste marqué.
Le noyau du fascisme fut d’abord essentiellement urbain, et d’ailleurs milanais, comme le montre le ralliement au régime du Futurisme, animé par Marinetti, Balla et Boccioni qui souhaitaient, pour l’Italie, un avenir urbain et industriel. Dans leur perspective, Milan, la ville préféré par le Futuristes, aurait dû devenir un grand centre européen, la « ville qui monte » par opposition aux nombreuses « villes du silence » de la province paresseuse ; les « fumées sublimes » des cheminées d’usine enchantaient les Futuristes qui voyaient dans l’essor de l’industrie, le culte de la vitesse et des machines, la marque véritable de la modernité (Rosa, 2001).
Vers le milieu des années 1920, pourtant, les stratégies du régime empruntent un tournant significatif avec la « Ruralisation » , par laquelle on souhaitait faire front à la crise économique et au chômage croissant des centres urbains, en favorisant le retour à la terre, aux taux de natalité très élevés des campagnes et à une sorte de nouvelle accumulation primitive agricole. Autarchie et ruralisme apparaissaient comme les réponses les plus adéquates pour mettre un frein à la concentration urbaine dont on redoutait les moeurs décadentes, d’une part, et qu’on considérait, de l’autre, une source possible de conflits sociaux.
Les lois émanées par le gouvernement fasciste en 1928 et 1931 furent en réalité très ambiguës : elles octroyaient aux Préfets la faculté de limiter, par ordonnance, la croissance excessive de la population urbaine, sans indiquer toutefois des mesures d’application précises, ce qui explique pourquoi ces lois provoquèrent de graves phénomènes de migration illégale. En effet, pendant le fascisme, l’expansion urbaine subit une accélération considérable, dépassée seulement par le boom économique successif à la reconstruction de l’après-guerre. Cette situation contradictoire permet d’apprécier toute l’ambiguïté d’un régime à la fois réactionnaire et moderniste, qui seulement en 1939 introduira une loi contraignante contre la migration en ville. Cette loi, approuvée juste avant l’entrée en guerre de l’Italie, n’aura, à court terme, que des effets limités, mais elle restera en vigueur pendant plus de quinze ans et, en taxant d’illégalité les grandes migrations de la campagne à la ville qui se succéderont en Italie dans l’après-guerre, en aggraveront les coûts sociaux et les souffrances humaines (Treves, 1986).
Mais l’aspect le plus intéressant du conflit, tout intérieur au régime et sans cesse relancé, entre « traditionalistes » et « novateurs » , va s’accentuer dans les dernières années du fascisme, pour donner lieu non seulement à la loi de Disurbanamento de 1939, mais aussi à une initiative importante de signe contraire: l’élaboration et l’approbation en 1942 d’une Loi d’Urbanisme (Loi 1150/1942) très novatrice, due à l’aile technocratique et moderniste du régime, qui peut être reconduite au ministre des Corporations Giuseppe Bottai (Sica, 1978 ; Romano, 1980).
3. Miracle économique et aménagement de l’espace : l’impact sur la qualité des villes
Une fois achevée la Reconstruction de l’après-guerre, les villes industrielles de l’Italie républicaine ont traversé une période de croissance intense, tout à fait comparable, dans ses composantes essentielles, urbaines et territoriales, à celle d’autres pays avancés de l’Europe.
Il s’agit d’un développement dans des secteurs à haut valeur ajouté, fondé sur des entreprises de taille moyenne ou grande et sur le taylorisme, nourri par les migrations de main-d’oeuvre du Midi et qui se concentre surtout dans les agglomérations métropolitaines du Nord. Ce sont les années du « miracle économique », locution qui, par rapport à certaines formules de caractérisation épocale – telle, en France, les « trente glorieuses » - souligne l’aspect providentiel du phénomène, et dit bien, par là, l’absence d’une forte volonté publique.
Les outils d’urbanisme nécessaires pour promouvoir un développement harmonieux et réglé des villes avaient été préparés de façon tempestive par l’approbation de la Legge Urbanistica qu’on vient de citer et qui, à l’époque où elle fut élaborée et adoptée, représentait l’un des Codes les plus avancés en Europe dans ce domaine : l’outil le plus important était représenté par le Piano Regolatore Generale, ressortissant aux Communes et manifestement inspiré par le paradigme fonctionnaliste (spécialisation monofonctionnelle du zonage et haute densité en étaient les deux critères dominants) qui formulait les règles pour le zonage des sols et pour l’équipement en services de proximité.
Une analyse des raisons qui ont déterminé le peu d’efficacité de cette loi nous amènerait trop loin de notre sujet. Sans considérer le villes du Midi, où les processus de croissance ont mis en lumières des phénomènes importants d’hyperurbanisation et d’illégalité, il suffira de souligner ici le fait que, dans maintes villes de l’Italie du Nord et du centre, les règles de l’urbanisme ont été souvent circonvenues à cause de la pression formidable exercée par le binôme rente foncière/spéculation immobilière, que la loi de 1942 (voulue par le « bloc industriel », c’est-à-dire par le milieu des grandes entreprises) voulait endiguer.
Milan a représenté à ce propos un cas exemplaire : dans l’après-guerre immédiat, pendant l’administration du Comité National de Libération, la ville se dote d’un plan d’urbanisme typiquement rationaliste qui prévoyait, grâce au zonage des sols de tout le territoire municipal, la localisation en banlieue des entreprises industrielles, l’aménagement de l’habitat en quartiers auto-contenus à proximité des installation productives, le renforcement des liaisons internes et la réalisation d’une rocade périphérique. Avec les élections de 1949, le passage du pouvoir à la Démocratie Chrétienne marque le retour immédiat aux stratégies conditionnées par le bloc de la rente foncière. En particulier, ce qui s’affirme est une violation systématique des prescriptions du zonage : avec le consentement tacite et tolérant de l’administration communale, on ressortit à ce qu’on a défini le « Rite Ambrosien », une procedure qui permettait de construire dans les zones destinées par le Piano Regolatore à l’agriculture, dérogation justifiée par la priorité accordée au développement économique.
Une autre occasion manquée a été celle de l’aménagement des banlieues urbaines : les grandes interventions de type HLM ont ouvert un fossé difficile à combler entre les attentes de la population et les réponses fournies par l’initiative publique et par les architectes.
L’écart entre les modèles d’urbanisme proposés par le projet du Mouvement Moderne et les attentes de la population, ainsi que l’incapacité de maintes administrations locales de garantir l’équipement en services de proximité, ont été parmi les facteurs les plus importants qui ont favorisé et perpétué la construction sauvage et illégale (sourtout dans les grandes villes du Midi et dans les alentours de la Capitale), auxquels il faut ajouter un étalement périurbain auto-construit d’une qualité tout à fait médiocre (sauf dans les régions bien administrées telles que, par exemple, l’Emilie Romagne, la Toscane et la Ligurie).
4. Vive la ville/A bas la ville: tout le monde est libre et « chacun est maître chez-soi »
Les couronnes des grandes villes européennes ont enregistré, à partir du milieu des années 1970-début des années 1980, des phénomènes évidents d’étalement, de mitage urbain. Il s’agissait moins d’une contre-urbanisation que d’une forte dédensification métropolitaine relevant de deux causes principales : la réduction de initiatives de l’Etat dans le secteur des logements et l’évolution des styles de vie des familles (SCATTER, 2001).
L’étalement accéléré a été donc déterminé par des facteurs aussi bien push que pull. Ce binôme est opérant aussi dans le contexte italien : si l’expulsion des villes centres représente encore le facteur le plus important de la périurbanisation, l’attraction vers la nature, vers la campagne urbanisée, est de plus en plus marquée, aussi bien dans les territoires périurbains des region métropolitaines que dans les territoires de l’industrialisation non métropolitaine (districts, etc.)
Les principaux éléments push sont constitués par l’augmentation incessante, dans les métropoles post-fordistes, des valeurs foncières et immobilières qui a accéléré et intensifié le processus de ségrégation sociale, ainsi que par la médiocre qualité de la vie en ville-centre, due à l’encombrement, à la pollution, à la dégradation de l’environnement, à la criminalité et au manque de sécurité.
Mais ce sont surtout les éléments pull qui caractérisent d’un point de vue qualitatif le succès de la ville émergente contemporaine. Parmi ces éléments, les principaux peuvent être ramenés à l’individualisme croissant qui caractérise les nouveaux styles de vie de la population, aux opportunités accrues de mobilité privée, au retour à la nature.
Le desserrement résidentiel offre en Italie plusieurs modèles, qui vont de la maison « néo-bourgeoise » placée à l’écart, au retour dans des centres de petites dimensions, au pavillonnaire de médiocre qualité (Gallingani, 1995). Son corollaire est le succès remporté par les nouveaux modèles de consommation post-moderne[5], où l’accessibilité remplace la proximité, où chaque lieu s’ouvre à des espaces à géométrie variable dans un réseau de rapports de plus en plus complexes (Sernini, 1988).
Dans le modèle italien de la Villettopoli telle qu’il s’est récemment affirmé, on peut pourtant repérer un certain nombre de caractères contradictoires et de retombées négatives que nous allons souligner de façon synthétique et quelque peu accusée à conclusion de notre discours.
Villettopoli :
- est un territoire qui s’organise intégralement selon des logiques de marché : c’est l’effet combiné de l’inertie de la culture d’aménagement et d’urbanisme et des réponses manquées des gouvernements locaux aux défis posés par la transition de la métropole fordiste à la métropole post-industrielle. La possibilité de réutiliser les grandes friches industrielles localisées dans les villes centre ou en première couronne pour améliorer la qualité de la vie des agglomérations métropolitaines a été le plus souvent gâchée par des grands projets de localisation d’activités surtout tertiaires qui ont encore appauvri, banalisé et congestionné le tissu des villes, et par conséquent ont rendu plus attrayantes les couronnes les plus éloignées. En outre, l’attention prêtée aux espaces publiques a été presque nulle ;
- est un projet qui consomme et compromet de façon irréversible des territoires de haute qualité environnementale et à haut potentiel de développement (aussi bien dans les franges périurbaines des grande villes que dans les réseaux urbains polycentriques de la Terza Italia) selon un modèle de « planification privée »[6] ;
- n’invente pas des nouvelles morphologies urbaines car elle se développe grâce à l’addition spontanée et accidentelle d’interventions hétérogènes réalisées par un marché immobilier arriéré : petits lotissements/petites entreprises de construction et souvent auto-construction de la part de propriétaires individuels. En ce sens villettopoli consomme le paysage plus qu’elle ne crée un paysage nouveau ;
- ne produit pas une nouvelle urbanité, fluide et ouverte à l’interaction et à l’intégration ; elle produit au contraire individualisme, ségrégation, intolérance, soupçon. Villettopoli personnalise l’espace intérieur et extérieur de la maison dans une recherche identitaire poussée à l’extrême ; souvent, cette ségrégation est délibérément recherchée pour des raison de sécurité: plutôt que de gated communities, on devrait donc parler de gated houses ;
- est habitée par des citoyens qui, soit culture, soit tradition nationale, n’aiment pas beaucoup la nature, et qui utilisent de façon intensive leur lots en les saturant souvent avec toutes les additions artificielles possibles hors COS. Villettopoli occupe donc de façon intensive les territoires à basse densité, dont elle menace les valeurs paysagères résiduelles ;
- semble avoir un avenir promettant grâce à la tendance générale à la délégitimation de l’urbanisme qui s’est affirmée dans les dernières années. Un slogan qui a fait fortune, formulé par le Président du Conseil actuel Silvio Berlusconi pendant sa campagne électorale, affirmait: « chacun est maître chez soi ». Après le succès remporté aux élections, cette formule s’est traduite dans une poussée formidable de libérisme et de déréglementation. La Région Lombardie représente à ce propos un cas exemplaire, puisqu’elle a approuvé une série de lois partielles d’urbanisme et d’édilité qui ont radicalement libéralisé et flexibilisé les procédures d’urbanisation des sols et de réutilisation du patrimoine bâti et des friches en ville-centre.
En conclusion, la ville étalée semble destinée à tirer parti de la déréglementation à l’oeuvre en Italie, où l’échelle exclusivement municipale de la planification est en train de s’affirmer ainsi qu’un processus de transformation de la ville réalisé par projets partiels et dérogatoires, issus de l’initiative privée (Progettazione Complessa, Programmi Integrati).
La dédensification de la ville pourrait offrir, par contre, une occasion précieuse pour formuler de façon novatrice des stratégies d’aménagement à l’échelle intercommunale capables de tirer parti des nouvelles morphologies réticulaires et polycentriques (Anderlini, 2003 ; Gibelli, 2003). Il existe, évidemment, de bonnes lois régionales d’urbanisme qu’on a récemment approuvés, des plans stratégiques clairvoyants sur grande échelle, des projets urbains cohérents, mais ils n’arrivent pas à trouver une légitimation satisfaisante dans le contexte actuel.
Est-il envisageable de remettre en question Villettopoli? On peut en douter, si l’on considère la fascination que ce modèle a exercée dans le temps et la fortune que rencontrent les tendances « pathologiques » actuelles. Carlo Emilio Gadda, sans doute l’écrivain milanais le plus important après Alessandro Manzoni, dans son roman de 1938, La connaissance de la douleur, a consacré des pages très drôles à une région sud-américaine imaginaire - le Serruchón – où il est aisé de reconnaître les caractéristiques de la Brianza milanaise (c’est-à-dire le territoire hautement industrialisé au Nord de Milan) à une époque qui coïncide avec les débuts du fascisme et avec la prolifération de styles et d’artifices architectoniques qu’affectionnait la riche bourgeoisie « brianzola » de l’époque[7]. Nous ne pouvons qu’imaginer sa réaction face à l’initiative du maire d’une petite commune située à 20 km de Milan, qui, en 2004, a proposé au conseil municipal une délibération visant à interdire la construction de maisons individuelles en « style néo-arabe »: voilà la réponse de Villettopoli aux défis et aux tragédies de la globalisation économique.
Villettopoli semble donc destinée à proliférer, faute d’un changement résolu dans les politiques urbaines capable d’intégrer échelle locale et échelle plus vaste, et faute d’un projet de ville capable de réaliser un modèle de « compacité judicieuse », centré sur la durabilité du développement urbain et, d’abord, sur la construction d’un nouveau rapport entre urbs (la ville physique) et civitas (la société civile).
Bibliographie
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- Sica P. (1978), Storia dell’urbanistica. Il Novecento, Bari, Laterza
[1]J’utilise le terme forgé par l’urbaniste Pierluigi Cervellati, auteur de la requalification du centre historique de Bologne ; le terme signifie que la ville (polis) est désormais structurée à partir du principe de la petite villa (villetta) ou encore du pavillonnaire pour tous.
[2]Le condono edilizio est une disposition exceptionelle qui permet de légaliser les constructions hors plan en moyennant une sanction pécuniaire. En 1985, année de la première loi sur le condono, on a bâti 225.000 logement illégaux ; en 1994, année du deuxième condono (premier gouvernement Berlusconi),on en a compté 142.000 ; avec le condono actuel, on estime que les interventions illégales atteindront les 40.000 unités pour le seul 2003 et un chiffre analogue pour l’année en cours. Les tendances les plus récentes montrent que les interventions illégales ne se concentrent plus uniquement dans des zones très denses, mais aussi dans les franges périurbaines et dans la campagne urbanisée:ce qui comportera des coûts publiques croissants de la part des collectivités locales pour réaliser les services essentiels à l’habitat (voirie, assainissements, illumination, etc.) (Legambiente, 2004).
[3]J’utilise le terme bien évocateur inventé par Marco Paolini dans ses pièces théâtrales, où il met en évidence avec ironie la métamorphose du territoire ainsi que des styles de vie et de consommation de la population de la Vénétie, sa terre natale. Les Tavernicoli sont les nouveaux cavernicoles, c’est-à-dire les habitants des maisons individuelles auto-construites, dont la typologie prévoit au sou-sol la « tavernetta », lieu des rites du familisme triomphant, où on consomme les repas et on regarde la télé. Ces rites remplacent les rapports sociaux traditionnels du monde paysan dont les lieux naturels consacrés au loisir étaient le bar et le bistrot.
[4] Le modèle de forte intégration urbaine/rurale pratiqué dans les principales régions urbaines/industrielles du pays, sera relancé avec succès aux années 1970 lorsque, tandis que le modèle métropolitain/fordiste subissait partout un déclin irréversible, l’industrialisation diffuse de la Troisième Italie allait s’imposer à l’attention internationale pour ses réussites.
[5] En Italie, où l’offre commercial a eu du mal pendant des décennies à s’uniformiser à la rationalisation à l’oeuvre dans les autres pays européens, en préférant jusqu’à une époque récente le petit commerce de proximité à la grande distribution dépersonnalisée, on a assisté au brusque essor de la culture des non-lieux suburbains : tant en couronne qu’en ouverte campagne, le territoire est désormais colonisé par les hypercentres commerciaux localisésà proximité des grandes infrastructures routières, ainsi que par les factory outlets éparpillés dans la campagne.
[6]J’utilise l’oxymore planification privée au sens qu’Indovina lui attribue: à propos de l’étalement urbain récent, il souligne qu’il a été favorisée par certaines mesures législatives de flexibilisation en matière de construction en zones rurales et de localisation des grands équipements commerciaux ; mais aussi par les stratégies de réalisation des réseaux de transports lorsque, tout en étant d’origine publique, elles suivent une logique de rationalisation ex post et non d’encadrement ex ante. (Indovina, 2004).
[7]« Des villas, des villas : de petites villas huit pièces deux salles de bains, des villas princières quarante salons vaste terrasse sur les lacs vue panoramique du Serruchón (potager, verger, garage, conciergerie, tennis, eau potable, fosse d’aisances de sept cents hectolitres et plus) : exposées au midi, au levant, au couchant, au sud-est, au sud-ouest, abritées par des ormes ou à l’ombre antique des hêtres devers la tramontane et le pampero, mais non point contre la mousson des hypothèques qui soufflaient à tout emporter jusque sur l’amphithéâtre morainique du Serruchón et les peupleraies du Prado : des villas, des fermettes, d’énormes pavillons montés, de menus cottages solitaires, des folies jumelles, des bungalows genre villa et des villas genre rustique et des dépendances rustiques des villas : les architectes pastrufaziens en avaient, peu à peu, chacun son tour, constellé les paisibles et mols coteaux des pentes préandines qui, comme il va sens dire, « déclinent en douceur » : vers la sérénité en cuvette des lacs. (...) Ces villas, ou nombre d’entre elles, plus que jamais « coquettes » quand elles surgissaient au-dessus des robiniers ou des frondaisons redondantes du banzavóis, comme pointant d’une bananeraie des Canaries, on eût pu légitimement affirmer d’elles, l’occasion faisant le larron, et pour peu qu’on soit homme de lettres, qu’elles « coulaient oeillades emmile verdoyer des couteaux ». (...)D’autres villas mignonnes, à l’endroit de leur plus saillant arêtillon faîtier, se rehaussaient, fiéraudes, d’une tourelle pseudo-siennoise ou pastrufazio-normande, portant longue et noire tige à son sommet, pour drapeau ou paratonnerre. D’autres encore s’ornaient de menues coupoles et pinacles divers, du type russe ou quasi, un peu comme des raves ou des oignons à la renverse, avec couverture imbriquée et souvent polychrome, écailles – autant dire – d’un reptile de carnaval, moitié jaunes, moitié célestes. A telle insigne qu’elles tenaient de la pagode et de la filature, faisaient un compromis entre le Kremlin et l’Alhambra.
Car enfin tout était passé, tout, par la tête des architectes pastrufaziens : hormis peut-être les traits qui connotent le Bon Goût. Tout : le style Umberto et celui de Guillaume, le néo-classique et le néo-néo, le premier empire et le second ; le liberty, le jugendstil, le corinthe, le pompéien, l’angevin, l’égypto-Sommaruga et le Coppedè-galeazzien : les casinos de plâtre caramélisé de Biarritz et d’Ostende, le PLM et Fagnano Olona, Monte-Carlo, Indianapolis, le Moyen Age, en l’occurrence un Filippo Maria pour la bonne bouche tenant bras dessus bras dessous un pour calife : et jusqu’à la reine Victoria (d’Angleterre), maisvautrée sur une ottomane de Turquie » (Gadda, 1974 : 26-28).
Titolo originale, Belling the Box: Planning for Large Scale Retail Stores – Traduzione di Fabrizio Bottini
Introduzione
I punti vendita big-box possono variare di molto per dimensioni: alcuni ora hanno raggiunto proporzioni mastodontiche, oltre i 15.000 metri quadrati. Variano anche le loro nicchie di mercato. Ci sono i discounters come Wal-Mart, gli warehouse clubs come Pace, i category killers come Toys “R” Us o Best Boy (che offrono una vasta selezione di merci in relativamente poche categorie), e gli spacci aziendali – factory outlet stores – gestiti direttamente dalle fabbriche produttrici. Ma tutti hanno alcune caratteristiche comuni: grossi edifici rettangolari a un solo piano con facciate standard, orientamento esclusivo alla clientela che si sposta in automobile, sistemate dentro ettari di parcheggi, e nessun fronzolo progettuale concesso alla piacevolezza per la città o per i pedoni.
Alcune città e piccoli centri, preoccupate dell’impatto economico del commercio big-box sulle attività esistenti in centro, o per i suoi effetti in termini di sprawl, stanno dicendo di no a questi leviatani. Ma per una serie di ragioni, la grande maggioranza delle città hanno, o srotolato il tappeto rosso di benvenuto, o almeno approvato, brontolando. I negozi big-box offrono prezzi bassi e una grossa comodità, per una società sempre più povera di tempo. E per le amministrazioni locali che contano sulle entrate delle tasse commerciali per finanziare i servizi municipali, i grandi negozi big-box sono come manna dal cielo. La questione critica, per queste comunità è: il quali termini dare il benvenuto a queste grosse scatole?
Ad una estremità, nei casi di comunità che non conoscono le proprie possibilità o avvertono di avere pochi margini di trattativa con questi giganti del commercio, il risultato possono essere semplici scatoloni color crema di qualità industriale, coperti dai colori e marchi della compagnia, circondati da ettari di asfalto senza nemmeno un albero o un cespuglio in vista. All’altra estremità, un crescente numero di amministrazioni stanno “domando la scatola”, chiedendo un più alto livello di progettazione architettonica e intraprendendo azioni per assicurarsi che i superstores si rapportino meglio con l’ambiente e i dintorni. A Fort Collins, Colorado, della cui esperienza si farà un profilo in questa relazione, il consiglio municipale ha detto la sua adottando nuove regole per insediamenti di grosse dimensioni: “Questi standards e linee guida sono una risposta all’insoddisfazione rispetto alle strategie delle grandi imprese di distribuzione, che impongono progetti indifferenti all’identità e agli interessi locali. Scopo principale [delle regole] è di incoraggiare uno sviluppo che contribuisca a fare di Fort Collins un luogo distinto, riflettendole su caratteristiche fisiche a sommandosi ad esse in modo corretto”. Altri ritengono che la qualità generi qualità. Come ha sottolineato un urbanista nel territorio in rapido sviluppo della Douglas County, area suburbana a sud di Denver in Colorado, sostenendo gli standards locali sulla costruzione di big-box, “Non sarebbe saggio mortificare le regole. È un investimento che dà risultati. Se tieni un’immagine di basso profilo non sarai capace di attirare altre attività ad alta qualità che migliorino l’economia” (intervista al vicedirettore dell’Ufficio Urbanistica, John Johnson “New Wal-Mart Architecture Reflect Dougles Standards”, Rocky Mountain News, 10 luglio 1995).
Se ci sono segnali che l’ondata di negozi big-box possa aver raggiunto il massimo alla metà degli anni Novanta, come gli shopping malls hanno dominato i Settanta e gli Ottanta, è comunque chiaro che essi continueranno a porre problemi alle comunità anche negli anni del prossimo secolo. Molto dello sviluppo di alcune catene big-box si verifica come risultato di incursioni entro nuovi mercati, e questa caccia continuerà nella ricerca da parte degli operatori di aree prima non identificate o evitate, o di nuove che stanno emergendo a causa della crescita in località come la Douglas County in Colorado, una delle circoscrizioni a crescita più rapida livello nazionale. In mercati più maturi, le grandi catene lotteranno per la divisione degli spazi, aprendo nuovi negozi nella speranza di attirare clienti prima che essi raggiungano i punti vendita dei concorrenti: un fenomeno noto come cannibalizzazione. Il rallentamento e consolidamento del mercato big-box dovrebbe anche far suonare un campanello d’allarme nelle comunità potenziali ospiti. Quanto sarà spendibile un guscio standard big-box vuoto col suo piazzale a parcheggio, quando il negozio sarà chiuso? Resterà a lungo termine come un pugno nell’occhio della zona?
Questa relazione offre spunti e consigli al crescente numero di comunità che vogliono avere un esercizio commerciale big-box, ma averlo in modo sensibile agli effetti locali, e aiuterà ad operare perché questi superstores rimangano un elemento della città per gli anni a venire. Si concentra sulle esperienze recenti a Fort Collins, Colorado, che ha adottato una serie di linee guida e standards molto completi per adattare aspetto ed effetti degli insediamenti commerciali di grosse dimensioni.
Esposizione
Fort Collins, in molti e importanti aspetti, era un terreno ideale di sperimentazione di nuovi standards e linee guida per i negozi big-box. Si era già dotata di regole dettagliate riguardo al verde e alle insegne, la classica prima linea di difesa che le comunità impiegano nel rapportarsi coi superstores. Il problema, come ha dimostrato l’esperienza in tutti gli Stati Uniti, è che se il controllo delle insegne e la piantumazione di alberi possono aiutare ad attutire l’impatto, si tratta solo dei primi passi per un programma davvero efficace. In questo modo Fort Collins rea pronta ad andare oltre gli approcci abituali. La città aveva anche una base economica molto forte e occupava una posizione centrale nell’economia della regione, e in questo modo i consiglieri comunali non sbavavano certamente alla prospettiva di aggiungere qualche punto vendita in più, a qualunque costo. Unite a ciò, gruppi di quartiere di alto livello (Fort Collins ospita la Colorado State University) e un ufficio urbanistico con una formazione raffinata, anni di esperienza nel ben noto Land Development Guidance System della città e alte qualificazioni progettuali, e avrete il quadro per una riflessione innovativa. È anche importante sottolineare che l’amministrazione di Fort Collins agisce come autorità di governo cittadino secondo le leggi del Colorado, e ha di conseguenza ampi poteri di regolazione nell’uso del suolo.
Di fronte al flusso continuo di nuovi punti vendita di grosse dimensioni, Fort Collins ha adottato una moratoria su questo tipo di insediamenti, per consentire agli uffici di studiare gli impatti sulla comunità, e formulare chiare ed attuabili politiche per attenuarli. Gli uffici hanno organizzato un comitato consultivo informale comprendente rappresentanti dei quartieri, professionisti nel campo immobiliare, e cittadini interessati a collaborare con gli uffici di piano e di zoning per valutare nuove azioni. È stata coinvolta la Clarion Associates di Denver, per fornire consulenza riguardo alle esperienze in altre città, e assistenza nella redazione dei nuovi standards. Per rpima cosa, l’analisi si è concentrata sui seguenti aspetti:
Il consulenti, basandosi sulle proprie esperienze nella redazione di standards progettuali commerciali, e su una rassegna di misure innovative adottate in altre città come Bozeman, Montana; Jackson, Wyoming; Rancho Cucamonga, California, hanno presentato un insieme di potenziali linee guida e regolamenti alla città. Dopo diversi mesi di discussione, la planning commission e il consiglio municipale hanno adottato all’unanimità un corpo completo di standards basati sulle raccomandazioni del comitato consultivo e degli uffici comunali. Questi regolamenti si applicano a nuovi insediamenti commerciali di “grandi dimensioni”, definiti come “insediamenti commerciali o combinazioni di punti vendita in un singolo edificio, occupanti un’area di più di 2.500 metri quadrati lordi”, o che siano in aggiunta a grossi insediamenti commerciali esistenti, di cui incrementerebbero la superficie lorda di pavimento del 50%.
Caratteristiche Architettoniche
L’obiezione che più di frequente si solleva ai grossi superstores è che sembrano grandi e anonime scatole. Con facciate piatte e senza finestre, tetti piatti, mancanza di dettagli architettonici, entrate microscopiche difficili da vedersi, i negozi big-box sono nel migliore dei casi una noia, e nel peggiore un pugno nell’occhio per il futuro. Fort Collins ha adottato un insieme di chiari standards ad incoraggiare progetti architettonici migliori, che vadano oltre i prototipi presi belli e fatti dagli uffici della compagnia. Le nuove regole:
Colori, Materiali
Colori e materiali dell’edificio, così come il dettaglio delle architetture, possono qualificare o squalificare un big-box dal punto di vista estetico. Per alcune catene, in particolare i warehouse clubs e i deep-discounters, la scelta sembra essere quella dei materiali a disposizione, ovvero quelli più adatti agli impianti industriali. Altri usano composizioni di colori forti, e illuminazioni al neon per attirare l’attenzione, in modo tale che l’edificio diventa un gigantesco tabellone pubblicitario. Fort Collins ha adottato severe regole per incoraggiare l’uso di materiali di più alta qualità, che si inseriscano meglio nell’ambiente commerciale esistente e nei quartieri residenziali circostanti.
Relazioni con le strade e il quartiere circostante
Un aspetto spesso ignorato dei superstores è il modo in cui si relazionano e interagiscono con la comunità circostante e le pubbliche strade. L’approccio standard a volte sembra quello di tirare su una recinzione di legno alta due metri a separare le zone residenziali vicine, e un’altra recinzione a catenella con assi a schermare le zone di carico dei rifiuti. I quartieri di Fort Collins volevano qualcosa di più. I nuovi regolamenti richiedono che:
Flussi di traffico pedonale
Il pedone di solito è l’orfano abbandonato del commercio big-box, finché inizia a camminare dentro il negozio. Ci si aspetta di solito che schivi automobili, carrelli della spesa spinti dal vento, e altri ostacoli, prima di trovare la sua strada verso il negozio. Fort Collins ha adottato un insieme di requisiti per tentare di rendere i superstores più attraenti e sicuri ai pedoni.
Piazzali a Parcheggio
In aggiunta ai requisiti riguardanti i percorsi pedonali attraverso gli spazi dei parcheggi, Fort Collins si è cimentata anche con la stessa quantità e sistemazione delle centinaia, a volte migliaia di spazi parcheggio che classicamente sono il cortile dei big-box superstores. L’ordinanza promuove la localizzazione di queste strutture più vicino alle strade, e la discontinuità degli spazi a parcheggio, spezzettati secondo moduli separati da verde o altri elementi. Prima regola obbligatoria è che “non si localizzi fra la facciata principale e la strada principale, più del 50% dell’area di parcheggio non stradale complessiva”.
L’esperienza sino ad oggi
Fort Collins ha adottato i suoi standards per i big-box all’inizio del 1995. Le linee guida e i regolamenti erano parte integrante dell’orientativo Land Development Guidance System della città, e da allora sono stati interamente incorporati nel Land Use Code. Gli standards sono stati applicati dagli uffici nell’esame delle proposte, in stretto contatto con i consulenti progettisti. Anche se molti grossi progetti commerciali sono stati considerati fuori dagli standards e linee guida dopo l’adozione, due degli insediamenti principali stanno progredendo attraverso il processo di verifica dei progetti e i risultati, almeno sinora, sono positivi dal punto di vista della città. Secondo i funzionari degli uffici, la qualità delle proposte che esaminano è molto migliorata rispetto a prima dei regolamenti. Si avverte che le richieste della comunità per una progettazione responsabile stanno instaurando un clima in cui i divergenti obiettivi della qualità dei quartieri e del grande commercio possono essere affrontati e sommati attraverso la professionalità degli urbanisti.
La maggior parte dei costruttori e operatori di big-box hanno prestato attenzione e stanno sforzandosi in buona fede di venire incontro alle esigenze della città. Per esempio i progettisti di quello che dovrebbe essere un grosso insediamento, con un Wal-Mart di 20.000 metri quadrati, e un edificio da 12.000 metri quadri con vari occupanti, hanno presentato un piano che rappresenta un significativo avanzamento rispetto alla media dei negozi della catena. Ma la collaborazione ha rallentato quando sono stati coinvolti responsabili a livello nazionale. La questione principale, oltre all’intensità di utilizzo per quel sito particolare, è la richiesta di progettare un parcheggio distribuito tutto attorno all’edificio. I funzionari dell’impresa sono irremovibili, sulla costruzione della maggior parte degli spazi a parcheggio davanti alla facciata principale.
Un secondo grosso progetto vicino all’approvazione, un power center che comprende insieme sei big-box, sembra anche più promettente. La proposta comprende sette esercizi, da 7.500 a 10.500 metri quadrati, insieme a sei spazi per interventi futuri su 25 ettari. Quattro delle attività saranno raggruppate insieme in un solo grande edificio di 13.500 metri quadri. Il costruttore ha proposto un piano eccellente, che dimostra una grande dose di creatività nel venire incontro agli obiettivi standard dei big-box. Ciascuna facciata dell’edificio è dotata di caratteristiche architettoniche interessanti, molte delle costruzioni sono situate vicino alla strada, i parcheggi sono distribuiti attorno alle strutture principali anziché stare piazzati di fronte, percorsi pedonali ben definiti sono collocati in tutto lo spazio e le aree di carico sono integrate nel progetto edilizio, e relegate discretamente lontano dalla vista.
Conclusioni
Fort Collins ha fatto un grosso sforzo per influenzare le strategie di mercato delle grandi catene commerciali, che di solito dettano criteri di progetto indifferenti all’identità e interessi locali. Ciò è stato realizzato adottando un insieme dettagliato di standards progettuali e linee guida che adattano gli insediamenti commerciali secondo modi rispettosi dei caratteri comunitari, e ad attutire gli impatti negativi.
La discussione continua con gli operatori commerciali, sulla praticabilità degli standards scelti, in particolare la richiesta di ingressi multipli e di distribuire i parcheggi attorno agli edifici, rende questa attività in divenire un elemento di interesse e attento studio. Altre città negli Stati Uniti possono trarre beneficio dalla riflessione su quanto è accaduto qui, ma devono badare a tagliare su misura i propri approcci alla propria specifica situazione politica e di mercato, e agli impatti locali percepiti riguardo ai superstores commerciali.
Nota: il riferimento, generale, è a tutti gli altri articoli già riportati su Eddyburg/Megalopoli sul tema "big-box", nessuno escluso (fb)
La concorrenza commerciale, sia sul territorio che nell’iper-uranio multinazionale, inizia a produrre e rendere visibili cloni geneticamente modificati, che cambiano pelle (ma non più di tanto) per adattarsi meglio all’ambiente. La particolare operazione che qui si descrive brevemente, si può chiamare dei “cugini di campagna”: sono quattro, si assomigliano tanto, e sono pensati per la stessa campagna italiana. Visto che in questo campo l’inglese, a proposito e sproposito, va via come acqua fresca, preciso che la campagna qui si intende sia come campaign, che come countryside. Non che per i cugini la cosa faccia molta differenza.
L’impatto dei “villaggi della moda” è soprattutto visivo: come le lucine si accendono una dopo l’altra su un albero di Natale, nello stesso modo i nuovi colori dei villaggi si sovrappongono via via nel panorama italiano a svincoli dell’autostrada, a campagne, a periferie, ed è così che sino a questo punto sono stati trattati in questa serie di pezzi scritti per eddyburg.it. In altre parole, all’apparizione presentata come tale seguiva una riflessione, più o meno (di solito, meno) seria e approfondita. Il caso del Fashion District di Bagnolo San Vito, nel sud mantovano, è la prima occasione per procedere in senso inverso, visto che l’apparizione al momento in cui scrivo deve ancora avvenire, e le luci sono spente. Ovvero, mentre vengono stese queste note il villaggio è ancora in costruzione, e le quinte quasi cinematografiche delle architetture in stile spuntano ancora piuttosto brulle e grigie dalla pianura a ridosso del Po. Prontissime, sono invece le premesse e le promesse di questa ulteriore variazione sul tema dei nuovi insediamenti commerciali. Premesse e promesse che scivolano via lisce, su quello che tale Steve Collins (della JHP-Design, consulente “globale” della Fashion District) chiama the red velvet rope to value.
Come ci informa l’ufficio stampa nel file scaricabile dal sito, “la Fashion District è una holding costituita da un insieme di società immobiliari e di gestione”, con lo scopo di lanciare “un format commerciale distributivo innovativo, che si sviluppa sul modello del distretto industriale, che è ciò che ha determinato il successo del sistema imprenditoriale italiano”. Naturalmente, come si capisce scorrendo le specifiche di questa variazione sul modello del distretto industriale, non si vuole riprodurne il modello insediativo (con relativo disordine, sparpagliamento e quant’altro), ma lo spirito di azione complementare fra le imprese, in questo caso con un rapporto integrato fra produzione, distribuzione,
immagine. A parte le specifiche scelte in campo commerciale, pare proprio però che dal punto di vista spaziale interno/esterno e da quello dei rapporti col territorio vasto, non si esca dall’importato schema degli outlet villages, o almeno così si intuisce leggendo che a Bagnolo - come nelle altre tre “gambe” dell’articolata operazione a scala nazionale - vedremo “città in miniatura con strade, piazze, persino portici, che assecondano e favoriscono un modo del tutto italiano di fare acquisti: la passeggiata”. Scala nazionale, si diceva, visto che anche la struttura della holding e l’azione parallela immobiliare/organizzativa atterra contemporaneamente e con criterio identico su quattro siti: questo di Bagnolo nel mantovano, uno a Santhià nel vercellese, e due nel centro sud, rispettivamente a Valmontone nell’area romana e Molfetta nel barese. In cifre, e sempre intendendo complessivamente l’organismo a quattro gambe, questo sta a significare una superficie totale di vendita di 125.000 metri quadri, suddivisi fra 521 negozi più 225 “shop in the shops” (l’articolazione distributiva che probabilmente caratterizza l’approccio denominato per “distretti”), che creano 2.630 posti di lavoro e 10.500 posti auto, a servire una clientela annua calcolata in 52 milioni di gruppi/auto.
Solo qui, nella striscia di campagna fra gli abitati di Pietole (Virgilio) e Bagnolo, chiusa tra un canale e l’Autobrennero, servita dalla Statale 413 Carpi-Modena poco dopo la diramazione della 62 per la Cisa, si creeranno 550 posti di lavoro. Anche se per ora a questo proposito il supplemento specializzato del Corriere della Sera (10 ottobre) specifica solo “100 addetti alle vendite, 30 responsabili punti vendita, 25 viceresponsabili punti vendita”. Il totale, cifre alla mano, fa 155.
E gli altri? Anche il sito mantovaninelmondo.org resta un po’ sotto le previsioni dei promotori, e scrive che “Quando la struttura sarà a pieno regime, gli occupati si aggireranno sulle 400 unità”, ma forse c’è solo un metodo di calcolo diverso. Lo stesso sito web, ci informa tra l’altro che più o meno di fianco al Fashion District, nella stessa zona già a destinazione produttiva, su una superficie di 160.000 metri quadri si insedierà dal 2005 un impianto tessile decentrato dal polo mantovano, la Lubiam, per cui si prevedono altri 400 posti di lavoro. Quindi a quanto pare non vale la pena andare tanto per il sottile sulle questioni di impatto ambientale (come suggerito tiepidamente dal programma di sviluppo locale del basso mantovano): “Nemmeno il ritrovamento di preziosi reperti archeologici nell’area ha rallentato l’intervento”.
Cosa esattamente ci andranno a fare, i nuovi occupati, tra le colorate pareti degli “shops” o negli angoli specializzati degli “shops in the shops”? Possiamo cercare di indovinarlo scorrendo le job opportunities del sito di impresa fashiondistrict.it, opportunities a cui corrisponde - spesso se non sempre - l’attivazione di corsi del Fondo Sociale Europeo. Il piccolo popolo che in futuro occuperà professionalmente i vari anfratti del finto villaggio in stile padano/rinascimentale, si articola fra addetti - manageriali e non - alla vendita, personale per la ristorazione, e presumibilmente qualche unità per servizi, vigilanza, manutenzione ecc.; molti anche se non tutti - in una quota da definirsi - avranno contratti di tipo interinale, per cui la società ha già stipulato accordi con la Synergie (da qui, forse, le varie discrepanze nelle cifre). I corsi di formazione FSE di 600 ore per figure di Sales Promoter, gestiti dalla Fashion District in collaborazione con gli enti amministrativi territoriali interessati, prevedono lezioni in aula e stages in materia di: Comunicazione; Orientamento al mercato; Inglese; Altra lingua straniera; Organizzazione aziendale; Tecniche di vendita; Servizio al cliente; Modalità espositive; Gestione strategica e operativa di un punto vendita; Merceologia; Informatica. Non è poco, e a questo si aggiunge la formazione permanente di aggiornamento per personale già assunto, su approfondimenti delle materie citate, e/o altre discipline necessarie a muoversi tra la clientela anche internazionale e le varie proposte di Adidas, Rosenthal, Calvin Klein, Calzedonia, Pompea, Bassetti, Arimo ecc. Altro che braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, come qualche spiritoso (a partire dal sottoscritto) potrebbe insinuare guardando i padiglioni a colori caldi che spuntano dagli ex campi arati della pianura mantovana.
Come ci conferma - se necessario - il dossier sui factory outlet italiani proposto dal sito infocommercio.it (curato da Luca Tamini, del Laboratorio Urbanistica e Commercio del Politecnico di Milano), quella dei parchi commerciali è tutt’altro che una moda passeggera, ma vero
nuovo paradigma del paesaggio socioeconomico e territoriale, che volenti o nolenti ci avvicina alle modalità distributive e insediative moderne europee. I principi alla base del villaggio tematico-commerciale, riassumendo al massimo, sono: grande dimensione pur nella relativa forte articolazione delle proposte (gli “shops in the shop”, o comunque i piccoli esercizi o produttori); sinergia interna ed esterna (col “territorio” in senso lato) che determina localizzazione e ruolo; amplissima capacità di attrazione (che nei fatti travalica di gran lunga il “territorio” di cui sopra).
Queste caratteristiche, comuni a tutte le varianti sul tema, mettono ben in luce la irrinunciabilità, ad esempio, di una collocazione altamente focalizzata (e altamente focalizzante ad esempio riguardo ai flussi di traffico), di una stretta integrazione con altri interventi (nel caso mantovano, ma anche altrove, una zona produttiva, o un bacino turistico di massa prossimo), ma allo stesso tempo una particolare attenzione a temi di impatto ambientale e paesistico. Un quadro generale delle precondizioni, potenzialità e cautele, per il caso specifico del Fashion District di Bagnolo San Vito, è ben riassunto dalla relativa scheda del Piano Territoriale provinciale di Mantova, di cui riportiamo di seguito alcuni elementi.
Il contesto comunale in cui l’intervento si colloca, è descritto dal sito web municipale comunebagnolosanvito.it come “prevalentemente agricolo, ma si diversifica anche in altri settori grazie al lavoro di piccole e medie imprese artigianali e commerciali e alla presenza di alcuni impianti industriali”. Per la pianificazione territoriale vasta, qui siamo in un ambito ben infrastrutturato, potenzialmente complementare al rafforzamento della fascia produttiva meridionale del capoluogo, che di conseguenza “rappresenta un riferimento prioritario per la definizione delle politiche insediative”, nel quadro della “connessione alla realizzazione del corridoio plurimodale autostradale e ferroviario Cremona-Mantova e al sistema tangenziale di Mantova”. Con queste premesse, le indicazioni per la pianificazione generale (il Prg secondo il sito comunale è attualmente in corso di redazione a partire da una bozza già presentata e pubblicamente discussa) sono di svilupparsi per “progetti di riqualificazione organici, mirati alla valorizzazione degli elementi di carattere paesaggistico, di natura ambientale o infrastrutturale presenti”, con un inserimento nel quadro delle reti ecologiche-ambientali così come infrastrutturali.
Resta, ovviamente, il problema di come inserire in pratica, in questo contenitore logico dove tutto in teoria si tiene, le molte decine di migliaia di metri quadri della “nuova meta turistica pensata per il piacere di chi la visita e collegata a parchi tematici, a family entertainment center, multisala cinematografiche, auditorium e grandi alberghi” (citazione dal sito minervagroup.it: “Sbarca in Italia Prime Retail”). Una meta turistico-commerciale che, come tutte le altre sue simili, ha una isocrona media di 60 minuti, di solito calcolata sulle velocità autostradali rese realistiche dalla collocazione a ridosso di svincoli e nodi ad altissima acessibilità. Il che, nonostante tutto, non descrive ancora appieno l’idea secondo cui si tratta di “macro dimensioni di cui attendiamo fiduciosi sviluppi e aperture”. E, come ci informa il Giornale di Brescia del 23 luglio 2002, le decisioni che contano sono già prese: “18 ettari di terreno pertinente, un’area commerciale di 34.000 metri quadrati, 110 negozi che apriranno in due fasi successive e un investimento di 80 milioni di euro” (Alessandro Cheula: Draco a Mantova con un mega-outlet da 80 milioni).
Evidentemente si sono chiariti tutti i dubbi sull’effettiva compatibilità ambientale di un intervento di queste dimensioni, così come risultano anche dal rapporto relativo al Programma Integrato di Sviluppo Locale “Basso Mantovano”, che individua alcuni punti critici della proposta Città della Moda, nella previsione del traffico indotto, localmente e su un contesto più ampio ed articolato, con possibilità di riservarsi in casi simili “esclusione di uno o più progetti, soglie dimensionali, tipologie costruttive” (par. 3.3. Analisi della sostenibilità ambientale). E su quei 18 ettari di terreno pertinente, nelle giornate già corte di fine ottobre 2003, spuntano dalla bruma padana, quasi finiti, i padiglioni freschi di cemento. Si profila visibile lo schema anticipato su mantovaninelmondo.org :“distribuiti a corona su di un’area quadrangolare, saranno caratterizzati in stile architettonico cinquecentesco, tipico dei centri storici della zona”. In attesa del giorno dell’inaugurazione, prevista nella prima settimana di novembre, come annunciato a colori brillanti con immagini esotiche, sulle pagine nazionali di alcuni quotidiani di grande diffusione.
E qui finisce il ragionamento “prevenuto”, ovvero sviluppato seppur superficialmente in base alla documentazione disponibile online, con un solo e rapido sguardo al cantiere, tra quel canale, quell’autostrada, e quei fossi. Fossi piuttosto simili a quelli della vicina Pietole, appena oltre il ponte sulle sei corsie, dove duemila anni fa una contadina, in cammino per i campi, si sgravava del futuro poeta Virgilio.
L’inaugurazione per quanto ne so è stata una faticaccia, a partire dall’ora di cena di giovedì 6 novembre, con un revival dei “mitici” anni Settanta per cui è stata ripescata una vecchia Gloria discotecara, con contorno delle solite ubique starlette televisive, a illuminare le tenebre della città diffusa. Dato che il sottoscritto in quel momento stava in un ingorgo della stessa megalopoli, ma spostato di un centinaio di chilometri verso ovest, per la virtuale cronaca dell’evento dobbiamo fidarci di fashionmagazine.it, che quel pomeriggio anticipava:
“un vero e proprio spettacolo che vedrà la partecipazione di Luisa Corna (nella fotina qui accanto) in qualità di presentatrice e cantante in coppia con Gloria Gaynor, i ragazzi di Amici di Maria De Filippi, Masha del Grande Fratello e l’ex letterina Alessia Fabiani”. Insomma un trionfo, oltre che dello stile architettonico “cinquecentesco” sicuramente apprezzato da tutti, anche dell’indispensabile nazionalpopputismo, che lo valorizza
Ma la vera inaugurazione, per un posto del genere, è quella del primo sabato pomeriggio, quando tutti i Fantozzi delle isocrone di competenza (e anche qualcuno in più, come nel mio caso), si accodano un fanalino dietro l’altro sulla statale ultraintasata, per sperimentare quello che il già citato tale Steve Collins descrive: when you visit you’re made to feel you’re on the guest list. Una lista lunghissima, che si snoda dai due serpentoni della statale e del casello autostradale, per imbottigliarsi nel percorso (si spera provvisorio) a cul-de-sac, che dopo aver zigzagato attraverso la zona industriale scavalca l’unico ponte sul canale ad immettere nel solito, maledetto, sterminato, parcheggio ad anello. Un parcheggio più o meno identico, nel male e nel malissimo, agli squallidi ciambelloni neri che stringono ad anello i vari villaggi della moda in stile: cambiano gli slogan pubblicitari sull’ispirazione storico-culturale del progetto, ma resta identica la prospettiva di osservazione dei lontani scatolini colorati dei padiglioni commerciali, da cui ci separa l’infinita distesa ondosa delle lamiere luccicanti. Non aiutano, nel caso specifico, l’abbondante pioggia e i lavori conclusi a metà, come testimoniano le abbondanti sbrodolate di fango, e le brusche interruzioni delle false prospettive “cinquecentesche”, evidentissime per chiunque (come il curioso sottoscritto) non punti a paraocchi innestati verso uno dei disneyani cancelli di ferro battuto, che immettono in una specie di piazza con fontana.
Una volta all’interno, nonostante qualche ulteriore segno di “non finito”, il panorama migliora di parecchio, e tornano in mente le riflessioni dello storico dei centri commerciali Richard Longstreth: nonostante tutti i voli pindarici, anche in buona fede, di intere generazioni di progettisti sul tema dei valori anche sociali e civici di questi spazi, la logica mercantile alla fine si piglia tutto, ma proprio tutto. Detto in altre parole, chi si aspettava un centro storico, cinquecentesco o altro, vero, verosimile, o finto, se ne può anche tornare a casa, a cercarselo in giardino tra l’oleandro e il baobab, se crede. Le piazze, nonostante l’illuminazione ad effetto, nonostante l’improbabile blasone Fashion District che campeggia similgentilizio su una facciata in stile, sono vuote come un foro boario la notte di Natale: non un paio di pensionati a spettegolare, né una coppietta a pomiciare, né tantomeno un botolo a concimare le aiuole nuove di zecca. La folla, che è tanta, tantissima, non si scosta istintivamente più di un metro o due dal filo delle vetrine, al punto che anche i portici (con i loro colonnati vezzosamente varianti in stile,colore, ed effetto prospettico ogni manciata di metri) sono quasi vuoti, salvo fidanzati o mariti solitari, fumanti, impazienti, o semplicemente preoccupati per lo stato del conto corrente (nessun automatismo maschilista di pre-giudizio: pura osservazione statistica).
L’unico vero effetto concreto della scelta stilistica, o delle balle a uso gonzi sulla scelta stilistica, a piacere, si nota nel punto di interfaccia fra il mondo esterno e l’enclave felice del distretto commerciale dedicato al retailtainment: mancano del tutto i “portali”, tratto comune dei villaggi di Serravalle, Fidenza, Franciacorta, anche se il tema era declinato in vari modi, dall’atrio barocco, al colonnato di Ben Hur, al portico per sgranapannocchie. Qui nelle ex campagne di Bagnolo San Vito è un cancello tipo Cenerentola, a introdurci in quello che ostinatamente, ancora sulle pagine del Il Giorno dello scorso 30 ottobre chiamano “vero e proprio villaggio in stile cinquecentesco, che secondo i progettisti meglio ricorda le atmosfere del territorio virgiliano” (Anna Talò, Qui si vive di sola moda).
Atmosfere del territorio virgiliano che invece sono proprio del tutto diverse, come basta verificare ripassando in senso inverso i cancelli disneyani, la ciambellona nera a lamiere ondulate del parcheggio, e il ponte sul melmoso canale verso la zona industriale. Perché oltre gli orizzonti artificiosi (e del tutto legittimamente tali, visto che di centro commerciale si tratta) della caricatura di centro storico privatizzato, sta il cosiddetto “territorio virgiliano”, con cui il villaggio non ha proprio voluto avere niente a che spartire, salvo citare a pezzi e bocconi qualche cartolina, dopo aver frullato proporzioni e materiali secondo la formula magica del GLA, neologismo da iniziati che sta per Gross Leasable Area. Nulla di più estraneo, solo per fare un esempio, alle strade che oltre il ponte dell’Autobrennero si infilano dall’abitato della frazione di San Biagio verso gli argini del Po, tra canali, poderi e cascine, fino al piccolo cimitero di San Nicolò, proprio sotto l’alta scarpata d’erba che segna il margine esterno del Grande Fiume. Da quella scarpata e dalle stradine lì intorno, il pomeriggio di Ognissanti scendeva una folla varia, a visitare le tombe dei cari. Folla tanto simile, forse identica, a quella che oggi si pigia ad un massimo di novanta centimetri dal filo vetrina, ma se non altro immersa in una “atmosfera virgiliana” un po’ più onesta.
In definitiva e per farla breve: Ok con la nuova frontiera del commercio qualificato, e va bene anche la mega isocrona, purché non si intasi di traffico superfluo pure il lavandino. Passino anche i villaggi in stile che cercano il “legame col territorio”, ma chissà perché sembrano dappertutto tutti uguali, soprattutto per la ciambellona nera e repellente (e probabilmente evitabile) del parcheggio. Passi tutto, se come a quanto pare è possibile si possono fare buoni accordi con le amministrazioni locali, che vadano oltre gli oneri di urbanizzazione, che vadano oltre la promozione dell’immagine tramite ballerinette e cantanti nazionalpopolari (o glamour, forse sempre per via del “territorio”). Solo, e scusate se concludo con una espressione tecnica, vedete di non prenderci per il culo. Grazie.
Titolo originale: Higher Development Density: Myth and Fact – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
Nota di premessa: gli estratti che seguono coprono l’introduzione, e due degli otto capitoli (il n. 1 e n. 7) dello studio. Ho scelto in base a considerazioni personali che credo e spero condivise, di maggior generalizzabilità degli argomenti trattati: l’economia dei servizi, e il rapporto fra pianificazione e mercato/libera scelta. Per gli abituali motivi di spazio e leggibilità, ho tralasciato altri temi, come traffico, valore immobiliare, o sicurezza, che comunque gli interessati possono trovare sul rapporto integrale originale disponibile anche online (f.b.)
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Le trasformazioni demografiche in America stanno creando una domanda per nuovi tipi di abitazioni, uffici, spazi commerciali. C’è bisogno di nuove soluzioni per le sfide determinate dal mutamento della popolazione, dalla diminuzione degli spazi naturali, dallo smog e dai problemi di salute pubblica, dai bilanci comunali sempre più ristretti, dalla congestione da traffico. Le comunità che sapranno reagire a queste sfide diventeranno ottimi luoghi in cui vivere.
America vedrà 43 milioni di nuovi residenti (vale a dire 2,7 milioni di nuovi abitanti l’anno) da qui al 2020. La nazione non solo sta crescendo, ma anche attraversando eccezionali trasformazioni demografiche. La famiglia tradizionale con due genitori e figli ora rappresenta meno di un quarto della popolazione, e diventa relativamente sempre meno. Famiglie di un solo genitore, persone che vivono sole, coppie senza figli e empty nesters, ora rappresentano la nuova maggioranza, e hanno bisogni immobiliari piuttosto diversi. Questi gruppi probabilmente si orienteranno maggiormente verso residenze a densità maggiore e miscela di funzioni, in grado di offrire quartieri vivaci, più che case unifamiliari lontane dai centri comunitari.
Il fatto è che continuare il tipo di sviluppo diffuso, casuale e a bassa densità degli ultimi 40 anni è insostenibile, finanziariamente e in altri sensi. Porterà all’esasperazione molti dei problemi che lo sprawl ha già creato (la drastica diminuzione di aree naturali e territorio agricolo, tempi di pendolarismo sempre più dilatati, congestione da traffico paralizzante, pericoloso inquinamento dell’aria e delle acque). I funzionari dele amministrazioni ora capiscono come sostenere le spese delle infrastrutture di base (scuole, strade, biblioteche, caserme di polizia e dei pompieri, reti fognarie) diffuse su grandi territori sia inefficiente e costoso.
La maggior parte dei leaders pubblici desidera creare comunità vive e solide dove i cittadini possano godere di un’alta qualità di vita secondo modalità ambientalmente e fiscalmente responsabili, ma molti non sanno esattamente come raggiungere questo obiettivo. La pianificazione della crescita è un processo complicato e complesso che richiede a chi lo governa di adoperare vari strumenti per equilibrare i vari interessi della comunità. Sicuramente, nessuna azione è più importante dell’aumento di densità nei vecchi e nuovi insediamenti, ovvero il sostegno allo infill development, il ripristino e riuso delle strutture esistenti, e nuove urbanizzazioni a densità più elevata. E uno sviluppo ben progettato e integrato rende possibile il successo della crescita pianificata.
La densità non significa solo edifici sviluppati in altezza. La definizione dipende dal contesto dove essa è utilizzata. In questo studio, densità più elevata significa semplicemente nuove urbanizzazioni residenziali e commerciali con una densità più alta di quelle che si trova caratteristicamente nelle città esistenti. In questo senso, in un’area di sprawl con abitazioni singole unifamiliari su lotti di circa mezzo ettaro, altre case unifamiliari su lotti di 500 metri quadrati sono considerate alta densità. In zone più fittamente popolate con case unifamiliari su piccoli lotti, sono le townhouses e gli edifici ad appartamenti a rappresentare la maggiore densità. Nel caso di molti insediamenti suburbani, il fatto di distribuire centri a funzioni varie per la campagna è considerato indice di maggior densità.
La maggior parte degli urbanisti e degli amministratori ora concordano sul fatto che creare insediamenti con densità variabili, molti tipi residenziali e funzioni miste possa essere l’antidoto allo sprawl, se applicato a scala regionale. E in tutto il paese il pubblico sta diventando più informato e impegnato nel compiere scelte di uso dello spazio necessarie se si comprendono le conseguenze di una crescita come quella degli anni passati. Molti hanno anche iniziato ad apprezzare i benefici del “ place-making” connesso all’uso delle densità più elevate e del risparmio di terre libere. Anche la copertura mediatica sui temi della crescita e dell’urbanizzazione si è evoluta. Nel passato i media si limitavano ai conflitti fra costruttori e comunità di residenti. Ora spesso si presentano notizie più meditate e approfondite, e molte redazioni sostengono l’insediamento ad alta densità nei propri territori di riferimento, come antidoto allo sprawl regionale.
Eppure nonostante la crescente consapevolezza della complessità del problema, e il sempre più forte sostegno ad uno sviluppo urbano a densità maggiori, come risposta allo sprawl, molti sollevano ancora questioni e paure rispetto all’urbanizzazione densa. Come cambierà il quartiere? Peggiorerà il traffico? Cosa succederà ai valori immobiliari? E al livello di criminalità? L’evidenza (documentata in questo studio) suggerisce che un’urbanizzazione ben progettata a densità superiori, correttamente integrata entro una comunità esistente, può diventare un elementi urbano significativo che aggiunge qualità alla vita e valore agli immobili per quanto riguarda i residenti, e si rivolge ai bisogni di una nuova e diversa popolazione.
La percezione che molti hanno dell’insediamento a densità superiore non corrisponde alla realtà. Gli studi condotti dimostrano che chi viene intervistato rispetto al tema della maggiore densità urbana espone un punto di vista negativo. Ma quando vengono mostrate immagini parallele di spazi a bassa e maggiore densità, la gente spesso cambia idea, e preferisce quest’ultima. In una recente ricerca della National Association of Realtors® e di Smart Growth America, sei su dieci potenziali acquirenti di case, a cui è stato proposto di scegliere fra due diversi quartieri, hanno scelto quello che offriva meno spostamenti pendolari, marciapiedi, e servizi come negozi, ristoranti, biblioteche, scuole e trasporti pubblici raggiungibili a piedi. Hanno preferito questa opzione rispetto a quella con spostamenti pendolari maggiori e lotti più grandi, ma poche possibilità di muoversi a piedi. L’American Housing Survey del 2001 rivela inoltre che gli intervistati citano la vicinanza al posto di lavoro più spesso del tipo di abitazione come fattore principale nella scelta della casa. Queste contraddizioni indicano un diffuso equivoco riguardo alla natura dell’insediamento a densità più elevate, e dello sprawl. Parecchie di queste percezioni distorte sono tanto diffuse da essere considerate miti.
In parte questi miti sono il risultato delle memorie di alcune persone sui quartieri popolari a densità molto alte degli anni ’60 e ’70, che sono stati giudicati un fallimento. In qualche modo, l’idea dell’alta densità viene associata alle immagini negative e ai problemi sociali delle aree urbane depresse. In realtà sono stati numerosi fattori interrelati in modo complesso, come l’alta concentrazione di povertà, o le scarse opportunità di lavoro e istruzione, a condannare i progetti di edilizia pubblica. Anche densità urbane molto alte possono essere pratiche, sicure, desiderabili. Ad esempio, i complessi condominali ad appartamenti per redditi misti o gli edifici lussuosi sviluppati in altezza di New York e Chicago (tra le abitazioni più sicure e costose del paese)dimostrano che densità non significa ambiente poco sicuro.
Scopo di questo studio è di dissipare i tanti miti che circondano l’insediamento ad alta densità, e favorire una nuova comprensione del tema, che vada oltre la connotazione negativa semplicistica che ne sopravvaluta gli impatti e sottovaluta le qualità. I rappresentanti eletti, i cittadini interessati, i leaders delle comunità, possono utilizzare questa pubblicazione per sostenere un tipo di densità che realizzi ottimi spazi e ottimi quartieri, che la gente possa amare. Con le previsioni di crescita demografica e cambiamento degli stili di vita, un consenso verso città con densità miste, vari tipi edilizi, molte funzioni, diventerà necessario e auspicabile.
[...]
MITO: L’insediamento a densità più elevate sovraccarica le scuole e gli altri servizi pubblici, e richiede il sostegno di più infrastrutture.
REALTÀ: Il tipo di residenti negli insediamenti residenziali a maggiore densità (meno famiglie con bambini) genera una minore domanda di scuole e altri servizi pubblici, rispetto alla residenza a bassa densità. In più, la natura compatta dell’alta densità richiede infrastrutture meno estese a proprio sostegno.
I funzionari pubblici di tutto il paese combattono per realizzare le infrastrutture necessarie a sostenere l’insediamento diffuso. Uno studio recente di analisi dei costi dello sprawl ha stimato che si potrebbero risparmiare più di 100 miliardi di dollari in infrastrutture in 25 anni, prevedendo forme di urbanizzazione più governate e compatte. Il problema trascende gli schieramenti politici e le ideologie, ed è diventato una questione di semplice responsabilità. Il governatore repubblicano della California Arnold Schwarzenegger ha criticato lo “ sprawl fiscalmente insostenibile”, e quello democratico del Michigan, Jennifer Granholm, ha sottolineato come lo sprawl “sta minando la capacità dello stato e dei suoi governi locali, di finanziare strutture e servizi pubblici migliori”.
Gruppi progressisti e conservatori hanno individuato nello sprawl il problema reale. La Carta del New Urbanism afferma che “lo sprawl senza luoghi” è una “sfida alla costruzione di rapporti comunitari”. Gruppi conservatori hanno concluso che “lo sprawl è una problema per i conservatori” con “soluzioni conservatrici” e che “lo sprawl fu cerato in gran parte attraverso l’intervento pubblico nell’economia”.
In effetti, molte politiche governative dellos corso mezzo secolo hanno condotto ad uno sprawl sovvenzionato. Storicamente, la spesa federale per i trasporti ha sostenuto le grandi autostrade contro tutti gli altri mezzi di spostamento. Le politiche finanziarie della Federal Housing Administration hanno promosso lottizzazioni suburbane in tutto il paese. Lo zoning monouso a larghi lotti ha forzato una separazione funzionale di usi dello spazio, portando a grandi distanze fra posti di lavoro, case, commercio. Ma molti enti governativi ora comprendono che non si può continuare a realizzare tutte le infrastrutture e servizi che richiede lo sprawl.
I governi locali non solo sostengono molta parte dei costi di sempre più strade, reti idriche ed elettriche sempre più estese, condotti fognari di dimensioni e lunghezza maggiore, a sostegno dello sviluppo diffuso; essi devono anche finanziare i servizi pubblici per nuovi residenti che abitano sempre più lontano dal centro della comunità. Questi nuovi abitanti devono essere serviti di polizia e pompieri, scuole, biblioteche, rimozione dei rifiuti, e altro. Prolungare tutti questi servizi di base per aree geografiche sempre più estese pone un grosso carico sulle amministrazioni locali. Per esempio, l’amministrazione regionale di Minneapolis/St. Paul ha realizzato 78 nuove scuole nei sobborghi fra il 1970 e il 1990, chiudendone contemporaneamente 162 in buone condizioni entro i confini urbani. Albuquerque, New Mexico, ha subito una crisi finanziaria nei bilanci scolastici a causa della necessità di realizzare nuove e costose scuole nelle aree esterne mentre le iscrizioni in quelle più vicine declinavano.
Sfortunatamente per le amministrazioni locali, una quantità crescente di dati mostra che l’insediamento diffuso spesso non paga tasse locali sufficienti a coprire i servizi che richiede. Una ricerca condotta su una comunità suburbano fuori Milwaukee ha rilevato che i servizi pubblici per una casa unifamiliare di prezzo medio, qui, costano più del doppio della tassa locale pagata dal proprietario.
Uno dei motivi per la disparità fra gettito della property tax e costo dei servizi pubblici è la spesa per le scuole. I suburbi a bassa densità e le aree “esurbane” in genere attirano famiglie con più bambini in età scolare. Gli insediamenti di case unifamiliari hanno in media 64 bambini su cento unità, contro i soli 21 di una tipologia garden apartments o i 19 bambini delle case sviluppate su medie e grandi altezze. Il motivo è che l’abitazione multifamiliare attrae in modo predominante coppie senza figli, singles, e empty nesters.
E nonostante gli inquilini in affitto degli appartamenti non paghino direttamente la property tax, lo fanno i proprietari. Gli edifici ad appartamenti di solito sono anche tassati a cifre più alte dal punto di vista commerciale, e così un tipico insediamento a funzioni miste con commercio, uffici e appartamenti, può sovvenzionare le scuole e altri servizi necessari ai residenti a bassa densità dello stesso comune. Questo fenomeno è ulteriormente accentuato dal fatto che molti insediamenti plurifamiliari con commercio e uffici pagano di tasca propria la rimozione dei rifiuti, i bus navetta, o la sicurezza.
Ridurre la distanza fra case, negozi, uffici, riduce anche i costi delle infrastrutture pubbliche. Secondo uno dei molti studi disponibili sul tema “I costi pubblici di investimento e operativi per insediamenti compatti sono molto più bassi di quanto non siano per insediamenti in aree esterne, diffusi, lineari o satellite.”. E molti di questi studi non tengono conto dei vantaggi creati dalla maggiore facilità di realizzare trasporti pubblici o rendere servizi più efficienti e facili da erogare, come la consegna della posta, la rimozione dei rifiuti, i servizi di polizia e pompieri.
Un altro gruppo emergente di studi indica che l’insediamento a maggiore densità è un’importante componente dello sviluppo economico e aiuta ad attirare nuove imprese. “L’economia dell’informazione” è un termine che si utilizza per definire le sempre più numerose attività basate sull’economia di internet, sulla risorsa informazione, sulla proprietà intellettuale. Gli occupati in questi campi sono noti come “lavoratori della conoscenza” e molti ritengono che rappresentino il futuro dell’economia americana. Questi lavoratori hanno familiarità con le nuove tecnologie e, dato che le proprie capacità sono trasferibili, scelgono i propri posti di lavoro in base alla città o cittadina dove sono collocati. Apprezzano i centri urbani vivaci, diversificati, che offrono accesso alle tecnologie, ad altri lavoratori e stili di vita simili.
Il giro dello sviluppo economico è cambiato. Le imprese ora seguono i lavoratori, e non più il contrario. Quindi le città che si concentrano sull’offerta di un’alta qualità di vita tramite l’energia e la vitalità dei centri urbani saranno maggiormente in grado di attirare questi lavoratori ben pagati, capaci e produttivi, di quanto non siano le comunità dello sprawl senza volto. Le imprese che capiscono l’ appeal di questi centri stanno decidendo rilocalizzazioni, pensando a questo tipo di lavoratori. Le ricerche hanno mostrato che a densità di lavoro crescente cresce anche la produttività del lavoro, in genere attraverso la riduzione dei tempi di pendolarismo.
Quindi, introdurre densità più alte in una comunità aumenta concretamente il gettito fiscale senza aumentare in modo significativo il carico di infrastrutture e servizi. Introdurre tipologie ad appartamenti negli insediamenti a bassa densità può aiutare a sostenere le scuole senza drastici aumenti in termini di studenti. Divresificare l’offerta di tipi residenziali e aggiungere elementi come negozi e uffici vicini alle case, migliorerà la qualità della vita e attirerà persone e imprese a rafforzare la stabilità economica locale. Una maggior densità offre una concreta spinta economica alla città, e aiuta a pagare le infrastrutture e i servizi pubblici di cui tutti abbiamo bisogno.[...]
MITO: Nelle aree suburbane nessuno vuole insediamenti a densità superiore.
REALTÀ: La nostra popolazione sta cambiando, e diventa sempre più diversificata. Molte delle nuove famiglie preferiscono complessi residenziali a maggiore densità, anche nelle zone suburbane.
Molti di noi pensando all’ American dream si immaginano coppie sposate con bambini che abitano in una casa unifamiliare isolata nei sobborghi. L’idea generale è che le uniche persone disposte a vivere nelle aree ad alta densità siano coloro che non possono permettersi una casa tradizionale con un giardino, o vogliono vivere nel bel mezzo della città. Entrambe queste immagini sono incomplete.
La popolazione del paese sta cambiando, e con lei le preferenze immobiliari. Questi mutamenti negli stili di vita hanno significative implicazioni per quanto riguarda l’insediamento suburbano. Per la prima volta, ci sono più nuclei familiari di una sola persona (26,4%) che coppie sposate con figli (23,3%). I gruppi che crescono più in fretta sono gli individui fra i 20-30 anni e gli empty nesters di 50 e oltre, e sono quelli che più probabilmente cercheranno un’alternativa all’abitazione unifamiliare in zone a bassa densità.
Un numero crescente di americani sta ridefinendo il proprio American dream. Cercano stili di vita più vivaci e confortevoli. E mentre alcuni li cercano in città, molti altri si aspettano cose simili nei suburbi. Secondo uno studio del 2002 della National Association of Home Builders, più di metà degli inquilini intervistati rispondono di voler vivere nei suburbi. In più, un sondaggio nazionale sulle preferenze degli acquirenti di case ha rilevato che quasi tre quarti di essi preferiscono vivere in una città dove ci si può spostare a piedi o in bicicletta fino alla propria destinazione. L’American Housing Survey del 2001 riferisce che gli intervistati citano la vicinanza al posto di lavoro più spesso del tipo di abitazione come fattore principale per la scelta della casa. Queste indagini confermano che molte persone preferiscono il suburbio, ma desiderano caratteristiche tradizionalmente associate alla città, compreso l’abitare vicino al lavoro.
Con il continuo decentramento delle città e l’ascesa di comunità suburbane con servizi di tipo urbano, molte persone scoprono che è possibile vivere e lavorare nei sobborghi con tutte le caratteristiche di suburbia che vogliono, senza rinunciare a spostarsi a piedi e ai negozi. Uno studio recente conferma che in molte regioni ci sono più spazi per uffici localizzati nei sobborghi di quanti non ce ne siano nei centri città, offrendo così un’opportunità ai dipendenti di abitare vicino al posto di lavoro. Le città e i costruttori che hanno riconosciuto e risposto a alla duplice tendenza del decentramento degli uffici e del crescente desiderio per uno stile di vita più confortevole, sono stati ricompensati. I quartieri ben collocali, a densità maggiori e funzioni miste, sono sempre più popolari nei sobborghi, e creano un nuovo sense of place.
Le parti di città vengono realizzate utilizzando i migliori concetti degli insediamenti tradizionali:lotti più piccoli, vari tipi edilizi residenziali, portici sul fronte, marciapiedi, negozi e uffici raggiungibili a piedi, trasporti pubblici vicini. Cittadine come Celebration in Florida o King Farm in Maryland sono diventate così popolari fra il pubblico dei potenziali acquirenti di casa che tutte le preoccupazioni sull’esistenza o meno di una domanda del genere sono state sostituite dalle preoccupazioni per il rapido aumento dei prezzi, che le collocava fuori dalla portata di chi non ha un reddito molto alto.
[...]
Nota: naturalmente quest'ultimo riferimento alle gated communities (si vedano i testi a proposito in questa stessa sezione di Eddyburg)come esempio a contenuti positivi lascia piuttosto perplessi, ma tant'è. Per il documento integrale e originale, si veda il sito dello Urban Land Institute, sezione "reports" (f.b.)
Il testo riportato precedentemente sul tema, di Lorlene Hoyt, esaminava alcuni aspetti dell'associazionismo privato per la rivitalizzazione dei distretti commerciali "naturali", ovvero non strutturati originariamente secondo i modi dello shopping mall, ma in quelli della "main street" tradizionale, o di quartiere. Qui (ed è importante) è la pubblica amministrazione ad intervenire, per chiarire come, almeno nel caso del Massachusetts, si sia ben lontani da qualunque idea di autogoverno privatistico dello spazio, e anche da una sorta di monocultura della sicurezza ad ogni costo, praticata escludendo e ghettizzando i soggetti e le zone non associate al Distretto. Un esempio interessanto di come, anche oltre la progettazione semplicemente spaziale/morfologica, si possa tentare di contrastare alcuni elementi trainanti dello sprawl (fb)
Titolo originale Business Improvemente Districts. A Guide to Establish a BID in Massachusetts – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Introduzione
Questa guida è stata predisposta dal personale del Department of Housing and Community Development per aiutare le comunità interessate ad organizzare e attuare un Business Improvement District (BID) in Massachusetts.
Secondo la International Downtown Association, un’organizzazione senza scopo di lucro per la rivitalizzazione dei centri città e fonte a livello nazionale per le informazioni sui BIDs, nel 1994 il Massachusetts si è aggiunto a oltre 40 altri Stati quando ha approvato la legge che autorizzava la formazione di BIDs. Al momento attuale, ne sono attivi centinaia in tutti gli Stati Uniti.
Un BID è una strategia di gestione e strumento finanziario per il centro città, che consente ai distretti commerciali di sviluppare, sostenere e amministrare programmi e servizi mirati esclusivamente all’interno di un distretto. La chiave del successo è la partecipazione del settore privato - operatori commerciali e proprietari immobiliari – il quale riconosce i benefici di un apporto privato alla gestione e miglioramento del centro città. I proprietari immobiliari entro un distretto aggiungono valore alla proprietà finanziando servizi aggiuntivi e programmi da essi stessi progettati, e il BID opera per migliorare il clima dell’attività commerciale. La municipalità mette a disposizione il proprio potere di raccogliere fondi per la gestione del BID, rendendolo così effettivamente un’iniziativa a cooperazione pubblico-privata.
I proprietari del centro città attivano un BID per varie ragioni. Spesso la spinta è la chiusura di un grosso operatore commerciale, o la non utilizzazione di parecchi esercizi. Altri elementi catalizzatori comprendono l’arrivo previsto di un grosso esercizio discount nell’area esterna alla città, o una amministrazione locale attiva che cerca di rivitalizzare il centro comunitario, stabilizzare la base fiscale immobiliare e stimolare l’orgoglio civico.
La presente guida descrive un Business Improvement District e delinea gli interventi e servizi che un BID è specificamente demandato a svolgere secondo la legge del Massachusetts. Descrive anche il meccanismo finanziario e l’ambito di strutture a pagamento che un BID può impiegare. Si descrivono i passaggi che un BID deve superare per ottenere l’autorizzazione municipale, e iniziare ad essere operativo. In Appendice, un documento specifica ciascuna fase del processo di approvazione e i tempi richiesti per le azioni da parte dell’amministrazione municipale. Nonostante non si conoscano casi di BIDs sciolti, è incluso anche il processo di eventuale scioglimento.
Cos’è un Business Improvement District (BID)
Un Business Improvement District (BID) è un metodo utilizzato per finanziare e gestire gli interventi in un’area commerciale in determinati distretti, per rispristinare o promuovere l’attività. Il BID è un distretto geograficamente e specificamente definito per fornire servizi supplementari quali mantenimento e promozione di attività al suo interno, gestione professionale, marketing, interventi di manutenzione, miglioramento dell’ordine e sicurezza, e interventi fisici sull’aspetto delle strade del distretto. Il BID è finanziato dai proprietari all’interno della zona che accettano un’addizionale sulle tasse immobiliari, che viene destinata esclusivamente ad azioni di beneficio per l’intero distretto. La municipalità raccoglie questi fondi, e li consegna alla struttura BID, la quale li inoltra verso servizi migliorati o aggiuntivi, rispetto a quelli offerti tradizionalmente dalla municipalità. I fondi connessi a un BID sono utilizzati solo per migliorare servizi municipali, e non è consentito sostituirli a quelli di servizi esistenti.
Ci sono tre vantaggi principali in un BID. Il primo è la capacità di fornire servizi aggiuntivi e ampliati che migliorino l’ambiente commerciale. Il secondo vantaggio è la capacità del management professionale del commercio e dei servizi, molto simile a quella offerta in uno shopping mall, che alza il livello del distretto e rafforza le possibilità economiche municipali. Il terzo importante vantaggio è la fonte di finanziamento certa e prevedibile fornita dal BID. In breve, i BIDs consentono la messa in atto, in modo organizzato e professionale, di pratiche commerciali competitive, e di servizi sviluppati e sostenuti in modo cooperativo a scala locale.
In Massachusetts, un BID può essere formato in qualunque area geografica dove almeno il 75% del suolo è destinato ad attività terziarie, commerciali, produttive o funzioni miste. Il concetto di BID, di partecipazione privata ad interventi comuni, non è diverso da un distretto di miglioramento ( betterment district) dove i proprietari immobiliari pagano per specifici interventi strumentali. È anche stato paragonato alle spese comuni di cui si fanno carico gli affittuari di uno shopping mall e che sono utilizzate per la manutenzione, sicurezza, promozione. Un BID può fornire tutti questi servizi, per competere su un piano di maggiore equità con un centro commerciale.
Quali attività e interventi può intraprendere un BID?
La legislazione che regola la formazione dei BIDs in Massachusetts si trova nella sezione 40 O del Massachusetts General Laws Chapter. In tutto lo stato, le attività BID sono ricomprese in quelle più generali di:
1) Servizi di Gestione del Distretto – Un BID fornisce finanziamenti a, e richiede una struttura di gestione per, lo sviluppo e messa in opera di interventi nell’area commerciale basati sugli specifici bisogni della zona.
2) Manutenzione e Sicurezza – Devono essere servizi supplementari, oltre il livello di quelli forniti dalla municipalità, nei settori della pulizia stradale, spalatura della neve, arredo a verde e sicurezza.
3) Servizi alle Attività – I BIDs abitualmente svolgono pratiche di informazione sugli spazi commerciali, compresa la compilazione di dati sulla disponibilità, le sue specifiche caratteristiche, commissionano analisi di mercato, indagini sui consumatori, forniscono progettazione di fronti commerciali, materiali promozionali e pubblicitari, assistenza allo sviluppo delle attività.
4) Servizi di promozione e marketing- Caratteristica di molti programmi BID è la pubblicità comune, la promozione dell’intero distretto e l’organizzazione di eventi particolari normalmente non offerti dalla municipalità.
5) Interventi Urbani e Gestione Immobiliare – I BIDs talvolta sono formati specificamente per finanziare interventi pubblici sul centro città, e gestire strutture come ad esempio quelle di parcheggio.
Le leggi del Massachusetts definiscono a grandi linee diritti e poteri di un BID approvato dagli organi di governo della municipalità (consiglio, o ufficio delegato), e che comprendono:
1. Mantenimento o inserimento di attività all’interno del BID
2. Amministrazione e gestione di aree commerciali centrali o di quartiere
3. Promozione dello sviluppo economico
4. Gestione dei parcheggi
5. Progettazione, costruzione, manutenzione o gestione di edifici, spazi urbani stradali o infrastrutture, per incrementare lo sviluppo economico e l’uso pubblico
6. Attività di conservazione storica
7. Affitto, proprietà, acquisto o opzioni sul patrimonio immobiliare
8. Attività complementari di manutenzione, sicurezza, pulizia
9. Servizi di progettazione architettonica e urbana
10.Formulazione di una struttura tariffaria
11.Accumulazione di interessi
12.Esposizione finanziaria o indebitamento
13.Partecipazione ad accordi
14.Citare ed essere citati a giudizio
15.Impiego di servizi legali e certificazione bilancio
16.Esecuzione di studi di fattibilità, mercato, pianificazione
17.Sviluppo di attività comuni di marketing e promozione
18.Sostegno ad attività pubbliche, artistiche o di servizi ambientali connesse al miglioramento del distretto commerciale
19.Esecuzione di altre attività o programmi di servizio supplementare che sviluppino gli scopi già citati (MGL Ch. 40 O).
La flessibilità del BID consente a ciascun distretto di sviluppare un proprio piano di intervento sui suoi bisogni. Una comunità può attivare un BID solo per fornire sicurezza e manutenzione supplementari. Un piccolo centro città può decidere che un BID è la giusta sostituzione alle iniziative volontarie di raccogliere fondi per le decorazioni stradali o la sponsorizzazione di eventi promozionali. Un’altra zona può formare un BID per realizzare e gestire una struttura di parcheggio.
Come si finanzia un BID?
A tutti i proprietari entro il BID viene applicata una addizionale sulla tassa per gli immobili, per finanziare servizi e programmi supplementari. L’esattore tesoreria municipale raccoglie i tributi e li mette a disposizione della struttura gestionale designata dal BID. L’ammontare della somma è stabilito da ciascun BID, ma non può superare su base annua lo 0,5% del valore totale accertato della proprietà immobiliare posseduta dai membri partecipanti del distretto. Per esempio, per ogni 5 milioni di dollari di valore accertato della proprietà partecipante, il BID può raccogliere un massimo di 25.000 dollari. Comunque, tramite il proprio piano d’intervento annuale, il BID ha la possibilità di limitare o fissare un tetto a questa addizionale massima sulle singole proprietà, o sulla somma totale raccolta. La municipalità ha il potere di esentare dal prelievo BID: 1) i proprietari-inquilini residenti, 2) le attività agricole, 3) altre proprietà esenti dalle tasse.
La base del prelievo è determinata in base a una formula con contiene uno o una combinazione dei seguenti:
1) valore accertato
2) diversi livelli e classificazioni della proprietà immobiliare
3) zone avvantaggiate
4) superficie
5) affaccio stradale
6) ogni altro elemento connesso agli obiettivi specifici del BID
[...]
Nota: è possibile scaricare direttamente da qui il file PDF (cliccare col lato destro del mouse) col testo originale e integrale, dal sito del Massachusetts Housing Department. Il primo caso di organizzazione di una struttura simile, è quello del BIA di Toronto, che offre QUI materiali scaricabili relativi ad un vero e proprio Manuale di Gestione corrente del Distretto (fb)
“Ferilli, bellissima in un abito nero. Bella e simpatica come sempre, ha fatto da madrina al nuovo Outlet Village, sottolineando il gusto dei costruttori nel realizzare una struttura commerciale non invasiva dal punto di vista paesistico”. Così ci rassicura Bresciaoggi di domenica 14 settembre scorso (In quattromila a Rodengo per la Sabrina nazionale), e francamente ce n’era un gran bisogno, di questa versione nazionalpopolare della VIA, perché a prima vista il paesaggio appare piuttosto invaso. Ma una fede nelle icone nazionali, specie se spacciate come di sinistra, mi spinge a capirne di più, di questa non invasiva
piattaforma di cemento con sfondo di dolci colline.
Siamo in comune di Rodengo Saiano, ai margini occidentali dell’insediamento compatto di Brescia, e rispetto ad altri parchi commerciali tematici italiani, il tema sembra sviluppato in una logica più “metropolitana”. Naturalmente, e come d’abitudine in questi casi, l’enfasi comunicativo-pubblicitaria calca molto di più sull’immagine campagnola, ma basta un colpo d’occhio per capire che l’elemento rurale, qui, è stato cotto, mangiato e digerito da un pezzo. Del resto, basta un colpo d’occhio in marcia di avvicinamento a rafforzare l’impressione. Per chi viene dalla direzione di Venezia, il villaggio si presenta solo come l’ultima – anche se decisamente più gradevole – di una lunga serie di skylines che mischiano elementi industriali (come il famoso inceneritore bresciano a sud della tangenziale), e più tipicamente commerciali, come vari ipermercati, l’Ikea, il monolite trasparente del “distributore” di automobiline Smart. Anche per chi si avvicina lungo la strada Padana Superiore, da Milano, il villaggio rappresenta certo la “porta” verso la Franciacorta e la zona turistica del lago d’Iseo, ma la collocazione lungo una superstrada e l’accesso diretto da svincolo danno comunque una forte impressione urbana, che il gigantesco parcheggio ad anello non contribuisce certo ad attenuare. Il modo migliore di “gustarsi” l’accesso al Village è forse quello di imboccare il tracciato secondario verso il lago d’Iseo, che parte da una diramazione a destra della Padana Superiore, poco fuori dal territorio
comunale di Brescia. È così possibile intravedere più da vicino la città industriale che via via si dirada, lasciando spazio a qualche sparuta testimonianza di campagna: campi arati, filari di alberi, fossi, qualche edificio rurale. Poi anche questa impressione finisce, dopo il visibilissimo cartello OUTLET, e l’ingresso nell’ex podere della cascina Moie, ora zona industriale Moie, all’orizzonte del quale spunta, dopo una lunga sequenza di metropolitanissimi precompressi misti a destinazione varia, la miscela di colori caldi (sembra di parlare di un tessuto) del parco commerciale.
Il villaggio, una volta superata la barriera anulare delle migliaia di auto nel parcheggio, ha un aspetto gradevole, con le abituali articolazioni del fronte, portici, aperture, uso abbondante e visibile del legno, e in qualche modo giustifica la dichiarazione ufficiale secondo cui nel progetto ci si è ispirati ai temi della campagna lombarda. Naturalmente qui la campagna lombarda, come a quanto pare tutto nel mondo della moda, è puro simbolo e citazione: per trovare qualcosa di davvero simile alla campagna, bisogna inoltrarsi ancora di parecchio nella Franciacorta, o fare dietro front e scendere di un po’ di chilometri nella pianura del Mella.
Comunque, bisogna accontentarsi, e al centro del villaggio spicca anche la restaurata cascina Moia, che dà il nome a tutta la zona. Non aiuta, un ipotetico storico dell’arte futuro, la presenza, sovrastante la stessa cascina, degli archi dorati di McDonald’s, di cui sembra che i portici riprendano il motivo. Ma tant’è.
Più interessante, per la tutela del territorio (e la sopravvivenza di chi ci sta sopra), sembra essere l’insieme di iniziative concordate fra il piccolo comune di Rodengo Saiano e i promotori (un nuovo gruppo italo-americano: European Fashion Center, Cfr. il sito franciacortaoutlet.it). Si va dalla realizzazione di nuove piazze nel paese, alla concessione gratuita di spazi comunali all’interno del villaggio, all’accordo per la sponsorizzazione di una lunga serie di iniziative comunali e in generale dell’immagine della zona. A questo, e nella logica complessiva “metropolitana” cui ho già accennato, si aggiunge l’idea di collocare in un grosso stabile industriale dismesso ai margini della zona Village, una “Città delle Macchine” inserita nella rete del Museo dell’Industria bresciano. Se si comprendono i 600-1000 posti di lavoro che il villaggio promette di creare direttamente, si ha un senso più completo dell’impatto generale, anche oltre le pur rispettabili opinioni di Sabrina Ferilli.
Anche l’ambiente fisico e sociale, pur superficialmente e ad una osservazione occasionale, suggerisce un’idea più “nazionalpopolare” del centro, che in una domenica pomeriggio di sole dà davvero l’idea del paese in festa, con famiglie accalcate al bar o adolescenti in massa con motorini a ciondolare qui e là. Certo che non aiuta, a scaldare la temperatura relazionale, quell’immenso parcheggio circolare che isola la cascina, e il villaggio finto che le sta attorno, dal resto del mondo. Un mondo che, appena fuori dalla zona Moie (sì: con un po’ di attenzione è anche possibile uscire senza imboccare per forza la superstrada!), inizia a dare un’idea di cosa doveva essere prima il paesaggio, da quelle parti. Ma a quanto pare tutti sono contenti, e in effetti rispetto ai casi “visionati” sinora, il risultato sembra migliore. Sarà l’abitudine? Sarà la Ferilli?
Mah!
Alcune immagini sono raccolte in questa cartella
Titolo originale: If We Don’t Like Sprawl, Why Do We Go on Sprawling? – traduzione di Fabrizio Bottini
Abbiamo gli uffici urbanistici. Abbiamo le regole di zoning. Abbiamo istituito gli Urban Growth Boundaries [margini di sviluppo urbano imposti dal piano regolatore n.d.T.], e organizziamo conferenze sulla smart growth e sul problema dello sprawl. Ma ce l’abbiamo ancora, lo sprawl. Fra il 1970 e il 1990 la popolazione di Chicago è cresciuta del 4 per cento, mentre la sua area urbanizzata cresceva del 46 per cento. Nello stesso periodo Los Angeles si è gonfiata del 45 per cento in popolazione, e del 300 per cento in area occupata.
Lo sprawl ci costa più delle terre agricole cancellate, o del pendolarismo dentro a paesaggi di impressionante bruttezza. Ci costa dollari, che escono dalle nostre tasche sotto forma di tasse locali più elevate. Questo succede perché il nostro metodo di crescita urbana, in particolare quello delle zone esterne ad uso estensivo di suolo, costa molto più in servizi di quanto non restituisca in tasse.
Nel suo nuovo libro Better Not Bigger, Eben Fodor cita studi dopo studi che dimostrano come questa crescita aumenti le tasse. Nella Loudon County, Virginia, ogni nuova casa su un lotto da mille metri quadrati aggiunge ogni anno 705 dollari in carico al bilancio municipale (per la raccolta della spazzatura, manutenzione stradale, ecc., al netto della tassa locale sugli immobili). Una nuova residenza su un lotto da due ettari costa alla collettività 2.232 dollari l’anno. A Redmond, stato di Washington, le case unifamiliari pagano il 21% di tassa sulla proprietà, ma costano il 29% al bilancio cittadino. Uno studio sulla Central Valley in California ha colcolato che un’edificazione più compatta potrebbe far risparmiare alle municipalità 200.000 ettari di terreno agricolo e 1,2 miliardi in tasse.
Ci sono dozzine di studi del genere. Arrivano tutti alla medesima conclusione. I nuovi residenti di fatto prendono dalle tasche dei vecchi residenti le risorse per mantenere scuole e altri servizi aggiunti. Gli insediamenti commerciali e produttivi fanno anche di peggio. Possono anche pagare di più in termini di tasse di quanto non chiedano in servizi, ma il traffico e l’inquinamento che generano riduce il valore delle proprietà immobiliari circostanti. Le nuove attività spesso portano dipendenti che non vogliono vivere nei pressi della lottizzazione industriale o commerciale, e così costruiscono casa e pagano tasse nella municipalità VICINA. Le imprese più grandi e meglio organizzate, come le squadre sportive o Wal-Mart, convincono le amministrazioni a costruire stadi, ampliare strade, fornire gratuitamente reti idriche e fognarie, o promesse di riduzioni fiscali, garantendosi così che ciascun contribuente della città sborsi denaro per aumentare i loro profitti.
Visto che ci basta vivere in una città in sviluppo, o guardare alle città più grosse, per notare come le tasse non diminuiscano con la crescita, è stupefacente che molti di noi credano ancora ai sostenitori di questo sviluppo, ascoltati e potenti virtualmente ovunque.
Una delle ragioni per cui gli crediamo ancora, è che il mito della crescita, come ogni mito, nasce da un nucleo di verità. La crescita urbana va a beneficio di qualcuno. Le agenzie immobiliari vendono, le imprese di costruzione offrono impiego, le banche hanno più depositi e crediti, i giornali aumentano le tirature, i negozi fanno più affari (anche se hanno una maggiore concorrenza). I proprietari dei terreni che vendono ai costruttori possono guadagnare parecchio, e i costruttori ancora di più.
Tutta questa gente promuove la crescita. Eben Fodor li chiama la urban growth machine e prende come esempio il modo in cui si alimenta un motore. Immaginate un progetto di urbanizzazione che costerà alla comunità 100.000 dollari e porterà benefici per 50.000. Questi 50.000 vanno a dieci persone, 5.000 a testa. I 100.000 si scaricano su 10.000 persone, come incremento fiscale di 10 dollari. Chi presterà davvero piena attenzione a questo progetto, parteciperà alle riunioni pubbliche, coinvolgerà avvocati, e funzionari pubblici? Chi, sinceramente, può credere e affermare ad alta voce che questa crescita è una buona cosa?
Fodor cita l’ambientalista dell’Oregon Andy Kerr, che definisce la crescita urbana “uno schema a piramide in cui relativamente pochi prosperano, alcuni altri trovano da vivere, ma per cui la maggior parte [di noi] paga”. Finché ci sarà da prosperare, nessuna tiepida misura di tipo smart growth intaccherà l’espansione urbana e lo sprawl.
La più identificabile causa dello sprawl è quindi questa growth machine, m anon sarebbe giusto dare tutta la colpa a quelli che ci guadagnano. Essi stanno semplicemente giocando secondo le regole. Regole stabilite principalmente dal mercato, che ricompensa chiunque è abbastanza intelligente per scaricare i costi dell’attività su qualcun altro. Io mi prendo i proventi delle attività, e tu costruisci le strade. Io pago i miei dipendenti (il meno che posso), tu stai in mezzo agli ingorghi stradali e respiri gli scarichi di quando loro vengono al lavoro. Io faccio la lottizzazione, tu perdi spazio aperto, acqua pulita, animali selvatici. Siamo noi, collettivamente, a stabilire le regole, compresa la mangiatoia di sussidi dalla quale prendono in abbondanza. Non possiamo dargli la colpa, se prendono.
E abbiamo bisogno dei servizi che offrono alla comunità (con altri amici dilettanti come me, sto tentando di creare un eco-quartiere di 22 unità, e imparando ad apprezzare le capacità e i rischi di un costruttore). Non è compito loro controllare lo sprawl; è loro compito seguire regole concrete, chiare, solide, che chiedono di competere sulla base dei prezzi più convenienti, ovvero scaricare i propri costi su altri nella massima misura legalmente possibile.
Questo ricompensa abbondantemente alcune persone, e di solito le persone che cercano un posto nei governi locali.
Non perché siano cattive persone, ma perché abbiamo costruito un sistema che li mette in imbarazzo.
Prenditi i profitti, scarica il costo su altri, non fermarti ma vai avanti e fallo ancora.
Urleranno e strepiteranno se gli togliamo questo, ma dobbiamo rispondere urlando e strepitando più forte, perché non possiamo essere obbligati a pagare il loro guadagno netto. La questione deve essere basata non tanto sulla libertà di impresa o di fare profitti, ma sull’imposizione fiscale senza rappresentanza [la taxation without representation fondativa dell’indipendenza americana nel XVIII secolo, n.d.T.], sulla sottrazione ad altri, sulla capacità limitata della natura e della comunità di sostenere queste consuetudini.
Nota: il sito del Sustainability Institute del Vermont, con altri articoli della direttrice Donella Meadows e altri materiali. Il tema di questo articolo, a ben vedere, è lo stesso di quello recente riportato da Eddyburg, di Gian Antonio Stella sulla città diffusa veneta e la tranquillità con cui la si guarda da parte di alcuni (fb)
Titolo originale, The Impact of Chain Stores on Community– Traduzione di Fabrizio Bottini
Lasciate che cominci leggendo qualcosa scritto da Jane Jacobs nel suo La vita e la morte delle grandi città americane, sulle relazioni fra attività a gestione locale e vita comunitaria. “Comunità” è una parola tanto usata, che raramente ci fermiamo a considerarne il significato. Per Jacobs, quello che costituisce la comunità non è nessuna cosa in particolare, piuttosto le molte piccole interazioni che si verificano nella nostra vita quotidiana.
”Essa nasce” scrive “dalla gente che si ferma al bar per una birra, ricevendo informazioni dal droghiere e dandone all’edicolante, confrontando le opinioni con gli altri clienti della panetteria e lanciando un saluto ai due ragazzi che bevono gazzosa sul portico ... sentendo di un lavoro dal ferramenta e prendendo a prestito un dollaro da farmacista ...
”La maggior parte di tutte queste cose è evidentemente banale, ma la loro somma non lo è affatto. La somma di questi contatti sociali casuali, a livello locale ... la maggior parte casuali, la maggior parte legata alle commissioni ... è un senso di identità collettiva per la gente, una rete di rispetto e fiducia generale, e una risorsa in tempi di bisogno personale o di quartiere. La mancanza di questa fiducia è un vero disastro, per una via urbana”.
Quello descritto qui dalla Jacobs potrebbe essere un quartiere urbano, o un piccola città. La caratteristica che lo definisce – a ben vedere lo stesso fondamento di questa comunità così legata – è la fiorente attività commerciale del posto. È uno spazio di piccoli negozi e marciapiedi; un posto dove lo spazio privato e quello pubblico si sovrappongono; un posto dove acquistare beni e servizi da esercizi gestiti dai nostri vicini.
Posti come questo sono sempre più rari. Le strade piccole, a scala di pedone, stanno cedendo il passo ai grossi impersonali shopping centers. La vita di strada ne soffre, e le nostre commissioni quotidiane ruotano sempre più attorno a luoghi accessibili solo in automobile. Gli esercizi di proprietà locale stanno scomparendo, scacciati da catene nazionali che hanno pochi legami e nessun impegno di lungo termine verso la comunità.
La perdita di negozi a proprietà locale e il ritmo della concentrazione commerciale sono vertiginosi. 11.000 farmacie indipendenti hanno chiuso da 1990. Le librerie indipendenti sono crollate dal 58 per cento delle vendite librarie del 1972 al solo 17 per cento di oggi. I commercianti locali di ferramenta e casalinghi sono in declino, e due sole compagnie si sono prese il 30 per cento del mercato. La Blockbuster noleggia uno su tre video a livello nazionale. Cinque imprese controllano un terzo del mercato alimentare, dal 19 per cento di soli cinque anni fa. Un solo marchio, Wal-Mart, conta sul 7 per cento di tutta la spesa dei consumatori. Se continua la tendenza attuale, i commercianti indipendenti potrebbero presto diventare una cosa del passato. Ma, nel mezzo di questa espansione senza precedenti delle grandi imprese commerciali nazionali, si manifesta un’altra tendenza: un crescente numero di comunità respinge le grandi catene commerciali.
La scorsa estate, i residenti di Ashland, Virginia, hanno costruito una ispirata campagna per bloccare la proposta di un Wal-Mart. In ottobre, la locale Planning Commission ha votato all’unanimità contro il progetto. A Chelsea, Michigan, gli abitanti hanno organizzato un pic-nic per protestare contro il progetto di un drugstore Rite Aid. L’evento ha raccolto una folla di 1.100 persone. Rite Aid ha rapidamente fatto marcia indietro. Cose simili stanno succedendo in tutto il paese.
A ben vedere, negli ultimi due anni sono sorti dozzine, forse centinaia, di gruppi di quartiere a proteggere le attività a radicamento locale. A Lake Placid, New York, un gruppo conosciuto come Residents for Responsible Growth sta lavorando con i centri vicini per costruire una risposta a scala regionale all’espansione delle grandi catene. A Flagstaff, Arizona, sono stati l’arrivo di Barnes & Noble e di Home Depot, a spingere i residenti a formare il Friends of Falstaff’s Future. A Northfield, Minnesota, i Citizens for Responsible Development lavorano per difendere la storica Main Street commerciale della città, e i negozi locali.
Consumatori
Il dibattito sulle grandi catene di distribuzione è spesso presentato come una lotta fra i nostri cuori e i nostri portafogli. Possiamo piangere la perdita del droghiere dell’angolo, un’istituzione del quartiere per tre generazioni, o la libreria indipendente della zona, ma alla fin fine crediamo che, come consumatori, stiamo meglio senza. Tendiamo a ritenere scontato quanto detto dalle grandi catene, ovvero che ci portano prezzi più bassi e una più ampia varietà.
Ma nel lungo termine il consumatore è meglio servito quando sono in molti a competere sul mercato. Le grandi corporations del commercio come Home Depot, Toys “R” Us e Best Buy sono conosciute nel settore come “ category killers”. Il nome ha un suo senso. Questo tipo di commercio non ha intenzione di competere con i negozi locali: mira ad essere la sola selvaggina in città.
Normalmente, una grande catena entra nel mercato locale esibendo grossi sconti. Molte catene utilizzano prodotti in perdita per attirare clienti. Si sa che Wal-Mart ha venduto confezioni da cinque litri di latte per 25 centesimi, o etichettato interi settori merceologici con prezzi inferiori a quelli di costo. Questo scatena una battaglia che i commercianti locali non possono vincere. Se non si adeguano ai prezzi delle grandi compagnie rischiano di perdere clienti. Se si adeguano a quei prezzi, perdono denaro su ogni vendita. Se una grande compagnia può permettersi di gestire un nuovo punto vendita in perdita per un tempo indeterminato, è solo questione di tempo prima che un esercizio locale sia costretto a chiudere. Una volta eliminato il concorrente locale la grande catena tende ad alzare i prezzi. In Virginia, una ricerca su parecchi negozi Wal-Mart a livello statale ha rilevato prezzi che variavano fino al 25 per cento. I ricercatori ne hanno concluso che i prezzi salgono nei mercati dove nel commercio ci sono pochi concorrenti. Una conclusione simile è stata ricavata in un’analisi su Home Depot. I prezzi erano fino al 10 per cento più alti a Atlanta, se paragonati ai mercati più competitivi di Greensboro, nel North Carolina.
Per quanto riguarda la scelta più ampia, i consumatori dovrebbero stare particolarmente in guardia riguardo alle dichiarazioni delle grandi compagnie. I commercianti indipendenti di solito sono i primi e mettere in vendita i prodotti delle imprese più piccole. Al contrario, le grandi catene rifiutano di avere rapporti commerciali con le aziende piccole e medie. Preferiscono avere a che fare solo con grossi produttori. Il risultato è che i piccoli produttori – anche quelli che fanno prodotti innovativi, pubblicano grandi libri, o distribuiscono film d’avanguardia – stanno vivendo tempi di crescenti difficoltà a raggiungere i consumatori.
Considerate gli effetti di tutto questo sul mercato librario. Borders Books e Barnes & Noble sicuramente stipano un gran numero di titoli sotto lo stesso tetto, ma si tratta virtualmente degli stessi titoli, che si trovano in ciascuno dei loro 2000 negozi. Nonostante le librerie locali tendano ad essere più piccole, collettivamente mettono a disposizione – e promuovono – molti più titoli di qualunque delle grandi catene. Si prendono il rischio di autori sconosciuti o di piccoli editori. Una quantità di scrittori best-seller, compresi Barbara Kingsolver e Amy Tan, affermano che senza librai indipendenti i loro primi libri sarebbero silenziosamente andati invenduti.
Economie locali
Anche se le grandi catene ci fanno risparmiare qualche dollaro prima o poi, la cosa ci costa cara. Le compagnie contribuiscono molto meno degli esercizi indipendenti all’economia locale.
I costruttori spesso presentano i nuovi insediamenti commerciali come grandi arricchimenti nell’economia locale. Sottolineano la crescita nelle vendite e le opportunità d’acquisto. Elencano le nuove opportunità di lavoro e il nuovo gettito fiscale che i negozi porteranno con sé.
Quello a cui spesso non si fa caso è l’altro lato del documento di bilancio. A differenze delle nuove fabbriche, che creano davvero crescita economica, i nuovi negozi semplicemente spostano la spesa dei consumatori da un’area all’altra della città. Un nuovo negozio big-box può avere successo solo a spese di altri esistenti.
Uno studio condotto in Iowa, ad esempio, ha rilevato che i nuovi punti vendita Wal-Mart traggono una media dell’84 per cento del volume di vendite da esercizi già esistenti in città. Conclusioni simili sono state raggiunte in studi sull’insediamento di big-box in Massachusetts, Maine, Vermont, New York, California e Virginia.
Quello che tutti gli studi mostrano è che molto poco delle vendite generate da un nuovo negozio rappresentano una nuova spesa. Invece, questi insediamenti semplicemente spostano attività economica da una parte di città all’altra. Il risultato finale non è sviluppo economico, piuttosto delocalizzazione economica.
Uno studio su Greenfield, Massachusetts, ha concluso che un proposto Wal-Mart sarebbe costato agli esercizi esistenti 35 milioni di dollari in vendite. I nuovi 177 posti di lavoro guadagnati col Wal-Mart sarebbero stati compensati dalla perdita di 148 posti in altre attività. Uno studio simile su St. Albans, Vermont, ha rilevato che un nuovo Wal-Mart avrebbe derivato il 76 per cento delle proprie vendite da esercizi locali. Molti di questi negozi sarebbero stati obbligati a chiudere, portando a un significativo declino nel totale occupati del commercio, e del gettito fiscale degli immobili.
Il passaggio dalle attività a gestione locale alle grandi catene distributive implica anche la perdita di significativi benefici economici secondari.
I negozi locali inseriscono i propri profitti entro un circuito economico pure locale. Sostengono una serie di altre attività. Creano opportunità per imprese di servizio, come attività contabili o tipografie. Fanno affari con la banca locale. Fanno pubblicità attraverso le radio indipendenti, e altri media a base locale. Acquistano beni da distributori cittadini o regionali. In questo modo, ogni dollaro speso in un negozio locale è un rivolo di beneficio economico che scorre attraverso la comunità.
Al contrario, le grandi catene tipicamente centralizzano tutte queste funzioni nei loro uffici direzionali. Mantengono spese e investimenti locali al minimo. Fanno affari con le grandi banche nazionali. Evitano le radio locali, a favore della pubblicità nazionale. In questo modo, la gran parte di ogni dollaro speso in un negozio delle grandi catene esce immediatamente dalla comunità.
I piccoli negozi indipendenti creano anche differenziazione economica, e stabilità. Dato che sono di proprietà locale, sono saldamente radicati nella comunità. È improbabile che si trasferiscano e faranno del loro meglio per affrontare anche i momenti di crisi peggiore.
Al contrario, le grandi catene tendono ad essere “amici per i tempi buoni”. Sono altamente mobili, e abbandoneranno una localizzazione appena i margini di profitto scendono sotto le aspettative. Lo scenario peggiore è quando un negozio big-box si insedia all’esterno della città, distrugge il tessute commerciale centrale, e poi dopo pochi anni decide di chiudere. La città è lasciata con una Main Street senza vita, e niente che possa sostituirla. A livello nazionale, ci sono più di 300 Wal-Mart vuoti. È molto difficile trovare un affittuario per questi edifici monouso, che spesso rimangono inutilizzati per molti anni.
Una comunità che ha perso il commercio locale a favore delle grandi catene nazionali, rischia anche di perdere altre opportunità di sviluppo economico. Le nuove tecnologie hanno messo molte imprese in grado di operare virtualmente ovunque. Quando queste compagnie esaminano le opportunità di localizzazione, i centri con un nucleo commerciale vitale e caratteristiche definite, spesso sono in cima alla lista.
Comunità
Da un punto di vista economico, ci sono molti argomenti per sostenere che le grandi compagnie non siano la cosa migliore. Ma forse, più significativi di qualunque considerazione economica, sono i benefici qualitativi della proprietà locale. Gli esercizi a gestione locale rendono forti le comunità. Forniscono la base per la rete di relazioni e fiducia che Jane Jacobs riteneva tanto essenziale per una sana vita di quartiere.
Ci sono molti motivi, per questo. Il primo è che i negozi indipendenti tendono a localizzarsi in distretti commerciali a dimensione umana, orientati alla mobilità pedonale, tutto l’opposto dell’esperienza di vuoto e isolamento del parcheggio di una grande catena.
La seconda ragione è che i negozi locali creano un senso del luogo e della identità comunitaria. Riflettono la cultura locale. Danno al quartiere l’atmosfera particolare. Sono spesso fonte di orgoglio collettivo e attraggono visitatori.
Al contrario le grandi catene sfrondano la comunità delle sua caratteristiche individuali. Anche le città americane più famose stanno perdendo il loro fascino unico. Kmart, Costco e Home Depot stanno costruendo a Manhattan. La Quinta Strada è abitata da Starbuck e da The Gap. Potete trovare gli stessi negozi sulla Michigan Avenue a Chicago, a Market Street a San Francisco, e in migliaia di altri posti nel mondo.
L’arrivo delle grandi catene può anche comportare la distruzione di importanti caratteristiche locali. Per esempio a Richmond, Indiana, è stata demolita una Friends Meeting House del 1876 per far posto a un drugstore CVS. A Nashville, gli Jacksonian Apartments, candidati al Registro Nazionale dei Luoghi Storici, sono stati rasi al suolo per un drugstore Walgreen.
Il terzo modo in cui gli esercizi indipendenti rafforzano la comunità, è attraverso il loro contributo alla vita civica e culturale. I commercianti locali sono qualcosa di più che fornitori di beni e servizi. Spesso assumono un ruolo guida nelle cose della comunità. Molti presiedono organizzazioni di quartiere, ospitano eventi culturali, organizzano festival locali. Secondo la Small Business Administration, i piccoli negozi danno più denaro alle organizzazioni caritatevoli, di quanto non facciano i loro concorrenti più grandi. Visto che vivono nei luoghi dove fanno affari, i negozianti locali tendo ad essere molto più impegnati nel benessere della comunità, e nella sua stabilità a lungo termine, di quanto non facciano le distanti corporations. Questo impegno di manifesta in vari modi. A St. Paul, Minnesota, per esempio, la locale cooperativa di consumo ha recentemente aperto un nuovo negozio in un quartiere a basso reddito, su una proprietà che era stata inutilizzata per anni. Come accade in molti progetti edilizi, la cooperativa ha incontrato costi più alti di quanto non ci si fosse aspettati. Allora numerosi commercianti locali, tra cui il libraio, sono entrati nell’affare garantendo un congruo e indispensabile prestito. Nel frattempo Barnes & Noble e Border Books, entrambi con negozi in città, non si trovavano da nessuna parte.
Infine, il passaggio dalla proprietà locale ad una lontana e assente significa che le decisioni d’impresa non sono più prese sul posto, da membri della comunità. Chi decide se chiudere o no un negozio in difficoltà in un quartiere in crisi, mettere in vetrina un libro discusso, vendere prodotti delle campagne locali, pagare un contributo perpetuo, o versare fondi a un’associazione di beneficenza? Nel caso delle grandi catene, queste decisioni vengono prese in lontane stanze riunioni, dove i valori della comunità locale hanno poco o nessun peso.
La perdita di un sistema decisionale locale, e il crescente potere di un piccolo numero di grandi compagnie, ha implicazioni democratiche. Nel 1952 il senatore Hubert Humphrey si chiedeva: “Vogliamo un’America dove il mercato economico sia occupato da pochi Frankenstein e giganti? O vogliamo un’America dove ci siano migliaia e migliaia di piccoli imprenditori, uomini d’affari indipendenti e piccoli proprietari immobiliari, che possono girare a testa alta e parlare al Governo o a chiunque altro?”
Nuove regole
Ci sono enormi vantaggi, nella scelta della seconda strada. La nostra capacità di farlo dipende non solo dalle nostre decisioni in quanto consumatori, ma da quelle che prendiamo in quanto cittadini. Le azioni di chi costruisce politiche, e in particolare degli urbanisti, hanno un ruolo critico nel rivitalizzare l’economia locale, e nell’assicurare che gli esercizi cittadini continuino ad essere parte vitale delle comunità.
Molti, sostengono che il settore pubblico non dovrebbe intervenire nelle forme dell’economia. Questo è, dopotutto, un libero mercato.
Ma le politiche pubbliche non sono mai neutrali, e nei fatti hanno giocato un ruolo centrale nell’espansione delle grandi catene a livello nazionale. In molti modi, le politiche pubbliche hanno indebolito il commercio locale conferendo alle grandi corporations iniqui vantaggi.
Se ne possono trovare esempi a tutti i livelli di governo. Il Congresso, per esempio, ha esentato compagnie come Amazon.com e Barnes & Noble da alcune tasse sulle vendite via internet. Questo di fatto da’ a queste imprese un vantaggio di prezzo dal 6 all’8 per cento sui commercianti locali.
A livello cittadino e statale incentivi fiscali e altri generi di sostegno sono messi continuamente a disposizione delle grandi catene. In Wisconsin qualche anno fa furono mesi a disposizione quasi 20 milioni di dollari per un centro di distribuzione dei negozi Target. La municipalità di Rochester, Minnesota, ha speso 3 milioni per attirare Barnes & Noble. A Long Beach, California, si è rinunciato a 6 milioni di tasse per un insediamento che conteneva Kmart. In Florida, Walgreen ha chiesto una riduzione di 4,5 milioni di tasse statali e locali per la costruzione di un nuovo magazzino generale.
Esempi simili si possono trovare in tutto il paese. Anche se la vostra città non mette a disposizione questi sussidi, le grandi compagnie che si espandono lì sono in grado di farlo grazie a finanziamenti pubblici ricevuti altrove. Raramente esenzioni fiscali e sostegni sono dati agli esercizi a proprietà locale. Invece, essi vedono spesso i propri dollari di tasse usati per sostenere la concorrenza.
In altri casi, i governi cittadini hanno sfrattato esercizi locali per far posto agli insediamenti delle grandi catene. Un progetto attualmente in esame a Pittsburgh, propone di demolire 60 edifici, con rimozione di 125 esercizi, in maggioranza a gestione locale, per fare posto a uno shopping center che ospiterebbe tre dozzine di grandi negozi. I beneficiari di questo piano comprendono The Gap, Borders Book, e FAO Schwartz.
In queste condizioni, anche i più concorrenziali, efficienti e conosciuti commercianti autonomi devono lottare per rimanere a galla.
Quanto questi esempi rendono chiaro, è come la scomparsa di attività indipendenti non sia inevitabile. Anziché indebolire l’economia locale, molte comunità stanno tentando un approccio diverso. Hanno fatto del sostegno alle attività a scala umana, locali, un obiettivo centrale della pianificazione e delle decisioni di sviluppo.
Stanno adottando una serie di regole nell’uso dello spazio che scoraggino le grandi compagnie e sostengano la proprietà locale. In molti casi si è ristretta la dimensione la dimensione fisica dei nuovi negozi. In altri si concede nuova edilizia commerciale solo se risponde a determinati criteri decisi dalla comunità. Alcuni hanno messo al bando l’uniformità, proibendo i negozi realizzati a “formula” standard. Altri hanno sbarrato la strada a qualunque intervento commerciale al di fuori del distretto centrale. Esempi di queste politiche, compresi i testi delle ordinanze locali, si possono reperire al sito web New Rules, creato dall’Institute for Local Reliance).
Progettando politiche che mettano al primo posto la comunità, le attività locali possono ridiventare una componente chiave di una dinamica economia commerciale, e di una comunità locale viva.
Nota: qui il link al sito citato, New Rules. Per un parziale confronto, può valere anche l'insieme di argomentazioni di una sezione locale italiana della Associazione per i Centri Commerciali Naturali (fb)
Retailtainment. Un neologismo a cui ahimè dovremo abituarci, a quanto pare: non solo fare la spesa, ma pure divertirci come matti, ammirando le meraviglie di questo nuovo rapporto sado-maso fra cultura, territorio, modernità e tradizione. Perché l’Italia, come ci spiegano doviziosamente sul sito http://www.just-style.com rappresenta la nuova frontiera dei villaggi commerciali tematici. E per un motivo chiaro ed esplicito: the less restrictive planning laws at present. Questo per fare chiarezza, e
prima di addentrarsi in qualunque altra considerazione sullo sviluppo di questa nuova forma di insediamento, che nel giro di qualche mese ha visto entrare in campo nel nostro paese almeno due elementi di novità: la concorrenza (che a quanto pare non necessariamente migliora l’offerta), e l’esplicitarsi di una “cifra stilistica” che il primo outlet village a Serravalle aveva in parte offuscato con le particolari scelte di progetto.
In attesa di farmi travolgere dal fascino imperiale del nuovo aggeggio di Castel Romano, di cui si dà primo acconto in questa stessa cartella, ho fatto una capatina al più accessibile (per il sottoscritto padano), nuovo fiammante, Fidenza Village, fra la via Emilia e il West. Con un effetto sorprendente, ma non più di tanto a pensarci bene: la forte impressione di stare dentro a una fotocopia, ovvero senza farla così tragica il senso di familiarità che proviamo un po’ tutti andando alla coop o all’esselunga, e dimenticandoci in un secondo se quella coop o esselunga sta in centro a Milano oppure sulla cima di una montagna. Altro che valorizzazione delle specificità territoriali: questo è sciocchezzaio assessorile degno di “Zelig”, o più legittimamente prosa da comunicato stampa del gruppo promotore. Per farla breve, a Fidenza in una manciata di secondi mi è sembrato di essere a Serravalle, perché l’ambiente era lo stesso: nonostante il fatto che qui fossimo in pianura che di più non si può; nonostante il promotore sia l’americana Value Retail, acerrima concorrente della McArthur Glen che ha promosso Serravalle e Castel Romano; nonostante la scelta stilistica assai differente, che sostituisce al mimetismo del “centro storico virtuale” un approccio culturale del tutto diverso. Ovvero, trattandosi di terre verdiane (siamo a un tiro di sasso da Busseto), oltre la solita planimetria generale da borgo felice le architetture citano i temi delle opere liriche del grande musicista. Abbiamo così le vetrine delle solite griffes, affacciate sui soliti artificiosi spazi “urbani” privatizzati e lindi, ma circondate da archi, colonne, pinnacoli, che forse vorrebbero citare l’Aida, ma assomigliano di più a una scena di Asterix e Cleopatra. Resta solo un dubbio: perché non optare, che so, per una bella forma di parmigiano, o un prosciuttone di cemento colorato lungo cento metri? In fondo, se Busseto sta qui vicino, anche Langhirano si raggiunge facile facile, e il legame col territorio – per dirla in linguaggio da assessore o ufficio stampa – è sano e salvo.
Superficialmente, si nota anche qualche passo avanti rispetto al “modello Serravalle”, forse dovuto alle more restrictive planning laws emiliane, o forse ad altro, chissà. Innanzitutto non sembra che il sito abbia subito trasformazioni traumatiche, visto che si tratta di zona piana, fuori città e lontano dall’asse via Emilia, perfettamente raccordata con le rampe di collegamento all’Autostrada. Resta, naturalmente, il brusco cambio di scenario per chi arriva dalle campagne di Soragna, magari dopo aver attraversato la grande distesa di borghi e cascine (quelli sì davvero “verdiani”) che sale fino al Po. Ma per il grosso dei visitatori, che sbucano dal casello Fidenza dell’A1, o hanno scavalcato la ferrovia e il centro provenendo dall’asse SS9 Emilia, l’effetto è sicuramente molto migliore di quello dei soliti scatoloni tristi da centro commerciale. E questa, mi pare di capire, è la parte “... tainment” della faccenda. Il resto ovviamente è retail, ma come vi spiegheranno entusiasti scuotendo il capo: business is business. No?
E l’effetto fotocopia soggettiva rispetto a Serravalle (chissà cosa succede a Castel Romano), si spiega anche leggendo i commenti della stampa, che presenta un processo per molti versi identico anche se ci si scordano i riti del “rapporto col territorio” o altri formalismi da guida gastronomica.
Così come a Serravalle (cfr. lo studio di impatto), anche a Fidenza i promotori e costruttori del Village propongono un approccio integrato e pervasivo, senza ironia stavolta. Approccio che vede interventi diffusi, ad esempio fisici sul centro storico, o organizzativi, con lo spazio dell’outlet inteso potenzialmente come “vetrina delle risorse locali”, oltre che vetrina locale. Il tutto senza contare la questione lavoro. Citando il Corriere della Sera (“A Fidenza nell’outlet all’americana”, 5 maggio 2003), “Il «fashion village» produrrà due tipi di occupazione: quella diretta e l’indotto che si realizza nei 60 negozi ognuno occuperà da 4 a 5 persone e nei servizi centralizzati della struttura come giardinaggio, pulizia, manutenzione e vigilanza circa 400 persone”. Non di altissimo profilo, ma nemmeno pochissimo.
E a proposito di citazioni testuali, vale forse la pena di riportare in conclusione un estratto (trovato per caso con una veloce incursione alla cieca su motore di ricerca) dal sito regionale http://www.regione.emilia-romagna.it riguardo alle risposte ad alcune interpellanze, nella primavera del 2000, proprio mentre nel basso alessandrino si inaugurava l’outlet Serravalle.
Nessuna richiesta è pervenuta alla Regione relativa all’apertura di una struttura commerciale da ubicare nel Comune di Fidenza. È la risposta in Consiglio regionale dell’assessore Duccio Campagnoli relativa all’ipotesi, avanzata da una interrogazione del consigliere di AN Manlio Molinari, di realizzazione di un “Factory Outlet Center” nel Comune di Fidenza. “Al riguardo - precisa Campagnoli - a seguito dell’entrata in vigore del cosiddetto Decreto Bersani, è sospesa la presentazione di domande di rilascio di autorizzazioni per grandi strutture di vendita fino a quando i Comuni non avranno provveduto ad adeguare i propri strumenti urbanistici, generali ed attuativi, alle norme regionali”. Ampiamente soddisfatto si è dichiarato Manlio Molinari.
Ma il progresso, si sa, è inarrestabile, e l’intesa fra il comune di Fidenza e la Value Retail sarà perfezionata da lì a un anno.
Resta da vedere se da qui a un anno, ovvero quando nel 2004 si raddoppieranno i punti vendita dell’outlet e la struttura entrerà davvero a regime dopo un battage pubblicitario internazionale, ci sarà davvero da essere ancora soddisfatti. Oppure, da rimpiangere l’ennesima occasione perduta. Magari occasione perduta, semplicemente, per imporre un parcheggio sotterraneo, anziché quella miserabile spianata d’asfalto che, borgo settecentesco, impero romano, o accozzaglia di citazioni verdiane che si voglia, ispira comunque infinita tristezza. A meno che anche quello sia parte indispensabile del retailtainment.
Alcune immagini dell'Outlet di Fidenza in questa cartella
Dolores Hayden, Builiding Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, Pantheon Books, New York 2003
”Questi posti non attirano gli storici dell’architettura, perché ci sono coinvolti assai pochi architetti conosciuti, né gli storici dell’urbanistica, perché non sono stati pianificati da professionisti noti. Gli storici delle politiche pubbliche tendono a ricostruire i percorsi delle leggi, più che i loro risultati pratici, e quindi manca ancora uno sguardo critico su come la legge si stata tradotta in spazi di vita tridimensionali”. Con questo sconsolato panorama sullo stato dell’arte, Dolores Hayden introduce, a pagina 129, il tema del sobborgo sit-com. Il nomignolo sta a indicare anche l’unica forma di conoscenza davvero diffusa di questi spazi, ovvero il film o telefilm che tutti abbiamo visto fino alla noia: steccati bianchi, prati verdi fra l’ingresso e la strada, automobili parcheggiate, pettegolezzi tra i vicini maschi (sulla qualità delle falciatrici) e femmine (sul fidanzamento dei rampolli). Per il resto, il silenzio o quasi, salvo le critiche frontali e le proposte di modelli radicalmente alternativi: dai progetti della Regional Plannig Association of America o della Resettlement Administration negli anni Trenta, attraverso i grandi quartieri pubblici “corbusieriani” degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al contemporaneo e molto in voga neo-tradizionalismo dei cosiddetti new urbanists. E tutti questi, hanno al massimo realizzato qualche progetto di pura testimonianza, una goccia nel mare del suburbio corrente, che cresce e cresce, fino ad ingoiare all’alba del terzo millennio la gran parte della residenza e delle attività produttive nazionali, con i centri città in declino e sempre più terre estensivamente urbanizzate e sottratte all’agricoltura, ai parchi, agli spazi per flora e fauna.
Ma come dicevo all’inizio, lo sconsolato panorama sullo stato dell’arte sta a pagina 129, su un totale di 250 escluse note e bibliografia. Il resto del libro, sottotraccia molto propositivo, è dedicato a un percorso critico in sette tappe, che corrispondono ad altrettante forme spaziali, sociali, e di rapporti di forza economici, intrecciati nella produzione di suburbio. Vale la pena di elencarli:
Le ultime reazioni a questo stato delle cose, come si sa, sono nel segno della smart growth, o in termini di progettazione spaziale fisica di new urbanism. Ma la smart growth rappresenta anche in gran parte la reazione delle forze conservatrici alle spinte del mondo ambientalista, in prima fila gli interessi immobiliari con lo Urban Land Institute e altri, o addirittura i centri culturali dichiaratamente di destra come la Heritage Foundation. E il new urbanism spesso, pur nelle ottime intenzioni e nella sostanziale positività di alcuni risultati, rischia di essere a-storico anche nel suo voler recuperare elementi storici neo-tradizionali nella progettazione spaziale. Valga per tutti il caso di Seaside, il pluripremiato villaggio sulle coste nord-occidentali della Florida che recupera il senso del vicinato negli spazi, nelle regole urbanistiche e in quelle di gestione dell’ambito collettivo. Questo villaggio, che pur voleva esprimere l’esatto contrario del sit-com suburb, è stato scelto come sfondo per il notissimo The Truman Show, con Jim Carrey, che presenta una realtà artificiosa a dir poco paranoica. Forse questo ha portato grande popolarità ai progettisti, Andrés Duany e la moglie Elizabeth Plater-Zyberk, ma dimostra la grande capacità di metabolizzazione della “macchina di crescita”, che tutto divora.
La soluzione, indicata sottotraccia per tutto il libro da Dolores Hayden, è quella di utilizzare gli strumenti della storia per ricostruire i punti di forza della varie forme suburbane, e riproporli secondo forme nuove. Non solo forme spaziali, ma miscela non artificiosa di relazioni sociali, anche in senso ampio, come ad esempio quelle dei mutui per la casa in proprietà, o gli investimenti infrastrutturali, che sono questioni prettamente politiche. Perché la questione centrale sono i modi di sfruttamento capitalistico del territorio. Come avremmo detto noi, qualche lustro fa. Chissà se si può ancora dire.
Nota: qui i brani dall’altro libro di Dolores Hayden proposto da Eddyburg, A Field Guide to Sprawl. Per uno (uno solo) dei temi proposti sopra, ovvero il rapporto fra deprezzamento degli edifici non residenziali e sprawl, si veda il testo di Malcolm Gladwell sulla carriera di Victor Gruen pure proposto tempo fa da Eddyburg (fb)
da: Antonio di Gennaro e Francesco P. Innamorato. La grande trasformazione. Il territorio rurale della Campania 1960/2000. Clean Edizioni, Napoli, luglio 2005 (pp. 82-87)
Premessa
L’espressione “anarchia urbanistica” è stata utilizzata recentemente da un urbanista un po’ particolare: il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi. [1] Essa fotografa, meglio di tante altre, il modo prevalente in cui sono cresciuti negli ultimi quaranta anni gli insediamenti urbani lungo l’intera penisola, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia.
La dispersione e la diffusione urbana che descriveremo sono infatti l’esito della sommatoria di una miriade di interventi sostanzialmente spontanei, piccoli e grandi, talvolta autorizzati da piani regolatori permissivi, talaltra realizzati in spregio alla legalità, in assenza di un incisivo governo delle trasformazioni. Sono anche la prova più lampante della sconfitta dell’urbanistica in Italia. Sconfitta, ma non fallimento, perché – laddove praticata con rigore e con continuità – l’urbanistica ha dato qualche frutto, certamente imperfetto, ma sufficiente ad evitare lo sfruttamento dissennato del territorio che, ancora nel 2005, prosegue in molte parti del territorio nella sostanziale accondiscendenza generale.
I termini diffusione e dispersione insediativa consentono di distinguere due fenomeni spesso legati tra loro [2]. Con il termine diffusione insediativa si descrive la crescita progressiva di centri urbani di piccole e medie dimensioni posti nelle corone più esterne delle aree metropolitane [3], oppure in aree lontane dai centri principali, nei fondovalle, nelle pianure interne, lungo la costa. Anche in Italia, come in molti altri paesi, ad un modello urbano denso e centripeto – sviluppatosi a partire dal primo grande sviluppo industriale - si è sovrapposto un secondo modello privo di gerarchie riconoscibili [4]. Favorita dalla presenza di nuove forme di organizzazione e specializzazione produttiva, dall’incremento della dotazione di infrastrutture, dalla crescita del reddito e della domanda di beni e servizi, la diffusione insediativa costituisce “una tendenza di lungo periodo di sistemi economico-territoriali di successo” [5].
A volte la densità della popolazione e delle attività produttive nelle aree più lontane dal centro è talmente bassa che diventa complicato stabilire un confine tra urbano ed extraurbano. Questo fenomeno si verifica sia ai margini delle aree urbane, sia lontano da queste ultime, attraverso il progressivo “coagulo” di costruzioni. Riprendendo nuovamente gli autori ora citati, possiamo quindi definire la dispersione insediativa come un fenomeno di frammentazione esasperata, che “attiene alla casualità delle nuove localizzazioni, alla frammentazione della forma urbana, al bricolage della pianificazione urbanistica e territoriale avulso da ogni principio di economia delle risorse territoriali, alla tarmatura del territorio” [6].
Diffusione e dispersione degli insediamenti [7] sono stati oggetto di alcuni importanti studi negli anni passati, sebbene esistano poche rilevazioni sistematiche a scala territoriale.
Punto di riferimento obbligato è la ricerca It.urb 80, coordinata da Giovanni Astengo attorno alla metà degli anni ottanta. Attraverso il coinvolgimento di ben 12 sedi universitarie, viene indagata l’evoluzione dell’urbanizzazione nel periodo 1951-1981 su un campione di 25 aree scelte in tutte le regioni d’Italia. [8] La ricerca testimonia la grande trasformazione del territorio italiano: nelle aree urbane osservate, estese per più di 200.000 ettari, risiedono oltre 13 milioni di abitanti. Gli insediamenti si accrescono con ritmi nettamente superiori a quelli della crescita della popolazione: aree produttive, infrastrutture, attrezzature speciali generano una domanda di aree sempre più pressante. L’esito territoriale di questa crescita è ben rappresentato nelle tavole allegate al rapporto: la dilatazione degli insediamenti attorno ai nuclei originari porta alla formazione di vere e proprie costellazioni di centri ormai privi di soluzioni di continuità. [9]
Una conferma di quanto la diffusione degli insediamenti costituisca il tratto distintivo dello sviluppo urbano dal 1970 in poi, viene da una ricerca molto più piccola, ma assai significativa, condotta nel 1995 da due ricercatori dell’Università IUAV di Venezia [10]. L’osservazione della distribuzione della popolazione testimonia il compimento di una "radicale trasformazione del sistema insediativo": nel 1991 il 58% della popolazione italiana risiede in vere e proprie conurbazioni, cioè in aree urbane formate da centri abitati contigui l’uno all’altro. La diffusione caratterizza regioni assai differenti fra loro (dalla Toscana alla Campania), interessa le principali aree metropolitane [11] e regioni prive di un polo centrale (Veneto, Emilia), aree di sviluppo economico più antico e altre dal recente sviluppo. Una nuova geografia dell’Italia vede affiancarsi alle grandi città come Napoli, Roma e Milano, altre prive di un’identità e di un confine preciso, ma altrettanto popolate, come la Romagna, la Versilia, la piana dell’Arno, il Veneto centrale.
Nuove costellazioni di città
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In anni più recenti, merita di essere menzionata la ricerca Itaten, Le forme del territorio italiano, promossa dal Ministero dei Lavori pubblici [12]. Questa nuova ricerca avvicina lo sguardo e indaga la trasformazione degli insediamenti ad una scala micro-urbanistica, descrivendo il rapporto fra edifici, lotti e infrastrutture e fra questi e le diverse forme del paesaggio. Vengono individuati alcuni “tipi insediativi” ricorrenti nell’intera penisola e privi di identità e qualità. I ricercatori ricorrono ad alcuni termini particolarmente evocativi: non-luoghi, fuori-scala, spazi ibridi, nuove centralità a-topiche. “Un paesaggio nato come esito di piccole cause, come se a nessuno fosse venuto in mente nulla di originale e si fosse copiato gli uni dagli altri, fino a dar luogo a territori fatti di oggetti ovunque uguali”. [13] Una vera e propria “idiosincrasia per intenzioni programmatiche e pianificatorie” [14] sostiene questa crescita per continue aggiunte, lascia spazio ovunque possibile ad interventi edilizi di piccola scala e riduce al minimo possibile gli investimenti parziali e spesso marginali riguardanti le infrastrutture. [15]
Con poche eccezioni, gli urbanisti hanno smesso di misurare il consumo di suolo, quasi che su questo tema abbia perso di attualità. Non è così, come testimoniano i dati seguenti relativi al Veneto.
“Nell’arco di due decenni (1961-1981) hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse accaduto nella storia dei due millenni precedenti. Nell’arco di una generazione (poi il fenomeno prosegue seppure con un relativo rallentamento) in tre provincie venete sono stati sottratti al paesaggio agrario più di 2300 Kmq (una intera provincia)”. [16] Il fenomeno non si è certo arrestato, anzi. Secondo gli studi della fondazione Benetton, le aree industriali del Veneto sarebbero oltre duemila [17] e la superficie coperta dei capannoni industriali ammonterebbe a 175 milioni di metri quadri di superficie coperta. “Nella sola provincia di Treviso, secondo l’assessore al Territorio Antonio Padoin, le zone industriali sono 556 e occupano complessivamente 56 milioni e 430 mila metri quadrati” [18].
Il quadro sulla dispersione non sarebbe completo se non si facesse un rapido cenno ad ulteriori trasformazioni del territorio che non riguardano direttamente i luoghi dove la popolazione risiede e lavora. Per esempio, anche il consumo del tempo libero è radicalmente cambiato nel tempo: i circuiti di fruizione turistica si sono allargati a dismisura [19], nuovi centri della ricreazione e del commercio sorgono in aree sempre più periferiche, oltre i labili confini della città, diffusa o dispersa che sia. Luoghi che non sono descrivibili pienamente né attraverso le categorie socio-economiche che si richiamano al decentramento dello sviluppo, né attraverso le più tradizionali analisi sulle relazioni fra residenza e spazi per la produzione. In alcuni casi si tratta del consolidamento di fenomeni di vera e propria degenerazione in atto da molto tempo. E’ il caso degli agglomerati di tipo turistico e ricreativo – edificati ma non urbani, dilatati nelle dimensioni e carenti di qualità formale e funzionale – cresciuti a dismisura lungo le coste e nelle aree montane. Luoghi che hanno relazioni labili con i centri stabilmente abitati, essendo a disposizione di una più vasta platea di utenti che ne usufruiscono, per poche ore al giorno o per pochi giorni l’anno, provenendo dai territori circostanti o da molto più lontano. [20]
Al meridione d’Italia spetta una triste specializzazione in tal senso. In una ricerca condotta per il PTC della provincia di Foggia, sono state rilevati, con l’ausilio delle foto aeree, gli insediamenti costieri. Lungo la costa del Gargano, da Lesina a Vieste, le aree costruite interessano all’incirca 25 km di fronte mare su 44 (quasi il 60% del totale, ovverosia la pressoché interezza della costa bassa). Alcuni di questi insediamenti mostrano uno sviluppo lineare parossistico: Rodi-S.Barbara (3,2 km), S.Menaio (2,5), Vieste (6,8).
Un’indagine analoga riguardante San Felice al Circeo (dove le abitazioni non occupate sono oltre 5.000), ha portato a rilevare un insediamento costiero che si sviluppa, senza sostanziali interruzioni, da San Felice a Terracina occupando una superficie di circa 450 ettari. Il fronte mare è occupato da abitazioni e strutture turistiche per quasi 9 km, cosicché restano privi di urbanizzazione solamente 600 metri di costa nell’intero arco costiero considerato. Un’urbanizzazione dissennata e totalmente inadeguata a sostenere un’economia turistica matura, mancando delle più elementari attrezzature, tanto da risultare ingiustificabile anche utilizzando il solo metro economico.
Altre trasformazioni, di tutt’altra natura, si stanno imponendo con prepotenza negli ultimi anni. Franciacorta, Serravalle Scrivia, Castel San Romano, centri piccoli e piccolissimi sono assurti a capitali del commercio in seguito alla costruzione di grandi centri commerciali. Per comprendere la portata di questo fenomeno si consideri che nel centro commerciale dei Gigli, uno dei tanti localizzati nella sterminata piana industriale tra Firenze e Prato, si registrano oltre 6 milioni di visitatori, pari a circa 20.000 persone al giorno, equivalenti alla popolazione di una cittadina o di un quartiere urbano [21]. E come non accennare alla disposizione di aeroporti, interporti, centri logistici? L’aeroporto della Malpensa è decentrato rispetto al capoluogo lombardo cui fa riferimento, ma è prossimo alla conurbazione che dal lago Maggiore si estende fino a Bergamo e posto sostanzialmente alla medesima distanza da Milano e da Torino. Molte attività chiamate centrali, perché fino a qualche decennio fa erano poste nel cuore delle città (commerci specializzati, uffici, grandi alberghi, centri fieristici e simili) si ridistribuiscono sul territorio. La città – diffusa o dispersa che sia - sembra estendersi all’infinito, ed
esplodere in uno spazio senza centro né periferia, in cui
le zone residenziali, commerciali, terziarie, del tempo libero si succedono senza ordine apparente, interrotte da spazi interstiziali e residuali dallo statuto spesso indefinibile, dove di tanto in tanto emergono grandi strutture funzionali [22].
L’immagine della città che ci deriva dal passato si è irrimediabilmente dissolta. La città come ammasso compatto di edifici chiuso da una cerchia di mura, non esiste più. Anche la rappresentazione familiare delle carte geografiche, dove le città sono simboleggiate da cerchi proporzionali all’importanza o alla popolazione residente, non è più corrispondente alla realtà.
Lo spazio fisico della città è quello della conurbazione; lo spazio funzionale è quello dell’area metropolitana, della regione urbana, dei sistemi urbani [23]. Confini e gerarchie sono stati superati da tempo, in modo irreversibile. Anche le istituzioni, incapaci di un riassetto complessivo, hanno dovuto necessariamente sviluppare nuove forme di relazione contrattuale o cooperativa, quand’anche instabili e poco incisive, [24] e si è assistito alla riorganizzazione in chiave territoriale della gestione delle reti tecnologiche e dei servizi.
Si tratta di un processo profondo e pervasivo, e non vi sono segnali che facciano ipotizzare, nel medio periodo, un’inversione di rotta. La diffusione urbana è quindi una caratteristica con la quale avremo a che fare ancora per diverso tempo.
Ciò non implica affatto che le dimensioni fisiche delle aree urbane debbano crescere ulteriormente e, soprattutto, che lo debbano fare nel modo sregolato che abbiamo descritto. Un elevato consumo di suolo e un’esasperata dispersione insediativa significano infatti:
- sottrazione di terreni produttivi e naturali;
- erosione e perdita di qualità del paesaggio;
- disposizione indifferente ai diversi caratteri di vulnerabilità e pericolosità del territorio, e conseguente incremento dei danni subiti e provocati;
- maggiori oneri nella distribuzione dei servizi;
- incremento della mobilità basato esclusivamente sul trasporto su gomma delle merci e delle persone e impossibilità di fornire un adeguato servizio di trasporto collettivo.
Se il governo del territorio appare sempre più come un’operazione complessa e composita, affidata cioè ad un numero crescente di soggetti e di strumenti, uno dei compiti principali dei piani urbanistici – e in particolare della loro componente strutturale – sembra essere proprio il contenimento dell’espansione urbana. La progressiva estensione dell’influenza della città sull’intero territorio nazionale rende infatti necessario rilanciare il tema del conflitto tra domanda di spazi per insediamenti e mantenimento dei caratteri rurali e naturali residui, tanto più preziosi in quanto sempre più rari [25].
Contenere l’espansione significa prevedere una riorganizzazione dell’assetto delle città che fornisca risposte adeguate alle esigenze di cittadini e imprese, rimanendo per quanto possibile entro i limiti attuali delle aree urbane [26]. Compito tutt’altro che facile, poiché presuppone una concezione forte del governo del territorio volta a correggere con il proprio intervento i limiti e le distorsioni prodotte dalle scelte individuali. Viceversa, anche una buona parte del mondo degli urbanisti [27] sembra condividere o essersi rassegnata all’anarchia urbanistica denunciata dal Presidente della Repubblica. Per fortuna, non tutti.
[1]C. A. Ciampi, Messaggio del Presidente della Repubblica, in Italia Nostra, n. 406, 2004.
[2] Per descrivere questi fenomeni, geografi e urbanisti utilizzano termini quali urban sprawl (étalement urbain), urban spill (desserement, déversement urbain), exurbanization. Vedi ad es. N. May, P.Veltz, J. Landrieu eTh. Spector, La ville eclatéee, Paris: Editions de l’Aube, 1998, G. Bauer e Roux, La Rurbanization ou la ville , , Paris: Seuil, 1976, Dorier-Apprill E. (dir.), Vocabulaire de la ville, Paris: Edition du temps, 2001.
[3] Si definisce disurbanizzazione o contro-urbanizzazione la crescita di centri di piccole e medie dimensioni, accompagnata al declino delle aree centrali.
[4] Sulla progressiva costituzione di relazioni di rete in sostituzione di rapporti gerarchici fra le città, si vedano in particolare gli scritti di G. Dematteis. Sugli esiti territoriali di tali trasformazioni si veda in particolare F. Indovina, 1990, La città diffusa, Venezia: Daest.
[5] R. Camagni, M.C. Gibelli, P. Rigamonti, 2002, I costi collettivi della città dispersa, Firenze: Alinea.
[6] Camagni, Gibelli, Rigamonti, ibidem.
[7] Una rassegna particolarmente attenta alla varietà degli approcci al tema della dispersione insediativa è stata prodotta da C. Bianchetti in “Dispersione e città contemporanea. Percorsi, linguaggi, interpretazioni”, Dst, 14/2000. Sullo stesso tema, si veda anche C. Bianchetti “Analisi della dispersione e biografie” in Cru 3/1995, p. 42 e segg.
[8] “Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia”, pubblicato in Quaderni di Urbanistica Informazioni n.8, 1990.
[9] Il tema del consumo di suolo è stato poi ripreso dalla ricerca Cnr-Ipra, Interazione e competizione dei sistemi urbani con l’agricoltura per l’uso della risorsa suolo i cui esiti sono pubblicati Borachia, V. - Boscacci, F. - Paolillo P.L., a cura di, (1990), Analisi per il governo del territorio extraurbano, Milano: F.Angeli.
[10] La ricerca condotta da F. Torres e F. Morellato si basa sull’analisi dei dati statistici sulla popolazione residente in centri e nuclei urbani nel 1971, 1981 e 1991.
[11] La conurbazione milanese comprende 166 comuni, quella napoletana 111.
[12] Gli esiti della ricerca sono pubblicati in Clementi, A. - Dematteis, G. - Palermo P. C. (1996), Le forme del territorio italiano, Bari: Laterza.
[13] C. Bianchetti, 2000.
[14] Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002.
[15] Su questo tema si è ben espresso Bernardo Secchi, nel saggio “Descrizione/interpretazioni”, contenuto in Clementi, Dematteis, Palermo, 1996.
[16] Domenico Luciani, Insediamenti e mobilità nel Nord-est: appunti su una nebulosa senza centro, Fondazione Benetton studi e ricerche ( http://www.fbsr.it/ita/)
[17] Corrispondenti, in media, a più di 4 aree industriali per ciascun comune.
[18] Gianantonio Stella, “Troppe industrie in Veneto. Non avremo esagerato?”, Corriere Della Sera, 12 febbraio 2003.
[19] Qualche dato (fonte: Censis): in Italia sono presenti oltre 6.200 stabilimenti balneari, 2.500 impianti di risalita e 3.500 piste da sci, oltre 2.300 campeggi e villaggi turistici.
[20] Secondo i dati del censimento 2001 appena pubblicati, il più alto tasso di abitazioni non occupate si registra nelle aree alpine occidentali, abbandonate dai residenti e invase dai turisti, e lungo le coste del nord (Lignano, Comacchio), del centro (Anzio, Ardea) e del sud (Castel Volturno, Scalea). In totale, le abitazioni non occupate censite dall’Istat sul territorio nazionale sono più di 5.000.000, il 20% del patrimonio abitativo complessivo.
[21] Sugli outlet, e in generale sulle trasformazioni indotte dalle nuove politiche commerciali delle aziende private, si veda l’ampio dossier curato da Fabrizio Bottini per il sito eddyburg.it
[22] Questa è la descrfizione della ville eclatéee ( città esplosa) proposta da N. May, P. Veltz, J. Landrieu e Th. Spector La ville eclatéee, Paris: Editions de l’Aube, 1998, p. 7 – disponibile sul sito www.acadie-reflex.org/FicheIDF.html, e ripreso in Camagni e altri, 2002, p.16.
[23] Osserva Dematteis che il concetto di prossimità stessa è fortemente messo in discussione dallo sviluppo delle comunicazioni. La città-globale “è anche una rete iperconnessa, in cui ogni nodo è virtualmente prossimo ad ogni altro, in uno spazio non più euclideo, dove ad esempio le piazze finanziarie di Wall Street e della City di Londra pur essendo separate dall'oceano, sono di fatto contigue, mentre restano lontanissime da altri luoghi fisicamente vicini, come i ghetti neri di Manhattan o i quartieri poveri di Lewisham a Londra”. (G. Dematteis, prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 1996/97, Politecnico di Torino).
[24] Il tentativo di istituzionalizzare le aree metropolitane, previsto dalla legge 142/1990 è clamorosamente fallito. Si sono invece moltiplicati strumenti quali patti territoriali, accordi e conferenze d’area, piani strategici. E ancor più hanno fatto i conti con la diffusione degli insediamenti i soggetti, pubblici o para-pubblici, gestori delle reti e dei servizi (trasporti, reti di telecomunicazione, reti tecnologiche, smaltimento dei rifiuti, e simili).
[25] E’ appena il caso di ricordare l’equivoco generato dal Ptc di Napoli, che ha esteso la “riqualificazione insediativa” ad ampie porzioni del territorio rurale, come ha rilevato con grande efficacia Antonio di Gennaro (A. di Gennaro, a cura di, Piani imperfetti, Napoli. Clean edizioni, 2005).
[26] Nonostante si registri un consenso unanime sul carattere prioritario della riqualificazione rispetto alla crescita urbana, nei fatti le cose stanno diversamente. Una recente ricerca della regione Toscana, per esempio, segnala che il 62% dell’offerta residenziale dei piani strutturali approvati dopo il 1995 è collocata in “aree di espansione”.
[27] Scrive Cristina Bianchetti: “per Secchi [uno dei massimi urbanisti italiani, ndr] non solo è vano, ma è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo” e, più oltre, riprendendo alcune affermazioni di architetti e urbanisti: “non vi possono essere leggi, giudizi di valore, pregiudizi o entità astratte che a priori possano guidare la descrizione del territorio ... lo stile di indagine enfatizza il sopralluogo, il viaggio collettivo” ... l’analisi del territorio come registro del prodursi di differenze”. (C. Bianchetti, 2000).
L'immagine è tratta dal sito stoplegacyhighways
La conformazione delle città inglesi, immerse in un paesaggio topografico a volte idilliaco a volte brutalmente monotono, è oggi plasmata da regole invisibili quanto incisive. Difficilmente se ne accorge il turista che passeggi per Exeter, magari sulla high street, parente non troppo lontana del "corso" italiano, guardando il sereno e ordinato agglomerato di banche, wine-bar alla moda e caffè Starbucks, gli immancabili Gap o Benetton, le agenzie di viaggio Thomas Cook. Non ne sono consapevoli molti dei residenti degli estesi quartieri suburbani di Stafford o Cheltenham, con i loro piccoli alimentari Seven-Eleven, le agenzie di scommesse William Hill e le farmacie di quartiere Boots. Né risulta evidente a chi attraversi in automobile le anonime periferie dove svincoli autostradali collegano alle arterie nazionali di città come Middlesbrough e Winchester, contesto prediletto dai megalitici capannoni dei Tesco, Toys'R'Us, B&Q e Halfords. Ma è un fenomeno con cui hanno dovuto fare i conti, negli ultimi decenni, i nuclei urbani di tutta la Gran Bretagna, in particolare quelle di medie dimensioni.
Lo scorso anno la Nef (New Economics Foundation) ha pubblicato il rapporto Clone Town Britain che, avvalendosi di statistiche provenienti da rilievi sul campo, dimostrava come gran parte delle città britanniche fossero diventati dei cloni, quasi totalmente privi di una propria identità [ vedi link interno a Eddyburg a pié di pagina]. Attribuivano la responsabilità di questo fenomeno per lo più alla straordinaria capacità di penetrazione delle catene commerciali, ormai dominanti in ogni settore di mercato: dai ristoranti (Caffe Uno, ad esempio) alle panetterie (Greggs), dallo sviluppo e stampa delle fotografie (Snappy Snaps) ai parrucchieri (Headmasters). Per non parlare, ovviamente, del settore alimentare, dell'elettronica, del bricolage e degli arredamenti. Negli ultimi tre decenni si sono combattute guerre feroci fra catene rivali in ogni ambito, ma a farne le spese sono stati innanzitutto i commercianti indipendenti. Secondo il rapporto della Nef (di cui è imminente la pubblicazione di un aggiornamento) oggi in Gran Bretagna rimangono 26.800 piccole attività autonome, in proporzione meno che negli Stati Uniti. I ricercatori della Nef hanno inoltre rilevato che a Exeter, considerata la città più "omologata" d'Inghilterra, quasi il 90% di tutti gli esercizi fa parte di una catena. La guerra sembrerebbe essere vicina alla sua conclusione.
Fra le ragioni che hanno determinato una così capillare omologazione c'è senz'altro la politica nazionale, che dalla seconda Guerra mondiale in poi ha gradualmente fuso il concetto di cittadino con quello di consumatore (per dirlo con le parole di Margaret Thatcher: «la società non esiste»), prediligendo così la scelta e la convenienza su ogni altro fattore. O la stessa geografia del Paese, che favorisce sistemi di distribuzione razionalizzati e centralizzati.
Ma ce n'è uno tanto inaspettato quanto influente: è il sistema dei postcode, o codici d'avviamento postale. Da una ventina d'anni aziende di gestione dati, quali la Experian, (un colosso con un fatturato di 1,8 miliardi di euro) acquistano e accumulano dati sui singoli consumatori, dati che a loro volta vengono abbinati ai relativi Cap. Le informazioni in mano a queste agenzie fanno impallidire qualsiasi archivio governativo: reddito, preferenze nei consumi di ogni tipo, sottoscrizione di mutui, carte di credito e altri servizi bancari, affidabilità finanziaria, luogo di residenza presente e passato, numero e tipo di automobili possedute ecc. Se si considera che i Cap sono 1,9 milioni e che in media ogni cifra determina soltanto 10 abitazioni e quindi circa 25 persone, si può avere un'idea del grado di dettaglio della mappa dei consumi che ne viene fuori. Ogni frammento di città viene etichettata in base ad una tabella di circa cinquanta categorie dai titoli a volte cinicamente espliciti: da Hard-Pressed High-rise ("Condomini Messi Male" ad Affluent Greys ("Grigi Abbienti").
Sono proprio queste mappe di "geografie invisibili" che rendono possibile ai generali di questa guerra, gli strateghi del marketing, dispiegare con precisione militare le loro unità. Sanno con esattezza chi abita intorno ai loro supermercati e quante persone con debiti possono raggiungere le loro agenzie di scommesse. Sanno quante persone li visiteranno nel loro primo anno di apertura, quanti concorrenti hanno in un raggio di un chilometro, quale grafica e quale pubblicità sarà meglio recepita dai loro clienti, quanti bambini abitano entro un raggio di mezz'ora di macchina. Oggi, la città inglese è una città che non corre rischi. Neanche il rischio di avere un'identità.
Nota: Eddyburg ha pubblicato tempo fa la traduzione di un estratto del citato rapporto Clone Town Britain (l.t.)
City of Vancouver, Land Use, Development Policies and Guidelines, Highway Oriented Retail (HOR); Rezoning Policies and Guidelines: Marine Drive Industrial Area; Adopted by City Council May 10, 2001. Amended July 30, 2002 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
1 – Criteri per la trasformazione dell’area
Le domande di trasformazione per le zone classificate CD-1 ( Comprehensive Development) destinate a funzioni commerciali a orientamento stradale di grande traffico, verranno valutate secondo i seguenti criteri.
1.1 – Usi commerciali e impatti sui centri di quartiere
Il tipo di attività adeguate per l’area HOR normalmente non si trovano, e non sono adatte, a un centro di quartiere. Questi centri, che nascono da zone commerciali esistenti, sono il “cuore” di un vicinato. È qui che gli abitanti possono trovare negozi, luoghi di lavoro, servizi di quartiere, spazi pubblici sicuri e invitanti, un luogo per incontrare i concittadini e partecipare alla vita collettiva. I tipi di commercio che invece si adattano meglio all’area HOR sono:
• quelli che richiedono ampi spazi per la natura dei prodotti commercializzati (ad esempio se sono necessari ampie aree per l’esposizione, se si tratta di merci ingombranti come l’arredamento, o gli accessori per l’edilizia);
• quelli che in genere richiedono l’uso dell’automobile;
• quelli che si rivolgono a un ampio bacino di utenza;
• quelle che non offrono merci disponibili, o comodamente disponibili, nei centri di quartiere e in altri tipi di spazi commerciali.
Le funzioni proposte non devono indebolire il ruolo dei vicini centri di quartiere sottraendo clienti al commercio locale. Alimentari e abbigliamento formano spesso la base delle aree commerciali di tipo locale, ed è probabile che il commercio su larga scala che offrisse questo tipo di prodotti si troverebbe in contrasto con le politiche municipali. Di conseguenza, il commercio alimentare non è considerato fra le funzioni potenziali, e anche quello di abbigliamento potrebbe non essere accettato.
Tutti questi tipi di funzioni commerciali, eccetto la vendita di alimentari (ad esempio un grocery store), saranno presi in considerazione. Comunque, le funzioni commerciali che comprendano alimentari e abbigliamento necessiteranno di una valutazione di impatto a cura del richiedente. Gli uffici stabiliranno il tipo di obiettivi, incaricando un consulente indipendente. L’ampiezza del bacino di riferimento da prendere in esame dipenderà dalle funzioni proposte. Lo studio deve evidenziare i modi in cui l’insediamento proposto influirà sul commercio concorrente entro una determinate zona. Sono preferibili i progetti che con maggior probabilità portino a un incremento nel numero e varietà degli esercizi concorrenti in zona. Le domande che tendenzialmente riducano al concorrenza o possano condurre a chiusure entro il bacino di utenza devono essere scoraggiate.
1.2 – Indice di fabbricabilità
Il Floor Space Ratio / FSR per funzioni commerciali non deve superare lo 0,6, con superficie commerciale minima di 929 m² per singolo esercizio. Per gli edifici a funzioni miste, è consentito un FSR di 3,0 (p. es. spazi commerciali sino 0,6 FSR e funzioni aggiunte consentite per le zone I-2 sino a 2,4 FSR).
1.3 – Altezze
L’altezza massima è di 12,2 m, aumentabile a 18,3 m per gli insediamenti a funzioni miste (p. es. commercio al pianterreno e funzioni consentite in zona I-2 a quelli superiori). I criteri riguardo alle masse da rispettarsi nei nuovi insediamenti sono esposti nelle linee guida per la progettazione.
1.4 Fronti sulla arteria di Marine Drive
I complessi nella zona HOR devono affacciarsi verso la Marine Drive. L’organizzazione in senso perpendicolare è in generale sconsigliata.
1.5 Arretramenti e spazi laterali
Attualmente per le zone siglate I-2 prospicienti Marine Drive, comprese fra le vie Cambie Crompton, esiste un arretramento organizzato a verde di 12,1 m. Per la zona HOR verrà mantenuto lo stesso tipo di arretramento, al netto dello spazio necessario a miglioramenti stradali. L’arretramento dovrà essere libero da parcheggi, zone di manovra, segnaletica ed esposizione di prodotti. Sarà consentito accesso a veicoli e pedoni.
Per fornire interesse pedonale e orientamento lungo la Marine Drive, gli edifici dovranno essere collocati lungo la linea di arretramento per un minimo del 50% della dimensione del lotto sull’affaccio verso Marine Drive. Si dovrà osservare uno spazio libero laterale arretrato di 1 metro rispetto a tutte le strade perimetrali.
1.6 – Impatti sulla 69° Avenue
Le attività e funzioni classificate HOR verso la 69° Avenue devono essere complementari agli adiacenti usi industriali (es. carico, deposito, magazzino).
1.7 - Traffico, parcheggi, accessi
Marine Drive è un importante corridoio di mobilità per persone e merci. Per mantenere queste funzioni e aumentare la sicurezza, è necessaria un’analisi di traffico e parcheggi (i cui costi saranno sostenuti dal richiedente), che evidenzi i probabili impatti sul traffico del progetto proposto. Lo studio dovrà esaminare gli effetti sul sistema delle strade circostanti e identificare le misure di gestione da adottarsi.
La comunicazione diretta con Marine Drive dovrà essere ridotta al minimo ovunque possibile, attraverso l’utilizzo di passaggi condivisi e ampi sistemi di circolazione interna, oltre all’accessibilità dalle vie laterali. La Città potrà richiedere a chi presenta progetti di realizzare miglioramenti alla sicurezza del traffico quali guide per la svolta a sinistra o segnaletica, o sistemi di circolazione pedonale e ciclabile, oltre alla creazione di collegamenti sicuri fra le zone residenziali a nord e i percorsi per il tempo libero sul fronte acqua.
La quantità di parcheggi dovrà essere adeguata a quanto previsto nei regolamenti relativi alla categoria Grocery Stores. Quando la funzione è commercio di mobili, o simili, l’ufficio municipale responsabile può fissare standards inferiori.
1.8 – Arredo a verde
Il sistema di arredo a verde degli spazi di arretramento degli edifici deve inserirsi in un progetto generale, allegato alla domanda.
1.9 – Linee guida per la progettazione
Gli insediamenti proposti devono migliorare e alzare il livello qualitativo dell’ambiente pubblico, attraverso espressioni architettoniche di alta qualità, un’attenta organizzazione degli spazi esterni, del verde pubblico e privato, un adeguato sistema di circolazione veicolare e pedonale.
Le domande di trasformazione devono dimostrare che, sulla base delle linee guida di progetto, gli interventi proposti migliorano l’ambiente fisico, secondo le intenzioni generali espresse nei paragrafi seguenti.
2 – Considerationi generali sul sito
2.1 – Adattamenti di livello
Qualunque significativo adattamento dei livelli esistenti deve essere finalizzato a un comodo accesso pedonale alle strutture, riflettere le pendenze naturali del terreno, ed essere visivamente complementare all’integrazione della massa dell’edificio nell’ambiente circostante.
3 – Accesso veicolare, parcheggi, zone di carico-scarico (con riferimento ai Regolamenti per i Parcheggi)
3.1 – Strutture a parcheggio
(a) Non è consentito il parcheggio o la manovra nelle aree di arretramento a verde.
(b) I parcheggi di superficie devono essere collocati ai lati o sul retro degli edifici.
3.2 – Accessi condivisi per ridurre le discontinuità del bordo stradale e del livello delle superfici
Devono essere realizzati ovunque possibile accessi condivisi alle proprietà confinanti per il massimo di sicurezza e orientamento, per ridurre al minimo le interruzioni nel bordo stradale, e aumentare le fasce verdi di interposizione.
3.3 – Arredo a verde e schermatura di parcheggi e zone carico-scarico
(a) Deve essere predisposto un sistema a strati di verde per schermare parcheggi e zone di carico, ed evidenziare visivamente segnaletica ingressi e percorsi di accessibilità.
(b) Orientamento e sicurezza rappresentano fattori importanti nell’organizzazione planimetrica, dimensioni e caratteristiche delle essenze arboree e movimenti terra che sottolineano la visibilità del e nel complesso.
(c) Le recinzioni di sicurezza devono essere limitate a un sistema di rete metallica accompagnato da adeguate siepi o altra vegetazione che ne riduca al minimo l’impatto visivo, tenendo conto dei principi fissati nel Crime Prevention Through Environmental Design (CPTED).
3.4 – Aree di carico-scarico
(a) Le aree di carico-scarico non devono essere visibili da Marine Drive.
(b) L’accesso alle aree di carico-scarico deve essere dalle strade laterali, da quelle confinanti con il lato sud dei lotti nel caso di quelli di maggior profondità, o da corsie riservate per quanto possibile.
4 – Ambito pubblico e ambiente stradale
4.1 – Criteri generali
(a) Devono essere realizzati marciapiedi continui lungo tutti i fronti stradali, per incoraggiare gli spostamenti pedonali.
(b) L’illuminazione stradale deve essere realizzata secondo le caratteristiche previste dalle norme dell’ufficio municipale responsabile.
(c) Devono essere incoraggiati spazi per opere d’arte in spazi pubblici, e riferimenti storici.
(d) Devono essere seguiti i principi del Crime Prevention Through Environmental Design (CPTED).
(e) La progettazione del verde deve offrire vedute sia degli edifici che di altri caratteri particolari.
(f) Devono essere offerti elementi di interesse per i pedoni lungo i fronti dei lotti.
(g) La progettazione degli spazi verdi deve prevedere possibilità di sedersi, vedute, passeggiate o altre forme di ricreazione attiva.
(h) Si devono realizzare adeguate forme di illuminazione secondaria, diretta e indiretta entro gli spazi verdi, senza che essa invada le proprietà adiacenti o generi aloni.
4.2 – Ambito pubblico e ambiente stradale su Marine Drive
(a) Per questa grande arteria di comunicazione, si considera adeguata la forma a viale con arredo a verde, marciapiede, doppio filare di alberi.
(b) Una delle file di alberi sarà collocata entro l’arteria stradale, e la seconda oltre il marciapiede.
(c) Il migliore intervallo tra gli alberi è tra gli 8 e i 10 metri, considerando entrate degli edifici e corsie di accesso veicolare.
(d) Se ciò è reso necessario da limitazioni di spazio, la seconda fila di alberi può trovar posto nell’area verde di interposizione.
(e) L’arredo a verde degli spazi d’angolo deve contribuire al benessere dei pedoni offrendo posti a sedere e ove possibile opere d’arte.
4.3 - Ambito pubblico e ambiente stradale sugli assi nord-sud
Le strade disposte lungo l’asse nord-sud (Yukon, Manitoba, Ontario, Main e Prince Edward) presentano una certa varietà di situazioni entro la zona Highway Oriented Retail. Alcune sono dotate di marciapiede, altre no. Alcune proprietà hanno alberi stradali, ma non tutte alla medesima distanza rispetto al margine. Coerentemente, le linee guida per la progettazione dovrebbero essere applicate in modo tale sia da favorire una continuità di aspetto, sia conservando le alberature esistenti. Anche la realizzazione di un sistema di marciapiedi continuo dovrà tener conto delle alberature esistenti, con adeguate pavimentazioni a livello alla base degli alberi.
(a) Si suggerisce una fascia a verde minima di 1 metro, e una spaziatura degli alberi da 8 a 10 metri.
(b) La larghezza standard del marciapiede in cemento sarà di 1,5 m.
(c) Si suggerisce un secondo filare di alberi, secondo uno schema sfalsato rispetto a quelli stradali, e spaziature identiche.
(d) Nella fascia di arretramento a verde si dovrà piantare vegetazione bassa.
(e) I parcheggi di superficie dovranno essere arretrati al minimo di 1,2 m. dal confine della proprietà, e schermati da una siepe o basso muro, al massimo di 1 metro. [...]
9 - Considerazioni di carattere ambientale
9.1 – Alberi e altra vegetazione: mantenimento, spostamenti e sostituzioni
(a) Le alberature e altra vegetazione esistenti devono ovunque possibile essere mantenute e inserite nel sistema a verde progettato.
(b) Devono essere mantenuti gruppi di alberi, a tutela contro i rischi di isolamento di esemplari singoli, e per conservare le associazioni vegetali minori, interferendo al minimo con la situazione esistente.
(c) Quando sia impossibile conservare gli alberi dove si trovano, come prima alternativa essi dovrebbero essere spostati in altre parti del sito.
(d) Come seconda alternativa, si deve sostituire la vegetazione con specie adeguate, collocate in spazi adeguati rispetto all’organizzazione del sito.
(e) Devono essere utilizzate varie specie locali, per ridurre al minimo le necessità di manutenzione, l’uso di acqua per l’irrigazione, e integrare il più possibile gli interventi a verde col paesaggio tradizionale.
(f) Devono essere realizzati e rafforzati ovunque possibile raccordi fra il verde esistente e quelli delle proprietà adiacenti.
9.2 - Acque: tutela di quelle superficiali e sotterranee
(a) Si devono aumentare al massimo le superfici permeabili a ridurre il deflusso delle acque piovane, e per ricaricare il sistema sotterraneo, secondo il seguente ordine di priorità: primo copertura erbosa, secondo ghiaia su sabbia, terzo, copertura in pietra su sabbia.
(b) Prendere in considerazione l’immagazzinamento in loco delle acque piovane, realizzando vasche o strutture ornamentali e per il tempo libero, a svolgere una duplice funzione.
(c) Si devono installare sistemi di raccolta degli oli e/o altri impianti di trattamento, per gestire (filtrare e ridurre) il deflusso delle acque dai piazzali a parcheggio.
(d) Le acque grigie di scarico devono essere riciclate in loco, quando possibile, a scopo di irrigazione, per ridurre i consumi, gli sprechi, il deflusso.
9.3 - Terreni: mantenimento, rimozione e sostituzione
(a) Il terreno di coltura superficiale spostato nel corso della costruzione dovrebbe essere mantenuto, ove possibile, a costituire una ricca base per le piantumazioni e l’arredo a verde.
(b) La qualità dei terreni dovrebbe essere migliorata dove necessario con trasferimenti interni o dall’esterno, secondo l’opportunità.
(c) I suoli contaminati dovrebbero essere sottoposti a bonifica o sostituiti con altri di buona qualità, a migliorare la crescita delle piante e il ciclo delle acque.
(d) I progetti di costruzione devono essere coerenti alle norme provinciali nel caso di terreni inquinati o altre contaminazioni.
9.4 – Qualità dell’aria e trasporti: distanze e funzioni
(a) Devono essere incoraggiati gli spostamenti a piedi e in bicicletta, collegando gli interventi alle vicine piste ciclabili, greenways e altri percorsi.
(b) Devono essere realizzati collegamenti sicuri e accessibili di carattere pedonale e ciclabile ai principali percorsi degli autobus.
9.5 - Energia: conservazione e efficienza
(a) Gli edifici devono essere orientati in modo tale da sfruttare al massimo il sole, sia dal punto di vista dei fabbricati che del verde.
(b) I materiali da costruzione, i metodi e sistemi, devono essere orientati alla conservazione energetica e alla riduzione dei costi di gestione sul lungo termine.
9.6 – Rifiuti solidi: riuso e riciclaggio
Si suggerisce di definire un piano generale di gestione dei rifiuti condiviso fra i vari proprietari dell’area, che possa offrire possibilità di riuso e riciclaggio alle varie attività commerciali e produttive.
Nota: su Eddyburg, anche la cronaca di come il progetto Wal-Mart, concordato secondo queste linee guida, sia stato comunque respinto. Dal Vancouver Sun 29 giugno 2005 (f.b.)
Gli investitori internazionali hanno bisogno soprattutto di dati, per orientarsi sul mercato. L'ultima fotografa sul retail italiano è firmata Jones Lang LaSalle con lo studio sul "Mercato dei centri commerciali". Già il 2003 era stato da record con 715mila mq di nuovi sviluppi per 30 aperture e cinque ampliamenti. Il 2004 ha confermato la tendenza, chiudendo con una superficie totale di 8,5 milioni di mq sviluppati su 547 centri. Le previsioni danno un ulteriore 45% di aumento tra il 2005 e il 2007, per nuovi 3,8 milioni di mq.
In tanto dinamismo, il rapporto mq/abitanti rimane sotto la media europea: ogni mille abitanti, 146 mq contro 180. Il dato medio nazionale, però, nasconde pesanti differenze tra aree: il Nord è allineato all'Europa, il Centro cresce velocemente e chiude il 2004 con una densità di 126 mq, il Sud non supera i 61 mq.
Un po' in ritardo, l'Italia, ma orientata verso le ultime mode: sorgono centri molto estesi - tra i 20 e i 40mila mq - che esaltano il matrimonio tra attività commerciali e del tempo libero, ad esempio con multiplex cinematografici (si pensi al centro di viale Sarca a Milano).
Nessuna struttura oltre i 40mila mq è stata inaugurata negli ultimi due anni: allo stato ne esistono 17 per il 10% della superficie totale (Gla). La classifica dei mq è guidata da Le Gru a Torino con 70mila mq, I Gigli a Firenze con 68mila, Orio al Serio a Bergamo con 60mila e Villorba a Treviso con 55mila. Mantengono le promesse di crescita i factory outlet che rappresentano solo il 2% dello stock totale, ma crescono a buon ritmo. Anche se, secondo Jll, aperture e ampliamenti nuovi porteranno ad aggiungere 340mila mq di Gla agli attuali 160mila, con ciò coprendo il mercato. Convinzione condivisa dagli investitori stessi. Jacopo Mazzei, a.d. di Fingen Re (partner del big europeo McArthurGlen, pioniere in Italia con Serravalle Scrivia) pensa che dopo l'effetto novità .
Intanto, a ottobre è prevista l'apertura di Barberino di Mugello (72 milioni investiti) da parte proprio di McArthurGlen, che sta già lavorando anche per un'apertura a Napoli (80 milioni); Fashiondistrict parte a giugno col raddoppio di Bagnolo San Vito e lavora sui nuovi appuntamenti di Molfetta (Ba, 340mila mq per 135 milioni, con multiplex) e Santhià (Vc, 130mila mq totali, 35 milioni d'investimento per lo sviluppo dei primi 14.500 mq); la spagnola Neinver è impegnata a Vicolungo (No) su un progetto da 75 milioni. Nel prossimo futuro dell'Italia si intravedono anche nuovi parchi commerciali. . Entro la fine del 2007 è previsto il raddoppio degli attuali 180mila mq. Non attecchisce invece la formula dei centri leisure dedicati al tempo libero. Esistono solo tre progetti, per circa 130mila mq. .
Lo sguardo degli investitori si volge verso le regioni del Centro Sud, che nel 2004 hanno attratto il 48% degli investimenti. Tra le operazioni più rilevanti ricordiamo l'acquisizione da parte di Ing del centro Megalò a Chieti e i centri di Pomezia e Aprilia. Molto attivi nello shopping dell'anno scorso sono stati i fondi aperti tedeschi, con il 41% degli investimenti contro un timido 6% rappresentato dai fondi chiusi italiani.
Qui il sito immobiliare Grimaldi (f.b.)
Titolo originale: Retail shifts toward livability, says mixed-use expert – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Nessuno si è guadagnato più consensi di Richard Heapes nel campo della progettazione di centri mixed-use negli scorsi anni. I suoi progetti comprendono Mizner Park, Bethesda Row, Santana Row, e Blue Back Square. Heapes ha dimostrato intuizione nel creare insiemi di negozi, ristoranti, residenze, uffici: luoghi dove le persone tornano volentieri.
Architetto di formazione, Heapes è socio fondatore della Street-Works LLC, con sede a White Plains, New York. Quando è stato invitato di recente a tenere un discorso alla riunione annuale del Town Green Special Services District di New Haven, il direttore di New Urban News Philip Langdon ha colto l’occasione per intervistarlo sulle tendenze del New Urbanism negli ambienti commerciali.
NUN: È finita, l’epoca dei centri commerciali tradizionali?
RH: negli ultimi dieci anni c’è stato un vero assalto, al modello dello shopping mall. Si sono visti i “ power centers”, i “ category killers”, i villaggi outlet, i complessi urbani per il tempo libero. E adesso ci sono i lifestyle centers, anche se non c’è molta vita, lì, e molto poco stile. Ci sono oltre 2.000 centri commerciali in America, ma solo due nuovi in costruzione. Il tempo che la gente trascorre lì dentro diminuisce ogni anno, e ora è sceso sotto un’ora. Nel frattempo, negli scorsi cinque anni, i commercianti, la grande distribuzione, i proprietari di centri commerciali sono stati molto occupati nelle razionalizzazioni proprietarie, nel comprarsi l’uno con l’altro, senza prestare molta attenzione ai propri clienti.
NUN: I rapporti della PricewaterhouseCoopers ripetono da anni che l’aspetto esteriore di molti centri commerciali – quelli che non stanno in cima alla propria categoria – lascia a desiderare.
RH: Quello che è cambiato è che, ora, i proprietari di centri commerciali si sono accorti di essere vulnerabili. Capiscono che c’è stata una trasformazione nei desideri dei consumatori. Alcuni hanno cominciato ad aggiungere nuove componenti al modello originario: la Cheesecake Factory, o il cinema, ecc. Alcuni hanno inserito un magazzino Target come anchor, offrire un commercio di servizio, per lo shopping “quotidiano”, così che ci si vada due volte la settimana. Ma essenzialmente i centri commerciali sono ancora ambienti dedicati solo agli acquisti.
Alcuni hanno fatto causa alla concorrenza, come ci è successo a West Hartford, dove la Taubman Companies ha cercato di fermarci nella realizzazione del Blue Back Square (un complesso a funzioni miste inserito in un centro città lineare tradizionale). Questo perché riorganizzare un centro commerciale costa 10-15 milioni di dollari, mentre per fare una serie di cause legali anche lunghe basta un milione.
NUN: Quante delle tendenze negli spazi commerciali sono determinate dai pressi di beni e servizi?
RH: personalmente vedo il commercio come organizzato attorno a quattro fattori: prezzi e convenienza, o varietà e comunità. Negli anni recenti, il 90% di tutta l’edilizia commerciale si è concentrato su un solo ambito: super-convenienza e super-prezzi. Ad ogni modo, la gente dei big-box sta arrivando a una svolta. I grandi operatori vengono verso i centri urbani. Tentano di entrare nelle downtowns dove esiste un ambiente di varietà, comunità, autenticità, “realtà”. Il consumatore di oggi vuole una Main Street, un ambiente urbano, e i commercianti stanno tentando di capire come possono offrirglielo.
NUN: Il commercio big-box vuole davvero realizzare negozi genuinamente urbani: complessi multipiano affacciati sul marciapiede?
RH: Con una concorrenza così forte, e margini di profitto tanto sottili, la maggioranza degli operatori vuole spendere il meno possibile per i propri edifici. L’edilizia è vista come spesa, non come investimento. E ovviamente la cosa salta agli occhi. Normalmente, un punto vendita Target può costare 15-20 milioni di dollari. In centro a Stamford, Connecticut, c’è un nuovo Target, di cui siamo stati progettisti e costruttori, e che è costato parecchie volte tanto. Ha l’aspetto di un grande magazzino, con piccoli negozi a livello marciapiede, parcheggio su quattro livelli al di sopra. Il commercio big-box ha bisogno di espandersi nei mercati urbani, e inizia a “pagare per entrare”, in termini di progettazione urbana, complessi edilizi più creativi, e altri costi.
NUN: Qual’è la chiave del successo dei vostri progetti?
RH: Siamo orientati a varietà di esperienze, secondo un formato non rigido. Crediamo in spazi mixed-use e quartieri con gente che ci viva, che si inseriscano senza soluzione di continuità nel contesto urbano generale. Durante l’ iter di approvazione per Blue Back Square, ho invitato The Hartford Courant a visitare Bethesda Row e a indovinare dove iniziava e dove finiva il nostro intervento. Sono stati lì tre giorni, e non ci sono riusciti.
Oltre alla gente che ci vive, anche la disponibilità di cibo non è mai troppa. C’è qualcosa di genuino, nell’esperienza alimentare. I negozi alimentari sono un fatto davvero emergente. Nello stesso modo in cui gli alberi convincono le persone che si tratta di uno spazio per camminare, il cibo le convince che è un posto in cui vivere. Alberi per le strade e residenze sono molto importanti, ed è possibile risolvere molti problemi di costruzione di spazi sostenibili, nelle città americane, usando queste componenti.
NUN: È un tipo di intervento realizzabile in città di qualunque dimensione?
RH: Città e cittadine attraversano dei cicli, o diverse fasi di un ciclo. Alcune sono in un ciclo di “ viability”. Stanno cercando solo di sopravvivere e crearsi una base economica sostenibile. Molti di questi problemi hanno una scala regionale. Le questioni sono una base economica sostenibile, buone infrastrutture, servizi regionali. Altre città si trovano entro un ciclo di “vivibilità” o di “memorabilità”. Le questioni di vivibilità tendono a ruotare attorno al come rendere una città un buon posto per vivere: case, scuole, giardini, spazi aperti. La memorabilità tende ad organizzarsi attorno al come le città possono fare le cose in modo caratteristico e idiosincratico rispetto a persone e influenze di quello specifico spazio e tempo.
Molti tentativi falliti di progettazione in America si devono all’uso di strategie non allineate alla specifica fase e problemi di una città, combattendo una battaglia sbagliata o che la gente non vuole. Le strategie del commercio urbano in genere hanno maggior probabilità di successo durante la transizione di una città dalla vivibilità alla memorabilità. C’è un mercato, c’è gente che ci vive, e questo forma la base per sostenere il commercio.
Giuliani è stato eletto quando New York aveva seri problemi di vivibilità. Ha lavorato su pulizia e sicurezza, e questo ha aiutato la città a evolversi verso la vivibilità. Gli interventi a Times Square sono nati durante l’epoca di vivibilità: come salvare Broadway e il quartiere dei teatri. Sono stati conclusi mentre New York si stava confrontando con questioni di vivibilità, e criticati come troppo netti, troppo omogenei. Non per gente di New York. Poi la città si è mossa attraverso il ciclo di vivibilità e rinascita, e ora è di fronte a questioni che attengono la memorabilità, come quelle in gioco al sito del World Trade Center. Gli abitanti capiscono che devono ricostruire in modo memorabile. Non si tratta di un processo lineare. Credo, piuttosto, ciclico. San Francisco, per esempio, ha trascorso la maggior parte degli ultimi dieci anni confrontandosi con problemi di vivibilità come un nuovo stadio da baseball, la demolizione dell’Embarcadero, la rivitalizzazione del Ferry Terminal, o le case popolari.
NUN: È possibile costruire uno spazio memorabile, con le grandi catene commerciali?
RH: Ci sono sempre meno inquilini fra cui scegliere, ogni anno che passa (anche se i cicli commerciali sono molto brevi). Parecchi grandi magazzini non esistono più. Anche quando si realizzano buone vie, gli operatori disponibili sono sempre gli stessi. L’ambito dive si ottiene varietà è la residenza, se ci sono abitanti. Ci aggiungiamo vere attività di servizio, come i parrucchieri, alimentari, acquisti superflui, ristoranti, negozi di vini, gallerie d’arte, e cosa più importante di tutte elementi di attrazione a scala regionale, come librerie e teatri inseriti in grandi spazi pubblici. Sono questi gli strumenti per costruire spazi memorabili. Il ruolo del commercio è semplicemente quello di attirare qui le persone, non di rappresentare la funzione o esperienza principale.
NUN: Quali sono i vostri principi progettuali per il commercio?
RH: Il nostro codice recita: “non si possono fare le cose come quelle della porta accanto”. Vogliamo varietà e contrasti. Sono contrario alle formule. Mi è sempre piaciuto il modo di dire di Robert Venturi,“vitalità disordinata”.
Credo che non si possa avere un sistema stradale altamente organizzato e insieme produrre vitalità commerciale di strada. È questa la mia differenza rispetto ai new urbanists. Il New Urbanism è in gran parte orientato dalle forme. Regole e vocabolari fisici, sono antitetici alla natura organica del commercio, dei luoghi commerciali di alta qualità.
Formule come quella dei cinque minuti a piedi come strumento progettuale serio per ambienti di shopping, sono irrilevanti, se non anche sbagliate. Le dimensioni del mercato necessario a sostenere distretti commerciali di certe dimensioni, comprese cose semplici come un negozio alimentare, sono urbane, e saranno determinate principalmente da gente che arriva lì con qualche mezzo di trasporto, principalmente l’automobile.
Là dove i new urbanists sembrano fissati con la prevedibilità fisica (la maggior parte sono fanatici dei regolamenti), noi tentiamo di creare un’immagine di mercato organica, dove il progetto non risulta davvero completo finché gente e negozianti non entrano in gioco e fanno un po’ di disordine. Cerchiamo di gestire il processo per ottenere il meglio dagli istinti economici. Ho sempre pensato che il modello di Christopher Alexander e del suo A Pattern Language, di legare l’esperienza alle forme fisiche fosse un modo più adeguato (e preciso) di descrivere e organizzare l’ambiente commerciale.
NUN: Ma non ci sono progetti di insediamento commerciale new urban che offrono il tipo di contrasti e sorprese di cui parli? E non è bene cercare un ordine generale, all’interno del quale esista varietà?
RH: Non mi fraintendere, è ovvio che ci sia bisogno di una buona struttura urbana e di pianificazione per organizzare regioni, settori e quartieri. E riconosco ai new urbanists il fatto di aver dato forma a un nuovo paradigma, che ha spianato la strada a nuovi tipi di insediamento, compresi i mixed-use. Ma se questo modello appare brillante quando applicato a spazi e quartieri ad orientamento soprattutto residenziale, credo che la centralità assunta dalle forme fisiche sia completamente inadatta per organizzare luoghi commerciali vivaci e organici orientati al mercato. Non è un loro errore; spesso mi chiedo se davvero non sia possibile, viste le soglie economiche di oggi per i rischi e profitti.
NUN: Come riassumeresti la situazione, oggi?
RH: In America non c’è bisogno di costruire nuovo commercio. Vorrei che ci fosse una moratoria nazionale. Le nostre attività si stanno lentamente concentrando dentro i “ supercenters”. Il risultato è che dobbiamo costruire nuove trappole da topi per lo shopping: con luoghi veri, quelli autentici dove la gente vuole andare a far spesa e a pranzare, con case e uffici, scuole, biblioteche ecc., e cosa più importante stare semplicemente assieme. Posti a cui la gente non fa caso, a partire da chi li progetta e costruisce. Penso che stiamo migliorando nel fare queste cose, ma sono sempre meravigliato nel vedere come il nostro settore delle costruzioni riesca sempre a portare tutto quanto verso il minimo comune denominatore. Tuttavia, credo che stiamo migliorando. Per il futuro, dovremo proprio farlo.
Il testo originale (disponibile anche “in chiaro”) al sito di New Urban News (f.b.)
Charter Keck Cramer, Hansen Partnership, Retail/Commercial Development Strategy, Draft Report for Discussion Prepared for City of Kingston, June 2005 - Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
6.1 Merci ingombranti – Una domanda commerciale in via di trasformazione
I prodotti offerti nell’ambito commerciale delle merci ingombranti sono abitualmente beni di consumo durevole che si acquistano di rado, in genere di alto valore. Il fattore distintivo fra i beni durevoli commercializzati nell’ambito merci ingombranti e quelli attraverso negozi e centri commerciali, è la dimensione e massa degli articoli. I più comuni in questo settore sono mobili, accessori, casalinghi, arredo bagno e apparecchi, ferramenta, prodotti da giardino, accessori per l’auto, che richiedono notevoli superfici per l’esposizione e l’immagazzinaggio. Va comunque notato che anche prodotti poco ingombranti, come i casalinghi, sono sempre più spesso commercializzati tramite negozi orientati agli articoli più ingombranti, con crescente preoccupazione da parte dei commercianti tradizionali e agli investitori in immobili commerciali.
I grandi spazi necessari per questo tipo di commercio (e in modo connesso le strutture a più alto affitto degli shopping centres) significano che i centri commerciali restano fuori dalle possibilità localizzative della maggior parte di questi punti vendita. La dimensione dei negozi, che caratteristicamente oscilla dai 1.000 ai 4.000 metri quadrati per singolo esercizio, sino ai 20.000-30.000 metri quadrati nel caso dei centri per l’edilizia, oltre alle necessità di grandi parcheggi, in un primo tempo ha significato che le zone miglior per l’insediamento si siano rivelate quelle a destinazione industriale affacciate su una grande arteria di comunicazione. Ma il successo di questo formato commerciale, ora giustifica il costo aggiuntivo di una localizzazione più associata alle funzioni distributive più che agli usi industriali, perché ciascuno dei punti vendita possa risultare competitivo. Anche le politiche urbanistiche tendenti a consolidare le funzioni commerciali attorno ad alcuni poli di attività, prevenendo un insediamento extraurbano, hanno contribuito a questa strategia localizzativa.
6.1.1 I Superstores isolati
I grandi punti vendita isolati [ free-standing] occupano in genere superfici commerciali di 10.000–15.000 metri quadrati con un solo affittuario. La forma dei fabbricati è caratteristicamente quella di un grosso magazzino lungo una via principale, ed essi offrono ampi parcheggi per molte auto. Viste le dimensioni e il livello di attrazione di visitatori, gli operatori di questi superstores possono permettersi una localizzazione isolata, spesso entro ambienti non-commerciali, e pure risultare competitivi dato che fanno riferimento ad un bacino di utenza molto vasto.
Questi operatori possono essere descritti come “ category killers” per la loro capacità di offrire grandi quantità entro una gamma ristretta a prezzi molto concorrenziali, insieme alla possibilità di uno one-stop shopping. Esempi caratteristici di questa categoria sono le catene: Bunnings, Toys R Us, Ikea, Officeworks, Freedom Furniture, MegaMart, Clive Peeters, o Harvey Norman. Il successo finanziario di questi negozi è stato vario, come dimostra il fallimento di World 4 Kids di Coles Myer, o al contrario la forte crescita di Bunnings o Freedom Furniture. I category killers di solito si collocano in edifici superstore isolati, ma si possono trovare anche nei centri commerciali regionali o negli homemaker centres.
I grandi negozi isolati talvolta si organizzano entro uno homemaker centre o sono raggruppati insieme ad altro commercio di dimensioni minori, ma pure orientato ai beni ingombranti. I punti vendita isolati, principalmente grandi catene nazionali, hanno un ruolo di “destinazione” [ attirano da soli clientela n.d.T.] che consente loro di esercitare in solitudine, purché collocati strategicamente rispetto alle grandi arterie di comunicazione.
6.1.2 Homemaker Centres
Gli homemaker centres sono insediamenti integrati che riprendono alcuni principi del moderno centro commerciale. Offrono una scelta di attività complementari e compatibili, entro un ambiente di carattere familiare che talvolta comprende servizi come caffetteria, ristorazione fast food, spazi gioco per i bambini.
Nella fase iniziale di questo sviluppo, nel primi anni ’90, gli homemaker centres si realizzavano spesso in aree a destinazione secondaria, entro o ai margini di zone ad industria leggera, che però offrivano un affaccio su strade o superstrade. A partire dalla seconda metà dei ’90, il tipo di localizzazione necessaria per gli homemaker centres integrati è cambiato, con la loro entrata nel filone principale del settore commerciale, e il bisogno di collocarsi nei pressi di shopping centres o grandi negozi isolati.
Gli homemaker centres consistono di una serie di esercizi del genere category killer o altro commercio di articoli ingombranti, e godono il mutuo beneficio della vicinanza reciproca, attirando consumatori da una più vasta area. I punti vendita caratteristici di questi centri sono quelli di prodotti elettrici, arredamento, biancheria da letto, casalinghi, ferramenta, articoli per l’edilizia (pavimenti, tegole, piastrelle, cucina-bagno) ma c’è stata di recente un’espansione di generi e operatori, e ora sono presenti anche accessori auto, giocattoli e articoli sportivi, e per le attività all’aperto. Si tratta di strutture commerciali per cui la clientela è disponibile a spostarsi su lunghe distanze vista l’offerta di notevole varietà a prezzi concorrenziali rispetto al negozio tradizionale, grande magazzino o specializzato.
[...] Il successo di questi centri in termini di attrazione di clientela e turnover di operatori è ben riflesso dal fatto che la categoria immobiliare sia diventata un tipo a sé. Investimenti e attività costruttiva si sono spostati dal dominio dei piccoli operatori indipendenti a entità più grosse, associazioni e conglomerati. Ciò suggerisce un riassestamento verso il basso da parte del mercato dell’indice di rischio associato a questa forma commerciale.
6.1.3 Commercio lungo le fasce stradali / Quartieri di esposizioni
I piccoli saloni (abitualmente da 300 a 800 metri quadrati) affacciati su una via principale o superstrada sono in declino, rappresentativi di una forma di commercio superata. Le showrooms in genere sono piccole strutture, isolate o a piccoli gruppi, senza alcun tipo di sinergia fra i tipi di prodotti proposti.
[...] In genere i quartieri di esposizioni lungo le fasce stradali sono simili ad altre forme di striscia commerciale, dato che dipendono da:
● Una massa critica di commercianti che offrono prodotti simili o complementari;
● La presenza di anchor( s) per attirare visitatori;
● Meccanismi di pianificazione urbanistica e strategie commerciali a orientare l’insediamento, anziché una logica di gestione da centro commerciale.
6.1.4 Gerarchie dei poli di attrazione nel commercio di beni ingombranti
Con la maturazione di questo segmento, è emersa una gerarchia delle varie destinazioni, a seconda delle differenze di attrattività dei vari centri o quartieri. La capacità di attrazione si basa su elementi quali:
● Massa critica di superfici commerciali;
● Miscela di operatori;
● Compatibilità e sinergie fra negozi adiacenti;
● Prossimità ad altre strutture commerciali o cittadine;
● Età del complesso e tipo di negozi;
● Comodità di accesso e parcheggio.
I complessi che comprendono sia homemaker centre( s) entro un importante centro commerciale (di scala regionale o superiore) e/o superstore isolati si collocano al vertice della gerarchia, mentre i quartieri tradizionali di vecchio tipo lungo le fasce stradali si riclassificano ad un livello più basso.
da molti punti di vista, questa evoluzione è simile a quella di adattamento gerarchico degli shopping centres nella zone di Melbourne quando essi nella forma isolata il tipo commerciale dominante a spese delle tradizionali fasce commerciali di via. L’adattamento naturale di queste ultime a comprendere un più ampio raggio di funzioni – come caffè e ristoranti – e/o un rafforzamento di tipo tematico per rivolgersi ad un mercato locale più ampio, è indicativo della natura dinamica del settore commerciale.
[...] 6.3 Merci ingombranti: un mercato che si avvicina alla fase matura
Il mercato dei prodotti ingombranti sta cominciando ad entrare in una fase matura di sviluppo, come risultato di una forte crescita nelle attività e alla costruzione degli homemaker centres e dei quartieri specializzati nello scorso decennio. In questo periodo è cresciuto il numero degli insediamenti, e insieme la gamma dell’offerta e le quantità di operatori all’interno di essi. Una risposta naturale a ciò, è un restringimento dei bacini di utenza naturali serviti dai vari centri e quartieri, e un’erosione della rendita economica colta dai primi operatori che vi si sono insediati. Questo effetto è stato in parte nascosto dalla forte crescita dei consumi delle famiglie, in particolare dalla fine degli anni ’90, come conseguenza del rafforzamento del dollaro australiano e di solido mercato interno.
6.4 Conclusioni
Le conclusioni principali che possiamo trarre da questa analisi del settore commerciale delle merci ingombranti sono che:
● Questo tipo di commercio rappresenta un nuovo formato, emerso come risposta ad una aumentata domanda di beni particolari e per la casa, sino al punto in cui è diventato conveniente specializzarsi in categorie singole;
● La recente forte crescita della domanda probabilmente non continuerà in futuro, per l’aumento dei prezzi nominali dei prodotti importati e l’indebolimento dell’attività interna;
● Il risultati commerciali dei grandi magazzini, nell’ambito delle merci ingombranti, probabilmente inizieranno a stabilizzarsi dopo un declino durato un decennio.
Nota: l’intero rapporto in originale è scaricabile al sito Strategic Planning dell’amministrazione municipale di Kingston, città di 135.000 abitanti nel'area metropolitana di Melbourne (f.b.)
Titolo originale: What’s in a Name? Plenty – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Cosa c’è in un nome? Quando classifichiamo un insediamento e i suoi contenuti commerciali e associati, c’è molto in gioco. Il successo del lifestyle center, in tutte le sue forme, mette in luce il dilemma della denominazione.
Le radici dell’organizzazione moderna, e dell’attuale confusione, risalgono agli anni ’90, quando drastici cambiamenti negli assetti del commercio hanno comportato un consolidamento degli operatori esistenti, la ridefinizione del concetto di “ anchor”, una proliferazione di formati a prezzi scontati, la nascita del commercio online. I consumatori hanno avuto un ruolo importante, coi rappresentanti della generazione Baby Boom ad esprimere una preferenza per ambienti commerciali gradevoli e prodotti più sensibili alle esigenze della clientela.
Nello stesso tempo le donne, continuando a prendere la maggior parte delle decisioni d’acquisto, si sono pienamente integrate nel mondo del lavoro, mentre sono cresciute in modo costante le famiglie di un solo genitore. Questi fattori, insieme, hanno creato un tipo di consumatore con nuovi desideri e necessità: e più pressioni. Per questo consumatore sempre a corto di tempo e costantemente alla ricerca di stimoli, sono diventate essenziali le possibilità multiple di integrare le esperienze (acquisti, e ristorazione, e divertimenti, per esempio), e una maggiore assistenza e comodità.
Il nostro settore ha risposto con vari stimolanti ambienti e modalità commerciali. Abbiamo assistito alla costruzione di alternative allo sprawl suburbano, attraverso una migliore progettazione edilizia e urbanistica, insieme ad una maggiore accessibilità (e interesse) delle merci messe a disposizione dall’economia globale.
Poi, nello sforzo di proporre e comprendere questi nuovi formati, si è arrivati al “gioco del nome”. Conosciamo tutti le varianti del lifestyle center: fashion center, leisure time center, specialty retail center, urban entertainment center, town center o urban village. L’elenco potrebbe continuare.
Purtroppo, anche le tabelle dello International Council for Shopping Centers mancano della necessaria precisione, specie nel campo dei più innovativi lifestyle center: troppo numerosi da citare qui, e anche difficili da comprendere. Gli elenchi di lifestyle centers dello ICSC comprendono circa 100 centri così classificati, a rappresentare diversi aspetti di filosofia insediativa, dimensioni, planimetrie, miscele funzionali.
Questa difficoltà di denominazione si applica in particolare ai complessi mixed-use che la Steiner & Associates chiama “ New Town Centers”. Riteniamo che il fatto di buttare semplicemente e indiscriminatamente questo formato particolarissimo di nuovi complessi centrali nella categoria del lifestyle center non faccia un buon servizio a costruttori, affittuari, investitori, funzionari urbanistici e consumatori.
The Lifestyle Center
Rivediamo le caratteristiche contraddittorie della stessa classificazione lifestyle center. La definizione originale e più limitativa è quella che descrive un insediamento lineare senza anchor, di circa 20.000-30.000 metri quadrati, in genere entro un intervento di densificazione urbana [ infill], proposto con punti vendita specializzati di alto profilo. Credo che il termine sia stato introdotto da Poag & McEwen nel 1987, quando inaugurarono il loro Shops of Saddle Creek a Germantown, (Memphis) Tennessee.
Una definizione più ampia è quella adottata dallo ICSC, estesa a comprendere centri sia con che senza anchor, da 10.000 a 80.000 metri quadrati, ma ancora all’aperto. La descrizione più vasta è quella utilizzata dalle entità finanziarie, che classificano essenzialmente il lifestyle center come insediamento non convenzionale almeno in parte all’aria aperta, diverso da un centro commerciale, da un power center o da un complesso di quartiere.
Un lifestyle center è un ambiente commerciale che risponde ai valori, bisogni e stili di vita del proprio utente. Il problema con questo tipo di approccio “a grandi pennellate” è che l’ambiente commerciale che ne risulta diventa un bersaglio mobile. Potrei sostenere che negli anni ‘50 e ‘60 il centro commerciale regionale era il vero lifestyle center, così come lo erano i power centers negli ’80 e ‘90.
Crediamo che le definizioni di ambiente commerciale debbano essere basate su alcune obiettive caratteristiche del complesso. È questo, il modo in cui vorremmo introdurre il “ New Town Center”.
I new town centers sono progettati e mantenuti utilizzando gli stessi principi fondamentali di urbanistica che hanno costruito e conservato centri urbani vitali per decenni. Dato che sono pensati a scala umana, offrono abbondanza di parcheggi sia su strada che in spazi appositi, hanno a fungere da anchor luoghi di incontro pubblico, i new town centers sono “pre-disposti” per un riuso adattivo, con altri e diversi occupanti degli spazi, dato che società e valori e bisogni si evolvono.
Gli esempi comprendono il Crocker Park a Cleveland della Stark Enterprises, The Grove al Farmers Market a Los Angeles della Caruso Affiliate, CityPlace a West Palm Beach, Florida della Related, Bowie Town Center, a Bowie, Maryland della Simon, e poi Zona Rosa a Kansas City, Missouri, e Easton Town Center a Columbus, Ohio.
Si noterà comunque che tutti questi centri sono works in progress verso il modello perfetto. Titti hanno imperfezioni. Ma quello che, chiaramente, hanno tutti in comune, è l’uso degli spazi pubblici come anchors, e il fatto di usare in una forma o nell’altra modi ispirati alla progettazione spaziale tradizionale.
Adattare e raffinare ulteriormente questa categoria, farà progredire in molti modi la cultura della progettazione di spazi commerciali. Avremo una cornice analitica entro cui poter valutare adeguatamente parametri quali le proporzioni di commercio, uffici, residenze, accoglienza e spazi civici; il relativo impatto finanziario di ciascuno di questi usi; i criteri progettuali per gli ambienti e le sezioni stradali; analisi delle modalità di circolazione pedonale e veicolare; i contributi alla sostenibilità economica e ambientale. Saremo in grado di farlo senza interferire con le attuali analisi di carattere commerciale, come i profili del consumatore, la demografia dei bacini commerciali, o le necessità dell’affittuario di spazi.
Come i lifestyle centers, anche i new town centers sono complessi vivi, che si evolvono e maturano col tempo. Con l’aiuto di una solida definizione, possiamo evitare l’attuale dilemma attorno ai lifestyle, e presentarci meglio al settore commerciale, alla comunità degli investitori, e infine al pubblico: le persone per cui lavoriamo e che serviamo con tanta passione.
Il gioco del nome
Nonostante le numerose affermazioni in questo senso, di norma i lifestyle centers non adottano i principi neo-tradizionali o new urban di progettazione e costruzione. Sono una versione migliorata dell’abituale modello di insediamento commerciale lineare. Al contrario, l’impegno a realizzare un ambiente a funzioni miste, basato su principi urbanistici neo-tradizionali, produce insediamenti completamente diversi da un lifestyle center.
Alcune delle caratteristiche distintive dei new town centers sono:
Una massa critica, di oltre 40.000 metri quadrati di commercio, inseriti entro un complesso a funzioni miste di almeno 80.000 metri quadrati in totale, indispensabili per diventare davvero un punto di riferimento, un luogo per la comunità circostante.
Funzioni integrate, con uffici e residenze, servizi e accoglienza, progettati per integrarsi verticalmente, o comunque adiacenti agli spazi commerciali.
Scala adeguata e percorribilità, di edifici, organizzazione e dimensioni stradali, secondo la progettazione tradizionale, ad offrire spazi e condizioni orientati alla pedonalità, tutto il giorno e tutti i giorni.
Una significativa componente orientata al tempo libero, di almeno 5.000 metri quadrati, integrata alle funzioni tradizionali commerciali, a rendere il quartiere fulcro di socialità per la zona e i suoi abitanti, e a mantenere “vivo” il centro.
Basarsi in primo luogo e sopra a tutto su autentici spazi pubblici, consistenti in strade e marciapiedi, slarghi e piazze, parchi e fontane: tutti spazi disponibili sia per il godimento del pubblico che per funzioni civiche.
Nota: il testo originale al sito di Retail Traffic ; in questa stessa sezione di Eddyburg, "Territorio del Commercio", anche altri testi sul modello Lifestyle Center (f.b.)
Hong Kong Civil Engineering Department, Profilo del progetto Disneyland Hong Kong, novembre 1999 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
Titolo del progetto
Costruzione di un parco tematico internazionale a Penny’s Bay nel nord dell’isola di Lantau, e infrastrutture essenziali connesse
Scopi e natura del progetto
Si propone di realizzare un grande parco tematico internazionale e insediamenti correlati su terreni imboniti a Penny’s Bay, nel North Lantau. Il progettato parco diventerà un’attrazione turistica di primo piano per la zona del nord-est Lantau, già orientata a turismo e insediamenti per il tempo libero.
A servizio del proposto parco a tema, devono essere realizzate e completate in tempo debito alcune essenziali infrastrutture connesse, che comprendono gli insediamenti correlati, opere stradali, reti idriche, fognature bianche e nere, linea ferroviaria, un centro per le attività legate all’acqua con un lago multiuso, e altri servizi.
[...] Localizzazione e dimensioni
La localizzazione proposta per il progetto è entro e nei pressi di Penny’s Bay nel nord di Lantau. A nord dell’area c’è Yam O Wan. Attraverso la parte settentrionale del sito passa la North Lantau Highway [ da Hong Kong verso l’aeroporto al centro dell’isola di Lantau n.d.T.]. A sud, di fronte alla baia, l’isola di Peng Chau, con un insediamento sparso. A ovest la zona abitata di Discovery Bay. Sia Peng Chau che Discovery Bay distano due chilometri dall’area del progetto. L’aeroporto di Chek Lap Kok è circa 11 chilometri a ovest. La zona centrale di Hong Kong è approssimativamente a 15 chilometri a est.
Di seguito, i particolari del proposto parco tematico ed essenziali infrastrutture connesse:
(a) imbonimento di circa 290 ha di terreni utilizzando come materiali sabbia marina e terreni di riporto, e costruzione di circa 3,5 km di barriere verticali e oblique di contenimento dei materiali di riempimento;
(b) parco tematico e insediamenti connessi su un’area di circa 180 ha compresi alberghi sino a 7.000 stanze complessive, commercio, ristorazione e attività per tempo libero, depositi materiali pericolosi;
(c) due moli;
(d) opere stradali comprendenti:
(i) un tratto della Chok Ko Wan Link Road (formato superstrada veloce) dallo svincolo esistente di Yam O alla valle nei pressi della centrale energetica della China Light & Power. Questo tratto stradale di 1,5 km sarà a tre corsie per ogni senso di marcia, con rotatoria nel pressi della centrale CLP;
(ii) strada P2 (arteria di distribuzione principale) e strada di accesso a Yam O per collegare la prevista stazione ferroviaria di Yam O al parco tematico. La proposta arteria P2 avrà tre corsia per ogni senso di marcia, uno sviluppo di 4 km e due rotatorie. Per ospitare parte delle opere stradali è necessario un imbonimento della dimensione di circa 10 ha a Yam O;
(iii) strada turistica di 3,5 km (strada di distribuzione locale) attorno al proposto parco a tema;
(iv) percorso pedonale al centro del parco, con una lunghezza di circa 800 m.
(e) un centro per le attività acquatiche con lago di circa 23 ha da utilizzarsi sia per irrigazione che per sport e altre attività ludiche, comprese strutture di pompaggio e filtri;
(f) un sistema di drenaggio acque piovane consistente in un canale scoperto largo circa 50 m e lungo 1,2 km, scavalchi e condutture di varie sezioni;
(g) un sistema fognario per convogliare i liquami verso l’esistente sistema di depurazione di Siu Ho Wan. Le opere comprendono stazioni di pompaggio, vasche e pozzi, insieme ad altre strutture;
(h) servizi essenziali per l’operatività del parco tematico:
(i) due zone a parcheggio a Penny’s Bay;
(ii) una stazione di interscambio presso la progettata stazione ferroviaria di Penny’s Bay e un punto temporaneo presso la stazione di Yam O;
(iii) reti idriche per acque potabili, dolci per irrigazione e salate, con relative strutture.
(i) una nuova linea su binari dalla Tung Chung a Yam O sino a Penny’s Bay, con stazioni a Yam O e al parco tematico, e 3,5 km di binari, in parte in galleria (la compagnia ferroviaria fornirà i relativi studi di impatto ambientale per queste opere);
(j) fasce di interposizione stradale, terrapieni e arredi a verde;
(k) opere di stabilizzazione dei pendii.
[...] La località
L’area proposta per il progetto e l’ambiente circostante sono inedificati, con pochissime o nessuna zona abitata entro il raggio di un chilometro. Comunque la zona è stata sottoposta a numerosi studi urbanistici e di ingegneria [...].
Sulla base dei risultati di tali studi parte dell’area era stata destinata a contenere strutture di terminal e funzioni correlate. La destinazione d’uso è stata poi modificata a parco tematico e insediamenti turistici connessi, secondo lo Outline Zoning Plan for Northeast Lantau pubblicatu ufficialmente nell’agosto 1999 .
Nella zona interna del sito di Penny’s Bay alcuni spazi sono occupati da un cantiere navale. Le attività principali del cantiere sono costruzione e riparazione di yachts e altre imbarcazioni in materia plastica, o in acciaio. Il cantiere occupa complessivamente una superficie di circa 19 ha di terreno. Per avviare la dismissione dei cantieri sarà eseguito a tempo debito uno Studio di Impatto Ambientale .
Accanto al sito c’è un’impianto a turbine di gas della China Light & Power, che costituisce parte del sistema di rete energetica .
Esistono due noti siti archeologici entro i confini dell’area del progetto: quello denominato Ta Shui Wan – Wan Tuk, e il Chok Ko Wan. Il primo è stato sostanzialmente modificato dalla realizzazione dei cantieri navali Cheoy Lee e dai lavori per la Chok Ko Wan Link Road, costruita contemporaneamente alla North Lantau Highway.Il secondo è stato modificato dopo l’impianto della centrale CPL. Vale la pena notare che esiste anche un sito archeologico a Pa Tau Kwu, che comunque non sarà direttamente interessato dal progetto.
[...] I momenti chiave per l’attuazione del progetto sono i seguenti:
(a) Progetto preliminare, marzo 1999 – metà 2000
(b) Progetto dettagliato per l’imbonimento di Penny’s Bay, ottobre 1999 – dicembre 1999 [...]
(f) Progetto dettagliato di tutte le altre opere, 2000 – fine 2002
(g) Realizzazione di tutte le altre opere per fasi, fine 2001 – metà 2005
(h) Attivazione del parco a tema, metà 2005
Possibili impatti sull’ambiente
I vari impatti ambientali relativa a costruzione e attività del progetto saranno affrontati in dettaglio nello Studio di Impatto Ambientale. Le valutazioni preliminari sono quelle che seguono:
[...](d) Habitat naturale / ecologia ed elementi storici
All’interno dell’area di progetto non esistono né sono previste zone destinate a Parco naturale, siti di particolare interesse scientifico o zone speciali. Nondimeno la VIA analizzerà i potenziali impatti sull’ambiente naturale, raccomandando le eventuali opportune misure di mitigazione. Lo stesso avverrà per gli aspetti storico-culturali.
[...](h) Qualità visiva, interferenze luminose, paesaggio
L’illuminazione esterna e delle varie attrazioni possono riflettersi sulle aree vicine. I laser show possono avere effetti sull’ambiente circostante. Dato che la zona del progetto è piuttosto appartata non si prevedono impatti isgnificativi. La VIA analizzerà tutti i potenziali impatti, suggerendo se necessarie le adeguate misure di mitigazione.
Una componente chiave dell’esperienza di un parco tematico, è l’eliminazione delle interferenze visive esterne. Un terrapieno alto 9 metri attorno al parco eliminerà la maggior parte delle interferenze.
La rete dei terrapieni ridurrà al minimo anche gli impatti potenziali di luci e riflessi sulla zona circostante dell’isola di Lantau. Comunque, dato che non tutto il parco a tema sarà isolato da terrapieni, alcuni edifici all’interno potrebbero avere impatti visivi sull’ambiente circostante. Quindi anche in questo caso saranno analizzati dalla VIA i potenziali impatti delle attività su ricettori sensibili. Tali ricettori sensibili comprendono la fauna del nord Lantau, piloti di aerei, piloti di imbarcazioni e zone residenziali nei pressi del parco .
Un degli elementi più significativi del parco a tema sarà un paesaggio di alta qualità e attrattività. Anche se i terrapieni servono come elemento per eliminare le intrusioni visive, essi offrono anche un’opportunità per l’arredo a verde. Altre sono rappresentate da zone interne al parco a tema e nei pressi di alberghi e rete stradale. La VIA analizzerà qualunque impatto del programma di arredo a verde sulla qualità visiva generale della zona del progetto. [..]
Nota: il documento in forma originale e integrale, insieme ad altri, al sito ufficiale dedicato alla Fase 2 del progetto Disneyland Hong Kong ; di seguito è scaricabile una planimetria di Penny's Bay con i vari elementi componenti il piano ; altre informazioni sulla pianificazione territoriale nell'isola di Lantau, e sulla contestualizzazione generale di Disneyland, al sito della Development Task Force governativa, da cui è possibile scaricare il "Concept Plan" (f.b.)
(versione breve di un discorso pronunciato alla III Conferenza annuale dello International Council for Shopping Centers, 26 febbraio-1 marzo 1978); Titolo originale: The sad story of Shopping Centres – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Fu nel 1943, solo 35 brevi anni fa, che Architectural Forum chiese a circa una dozzina di noti architetti di immaginare il futuro, e anticipare nuovi tipi di edifici che potessero affermarsi una volta finita la seconda guerra mondiale. Il mio contributo fu un articolo illustrato da schizzi, dal titolo “Shopping Centres” che mostrava quello che ora chiameremmo un centro di quartiere di medie dimensioni. Scrivevo
“Non si potrebbe pensare di rendere lo shopping più invitante. I negozi sono raggruppati in un edificio posto attorno a un’area a verde. Eccetto l’entrata principale, l’esterno ha caratteristiche modeste. Non ci sono pubblicità a disturbare l’aspetto delle vie residenziali. A ciascuna estremità dell’isolato c’è uno spazio a parcheggio, e carico e scarico sono nascosti da pareti schermo. Per i frequentatori c’è un percorso pedonale coperto che collega tutti i negozi con la zona a verde, che offre un’atmosfera riposante e protegge dal traffico automobilistico; si possono trovare tutti i servizi per le necessità della vita quotidiana: ufficio postale, libreria circolante, ambulatorio medico e dentistico, sale per attività sociali, oltre alle abituali strutture di tipo commerciale. Secondo gli stessi principi si possono realizzare centri più grandi, entro zone urbane estese per più isolati. Attorno a questi centri il traffico automobilistico può essere deviato ai lati, o se necessario al di sotto di essi”.
Dovevano passare dieci anni, prima che potessi tradurre questo piccolo sogno in un’enorme realtà, nel primo pionieristico centro commerciale regionale: Northland, a Detroit. Questo progetto, su più di 100.000 metri quadrati di superficie commerciale e con 10.000 posti auto nei parcheggi, stava nel mezzo di un’enorme zona residenziale, e serviva adeguatamente sia chi già ci abitava, sia chi si prevedeva sarebbe andato a vivere lì entro tre anni dall’apertura. Dava a migliaia di cittadini residenti in una zona senza buone strutture commerciali un posto per incontrarsi, passeggiare e riposare in un ambiente verde de fuori da traffico automobilistico. Offriva, oltre a botteghe e negozi, zone spaziose per attività culturali e feste, un centro comunitario dotato di auditorium, un ufficio postale, ambulatori medici e anche un teatro.
Due anni dopo aprì Southdale, vicino a Minneapolis, su mio progetto, il primo shopping centre con una zona pedonale coperta e ad aria condizionata. Le strutture sono raggruppate attorno a un enorme cortile a giardino alto tre piani, che divenne non solo il punto focale e luogo di incontro per gli abitanti della città satellite che era cresciuta nei dintorni, ma anche il posto dove avevano luogo alcuni dei più importanti eventi pubblici di Minneapolis. La sera si tenevano concerti sinfonici, feste, balli. Oltre ad auditorium, ufficio postale e altri servizi urbani c’è un asilo nido e un piccolo zoo.
Oggi è difficile credere che, quando fu progettato Southdale, l’idea di un centro commerciale coperto era rivoluzionaria. Passarono in effetti molti anni, prima che qualcun altro osasse ripetere l’esperimento dello enclosed shopping centre che oggi è diventato quasi lo standard, anche quando il clima mite renderebbe preferibile un cosiddetto open shopping centre.
Ma cos’è successo al centro commerciale, nei venti anni e più da quando hanno aperto i centri pionieri? C’è stato un enorme incremento nel numero, e il concetto si è diffuso in tutto il mondo, ma allo stesso tempo si è verificato un tragico abbassamento del livello qualitativo, per molti motivi. Le idee ambientali e umanistiche che stavano alla base dei centri originali, pur non perfettamente espresse, non solo non sono state sviluppate: sono state completamente dimenticate. Sono state copiate solo le caratteristiche che si sono rivelate fonte di profitto.
Un nuovo tipo di costruttori
Con poche eccezioni, sono cambiate le motivazioni dei costruttori. Chi pensava gli shopping centres non era più un proprietario di grande magazzino ansioso di migliorare la reputazione dell’impero economico di famiglia, seriamente responsabile nei confronti delle generazioni future, ma un anonimo imprenditore immobiliare che nei casi migliori era un professionista responsabile, e nei peggiori un promotore o speculatore che voleva il dollaro veloce. L’idea di servire i bisogni di un certo quartiere fu soppiantata da quella che fosse possibile solo realizzare una macchina commerciale grossa e potente a sufficienza da poterla collocare ovunque, sui terreni più a basso prezzo possibili, perché a sola causa della scala gigantesca la gente sarebbe accorsa anche se l’avessero obbligata a spostarsi per decine di chilometri. Divenne una pratica corrente quella di dare il colpo di grazia ai centri città già in crisi, attirando all’esterno le ultime attività rimaste.
Come ho descritto nel mio libro The Heart of Our Cities, questa politica fu rovinosa per le città americane. La distruzione fu grande, ma non catastrofica perché le città americane, con la loro storia relativamente breve e le poche tradizioni, avevano per poco tempo offerto alla gente non molto più degli ingorghi di traffico. Ma per l’Europa il copiare senza pensarci il centro commerciale americano è stato davvero catastrofico. Lo stupro economico delle aree centrali è stato un crimine più grave per l’Europa, dove le città erano cresciute in modo organico, spesso per migliaia di anni, ed erano importanti espressioni di forma urbana che offriva opportunità di comunicazione fra gli uomini, cultura, arti e virtù civili.
Quando si costruì un gigantesco centro commerciale mezzo chilometro a sud dei confini meridionali della vecchia Vienna l’effetto fu di indebolire seriamente non solo il nucleo centrale, ma molti dei sub-centri storici in quasi tutti i ventitre distretti. L’effetto ulteriore fu che migliaia di piccoli negozi furono obbligati a chiudere, e la tradizione della spesa all’angolo sotto casa, tanto importante per gli anziani e chi non ha l’auto, diventò impossibile.
Ghetti monofunzionali
Lo shopping centre, così come si è diffuso sia in Nord America che in Europa negli ultimi venti anni, è solo una delle molte disastrose espressioni della mono-funzionalità. Il suo iniziale successo economico ha incoraggiato le imitazioni, e molti altri tipi di ghetti enormi, specializzati, sono stati costruiti seguendo la diffusione delle idee di Le Corbusier così come espresse nella Carta d’Atene, provocando un grave malessere in molte conurbazioni. Il centro commerciale è un esempio, estremo ma non certo l’unico, di sostituzione della complessa miscela della forma urbana sviluppata naturalmente, con forme artificiali e dunque sterili. Così oggi vediamo centri civici che sono enormi conglomerati di strutture governative dove burocrati incontrano solo altri burocrati, estranei a coloro che dovrebbero capire e servire. Ci sono centri finanziari dove il nastro della macchina da scrivere dialoga col computer, e viceversa. Ci sono anche centri culturali, concentrazioni di teatri, musei, gallerie e sale mostre in splendido isolamento rispetto a coloro che dovrebbero essere persuasi a partecipare alla cultura. Ci sono centri per l’istruzione, scuole superiori o campus universitari, a costituire ghetti per giovani. Istituzionalizzano la torre d’avorio, estraniando le giovani generazioni dalle vecchie, chi studia da chi lavora.
Negli ultimi cinque anni il pubblico si è svegliato rispetto ai pericoli che portano con sé tutte le enormi concentrazioni monofunzionali, specialmente gli shopping centres. Fra le ragioni di questa crescente preoccupazione ci sono l’inquinamento atmosferico, il degrado del paesaggio, la chiusura dei piccoli negozi locali: e i costi crescenti di possedere un’auto. Anche il numero dei centri commerciali progettati, ma non costruiti, o costruiti ma che si rivelano fallimenti economici, sta crescendo con ritmi allarmanti. È mia personale opinione, che il centro commerciale nell’accezione corrente non abbia alcun futuro. Avverto gli inequivocabili segnali della sua caduta, già riconoscibili, e che si evidenzieranno sempre più ad ogni anno che passa.
Nota: per qualche nota biografica e storica in più su Gruen e il suo successo professionale, si veda su Eddyburg almeno l'articolo di Malcolm Gladwell (f.b.)
Andrew Simms, Petra Kjell, Ruth Potts, Clone Town Britain. The survey result on the bland state of the Nation, New Economics Forum, Londra 2005; Estratti e traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
[...] La morte della diversità
L’entusiasmo palpabile dei consumatori che aveva salutato la prima ondata delle grandi catene americane come Gap, Starbucks e di quelle britanniche, è stato sostituito da un vago malessere che assomiglia molto alla noia. Perchè?
Sembravano esotici all’inizi, e promettevano varietà, ma ci hanno dato invece una costante uniformità caffelatte. E con la crescente concentrazione della proprietà sui mercati, hanno reso difficile prendere piede a soggetti più piccoli e diversi. La banalità ha messo radici, come un parente dall’estero invitato a restare perché la sua estraneità sembrava interessante, prima di scoprire che è noioso e non se ne vuole andare.
Ma l’ identikit della cultura commerciale ha anche un lato oscuro. La morte della diversità mina le basi della democrazia, attacca il nostro senso dei luoghi e appartenenza, e conseguente benessere. Consegna il potere a una inaffidabile élite di imprese; e infine, fa a pezzi il ricco intreccio di sistemi naturali sui quali dipende la nostra sopravvivenza ed economia.
“La diversità dei fenomeni in natura è tanto grande” scriveva l’astronomo, matematico e astrologo tedesco Giovanni Keplero nel sedicesimo secolo “e i tesori nascosti nei cieli tanto ricchi, proprio perché alla mente umana non manchi mai nuovo nutrimento”.
Ora questo scivolare dentro l’uniformità di impresa, lubrificata dalla domanda logistica della globalizzazione economica, sta togliendo nutrimento alla mente umana, esattamente come le catene di pollo e hamburger l’hanno tolto al nostro cibo.
Per secoli gli scienziati e poeti e filosofi hanno compreso l’importanza della diversità nel mantenere ecosistemi sani e stabili. Un habitat diversificato produce equilibrio. Cosa più importante, consente alle specie di essere adattabili al cambiamento. Come afferma la scrittrice e biologa Barbara Kingsolver, “Alla radice di tutto, sostiene Darwin, c’è la meraviglia delle meraviglie, la diversità genetica. Non sei come tua sorella, una scatola di cuccioli è una piccola Rainbow Coalition, e ogni chicco di grano in un campo contiene nel suo germe un destino lievemente separato ... la diversità genetica, nelle popolazioni civili come in quelle selvagge, è l’unica polizza assicurativa naturale”.
Ma c’è anche un forte parallelismo fra la diversità genetica del mondo naturale e quella del mondo commerciale nelle nostre vie. Là dove la perdita di diversità genetica minaccia la sopravvivenza delle specie e rende gli ecosistemi naturali vulnerabili al collasso, le città-clone mettono in pericolo la sopravvivenza locale, diminuendo la resilienza delle strade commerciali ai cicli economici negativi, e restringendo la scelta del consumatore.
I paralleli fra sistemi ecologici ed economici sono stati esplorati dall’eminenza grigia degli attivisti comunitari americani, Jane Jacobs. In The Nature of Economies sostiene che è il grado di diversità a determinare il tipo di benefici che rimangono. Si tratti del dopo soleggiamento o pioggia nel caso degli ecosistemi, o di quando viene speso denaro nelle economie locali, “La connessione pratica fra sviluppo economico ed espansione economica è la diversità economica”. Ma la diversità è, esattamente, ciò che si va perdendo sia negli Stati Uniti, sia attraverso l’esportazione dei loro modelli commerciali nel Regno Unito.
Facciamo un esempio. Circa quarant’anni fa Wal-Mart era un emporio gestito da una sola persona, ora è un vasto marchio globale con oltre 100 milioni di clienti la settimana, 4.000 negozi in tutto il mondo e un nuovo punto vendita Wal-Mart che si apre da qualche parte ogni tre giorni. Oltre a Messico, Brasile, Argentina, Canada, Puerto Rico, Cina e Indonesia, ora è saldamente radicato in Europa, specialmente in Germania e nel Regno Unito, dove ha acquisito la catena di supermercati Asda nel 1999.
La politica di Wal-Mart degli insediamenti extraurbani, e del commercio “ ammucchialo alto e vendilo a buon mercato” è l’equivalente economico di un bombardamento a tappeto dell’economia locale. Secondo uno studio USA, “Nei dieci anni dopo che Wal-Mart è entrato nello Iowa, lo stato ha perso oltre 555 grocery stores, 298 ferramenta, 293 negozi di materiali edili, 161 negozi a prezzi scontati, 158 di abbigliamento femminile, 153 di calzature, 116 drug stores e 111 negozi di abbigliamento per bambini. In totale sono fallite 7.326 attività”.
In Gran Bretagna, supermarket come Tesco si prendono una quota sempre crescente del carrello della spesa nazionale, con quasi 2.000 negozi e, alla fine del 2004, quasi il 30% del settore supermercati. Secondo un rapporto scritto nel febbraio 2005 per la Association of Convenience Stores da Alan Hallsworth dell’Università del Surrey,”Al momento Tesco apre un Express store ogni giorno lavorativo”. Mentre loro si espandono, i piccoli negozi di generi alimentari chiudono al ritmo di uno al giorno, e quelli specializzati, come macellai, panettieri e pescherie, presi nell’insieme hanno chiuso i battenti al ritmo di 50 alla settimana fra il 1997 e il 2002.
Tendenze come queste non sono comunque solo un attacco alle piccole attività, minacciano anche le possibilità di scelta e la diversità. Tesco sta documentatamente seguendo il percorso di Wal-Mart per quanto riguarda l’influenza sulla carta stampata. Negli USA, Wal-Mart censura attivamente le pubblicazioni. Nel Regno Unito, The Observer ha riferito recentemente i timori dell’editore, riguardo alla distribuzione dei periodici (norme in vigore dal 1 maggio 2005) che si tradurrà nello “inevitabile” controllo dei contenuti editoriali. Già ora attori importanti nella vendita dei giornali, i supermercati hanno messo un occhio sul settore della distribuzione indipendente attraverso i propri formati “ Local”, “ Metro”, e “ Express”. Là dove i distributori locali indipendenti normalmente offrono una massiccia gamma di titoli, i grossi operatori si concentrano massicciamente solo sui primi 100 titoli di maggior circolazione per aumentare al massimo i profitti. Lo stesso si può dire per la vendita di CD e DVD. Dunque, non solo si riduce la varietà di negozi presente in queste zone, si riduce anche la scelta di merci disponibili.
Ian Locks, direttore della Periodical Publishers Association, ritiene che le nuove norme per la distribuzione dei periodici in favore dei supermercati possano mettere fuori mercato 12.000 piccoli operatori.
La Tesco è già stata criticata in Scozia perchè “centralizza la cultura, evitando di offrire le testate popolari scozzesi nei punti vendita più piccoli delle città”, secondo il giornale scozzese Sunday Herald. Nonostante la distribuzione abbia una “lista regionale” che comprende 33 titoli, “solo una manciata” sono stati effettivamente trovati sugli scaffali.
La perdita di diversità si costruisce anche nel tessuto edilizio. Il giornalista di architettura Jonathan Glancey ha recentemente lamentato che “I punti vendita Tesco si stanno moltiplicando come conigli incellophanati. Una volta c’era una chiesa in ogni villaggio, cittadina o città, adesso abbiamo Tesco coi suoi Extra, Metro e Express”.Ma le chiese offrono considerevole varietà architettonica, e lo English Heritage è rimasto costernato dall’impatto sull’edilizia delle vie commerciali, man mano i supermercati impongono le forme standardizzate adatte ai loro rigidi modelli di impresa. Si strappano via finestre e pareti per far posto a scaffalature e cartelli.
L’omogeneizzazione di high-street è solo un delle manifestazioni della marcia verso l’uniformità culturale. Un’intera generazione è cresciuta negli anni ’70 e ’80 con lo spettro delle minacciose economie a pianificazione statale centralizzata est-europee. Ora quella stessa generazione si sveglia scoprendo che esse sono state sostituite da egualmente minacciose e centralizzate corporations.
L’ansia riguardo alla omogeneizzazione sociale non è nuova, e può sembrare spiacevolmente elitaria. T.S. Eliot e Ezra Pound lamentavano che la cultura di massa corrompeva le spinte dell’Illuminismo. La minaccia del totalitarismo trionfante su una popolazione dai sensi ottusi, permea gli scritti di Wells, Huxley, e Orwell.
Dunque, quali sono le differenze rispetto alle paure contemporanee? È una questione di dimensioni, e di portata. Viviamo in un momento della storia in cui il potere, concentrazione, diffusione internazionale delle grandi imprese rende la resistenza ai sistemi di mercato dominanti tanto ardua, che farebbe disperare anche il più cinico dei critici del secolo scorso. Nel 2001, la British Booksellers’ Association ha riportato che di fronte al potere delle grandi catene, più di una su dieci delle librerie indipendenti della Gran Bretagna aveva chiuso nei cinque anni precedenti. Negli Stati Uniti, la American Booksellers’ Association si è tanto allarmata per il potere delle grandi catene da intentare nel 1998 una causa legale contro Barnes & Noble e Borders. Uno dei denuncianti, Clark Kepler, proprietario della Kepler’s Books & Magazines, ha dichiarato: “Questa lotta riguarda ciò che l’America può leggere. Una rete di sane librerie indipendenti stimola gli editori a produrre letteratura diversificata e ad assumersi rischi con gli autori che sono di minor attrattiva commerciale ma di maggior spessore critico”.
Queste tensioni arrivano sino ai media globali. Da quando è stata approvata una discussa fusione nel luglio 2004, circa l’80% del mercato musicale globale è di proprietà di sole quattro compagnie: Universal, EMI, Warner Music e il nuovo agglomerato Sony BMG. La Universal e Sony BMG ora sono le maggior imprese del settore musicale al mondo, con una quota di circa il 25% del mercato ciascuna. Ma anche questo non da l’idea del loro potere di strozzamento culturale: Sony BMG è di proprietà del gigante dei media Bertelsmann, la Universal dell’altro mastodonte Vivendi.
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E poi c’è la diversità di opinioni che scorre nell’etere. Cinque corporations controllano il 90% delle notizie negli Stati Uniti. Mark Cooper, direttore di ricerca della Consumer Federation of America dice, “Il settori informazione vengono ridotti, e i programmi culturalmente diversi e di servizio pubblico messi sotto pressione. La programmazione meno seguita scompare e i giornalisti sono valutati nella logica del profitto di impresa di queste enormi organizzazioni”. Un documento dell’agenzia pubblicitaria della Coca-Cola mostra quanto l’influenza può essere diretta:“La Coca-Cola Company richiede che tutte le inserzioni vengano collocate vicino a editoriali connessi alle strategie dei marchi di impresa ... Consideriamo inadeguati i seguenti soggetti: notizie forti, sesso, dieta, problemi politici, questioni ambientali … Se non è disponibile un collocamento adeguato, ci riserviamo il diritto di ritirare la nostra inserzione da quel numero”.
C’è anche una crescente proprietà incrociata a livello internazionale. La News International Corporation di Rupert Murdoch, per esempio, pubblica 175 giornali i sei paesi, e possiede circa 800 compagnie nel mondo che comprendono canali televisivi terrestri e digitali, reti di informazione, quotidiani, riviste, grandi editori di libri come HarperCollins, compagnie cinematografiche, squadre sportive, editori musicali. Nell’Italia di Silvio Berlusconi, il Primo Ministro è proprietario di una delle imprese di comunicazione più grandi d’Europa, Mediaset, e controlla il 90% delle televisione. Un italiano medio può passare un sabato a far la spesa al suo supermercato locale, rilassandosi a casa, leggendo un giornale, girando per i canali televisivi a guardare una partita del Milan Calcio, ed è la stessa enorme impresa ad aver offerto tutti questi beni e servizi.
Le caratteristiche distintive dei media globalizzati non sono quelle di servire come finestra aperta sulla diversità, piuttosto di fungere da condotto di comunicazione per programmi a formula fissa clonati come Pop Idol, Big Brother o The Weakest Link, che vengono pompati verso i tinelli di tutto il mondo, senza alcun riguardo per l’impatto culturale o la decenza.
Ciascun linguaggio esprime un’intera cultura, e da’ corpo a un modo unico di vedere e capire il mondo che gli sta attorno. Uno degli effetti collaterali della concentrazione dei media, e specialmente il dominio globale di quelli di lingua inglese, è l’estinzione delle lingue vive, e della loro capacità unica di interpretazione. Quasi la metà delle 6.000 lingue del mondo potrebbero scomparire nei prossimi 100 anni secondo l’UNESCO. E delle 3.000 che si prevede sopravvivano sino ad allora, quasi la metà non reggerà ancora molto. Non è una coincidenza, il fatto che i luoghi con la maggior diversità culturale siano anche quelli con la più alta biodiversità. Nello stesso modo in ci la foresta amazzonica brasiliana contiene i segreti per la cura delle malattie umane, essa è casa delle culture che ne possiedono la chiave. Dal 1900, ogni anno in Brasile scompare una tribù indigena.
La diversità è sottoposta ad attacco anche quando ci guardiamo nello specchio. Una delle forme più diffuse di operazione di chirurgia plastica per le donne, in Giappone, è di farsi “allargare” gli occhi, a sembrare “più Ocidentali”. In alcune zone dell’Asia orientale fra i prodotti più popolari ci sono creme per la pelle schiarenti, che consentono anche alle asiatiche dall’incarnato più scuro di apparire “più Occidentali”. Nelle Filippine, la televisione pubblicizza anche spille da naso che possono essere inserite in una narice per conferire al naso una forma più europea.
Il motivo per cui tante cose simili non vengono notate è che i “ corpocrati” globali che decidono dove possiamo far spesa, cosa dobbiamo comprare, leggere, ascoltare, sono anch’essi intrappolati dentro quegli orribili stili di vita. Si incontrano dentro a stanze identiche dalle pareti di vetro nei quartieri generali delle imprese, e viaggiano in prima o business class sui voli internazionali. Leggono gli stessi giornali internazionali, guardano la stessa televisione globalizzata e stanno dentro a identiche suites di albergo. Perché l’impresa globale possa essere gestita, il management deve vivere la globalizzazione: creare per il tecnocrate di gestione una realtà virtuale clonata, staccata dalle esistenze locali e diverse.
G.K. Chesterton lamentava che “Non abbiamo niente davanti a noi, se non il piatto deserto della standardizzazione, che sia del Bolscevismo o di Big Business”. Ora questo si è avverato. Solo senza il Bolscevismo.
Il solo tedio del mondo così creato sta portando a un contraccolpo di reazione. La cittadina di Homer in Alaska ha proibito quelli che chiama negozi “ big-box”. In Francia e Polonia le amministrazioni locali possono ora porre il veto su alcuni supermarket e centri commerciali. Nel caso francese, per proteggere “la coesione del tessuto economico e sociale”. La Malesia ha posto un divieto quinquennale sulla realizzazione di ipermercati nella valle del Klang, che comprende Kuala Lumpur. A Cuernavaca, 80 chilometri a sud di Città del Messico, gli abitanti hanno lottato contro i progetti del gigante americano Costco di costruire un nuovo negozio in un siti di interesse storico. E in Gran Bretagna, il regno di Tesco come principale negozio nazionale sembra avvicinarsi alla fine, mentre sempre più iniziative locali e gruppi di coltivatori si organizzano contro di esso.
Quando ci si sente impotenti contro il “piatto deserto della standardizzazione”, si può fare un’enorme quantità di cose.
Nota: la versione originale e integrale del Rapporto è scaricabile gratuitamente al sito del New Economics Forum (f.b.)