Nell´illustrazione degli uomini Ikea e dei costruttori di Unieco, il centro commerciale progettato a Migliarino è apparso ancora più gigantesco di quanto annunciato. Roba mai vista: quasi 400.000 metri quadrati di superficie (110.000 di Ikea e gli altri concessi in franchising al bricolage e allo sport), 57.000 metri quadrati al coperto, un parcheggio per 6.500 auto e 150 appartamenti per i dipendenti. Ma già il nome scelto per il colosso, «Parco commerciale di San Rossore» - che è sembrato scimmiottare in modo equivoco e poco opportuno il confinante parco vero, quello fatto di alberi, acqua e natura invece che di cemento e asfalto - non ha messo di buon umore i trecento abitanti del comune di Vecchiano, quasi tutti di Migliarino, che lunedì sera hanno assistito al consiglio comunale aperto durante il quale Valerio Di Bussolo per Ikea e Attilio Grazioli per Unieco hanno presentato il progetto. Poi, una trentina di interventi, praticamente tutti «pollice verso», se si esclude quello del «comitato sviluppo e futuro» sorto per dar manforte ad un´opera che dovrebbe portare 850 posti di lavoro diretti più un centinaio nell´indotto. «Roba così in Toscana non si può fare» ha detto uno. «Ma guardate bene, tanto è grande l´opera quanto è piccolo Migliarino» ha protestato un altro indicando plastici e foto che palesano l´incredibile: il centro commerciale supera in dimensione il paese. «Così si decreta la fine del paese, così lo si uccide, Migliarino sarà periferia di Ikea».
Le preoccupazioni maggiori sono per l´impatto che provocherà il traffico e il conseguente inquinamento atmosferico. «Calcoliamo che ogni giorno raggiungerebbero il centro commerciale 20.000 auto, 30.000 nei giorni di punta, sono previsti solo aggiustamenti di viabilità, nessuna nuova strada, non un adeguato rafforzamento delle infrastrutture viarie» conferma il comitato di Migliarino per il parco. Ikea e Unieco - che prevedono per il colosso un bacino d´utenza di 1.200.000 persone, tutta la costa e l´interno fino a Montecatini - hanno progettato un raccordo diretto con lo svincolo autostradale e una bretella per aggirare Migliarino, ma irrisolto resta il nodo del collegamento con l´Aurelia. «Dicono che l´80% del traffico arriverà dall´autostrada, ma noi ne dubitiamo» sostiene il comitato. «Chi viene da Pisa e dal nord del capoluogo di provincia, chi viene da Massarosa, Torre del Lago, Cascina, continuerà a percorrere Aurelia e strade interne. E´ un impatto insostenibile».
Mentre il centrodestra si è schierato contro l´insediamento, che tra l´altro potrebbe essere autorizzato solo da una modifica delle norme regionali sulla grande distribuzione, il sindaco diessino Rodolfo Pardini rimane possibilista ma ha tenuto a precisare che nulla è stato ancora deciso. Si va avanti con le assemblee di frazione: Filettole, Avane, Nodica, il capoluogo Vecchiano. Qualcuno, forse, spera di mettere in minoranza gli «irriducibili» di Migliarino con le sirene dello sviluppo e del lavoro.
D’inverno i barboni, i senza casa, fanno notizia. Il freddo rigido diventa insopportabile e così la morte di qualcuno di loro giunge fino alla nostra attenzione.
A Parigi è successo qualcosa di nuovo e di diverso. Tre giovani attori hanno cominciato a comprare tende da campeggio e le hanno date ai senza casa. Le hanno sistemate lungo il Canal S. Martin tra quai de Valmy e quai de Jemmapes, giusto alle spalle di Place de La République. Il 20 dicembre scorso le tende erano 260, le persone alloggiate molte di più, in alcune una sola, in altre anche 4: in tutto forse 300-400 persone. Una tenda per ripararsi ma soprattutto una tenda per farsi vedere. Rendere visibile l’invisibile, questo l’effetto principale. Le foto di questo strano accampamento, tutto colore rosso, hanno cominciato a circolare. La cultura dell’immagine e della fantasmagoria urbana è servita questa volta per mettere al centro dell’attenzione gli invisibili e con essi il crescente disagio abitativo che ormai accomuna molte città e metropoli europee. Jean Baptiste Legrand è il presidente dell’associazione “Les Enfants de don Quichotte” responsabile dell’iniziativa: lo si incontra al Cafè 96 che funziona da punto di riferimento: si possono chiedere informazioni, contribuire con delle donazioni o prestare un pò del proprio tempo. Alcuni abitanti delle tende ricambiano il proprietario del bar sparecchiando i tavoli.
La municipalità ha bloccato l’installazione di nuove tende ma, in cambio, l’associazione ha ottenuto l’impegno a trovare una sistemazione stabile. Oggi, 3 febbraio, le tende sono 117, il lavoro di rialloggiarli procede, se ne è fatta carico la Fnarf, Fédération d’association. Al momento 147 persone hanno avuto una sistemazione stabile. Le persone rimaste nelle tende sono i casi più difficili da risolvere, alcuni sono senza documenti. Ma il successo dell’iniziativa è indubbio. Il governo francese si è dovuto impegnare in risposta all’eco suscitato sulla stampa a predisporre un piano d’urgenza per i senza casa. E’ di ieri l’assegnazione fatta dall’ENA, la mitica scuola della pubblica amministrazione francese, all’associazione Emmaus di un immobile nel pieno centro di Parigi. L’edificio di otto piani, posto all’angolo tra il Boulevard S.Germain e la rue del Buci, nel quartiere Latino, consentirà di alloggiare una cinquantina di persone.
Ma l’iniziativa è servita anche ad imporre la questione del diritto alla casa da trattare al pari di quello alla salute. Una carta del diritto alla casa sulla quale in Francia il governo di destra sembra volersi impegnare. A Bobigny, nella sede municipale si sono svolti (il 2 Febbraio) gli stati generali europei per l’appello al diritto alla casa. In alcuni paesi europei questo diritto è già sancito nella costituzione: Belgio, Spagna, Grecia, Portogallo, Finlandia, Olanda, Svezia. In altri è sancito solo con legge ordinaria. Un gruppo di lavoro del Parlamento Europeo denominato “Urban Logement” ha pubblicato nell’aprile 2006 una Carta europea dell’alloggio, ma al momento è solo un documento di intenzioni. Sancire il diritto alla casa per contrastare la crescente difficoltà di accesso alla casa, e quindi ad uno dei beni indispensabili per poter avere una vita dignitosa, è solo un segnale di quanto sia grave la questione casa nell’attuale modello economico e sociale. Una difficoltà che riguarda tutti i paesi europei.
Rendere visibile l’invisibile, visto l’esito della vicenda parigina, proporrei di esporre un lenzuolo colorato ad ogni finestra di ogni alloggio che i nostri comuni stanno (s)vendendo. Ci renderemmo conto forse meglio di quanto sta succedendo e di quanto grave è questo processo di dismissione di beni pubblici. Tanto più grave perché avviene proprio nel momento in cui è più acuta la difficoltà di accesso alla casa non solo per i ceti sociali meno abbienti ma anche per quello che una volta chiamavamo ceto medio.
Nota: vedi anche - su Mall - la ricostruzione della vicenda, di qualche tempo fa, dallo International Herald Tribune (f.b.)
«La destra francese è meglio di noi. Sul problema della casa è dieci anni più avanti dell´Italia che è immobile da anni. E se non affrontiamo subito il problema la situazione già drammatica diventerà ingestibile: una vera guerra tra poveri, tra italiani e immigrati».
L´insospettabile sponsor della politica neo gaullista è il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero, di Rifondazione Comunista. Che con queste parole commenta l´inchiesta di Repubblica sugli immigrati costretti a dormire «a ore», a turno, pagando anche 400 euro per un cuscino a tempo determinato.
Italiani sfruttatori?
«In alcuni casi sì, ma soprattutto di memoria corta. Negli anni ‘50 a Torino erano loro gli operai che affittavano lo stesso materasso in tre dormendoci a turno, in base ai ritmi della fabbrica. E questo quando andava bene, perché spesso sul palazzo c´era un cartello: non si affitta ai terùn. E dei meridionali si diceva quello che si dice oggi degli immigrati: che spaccavano tutto, che cucinavano per terra».
Vero o falso?
«La realtà è che la convivenza forzata, il vivere in stamberghe senza luce, senza gas porta al degrado. Io so solo che quando gli immigrati hanno avuto anche un piccolo spazio ma tutto loro, l´ho trovato molto più pulito di casa mia».
Stamberghe, case ghetto perché?
«Due i motivi, la Bossi Fini che fa sì che una persona che lavora, che ha un reddito ma ufficialmente è clandestina, sia ricattabile sul problema casa e quindi sfruttata».
Colpe dello Stato?
«Abbiamo distrutto negli anni il patrimonio dell´edilizia pubblica. Nell´84 si costruirono 34mila alloggi popolari, nel 2004 neppure 2000. L´Italia ha solo il 4 % di alloggi popolari, la Francia il 20%, la Spagna investe 8 miliardi l´anno in questo settore».
Francia batte Italia, almeno sulle case?
«Sì, e per di più stanno discutendo un progetto di legge per cui la casa diventa un diritto soggettivo, come la sanità da noi, e hanno in progetto 150mila alloggi popolari. Da noi nulla e questo rischia di portare ad una guerra tra poveri».
Guerra tra poveri?
«Sì, è sulla mancanza di case, sui servizi il vero terreno di scontro sociale. Se non vogliamo che ci si avvii ad un razzismo dilagante bisogna intervenire. Se lasciamo marcire la situazione la pagheremo nei prossimi anni».
Allora costruite?
«Nella finanziaria non c´è una lira, ma ho chiesto di mettere il tema della casa al centro del tavolo del welfare».
E ora?
«Intanto oggi è in discussione l´approvazione del disegno di legge per il blocco degli sfratti per le fasce deboli. Nel disegno è previsto che entro due mesi ci sia un tavolo in cui le regioni ci facciano sapere il loro fabbisogno abitativo. Da lì la stesura di un piano di intervento concreto».
E per i ghetti?
«Nella finanziaria ci sono 50 milioni di euro per la politica di inclusione, per il superamento dei ghetti come via Anelli a Padova. Un lungo lavoro con regioni, comuni, servizi sociali per creare comunità, convivenza tra immigrati e italiani e non mondi di esclusi. Soldi che verranno spesi così anche per individuare i ghetti e trovare alloggi in giro per la città dove inserire le famiglie arrivate dall´estero; con l´intervento dei servizi, con mediatori culturali, assemblee di cittadini. Ovviamente il tutto con l´aiuto e la cooperazione economica di regioni e comuni».
Titolo originale: Car Free in America – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I dirigenti della General Motors amano ripetere che la vettura a idrogeno “toglierà l’automobile dall’equazione ambientale”, quando in realtà così si risolverà solo il problema degli scarichi. Le auto continueranno a occupare spazio, a creare ingorghi, a determinare le decisioni urbanistiche.
Molti fra noi hanno visto le vecchie foto delle diffuse linee tranviarie e ferroviarie che servivano anche i centri americani più piccoli, e si sono chiesti se davvero ci sia stato un “progresso” da allora. Anche se il pendolare del 1912 non aveva il sistema autostradale interstate, lui o lei potevano uscire dalla porta, saltare su un tram, raggiungere l’efficiente rete ferroviaria nazionale, che aveva quasi 500.000 chilometri di binari.
Il nostro ridotto, finanziariamente traballante sistema Amtrak è solo un fantasma della rete che abbiamo estirpato alla ricerca della modernità e della libertà personale offerta dalle automobili (le infrastrutture ferroviarie ora contano circa la metà dei chilometri che avevano nel 1912). Ma le città stanno cominciando a ricostruire quanto andato perduto, rivolgendosi fra l’altro ai sistemi di ferrovia leggera, ai traghetti veloci, agli autobus su corsia riservata.
La American Public Transportation Association (APTA) trabocca di buone notizie:
● Quattordici milioni di americani prendono i mezzo pubblici ogni giorno della settimana.
● Nei primi nove mesi del 2006 a livello nazionale si sono superati i 7,8 miliardi di spostamenti col mezzo pubblico: il 3% in più rispetto all’anno precedente. É la ferrovia leggera ad avere la percentuale di crescita più elevate fra tutte le modalità di trasporto, con un incremento del 5,4%. Nel caso di Salt Lake City, Minneapolis, New Jersey, Filadelfia e Sacramento la crescita è a due cifre. Aumentano di molto anche Buffalo e Houston.
“Anche con prezzi della benzina in calo, sempre più persone decidono di salire sul mezzo pubblico” spiega il presidente APTA William W. Millar. “Questo continuo incremento dell’utenza dimostra che quando si hanno delle possibilità di scelta nei trasporti, si usano quelli collettivi”.
Lo scorso gennaio, APTA ha pubblicato uno studio che rileva come l’uso del mezzo pubblico fa risparmiare 6,3 miliardi di litri di benzina l’anno, l’equivalente del pieno di 108 milioni di macchine, quasi 300.000 al giorno. Se avesse l’occasione del trasporto pubblico un’altra quantità identica di americani, risparmieremmo 12,6 miliardi di litri. Le famiglie con due componenti che lavorano e che usano il mezzo pubblico tutti i giorni risparmiano in media oltre 6.200 dollari l’anno.
62 città americane, ora, possiedono o hanno in progetto ferrovie leggere. APTA rileva che esistono 651 stazioni di questo tipo di trasporto nel paese, gestite da 26 aziende di trasporti pubblici. Le stazioni ferroviarie pendolari ne aggiungono altre 1.153. Vari progetti già finanziati nel porteranno altre 131 nei prossimi anni.
Nonostante i critici del trasporto pubblico giudichino i costi degli spostamenti in ferrovia leggera “una tariffa da viaggio in limousine” per gente che altrimenti avrebbe preso l’autobus, esistono ampie dimostrazioni che si tratta di investimenti efficaci (in particolare se si mettono nel conto i costi degli ingorghi), e aumenta l’utenza di chi prendeva l’auto. Quando hanno aperto le line a St. Louis nel 1993, secondo il Milwaukee Journal, non solo la quantità di passeggeri ha superato di molto le aspettative, ma è aumentata anche del 20% l’utenza degli autobus. A Toronto, Canada, il mezzi pubblici portano il 77% di tutto il flusso di pendolari verso il centro nelle ore di punta. A Portland, Oregon, il sistema di ferrovia leggera Tri-Met ogni giorno sostituisce 187.000 spostamenti in auto, ovvero 58 milioni l’anno.
La Federal Transit Agency scrive, “Gli americani persono oltre 1,6 milioni di ore al giorno bloccati nel traffico. Senza i mezzi pubblici, le attuali spese nazionali 40 miliardi l’anno nella congestione aumenterebbero di altri 15 miliardi. In realtà, se tutti coloro che prendono i mezzi pubblici decidessero invece di prendere l’auto, le macchine formerebbero una linea di traffico tale da circondare tutta la Terra, di quasi 40.000 km”.
Anche i treni a lunga percorrenza, le cosiddette “ferrovie pesanti”, sono in una fase di ripresa, nonostante le perdite. Amtrak complessivamente ha perso 25 miliardi dalla creazione nel 1971, che sembra una somma spaventosa, finché non si guarda ai 40 miliardi spesi ogni anno in strade. I vari stati si stanno associando per i treni ad alta velocità “compatti” progettati per offrire un servizio ultraveloce e competitivo per regioni come Midwest, Florida, Nordovest e California.
Il modello è il treno Amtrak Acela fra Boston e Washington, D.C., che corre a 250 chilometri l’ora. Più lento dei treni europei, ma rapido a sufficienza per far concorrenza all’aereo, specie se si calcola il tempo passato per andare in aeroporto e superare le nuove procedure per la sicurezza. Acela ha avuto molti gravi problemi, ma resta una popolarissimi alternativa di trasporto (le parti di Amtrak in perdita sono i percorsi su lunga distanza attraverso il paese, dato che è molto più rapido ed economico volare, ma queste tratte sono protette da interessi politici di spesa pubblica).
Ci sono traghetti ad attraversamento rapido che possono far concorrenza alle auto per i pendolari. La città di Sydney, Australia, ad esempio, usa moltissimo i ferryboat, e anche Hong Kong, Seattle o Vancouver, British Columbia. Danno qualche problema ambientale e di costo, ma in generale quando ci sono corpi d’acqua navigabili è un ottimo mezzo di trasporto.
La bicicletta sta crescendo in popolarità, per la salute, per I vantaggi ambientali, per eliminare le spese legate all’auto. Possedere una macchina può costare oltre 7.000 dollari l’anno. Secondo la League of American Bicyclists, la gestione di una bicicletta si aggira attorno ai 120. Ci sono parecchie compagnie di assicurazione che riducono le tariffe per i pendolari che usano la bicicletta anziché l’auto per andare al lavoro. Il National Personal Transportation Survey ha rilevato che circa il 40% degli spostamenti sono inferiori ai tre chilometri: ovvero dieci minuti in bicicletta, o trenta a piedi. Il 54% del pendolari abita in un raggio di quindici chilometri dal posto di lavoro, il che rende quasi identici i tempi di spostamento in macchina o in bici.
Anche le imprese si avvantaggiano, ed esistono studi che dimostrano come chi va in bicicletta a lavorare è più produttivo e meno propenso ad assenze per malattia. I ciclisti riducono la necessità di offrire parcheggi per dipendenti, e l’esercizio fisico rende più attenti.
E se pedalare vi sembra troppo faticoso, c’è tutta una serie di mezzi parzialmente elettrificati (con velocità massime di circa 25 kmh e un’autonomia di 30 chilometri) disponibili, che danno una spinta su per le salite e altri ostacoli. Ci si può motorizzare la bicicletta anche da soli, con una scatola di montaggio economica, o spendere da 500 a 3.000 per un mezzo già predisposto. Santa Cruz County, California gives $375 rebates for electric bike purchases. E naturalmente c’è sempre lo scooter giroscopico Segway, anche se rimane comunque piuttosto costoso, e non certo la rivoluzione nei trasporti che sperava il suo ideatore Dean Kamen.
Le nostre scelte di mobilità hanno ovviamente grossi effetti sull’ambiente, e dunque cosa possiamo fare per diminuire l’impatto sul pianeta e ridurre la dipendenza dal petrolio importato? Se potessimo prepararci all’avvento dell’economia energetica a base di idrogeno promuovendo nel frattempo tecnologie per l’auto pulita e una rete di trasporti pubblici, faremmo certamente un grande progresso! Vivere senza Auto?
Europei e sudamericani sono molto più avanti di noi USA auto-dipendenti, nel riprendersi le vie. Il movimento anti-strade britannico ha praticamente bloccato la costruzione di alcune tangenziali dopo che i militanti avevano impedito il passaggio. Negli USA, l’attivismo anti-auto si limita in gran parte ai sostenitori della bicicletta, a gruppi come Critical Mass o Transportation Alternatives che occasionalmente bloccano il traffico e dimostrano a favore di una migliore accessibilità ciclabile.
Le zone urbane da cui sono escluse le auto hanno grande successo in Europa. Sessanta città hanno dichiarato che intendono rendere il proprio centro libero dalle auto. In Gran Bretagna è stata istituita una giornata car-free, approvata dal 75% dei cittadini. Idee simili sono diffuse in America centrale e del sud. In alcuni casi, come Atene o Singapore, a causa di problemi di inquinamento, è consentito solo guidare a giorni alterni (targhe pari uno, targhe dispari l’altro), e a Londra ora si applica un’elevata tariffa per entrare in macchina in centro. A Copenaghen, Danimarca, il 30-40% dei lavoratori si sposta in bicicletta.
Anche se in tutto il mondo aumentano i chilometri percorsi dalle auto, e il loro numero cresce di giorno in giorno, dall’asfalto stanno cominciando a spuntare dei germogli verdi.
Nota questo articolo è un adattamento dal libro Green Living: The E Magazine Handbook for Living Lightly on the Earth (Plume); su Mall, si vedano anche, almeno lo scenario fosco dipinto da James Howard Kunstler e la descrizione positiva dell'esperienza europea di Friburgo(f.b.)
Titolo originale: Unsustainable – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Tondo, un settore della capitale delle Filippine, Manila (popolazione 11,3 milioni nel 2005), per quanto riguarda la presenza di lavoratori è simile a molte grandi metropoli. E pure Tondo, coi suoi circa 600.000 abitanti, rappresenta una situazione estrema per quanto riguarda densità, povertà, abitazioni inadeguate.
La densità di popolazione di Tondo è oltre dieci volte quella di Hong Kong. Un fatto particolarmente sconvolgente, visto che la forma dell’insediamento a slum è per edifici bassi, e non sviluppata in verticale.
Le condizioni della vita e dell’abitare a Tondo sono state riassunte da Simon Szreter dell’Università di Cambridge come le “4 D”: disgregazione, deprivazione, debilitazione, decomposizione. Purtroppo, si tratta di una situazione comune in molte città dei paesi in via di sviluppo che hanno sperimentato una rapida crescita urbana negli ultimi decenni, esattamente come accaduto i Europa e Nord America nel XIX secolo.
UN-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, stima che l’attuale popolazione globale degli slum — un “Quarto Mondo” composto da chi è socialmente ed economicamente isolato dalla modernità e da un’accettabile qualità di vita— sia di oltre un miliardo. Se continuano le attuali modalità di crescita, questa popolazione dello slum globale raddoppierà entro il 2030.
La disperazione di Manila
Chi visita Tondo viene facilmente travolto dalla puzza, dallo squallore. Le “case” sono molto piccole, con pochissime attrezzature di base, costruite con qualunque materiale disponibile su qualunque superficie di terreno. Ciò spesso significa usare palafitte per edificare sopra acque inquinate e maleodoranti, o attorno a grandi tubature, sotto ponti o cavalcavia.
Egualmente spaventosa è l’assenza delle amministrazioni cittadina e centrale nell’assistere gli abitanti. Si possono vedere bambini malnutriti e malvestiti che frugano nelle grandi discariche alla ricerca di cibo o di qualunque cosa di valore da vendere. Gran parte delle famiglie no possono permettersi di mandarli a scuola. Ci si chiede se i cosiddetti tentativi di fare della sostenibilità abbiano alcun effetto su questa enorme parte della popolazione mondiale.
Nonostante le condizioni spaventose, molti conservano un senso di dignità, cosa che appare sporadicamente nelle piante e fiori fuori dalle abitazioni dello slum, a formare piccoli giardini urbani.
Ma ad ogni modo, sottoposto alla pressione demografica di queste masse impoverite, l’ambiente vacilla. Nel 2003, un’epidemia di colera e gastroenterite ha prodotto numerosi ricoveri in ospedale e decessi. Sono stati trovati colibatteri “E” nell’incostante sistema della fornitura d’acqua. Ironicamente, la rete è gestita da una compagnia pubblica che si vanta del proprio approccio alla sostenibilità ambientale, con iniziative e impegno di lungo periodo.
I bambini soffrono normalmente di disturbi respiratori, tubercolosi, diarrea. Il tasso di mortalità infantile è alto, anche per la media filippina. Dal punto di vista epidemiologico, Tondo è una bomba a orologeria.
E la sostenibilità?
É certo che l’impegno per la sostenibilità abbia portato negli ultimi vent’anni una grande evoluzione ideale all’interno dei governi – locali, regionali, nazionali – oltre a produrre miglioramenti sociali e ambientali in molte città.
Ma resta comunque aperta la questione di come i governi si confrontino coi processi di urbanizzazione e globalizzazione. Visti i molti aspetti diversi di carattere spaziale, istituzionale, economico assunti dai movimenti urbani contemporanei, possono contribuire, architetti e urbanisti, a superare il distacco culturale e materiale fra chi ha e chi non ha?
Ambienti urbani come Tondo dimostrano come i governi non riescano a rispondere alle sfide della globalizzazione, di un mondo che si urbanizza, nonostante abbiano adottato la retorica della sostenibilità.
Chi abita nelle regioni ricche lascia una enorme impronta ambientale per i propri elevati livelli di consumo, che superano nel lungo termine le possibilità di essere sostenuti, a scala globale se non locale. Invece là dove l’umanità è concentrata sul territorio in assenza di sviluppo, si eccede la sostenibilità in modo locale e immediato, anziché globale e sul lungo periodo.
Gli enormi bisogni di Tondo dovrebbero risvegliare l’interesse di chi si occupa di questioni urbane, della forma urbana. Le professioni coinvolte possono contribuire alla (ri)costruzione della città, alla tutela dell’ambiente, ad offrire condizioni di abitabilità a chi non può esprimere politicamente ed economicamente la propria voce, a chi è lasciato indietro dalla gobalizzazione e dalla rapida urbanizzazione. Il problema per noi non deve essere se c’è o meno sostenibilità, ma in che modo le nostre professioni mancano la sostenibilità urbana.
Problemi vecchi di un secolo
I problemi della città postindustriale sono compresi e affrontati da circa 175 anni. In realtà i problemi della città industriale Britannica vittoriana dopo la rivoluzione industriale erano i medesimi delle città nei paesi in via di sviluppo oggi.
Negli anni ’30 del XIX secolo, le autorità britanniche sapevano che abitare addensati negli slum accorciava la vita delle persone. Nel 1842, fu provato il legame fra l’ambiente di vita di un individuo e la sua salute. Al tempo stesso, le statistiche delle città industriali mostravano come i fattori della salute e della mortalità, evitabili, erano fra quelli che riducevano il potenziale economico della nazione, e uccidevano ogni anno più persone di qualunque guerra combattuta. L’aspettativa di vita era di 13 anni inferiore a quanto avrebbe potuto essere.
I vittoriani sapevano che l’ambiente materiale delle città era il prodotto della loro società, e le nuove città vittoriane producevano diverse dinamiche sociali e politiche. Centri legati economicamente ad altri tipi di insediamento, a formare un sistema socioeconomico interno e internazionale. In questo modo la città in Gran Bretagna fu al tempo stesso la causa e – attraverso le politiche – la parziale soluzione dei problemi delle classi lavoratrici.
La coscienza civile emergente del XIX secolo poneva in grande risalto il miglioramento sanitario e delle condizioni generali di vita. Raggiunse il suo apogeo prima del 1914 nel paradigma della Città Giardino, concetto sociale e ambientale simile al pensiero moderno sulla sostenibilità.
Riforme urbane
Il persistere e aumentare dei problemi urbani negli ultimi decenni, necessita una riconsiderazione delle modalità intellettuali di affrontare la città, riguardo ai bisogni, scopi, ambizioni. Dovremmo vederla nel quadro dell’offerta di un’adeguata assistenza, nel mondo attuale che si evolve, sia all’interno che all’esterno degli ambiti tecnocratici.
Si dovrebbero elaborare strategie di costruzione di motivazioni politiche, per una risposta più adeguata alle condizioni e risorse locali, usate come espressioni della modernità. Ciò contribuirà a influire in modo più positivo sulle esistenze quotidiane di chi è più povero di risorse urbane, salute, servizi.
In modo complementare, operando al di fuori del dominio tecnocratico, gli architetti e gli urbanisti, la cui professione è immersa nei processi culturali e politici, possono trovarsi in una posizione più favorevole per convincere le elites urbane del fatto che il mondo non sta combattendo soltanto contro il terrorismo, o per la sicurezza nazionale, ma esiste anche un conflitto con lo svantaggio, come dimostra il caso di Tondo.
Alla luce di tutto questo, i progettisti possono essere in grado di individuare meglio la città nei suoi termini sociali, dimostrando come la società urbana non sia soltanto una forma spaziale, ma un sistema in evoluzione di valori, norme, relazioni sociali.
É importante anche che i progettisti attraverso la propria attività, e riflettendo su come risolvono i problemi urbani, si rendano alla fine in grado di modificare valori sociali e punti di riferimento in modo accettabile per i governi. Valori modificati che possono manifestarsi sotto forma di leggi connesse allo sviluppo urbano e alle questioni associate.
Inoltre, ridefinendo regole e processi che ristrutturano spazi urbani e senso sociale, la comunità dei progettisti sarà in grado di condizionare di più possibilità e limiti dello sviluppo, sia alla dimensione locale che globale.
Forse in questo modo, lo sviluppo sostenibili potrà contribuire ad innalzare la qualità di vita a tutti I livelli, in particolare per quegli abitanti urbani lasciati indietro dai progressi economici e urbani, in zone metropolitane come quella di Tondo.
Ian Morley lavora con un contratto di post-dottorato al Dipartimento di Storia dell’Università Cinese di Hong Kong; è autore di numerosi testi sull’urbanizzazione e la progettazione urbana.
MILANO - Dal fondo fuligginoso dell´accampamento bruciato nel pomeriggio di San Silvestro, una donna con la gonna lunga sino alle scarpe da ginnastica sfondate, continua a raccattare cavi elettrici e tubi. Lo fa da ore. Li ha sistemati su una coperta e chiama un uomo imbronciato, insieme la sollevano a fatica. «Saranno trenta chili di rame, per quattro euro al chilo, fanno 120 euro. Meglio dell´alluminio, 80 centesimi al chilo. L´incendio a qualcuno sta rendendo dei soldi», scherzano in perfetto italiano due giovani cognati, uno kossovaro e l´altro rumeno.
L´ultimo incendio ha raso al suolo un intero angolo della «plasticopoli» abusiva di via Barzaghi, dietro il cimitero Maggiore. Le fiamme, stando ai testimoni, «sono spuntate dalla roulotte di un ubriaco, con quattro figli. Quel deficiente è scappato senza avvisare e così la mia roulotte, che avevo pagato 800 euro, e ci avevo messo le lampade rotonde delle discoteche, s´è incenerita. Avevo comprato un maialino per festeggiare la fine dell´anno, s´è carbonizzato anche lui», dice un giovane con una camicia stirata. «La colpa - aggiunge un suo amico - è tutta dei barboni che sono arrivati qua e non sono capaci di accendere regolarmente le bombole del gas, non sapevano nemmeno che cos´erano».
Li chiamiamo ancora campi-nomadi, ma è sbagliato. I vecchi zingari, «il sasso scagliato da dio attraverso il mondo», come si definivano, c´entrano zero con queste masse di diseredati piovute dall´Europa dell´Est. Il popolo delle plasticopoli, delle roulotte senza ruote, delle catapecchie di compensato e alluminio, di linoleum e lenzuola di carta è formato, più semplicemente, da poveri. Poveri di soldi, ma anche di cultura, di educazione, di senso pratico. Non gli mancano figli, umorismo e rassegnazione: «No, non abbiamo avuto freddo, ci siamo stretti con gli amici e i parenti che non hanno perso la casa, poi ognuno ha rubato le scarpe migliori ed è uscito».
Intere folle proletarie di stranieri si sono arenate in questi ultimi anni ai margini di Milano, autocostruendo tetti dovunque. Sotto tangenziali, tra i campi abbandonati dai contadini, accanto alle ferrovie, sotto i tralicci dell´alta tensione, vicino agli sfasciacarrozze. Il censimento è in costante evoluzione. Sempre nella zona Barzaghi-Triboniano, esistono altri quattro campi abusivi, simili a quello bruciato come un pozzo di petrolio. Poi, altri campi crescono nelle aree dell´ingegner Salvatore Ligresti a sud di Milano: ci sono i bosniaci nelle cascine di Vaiano Valle, e spuntano i romeni di via Ripamonti e via San Dionigi. E romeni (sempre loro, i più numerosi) si sono piazzati, senza il minimo titolo per starci, in viale Cassala, in via Stephenson, in via Boffalora, in via santa Rita da Cascia. E non è finita qui, ma è anche inutile continuare a elencare questa sorta di pulviscolo d´uomini che s´è posato dovunque «mancano» case e fabbriche. Dove cresce la protesta della gente, come sta accadendo a Opera, per dire no a prefabbricati e ricoveri per stranieri.
Spesso le suore ne sanno più dei poliziotti, perché portano tra le baracche vestiti, quaderni e anche pediatri volontari. «Anche i capifamiglia hanno paura, tra loro arriva "gente cattiva", che pretende, pretende, e chi può aiutarli?». Le stime comunali parlavano di cinquemila senzatetto, ma sono numeri da correggere e portare decisamente più in alto. Ogni certezza su dati così variabili sarebbe assurda. Chi può fugge dalle plasticopoli: «Non fotografarmi, altrimenti le mie vecchie fidanzate italiane dicono: "Ma dove vive?". Invece io ho casa in via Novara, qui mi sono rimasti gli amici», spiega uno che si definisce «ex jugoslavia».
Gli zingari odiavano la prostituzione, ma oggi molte vite (e molte famiglie) sono un mercato. Più d´un rumeno dei campi ha imparato dagli albanesi che una donna, messa sul marciapiede, può rendere più d´uno stipendio regolare. Di queste miserie la città si accorge quando se ne accorge la cronaca nera. Ma tutti i giorni sono sotto gli occhi di bimbi, che non raramente imparano a guardare gli estranei come se fossero nemici.
Nota: contemporaneamente, da Parigi lo International Herald Tribune (articolo tradotto su Mall) racconta un campo di solidarietà e l'azione politica su temi paralleli (f.b.)
Un bravo a Richard Burdett che intende dedicare una parte della Biennale alle grandi città che punteggiano il nostro mondo. Una scelta che finalmente dilata l’orizzonte di questa manifestazione, fatto ancor più importante in un periodo in cui invece gli orizzonti della cultura vanno preoccupantemente restringendosi, all’università per esempio.
Un bravo perché la scelta non avrebbe potuto essere più tempestiva, visto che proprio quest’anno per la prima volta la popolazione del pianeta è diventata in maggioranza urbana. Un passaggio che alcuni definiscono epocale e che è avvenuto prima di tutto per la spinta all’urbanizzazione dei paesi del Sud del mondo. Infatti, tra le grandi città molte, moltissime, sono nei paesi in sviluppo di cui quelle presentate alla Biennale - Bogotá, Caracas, Città del Messico e San Paolo in America Latina, Johannesburg e il Cairo, Mumbai e Istanbul - costituiscono solo un - buon - campione.
Infine un bravo perché è una scelta coraggiosa. Si tratta in realtà di un tema non semplice da mettere in mostra, che è quello che la Biennale è tenuta a fare essendo appunto una rassegna di architettura. Una scelta difficile di per sé, dato che nel Sud del mondo, anche nelle grandi città, di interventi da mostrare non ce ne sono poi tanti: certo a Città del Messico o a Johannesburg si costruisce, ma in generale secondo uno stile internazionale che si ritrova un po’ dappertutto e su cui non vale particolarmente la pena soffermarsi. Ma è poi ancor più difficile dato che - di nuovo molto giustamente - Burdett vuole raccontare non solo il costruito delle città selezionate, ma le loro condizioni di vita, riconducendo "la struttura fisica delle città - gli edifici, gli spazi e le strade - e i progettisti - architetti, urbanisti e designer - alle dimensioni culturali ed economiche dell'esistenza urbana, sociale, culturale". Insomma, una Biennale che va al di là delle forme dell’architettura, per interrogarsi e interrogare sulle relazioni tra i processi della trasformazione sociale e quelli della trasformazione dello spazio, tra i caratteri dell’urbanistica e dell’architettura e le forme della società che le ospitano.
Detto questo, qualche perplessità l’impostazione di questa Biennale me la suscita. Non poche e non piccole.
Partiamo dagli elementi concettuali su cui si muove Burdett per costruire la mostra, come si possono desumere da Urban Age, il programma sul futuro delle città da lui diretto alla London School of Economics. I temi sono quelli dell’occupazione e dei luoghi del lavoro, della mobilità e i trasporti, della sfera pubblica e degli spazi urbani, della casa e dello spazio collettivo al fine di indagare le relazioni tra trasformazioni materiali della città e processi economici, sociali e politici che ne stanno alla base. Temi tutti, come è evidente, centrali per il futuro della città: investimenti e dunque opportunità di lavoro, identità sociale e architetture prive di specificità, neutrali, globalizzate, o ancora la questione di come il sistema dei trasporti e le forme della mobilità incidono sui modi di vivere la città, quella della segmentazione residenziale e della frammentazione dello spazio urbano.
Il dubbio profondo è che abbia senso prospettare l’idea che questi temi abbiano la stessa importanza a Londra e a Lagos, che se queste sono priorità a New York lo siano anche a Johannesburg, che ciò che sta avvenendo a Shanghai abbia qualcosa a che vedere con le trasformazioni di Città del Messico, o a Berlino. Siamo sicuri che le questioni centrali per l’equità e l’efficienza delle città del Sud del mondo si possano mettere in mostra come si mostrano Canary Wharf, il progetto per Ground Zero o anche quello della ristrutturazione della Fiera a Milano?
Se proviamo a mettere ordine in alcune delle priorità che a me sembra Caracas, il Cairo o Mumbai abbiano di fronte, allora il dubbio diventa inquietudine, forse anche irritazione, perché la Biennale rischia di sviare l’attenzione dai nodi veri e quindi di aggiungere guasti a quelli che urbanisti e architetti hanno prodotto e continuano a produrre in queste città.
Due questioni, tra le molte, moltissime altre.
Mumbai (come Lagos o Dacca o tante altre) cresce ogni anno di circa mezzo milione di abitanti, il che significa, per dare un’idea, di una Bologna più una Ferrara; Bogotá e Joannesburg solo di una Ferrara. Una Bologna e una Ferrara fatta quasi tutta di poveri, di gente che in larga parte non sa come arrivare a domani. Ogni anno, tutti gli anni da molti anni a questa parte e per molti anni a venire. Burdett questo lo sa benissimo e anche ce lo ricorda. Quello che però omette di segnalare è che per far fronte a questa crescita, nella maggior parte dei casi a disposizione dei governi c’è qualche euro l’anno per persona che, tolto quello che serve a far funzionare la città che c’è già, lascia pochi spiccioli per fare gli investimenti che sarebbero necessari. Dove va bene, come a Città del Messico o a San Paolo, l’ordine è di qualche euro. Certo, è impressionante il cambiamento avvenuto a Bogotá grazie a Transmilenio, il sistema di trasporto collettivo che, insieme a una serie di altri interventi sullo spazio pubblico, ha migliorato significativamente la qualità urbana nella capitale colombiana. Bravissimi i quattro sindaci che si sono susseguiti nel tempo e che per ormai quindici anni hanno tenuto fermo questo obiettivo. Però sono poche le città che come Bogotá, insieme a questa continuità politica, possono contare su una Compagnia dell’Elettricità da mettere in vendita per finanziare la quantità di investimenti pubblici che sono stati realizzati in questi anni.
A differenza di Burdett, io non penso affatto che "per architetti, urbanisti o i sindaci il problema sia quello di come pianificare le infrastrutture e lo sviluppo senza ostacolare la crescita e promuovendo allo stesso tempo i benefici economici e sociali della prossimità e della complessità in sistemi urbani compatti". Il problema, no, non il problema, il fatto è che le grandi città (ma non solo) del Sud del mondo crescono, come popolazione, attività, estensione, a velocità altre da quelle che hanno conosciuto Londra, New York o Milano quando ancora crescevano, con capacità istituzionali e tecniche spesso modeste. Per questo obiettivi e risultati non possono che essere altri da quelli che si propongono a Londra, New York o Milano.
Seconda considerazione. Le città del Sud del mondo, in misura diversa ma comunque sempre rilevante, vengono fatte – intendo materialmente – dagli abitanti. I numeri sono approssimati e approssimativi, ma si calcola che il numero di persone che oggi ha come sola alternativa un alloggio in uno slum è di un miliardo, un terzo della popolazione urbana del pianeta e che, ovviamente, quasi tutto questo miliardo sta in città dei paesi in sviluppo. Da qui al 2020, se tutto va bene, saranno diventate un miliardo e mezzo, altrimenti ben di più. Tutta gente che lavora e sempre più lavorerà facendo i mestieri improbabili, mal pagati e precari dell’informale, dove sempre più persone sono sospinte dalla globalizzazione e dalla competizione tra città.
In questo scenario davvero non capisco come si possa sostenere che a Città del Messico "gli alloggi dei quartieri poveri sono sovraffollati o mancano di aria e di luce perché non si seguono adeguati principi di progettazione", e non perché la gente non ha abbastanza soldi per permettersi alternative migliori. Come se gli abitanti di Città del Messico fossero incapaci o tonti, o entrambe le cose.
Davvero non capisco come si possa pensare che l’architettura abbia un ruolo significativo rispetto alle questioni cruciali che le città del Sud hanno di fronte, come una maggiore equità sociale e un più efficiente funzionamento, per riuscire in qualche modo a competere.
Sulla questione dell’inclusione sociale il Brasile di Lula ha seguito una politica chiara. L’inclusione sociale, il diritto alla città si garantiscono da un lato fornendo condizioni di vita decenti, cioè prima di tutto servizi igienici e acqua potabile, se necessario sovvenzionandoli per garantirli anche a chi non può "comprarli", a costo di scontrarsi con la Banca Mondiale e con le sue politiche liberiste; dall’altro promuovendo una effettiva partecipazione alle scelte. Il bilancio partecipativo o le due Conferências Nacionales das Cidades, con la partecipazione di istituzioni, associazioni, movimenti, non sono facili da mostrare, ma sono stati il motore della politica urbana nel Brasile di Lula.
Burdett ha probabilmente ragione quando afferma che con l’incremento dei valori fondiari e immobiliari che hanno prodotto a Londra, New York o Berlino, i grandi progetti sono andati a beneficio di tutta la città e non solo dei privati che li hanno promossi e realizzati. Anche se per gli abitanti di Bilbao il Guggenheim significa più tasse da pagare per un bel numero di anni e se, per poter dire che l’operazione ha davvero funzionato, occorrerebbe valutare quali altre alternative di allocazione delle risorse erano possibili. Ma quando si parla di città del Sud del mondo, la cautela deve essere molto ma molto maggiore. Meccanismi di distribuzione della rendita a Mumbai, Johannesburg o Città del Messico o non ci sono, o se ci sono nella maggior parte dei casi sono fortemente distorti, cioè non vanno affatto a beneficio della popolazione povera e delle parti di città dove questa vive.
C’è da chiedersi dunque quale "servizio" la Biennale in realtà fa alle grandi città del Sud del mondo attraverso il messaggio che manda, come si usa dire, al grande pubblico. Io credo quanto meno discutibile. Nelle città del Sud del mondo i grandi progetti architettonici e urbani, dove esistono, riguardano esclusivamente le élites urbane, quelle della globalizzazione. Operazioni come Lima Faria a San Paolo, Sandton a Johannesburg o Lomas de Santa Fé a Città del Messico non hanno fatto altro che frammentare ulteriormente lo spazio urbano, approfondendo la polarizzazione e l’esclusione sociale. La grandissima maggioranza degli abitanti di queste città continua a lottare per avere riconosciuto il proprio diritto a restare dove da anni si è costruita una casa per quanto precaria (la regolarizzazione fondiaria), per avere l’acqua potabile almeno qualche ora al giorno possibilmente a prezzi accessibili, per disporre di una latrina per famiglia, per un lavoro meno precario.
Per questo trovo quanto meno preoccupante l’idea di un "manifesto per le città del ventunesimo secolo", che suggerisce possibili scenari comuni tra le città del Sud e del Nord. Un’idea profondamente errata perchè oscura le differenze e delinea percorsi similari, (ri)prospettando per il progetto di architettura e per il disegno urbano un ruolo che la realtà delle cose, nelle città del Sud, da tempo ha mostrato non essere proponibile.
La critica al programma 20.000 case in affitto in corso di realizzazione nel Comune di Firenze [1]è diventata pienamente attuale per due motivi. Il primo è che il TAR ha bloccato uno dei cantieri, quello di via Arnoldi, dando ragione ai residenti e dimostrando che se le amministrazioni pubbliche e le sovrintendenze non sanno difendere gli interessi collettivi e i beni comuni, quando la misura è colma si trovano inaspettate tutele. Il secondo è che la Regione Toscana intende assumere come modello per rispondere alla questione abitativa, il tipo di partnership pubblico privato promosso con il programma in questione, di cui abbiamo puntualmente descritto i risultati nell’articolo citato[2]. La sua critica assume così un valore non solo contingente ma strutturale.
Dopo l’approvazione definitiva e l’inizio dei lavori nelle aree fiorentine del programma 20.000 case in affitto, è stato attivato un altro programma con modalità del tutto simili. Si tratta del “Programma integrato di intervento per l’incremento e diversificazione dell’offerta di abitazioni in locazione” facente anch’esso parte del “Programma regionale di edilizia residenziale pubblica 2003-2005” della Regione Toscana. Anche in questo caso al bando regionale indirizzato ai comuni toscani ha risposto il Comune di Firenze che ha predisposto un proprio avviso pubblico rivolto ai privati per selezionare proposte di intervento. Fra le proposte avanzate l’unica “proposta ammissibile” è stata quella presentata dalla Società Affitto Firenze riguardante l’area Canova Giuntoli nella quale è prevista la realizzazione di 20 alloggi di edilizia residenziale agevolata (20 alloggi, 1.700 mq. di superficie complessiva, contributo richiesto 948.600 euro su un costo complessivo di 2.108.000 euro); 24 alloggi di edilizia residenziale non agevolata, cioè privata (alloggi di 97 mq. medi e costo complessivo di 4.656.000 euro) e un intervento commerciale e servizi alla persona (150 mq. con costo complessivo 300.000 euro), il tutto attuato da Affitto Firenze. Il programma prevede anche la realizzazione di 20 alloggi da parte del Comune e un centro sociale di quartiere. Come d’uso il programma “risulta in contrasto con le previsioni del vigente PRG” e “pertanto la sua realizzazione richiede una apposita variante al PRG”. L’avvio del procedimento della variante è del 11/7/2006. Le destinazioni delle aree coinvolte nel PRG vigente erano “sottozona G2 con simbolo attrezzatura pubblica amministrativa di progetto”, “sottozona G1 con simbolo verde pubblico di progetto”, porzione di “area classe 9: verde privato e aree di pertinenza di edifici pubblici e privati” e parte di viabilità esistente. Con la variante l’area diventa “zona omogenea C sottozona C1.2 – di nuovo impianto a bassa densità all’interno di un piano urbanistico esecutivo di iniziativa pubblica con conseguente spostamento del perimetro del centro storico minore all’interno del quale, attualmente si trova l’area destinata a classe 9”. In questo caso con la giustificazione delle case da costruire, oltre all’usuale eliminazione delle aree destinate a servizi da standard obbligatori (aree G), si arriva anche a modificare il limite del centro storico: in effetti una volta distrutto quello che ne faceva parte il limite sarà effettivamente quello proposto. Da rilevare che questo progetto ha ricevuto l’approvazione della Regione Toscana e l’ammissione al finanziamento è stata approvata con deliberazione giunta regionale n. 851/1075 del 6/12/2005 e con decreto dirigenziale regionale n. 1479 del 27/3/2006.
La Regione Toscana sta preparando lo “Statuto dell’edilizia sociale” e il modello a cui dare sistematicità è quello del Programma regionale 2003-2005 di cui fanno parte le “20.000 case in affitto” e le case in affitto “calmierato”.
Viene da chiedersi come sia possibile utilizzare lo slogan “C’è del nuovo nella politica della casa”, per l’ennesima riproposizione del vecchio, almeno di 20 anni, e ormai comunemente ritenuto fallimentare intervento in “partenership pubblico privato”. Fallimentare non per il privato, che ottiene tutte le facilitazioni di un intervento pubblico per realizzare il suo profitto/rendita immobiliare, ma per il bene pubblico, per quello che si ottiene per i bisogni sociali. A dircelo è per esempio Susan Fainstein, esperta di fama mondiale, che ha analizzato i risultati di questo connubio negli anni 80 nei paesi che per primi se ne sono fatti promotori: il Regno Unito e USA[3]. Susan Fainstein sulla base di una indagine su una serie di casi sottolinea come questo tipo di programmi, che possono consentire concessioni edilizie in deroga alla zonizzazione vigente, o un aumento di densità edificatorie, o sgravi fiscali per gli operatori privati in cambio della realizzazione di abitazioni sociali e servizi pubblici siano risultati poco redditizi per la collettività. (Susan Fainstein, Promoting economic development. Urban planning in the United States and Great Britain, APA Journal, n.22 1991 e Smith 1989). Analogo il giudizio di Smith in merito alle politiche promosse da alcune città californiane (M.P. Smith, “The use of linked development policies in U.S. Cities”, in N. Parkinson, B. Foley, D.R. Judd (editor) Regenerating the Cities. The UK Crisis and the US Experience, Scott Foresmann, Glenview, 1989).
In tema di partnership pubblico privato va poi rilevato un trucco che rischia di inficiare molti calcoli economici di fattibilità finanziaria e di distribuzione di oneri e compiti fra pubblico e privato. Troppo spesso i calcoli delle imprese all’interno delle “partnership pubblico privato” invece di assumere il prezzo delle aree (la rendita urbana) come un guadagno, lo assumono come un costo inficiando tutti i calcoli. Infatti furbescamente le imprese immobiliari considerano solo la fase finale del processo, quella di edificazione, come se l’impresa promotrice comprasse i terreni a valori corrispondenti alla destinazione a nuova costruzione. Al contrario il processo decisionale e realizzativo inizia con l’idea del progetto e spesso l’area è comperata prima di ottenere la variante e l’uso del suolo desiderato ed è quindi il proponente/costruttore ad appropriarsi della rendita e non il proprietario iniziale. Oppure l’area è stata comperata molto tempo prima a prezzi agricoli e poi quando è il momento, ottenendo le destinazioni d’uso più lucrose si incamera la rendita. Inoltre le imprese ascrivono fra i costi gli interessi per i prestiti presso le banche, mentre siccome di prassi vendono le case prima di costruirle, i costi per gli interessi li pagano i compratori e non loro. Costi gonfiati che fanno sì che il prof Roberto Camagni (professore ordinario di Economia urbana al Politecnico di Milano) in una recente conferenza abbia parlato di un profitto del 9% denunciato dai costruttori dei programmi integrati a Milano contro uno reale del 97%.
I rischio è che la politica abitativa proposta dalla Regione Toscana rafforzi la segregazione sociale dove c’è e la crei dove non c’è ancora. Infatti le finalità dello statuto dell’edilizia sociale [4] sono:
- le soluzioni al disagio abitativo vanno individuate “secondo articolazioni di area vasta”, a prima vista sembra positivo perché appare che il problema venga affrontato alla scala appropriata, purtroppo è solo un escamotage, infatti nel concreto vuole dire che nell’area vasta il problema potrà essere “risolto”, guarda caso, nelle aree più periferiche o comunque meno pregiate per il mercato;
- valorizzare il ruolo dell’associazionismo, del volontariato e “di tutti i soggetti in grado di concorrere alla ricerca di soluzioni alloggiative per situazioni di maggiore gravità e urgenza”, che possono comprendere l’accompagnamento sociale: questa scelta comporta una grave segregazione sociale e un trattamento da minorati per persone che invece sono semplicemente (e drammaticamente) prive di reddito, di proprietà e/o di un lavoro congruamente retribuito;
- sollecitare e orientare “la partecipazione dei privati nella realizzazione di programmi integrati di riqualificazione urbana finalizzati all’incremento e alla diversificazione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato”; per sollecitare e orientare le amministrazioni pattuiscono scambi ineguali e cessione gratuita di beni comuni;
- riferire “la fissazione dei requisiti per l’accesso e la permanenza nel patrimonio residenziale pubblico ai caratteri quali-quantitativi e localizzativi dei diversi segmenti dell’offerta di edilizia sociale e in ragione delle condizioni familiari, economiche e alloggiative dei richiedenti, da parametrarsi in modo uniforme su tutto il territorio regionale”; di fatto si tratta di un ingresso trionfale delle ragioni e dei criteri del mercato immobiliare nell’edilizia residenziale pubblica. In parole semplici significa estorcere quanto più possibile dall’inquilino e legare ogni qualità a un prezzo;
- “articolare l’offerta di abitazioni in locazione a canoni regolati in ragione dei diversi segmenti della domanda sociale, in funzione di una più equa e razionale utilizzazione dell’edilizia residenziale pubblica…” [5], ma in una intervista [6] l’assessore regionale Conti è ancora più esplicito: invocando “una politica legata a un’idea di città che sia strumento di attuazione delle strategie, non di svalutazione delle aree, come accadeva in molti casi per i PEEP” (ndr piani di edilizia economica e popolare) afferma che “questo è possibile attraverso un ampliamento e una diversificazione dell’offerta pubblica di abitazioni che è la condizione per una più equa e dinamica utilizzazione del patrimonio a canone sociale e un modo per favorire l’uscita dall’Erp di chi pur non avendo più i requisiti di reddito non è comunque in grado di accedere al mercato privato”. Vuole dire lasciare nelle case a canone sociale (di proprietà di Casa Spa) solo le persone che hanno un reddito inferiore al massimo consentito (13.000 euro annue, somma dei redditi di tutti i conviventi, computati al 60 % per lavoratori dipendenti e pensionati). Apparentemente giusto in realtà crea ghettizzazione e non certo integrazione: nelle case a canone sociale dovranno abitare solo casi di povertà estremi.
L’unico vero vincolo per gli interventi di edilizia residenziale pubblica (ERP) è l’immediata cantierabilità, tempi certi per inizio e ultimazione dei lavori.
L’assessore regionale Conti nell’intervista citata[7] indica come positivo il fatto che il Comune di Firenze abbia introdotto la norma che in ogni nuovo insediamento il 20% sia destinato a Edilizia residenziale pubblica. Ma vediamo di che 20% si tratta. Nel caso dell’area Belfiore su via Benedetto Marcelli, ex Fiat, gestita dalla Società Belfiore Spa (posseduta al 100% da Fidia SPA, il cui presidente Riccardo Fusi è il presidente della Baldassini, Tognozzi e Pontello) destinata ad albergo, il 23/2/2005 (DGC 2005/G/00966 – 2005/01145) un accordo fra società Belfiore spa e Comune prevede di riservare alla “residenza, nella forma della locazione abitativa temporanea (ndr. per 10 anni), una quota pari al 20% della superficie utile lorda complessiva dell’intervento come individuato nelle tavole… del piano di recupero”. Ma prevede di realizzare gli alloggi in affitto temporaneo non nell’area Belfiore, ma “in altro complesso immobiliare in corso di costruzione posto in Firenze tra via Toscanini e la via Respighi..e precisamente negli alloggi… di proprietà Società parco delle cascine spa con sede in Firenze via Baracca 9”.
Va aperta una parentesi sull’uso dei termini che talvolta rende poco chiaro il bilancio fra edilizia davvero sociale, a canone sociale in affitto, ed edilizia in vendita costruita da cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici. L’edilizia residenziale pubblica comprende edilizia sovvenzionata, cioè quella con i canoni sociali, ma anche l’edilizia agevolata e convenzionata (entrambe il più delle volte case da cedere in proprietà costruite da parte di cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici). La terminologia più antica che data 1919[8] prevede la distinzione fra le case economiche e quelle popolari. Le prime erano le case di proprietà del Comune o degli IACP, assegnate in locazione, destinate agli operai. Le case popolari, destinate agli impiegati, erano costruite da cooperative e assegnate ai soci in proprietà anche individuale (oppure erano assegnate in affitto nel caso di cooperative a proprietà indivisa). Un po’ di confusione ha creato il fatto che ci sono case sovvenzionate (cioè con pesanti sovvenzioni pubbliche a fondo perduto) che sono cedute in proprietà. Ora si è aggiunto il termine housing sociale con il quale talvolta si designano le case da affittare a canone calmierato, costruite da imprese e cooperative con finanziamenti pubblici e facilitazioni di vario tipo. Quindi quando si leggono i dati sull’edilizia residenziale pubblica bisogna considerare che comprendono anche la costruzione sussidiata di case da vendere a prezzi un po’ inferiori a quelli di mercato e che poi, dopo 5 anni possono essere vendute sul libero mercato, con qualche vantaggio individuale, ma anche con un costo sociale che non contribuisce certo a risolvere la questione abitativa..
Nei discorsi sulla casa da un po’ la Regione si è accorta che ci sono “fasce sociali sin qui escluse da ogni provvedimento perché collocate appena al di sopra delle soglie minime per l’accesso agli alloggi di edilizia sociale ma impossibilitate a muoversi nel libero mercato con i prezzi inaccessibili che esso propone”. Per questa fascia di popolazione prevede gli alloggi a costo intermedio del tipo delle 20.000 case in affitto: edilizia agevolata cioè con finanziamenti pubblici e prezzi di affitto controllato, che risultano comunque troppo alti e ben al di sopra di quelli della vecchia “sovvenzionata”.
Se numerosi gruppi sociali che non possono accedere al mercato non sono ammessi neppure all’edilizia a canone sociale ci sono due semplici soluzioni che agiscono su questi due supposti vincoli che una Regione ha tutto il potere di correggere, visto che ha competenze nella programmazione delle risorse destinate al settore dell’edilizia residenziale pubblica; nella gestione ed attuazione degli interventi, nell’assegnazione degli alloggi e la determinazione dei relativi canoni:
- uno è modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo. La logica democristiana e buonista ha sempre dato la precedenza a chi aveva numerosi figli, più erano meglio era, e alla povertà (chi non era abbastanza povero doveva/poteva comprasi la casa con i mutui agevolati). Ma anche chi non ha figli e ha redditi bassi non può accedere al mercato. O meglio può accedere al mercato a patto di comprimere la qualità dell’abitare attraverso il sovraffollamento (5/10 in un alloggio), o comunque attraverso la coabitazione forzata con familiari o amici, o attraverso l’utilizzo di locali che non sono o non dovrebbero essere abitabili (cantine, soffitte etc).
- regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore. La regolazione degli affitti nei Paesi Bassi dall’inizio del XX secolo ha seguito questa strada e ha permesso un vasto accesso alla casa in affitto a prezzi veramente accessibili. Contemporaneamente, visto che sembrano mancare, è necessario varare apposite leggi e regolamenti che puniscano duramente (con l’esproprio a costo zero) chi affitta locali non abitabili, assegnando la responsabilità dell’uso reale di quanto viene affittato ai proprietari e non agli inquilini. Recentemente abbiamo letto che famiglie vivevano in cantine pagandole 600 euro al mese. Fatti di questo genere non devono essere tollerati (ricordate, la legalità?).
Contemporaneamente è ovviamente necessario realizzare edilizia in proprietà pubblica da affittare a canoni sociali in quantità sufficiente a risolvere la domanda, come si propone nella parte conclusiva del saggio già citato nella nota 1.
Alcuni dati: a Londra il 50% delle nuove costruzioni devono essere “affordable housing” (case a prezzi accessibili). In Francia l’obiettivo è che il 20% dello stock abitativo debba essere sociale (non si adotta la percentuale solo per la nuova costruzione, ma la percentuale da raggiungere è sullo stock complessivo esistente). In Catalogna lo standard prescrive che dal 20 al 30% dello stock debba essere di edilizia sociale. Insomma in Italia per raggiungere un tale standard dovremmo avvertire BTP, Coop. Unica, Lorenzo Giudici, Fratini, Ligresti, Coppola, che da ora in poi, ci dispiace ma si possono costruire solo case di edilizia sociale in affitto a canone sociale.
La percentuale di alloggi di edilizia sociale in rapporto al totale di alloggi esistenti è:
in Olanda il 35%; in Danimarca il 19%, in Francia il 16% e in Italia in 4%.
In ultima istanza si tratta di liberare spazio a
LA CITTÀ IN COMUNE
La qualità del vivere la città, il diritto alla città, è composta da una pluralità di caratteristiche e di possibilità, di fruizioni, funzioni e di invenzioni. Non può essercene una senza le altre. Ci vogliono tutte insieme, ed è la loro contemporanea presenza che ci dà il senso di cosa significhi vivere in modo soddisfacente in una città o di cosa dovrebbe e potrebbe significare: la casa ma anche i servizi, ma anche il tessuto connettivo, la qualità dell’aria e dell’acqua, del suolo, di tutto l’ambiente, i luoghi di incontro e di apprendimento, di cultura e d’arte, la creatività e la capacità di imparare. Tutti necessari come non si può dire che basti l’acqua o il cibo o la felicità da sole a farci vivere, sono tutte necessarie.
Purtroppo nella vita di tutti noi c’è l’esperienza simile seppur diversa di porte chiuse, giardini recintati, spazi e accessi negati: per proprietà, per prepotenza. Eppure la città nasce per la presenza di spazi comuni di scambio, di incontro. Senza quelli non ha senso avere una città.
“…la città è una proprietà comune dei suoi abitanti. E’, in senso economico, un bene pubblico… il valore astronomico assegnato al centro della città emerge solamente dal fatto che è al centro delle attività di milioni di persone. Loro, non i proprietari, hanno creato questi valori, che evidentemente appartengono ai cittadini” (Colin Ward)
Nei percorsi fra la ricerca di tutto quello di cui avremmo bisogno e il suo ottenimento, individuale o collettivo, ci imbattiamo nella privatizzazione di quelli che rivendichiamo come beni comuni. E’ l’accumulazione da espropriazione che significa espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti per l’accrescimento del capitale privato. I diritti che tradizionalmente sono stati proprietà comune vengono espropriati attraverso la privatizzazione. La privatizzazione dell’acqua impone che la si paghi a chi se ne è appropriato, e ora ne è proprietario o gestore, mentre tutti dovrebbero avere accesso a questo bene comune. Quando i settori pubblici, come la scuola o la sanità, si vedono sottratti i finanziamenti pubblici, sempre più persone devono rivolgersi al settore privato. E anche in questo caso qualcuno accumula grazie a questa privatizzazione. La proprietà privata della terra, la cui privatizzazione ha una lunga storia, da sempre ostacola la risposta universale ai più elementari bisogni di alloggio e di spazio sociale e pubblico. Ma blocca anche qualsiasi tentativo di salvaguardare e di proteggere l’interesse collettivo, in modo efficace e definitivo, dalla voracità insaziabile dei grandi proprietari e delle imprese immobiliari, che talvolta la pianificazione territoriale pubblica ha cercato di proporre. Anche l’inquinamento dell’aria e dell’acqua si configura come una privatizzazione, perché ci viene sottratta aria ed acqua di qualità da chi usa e deteriora questo patrimonio comune per il proprio vantaggio economico; basti pensare alle industrie che inquinano per risparmiare sui depuratori o per non spendere su innovazioni che permettano produzioni davvero pulite. L’accumulazione da espropriazione comporta la sottrazione di diritti universali, e la loro privatizzazione in modo che diventino una responsabilità individuale, invece che responsabilità sociale.
C’è più che un filo che lega la questione del diritto alla città e all'accesso alla terra (casa, servizi sociali, spazi pubblici e di comunicazione, spazi sociali e culturali) e le questioni degli elementi e dei processi naturali (acqua, suolo, aria, flora e fauna, ambiente, loro qualità e lotta agli inquinamenti, compresa la questione dei rifiuti e delle nocività), dei servizi a rete privatizzati o in via di privatizzazione (acqua, energia, trasporto pubblico, rifiuti, telefoni..). C’è la nostra vita a legarli e una domanda che li vede come premesse minime tutte necessarie e irrinunciabili.
Noi diciamo che sono beni comuni (in forma di risposte ai bisogni e in forma di qualità del vivere), ma c'è chi li vede e li tratta come risorse da sfruttare e come merci. E questo ci impone di affrontare anche le ragioni economiche della loro sottrazione: rendita fondiaria, profitto, tipo di produzione delle merci (cosa, quanto, per chi) in generale e la connessa generazione abnorme di rifiuti, questione nocività e tariffe, la produzione dell’ambiente costruito. E ci impone anche di affrontare chi e quali imprese, talvolta multinazionali, sono gli attori, i promotori di questi investimenti e gli accaparratori di profitti e rendite. E il ruolo della pubbliche amministrazioni in questo gioco. La centralità della rendita fondiaria nell'analisi del territorio risiede nel suo ruolo strutturale nel localizzare (o situare) le attività (e le classi sociali, gruppi sociali) sul territorio. Con tendenza alla segregazione sociale e funzionale.
In questi anni abbiamo visto nascere e crescere lotte per l’accesso alla casa e ai servizi pubblici, contro gli sfratti e gli sgomberi, per spazi sociali e collettivi, contro le innumerevoli speculazioni immobiliari volte a costruire a spese di tutti per il vantaggio di pochi, contro gli inceneritori, i rigassificatori, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, contro l’elettrosmog, per la salvaguardia della nostra salute e della qualità dell’ambiente in cui viviamo e di cui facciamo parte, per la qualità del servizio e per i diritti dei lavoratori del trasporto pubblico locale, per la proprietà comune e la gestione pubblica di tutti i servizi: gas, elettricità, acqua, trasporto pubblico…ma anche dell’intero territorio..
Che cosa hanno in comune?
Invece della città per pochi e della città divisa…
LA CITTÀ IN COMUNE
È fatta di infinite proposte possibili, ma anche di principi inviolabili e irrinunciabili:
- uguaglianza nella diversità, impedendo che presunte differenze escludano dai diritti;
- nessun diritto individuale o collettivo può comprendere diritti su altre persone (per esempio sulle donne), tali da pregiudicarne il diritto all’autodeterminazione;
- non è ammessa nessuna giustificazione alla violenza sulle donne e alla sottrazione del diritto di tutte all’autodeterminazione. Tre principi fondamentali: integrità fisica (del corpo femminile) come bene indisponibile; inviolabilità del corpo (femminile); autodeterminazione (delle donne);
- integrità fisica, inviolabilità del corpo (nessuna ammissibilità a nessuna forma di tortura), autodeterminazione per tutti (abbiamo sottolineato in particolare questi stessi diritti per le donne perché sono sotto attacco);
- non ammissibilità dello sfruttamento delle persone (nessun diritto individuale o collettivo può comprendere il diritto di sfruttamento di altre persone);
- non ammissibilità della distruzione e dello sfruttamento della natura e promozione di usi degli elementi naturali che garantiscano la loro riproduzione e così facendo la nostra stessa salute e benessere;
- uso comune dei beni e servizi territoriali senza che nessuno ne possa pregiudicare l’uso e la fruizione da parte degli altri attraverso la proprietà privata, la dissipazione, la distruzione o l’inquinamento;
- nessun confine per le persone; libertà di circolazione e di movimento per tutte;
- reddito (e servizi sociali, compresi casa e diritto alla città) per tutti.
La città come bene comune è
LA CITTÀ IN COMUNE
[1] Una circostanziata critica alla realizzazione fiorentina del “Programma 20000 case in affitto” si trova nell’articolo pubblicato sul sito eddyburg: Marvi Maggio, “La casa a Firenze. Alloggi in affitto a che prezzo?”
[2] Ibidem.
[3] Gibelli, M.C., “Tre famiglie di piani strategici: verso un modello reticolare e visionario” in Curti F., Gibelli M.C. (editor), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze, 1996.
[4] Regione Toscana, Giunta Regionale, Direzione generale delle politiche territoriali ambientali, Settore politiche abitative e riqualificazione degli insediamenti - edilizia residenziale pubblica, Verso lo statuto dell’edilizia sociale, settembre 2006.
[5] Ibidem, pag.9.
[6], “Intervista a Riccardo Conti, Assessore al territorio ed alle infrastrutture della Regione Toscana, di Leonardo Rignanese”, Urbanistica Informazioni, n.2007, maggio-giugno 2006, pag,69.
[7] Ibidem, pag.69.
[8] Vedi Lodovico Meneghetti, “La casa della città pubblica” in http://eddyburg.it.
Titolo originale: Ten Noteworthy Trends of 2006– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
● Per la prima volta nel 2005 si sono rilevati più abitanti poveri nel suburbio che nelle aree urbane centrali.
● Il 6% della popolazione delle grandi aree metropolitane USA vive negli “esurbi”.
● Oltre un terzo della perdita di posti di lavoro nel settore industriale fra il 2000 e il 2005 si è verificata in sette stai della regione dei Grandi Laghi: Illinois, Indiana, Michigan, New York, Ohio, Pennsylvania, e Wisconsin.
● I sobborghi di prima fascia di più antica formazione contengono il 20% della popolazione nazionale, e sono più diversificati e con età media più avanzata del resto del paese.
● Il nucleo familiare USA medio spende il 19% del suo bilancio in trasporti, facendo così della posizione della casa un elemento fondamentale dei suoi costi.
● A livello nazionale, oltre 4,2 milioni di proprietari di casa a basso reddito pagano un interesse annuo superiore alla media per il mutuo.
● Le principali aree metropolitane destinazione di profughi e rifugiati sono cambiate, spostandosi dai tradizionali terminali di immigrazione come New York o Los Angeles, nel corso dei due scorsi decenni, a nuovi portali come Atlanta, Seattle, e Portland.
● Le aree metropolitane in più rapida crescita per quanto riguarda la popolazione delle minoranze dal 2000 al 2004, ora si stanno affiancando alle aree in più rapida crescita assoluta del paese.
● I quartieri a reddito medio, dal punto di vista della loro proporzione rispetto a tutte le zone metropolitane, sono diminuiti dal 58% del 1970 al 41% del 2000, scomparendo a velocità superiore a quella delle singole famiglie di ceto medio nelle stesse aree metropolitane.
● Sui 109 miliardi di fondi federali destinati a finanziare la Costa del Golfo nel primo anno dopo l’uragano Katrina, soltanto 35 miliardi circa, sono andati alla ripresa sul lungo periodo della regione.
Nota: alcuni dei temi citati sopra (le fasce interne, la povertà suburbana e l'immigrazione) sono stati ad esempio oggetto di una ricerca pubblicata dalla Brookings diversi mesi fa, e oggetto tra l'altro di una comunicazione - riportata su Mall - di Hillary Rodham Clinton ; un altro dei temi nuovi è la crescita dell'Esurbio, o suburbio esterno, morfologicamente semirurale ma a base economica pendolaristica di lunghissima percorrenza (f.b.)
Costruire altre case? Se ne può fare a meno
(20 dicembre 2005)
Ripartiamo da metà novembre quando Berlusconi, nella sua quotidiana ricerca di frottole per convincere ancora qualcuno a votarlo, se ne uscì con lo slogan “case per tutti”. Il giorno appresso già aveva cambiato: «Volevo dire per chi è sotto-sfratto». Dato però che la tentazione di dire sciocchezze è per lui irresistibile, aggiunse: «Faremo le case su terreni a prezzo agricolo»: memore forse di quando era lui a comprar terre agricole e a fare poi in modo che diventassero edificabili... Altri tempi. Oggi chi gliele dovrebbe portare strade, acqua e fognature a costruzioni sorte in aperta campagna? E a spese di chi?
Non varrebbe nemmeno la pena di ricordare insulsaggini simili se la costruzione di nuove case non comparisse anche nei programmi di centrosinistra e sinistra. Ho in mente le “dieci buone azioni di governo per l’ambiente” proposte a settembre da un gruppo di ambientalisti di spicco alla Festa di Liberazione, dove al punto 9 si parla di «finanziamento immediato di un Piano nazionale di edilizia economica e popolare». E qui ci si impone, direi, una riflessione di fondo. Sempre prendendo le mosse dalla sesquipedale ignoranza berlusconiana della realtà del paese che lo porta a parlare di terre agricole come se ce ne fossero a non finire e se non valessero niente. Orientamento mentale purtroppo condiviso ancora da molti: sinistre incluse. Mentre non dovremmo dimenticare mai che siamo un paese ad alta densità demografica (e cioè con un territorio scarso rispetto alla popolazione) e che nella seconda metà del secolo scorso la superficie agraria italiana si era già dimezzata. Il che vuol dire che se le cose del mondo dovessero mettersi male (cosa per niente improbabile) difficilmente ce la faremmo a sfamarci coi frutti della nostra terra.
E dunque l’idea - tutta nuova - che faremmo bene a metterci in testa e aver sempre presente è che ogni metro quadrato di terra fertile ha oggi un valore (reale, non solo venale) incomparabilmente maggiore di qualunque edificio ci si possa far sopra. Non solo per la capacità di produrre alimenti, ma per accrescere (se pure di poco) la superficie del manto di vegetazione che concorre a “fissare” l’anidride carbonica e ad arginare l’effetto-serra. Pensiero controcorrente rispetto a tutto il passato, oltre che rispetto ai decenni ruggenti del boom edilizio postbellico. Ma è veramente ora, direi, di metterci a ragionare su questa diversa lunghezza d’onda.
Ma allora le case?... Un momento. Già da vent’anni le statistiche parlano di un numero di abitazioni in Italia quasi-doppio di quello delle famiglie. E’ anche vero che con l’aumento dei “singles” è aumentato anche il numero delle unità familiari. In tutti i casi, però, le più recenti rilevazioni Istat parlano di tremilioniottocentomila famiglie in difficoltà per l’alloggio contro - attenzione! - 6,6 milioni di alloggi vuoti inutilizzati. E se questi dati sono attendibili ne discende una indicazione precisa: che esiste in Italia in larga misura la possibilità di risolvere i problemi abitativi facendo ricorso al patrimonio edilizio esistente (debitamente ristrutturato e ammodernato ove occorra, ovviamente) senza bisogno di occupare altri metri quadrati di terra con altro cemento. Chiaro che questo comporterebbe una scelta politica diametralmente opposta alla linea berluscon-tremontiana di svendita dei patrimoni pubblici, a partire da quelli degli Istituti Case Popolari (Iacp). Favorire, al contrario, le acquisizioni da parte dei Comuni di alloggi esistenti da dare in affitto a chi più ne ha bisogno secondo criteri eminentemente sociali. Questo anche perché (in riferimento alla proposta Brunetta di dare in proprietà, parte a pagamento e parte in regalo, tutte le case Iacp) di una quota di alloggi in affitto il paese ha comunque bisogno per garantire un certo grado di mobilità ai cittadini. E dato che le difficoltà alloggiative hanno soprattutto a che fare con le disponibilità economiche e non con carenze reali di abitazioni, è giusto che sia l’Ente locale a garantire il “diritto alla casa” come parte integrante del welfare state. Tenendo conto ovviamente del variare nel tempo di situazioni e bisogni.
Ma c’è un altro motivo - meno considerato - per rinunciare alla costruzione di nuove case popolari coi vecchi sistemi. Qui mi rifaccio a una mia antica esperienza di lavoro nel Piano Fanfani Ina-Casa degli anni 50 (me la sento già la domanda: “ma tu, quanti anni hai? ”. Parecchi, compagno, parecchi: finché c’è fiato però...). Di quell’esperienza, dicevo, tra i molti pro-e-contro m’è rimasto impresso soprattutto il malanimo con cui i neo-assegnatari entravano in case loro assegnate a scatola chiusa, senza che nessuno gli avesse chiesto un parere né per il dove né per il come. Avvertivano questo sistema come un’offesa: come un esser trattati da mendicanti cui si fa l’elemosina. E reagivano male: col disamore, la trascuratezza, la morosità. Non andava magari sempre così, ma nelle periferie urbane spesso il quadro era questo.
Quel che voglio mettere in rilievo è quanto è importante che i cittadini partecipino in qualche modo alle decisioni sul dove e sul come abitare. Ed è chiaro che questo è più facile se si offre loro la scelta fra un ventaglio di possibilità all’interno
dei tessuti edilizi esistenti. Qui mi riallaccio a una “Delibera programmatica sulle politiche abitative” (n°175, 15/09/05) del Comune di Roma. Un buon documento, che prevede al riguardo ogni modalità di azione possibile: dai completamenti di opere già in corso alle nuove costruzioni e ai programmi di acquisti comunali di alloggi. Con l’affidamento a un’apposita “Agenzia per gli affitti” della gestione del tutto. Ecco: in rapporto a questa impostazione (già parecchio avanzata rispetto al passato) vorrei azzardarmi a sostenere che oggi bisogna trovare il coraggio di cancellare del tutto la voce “nuove costruzioni” (e possibilmente anche i completamenti che comportino ancora occupazioni di spazi) e concentrarci esclusivamente sulle modalità di acquisizione comunale di alloggi esistenti da mettere a disposizione di chi ha più bisogno. Che significa dare al problema una impostazione tutta diversa.
Con quali soldi i Comuni potranno procedere alle acquisizioni, chiedete? La Delibera elenca una serie di modi: a scomputo di imposte dovute (tassa di successione compresa, se ce la faremo a ripristinarla per i patrimoni maggiori); a seguito di requisizioni di edilizia abusiva e sequestri di patrimoni frutto di attività criminali; in occasione di aste giudiziarie per fallimenti e “amministrazioni controllate”; attraverso intese con gli Iacp e con amministrazioni pubbliche proprietarie di alloggi (le Ferrovie, ad esempio)... Quel che occorrerebbe in sostanza è arrivare a dotare, sia pure per gradi, i Comuni italiani (quantomeno i maggiori) di patrimoni edilizio-abitativi abbastanza consistenti e variati da poter incidere in senso positivo sotto il profilo sociale sul fabbisogno di alloggi. Questo anche giovandosi, a favore dei nuovi- inquilini, di sgravi fiscali, “buoni-assistenza”, canoni di locazione calibrati caso-per-caso e quant’altro.
Configurare cioè un ruolo comunale attivo nella soluzione del problemacasa, da portare avanti d’intesa coi cittadini più interessati direttamente. Immigrati e nomadi inclusi, naturalmente. Chiaro che qui la faccenda si fa più difficile ancora. Quel che conforta però è il dato dei 560.000 alloggi già acquistati in proprietà da famiglie extra-comunitarie in Italia: spesso nelle parti più degradate delle periferie, ma anche nei vecchi villaggi ex-rurali in abbandono...
Come dire: il problema ha tendenza a trovare da sé certe sue soluzioni. Tendenza che va favorita e aiutata, ovviamente. Senza nemmeno starci a preoccupar troppo in questa fase, direi, delle possibilità che si formino enclaves etnico-religiose spinte a isolarsi, ma curando che si realizzino condizioni civili di abitazione per tutti, e soprattutto facendo in modo che le rappresentanze dei diversi gruppi etnici partecipino - alla pari con gli altri - alle discussioni e alle scelte per l’habitat.
La strada mi sembra sia quella indicata da Sandro Medici presidente del Municipio romano di Cinecittà con la requisizione di alloggi inutilizzati (per la quale rischia di finire sotto- processo) e di Massimiliano Smeriglio presidente del Municipio-Garbatella con gli spostamenti di residenza concordati direttamente con le famiglie nomadi. E dovrebbe portare a fare delle sedi di Municipio e di quartiere dell’“Agenzia Comunale per gli affitti” i luoghi istituzionalmente preposti al dibattito pubblico fra cittadini e non-cittadini per queste scelte, cui giungere attraverso l’esercizio dei metodi della democrazia diretta.
Non sarebbero scelte da poco, d’accordo. Proprio per questo mi sembra arrivato il momento di aprire la discussione al riguardo.
Case nuove e case vuote.
Più metricubi edificati o più terre libere nel nostro futuro?
(4 gennaio 2005)
ntefatto. Il 20 dicembre - prendendo spunto dalla sparata-a-vanvera berlusconiana sulle case per tutti - avevo parlato dei danni provocati dal costruire ancora riducendo le già scarse dotazioni di aree libere verdi del nostro paese, e della possibilità di far fronte al bisogno di abitazioni ricorrendo alla gran quantità di alloggi vuoti esistenti. Mi rendevo conto ovviamente del carattere provocatorio di questo discorso (nessuno può pensare che certi processi si possano invertire di segno da un giorno all’altro) e concludevo augurandomi che almeno se ne parlasse.
Sono stato subito accontentato. Il 27 dicembre Vincenzo Simoni, segretario nazionale dell’Unione Inquilini ha risposto contestando - in termini cortesi - questa mia posizione. Anche se ne ha confermato la premessa, in sostanza, spiegando bene come e perché ai proprietari può convenire lasciar vuoti gli alloggi se non ne ricavano gli affitti che vogliono, e usarli come garanzie per ottenere prestiti in banca. Magari “per acquistare altre unità immobiliari”.
Dice altre cose che mi trovano in tutto d’accordo. Sulle aree ex-industriali “dismesse” da destinare preferibilmente alla costruzione di alloggi. Sul bisogno di nuove leggi per l’equo canone e il divieto di sfratto “per finita locazione”. Sul triplicare le tasse sugli alloggi lasciati sfitti (provvedimenti che già di per sé risolverebbero in buona parte il problemacase senza bisogno di costruirne di nuove: proprio come dicevo)... Cose, comunque, che comporterebbero “una totale inversione politica”: che non c’è perché “il dominio della rendita immobiliare è assoluto”, perché “le leggi favoriscono il libero mercato”, perché d’altra parte “l’immiserimento di milioni di famiglie” (dovuto anche al caro-affitti e ai mutuicasa) “è sotto gli occhi di tutti”.
Quindi il problema-casa rimane, così come restano gli obblighi di soccorso per gli sfrattati e di sostegno a chi non ce la fa a pagare l’affitto. Per ciò non possiamo permetterci di escludere il ricorso a nuove costruzioni. Sembra che non faccia una grinza. Se non fosse che...
Lui vede nella mia impostazione «uno iato tra quel che sarebbe giusto in ogni tempo e quel che si deve fare in una determinata situazione ». Sarà anche vero. Sta di fatto però che queste cose io e lui le andiamo scrivendo sul foglio di Rifondazione Comunista: una forza che si è dato come obiettivo proprio di cambiare le cose. Se non proviamo a guardare lontano su queste pagine, quando mai lo faremo?... Io perdipiù ragiono da ambientalista. Come dire che penso soprattutto al futuro. E se nel presente le necessità di cui parla Simoni sono incontestabili, non è per ciò meno vero che ogni metro quadrato di terra occupato dalle costruzioni è sottratto alla vegetazione - all’agricoltura e alla natura - per sempre. Per sempre.
Di questo aspetto del problema - del ruolo vitale delle terre libere da costruzioni - Simoni non parla. E non mi sta bene. Sta qui per me “lo iato della sua impostazione”. Sia chiaro: ha ragione nel senso che il bisogno di alloggi è attuale, concreto e quantificabile, mentre la necessità di salvare da edificazioni le aree libere è più diluita nel tempo e meno dimostrabile quantitativamente. Il che non toglie però che sia vera, e che sia destinata a pesare sempre più sulla qualità delle nostre vite e sul futuro di tutto il paese.
Per ciò non mi può star bene che non se ne tenga conto. Che vengano sottovalutate le possibilità (che ci sono, Simoni stesso ne dà conferma) di risolvere il problemacasa facendo ricorso in misura più vasta al patrimonio abitativo esistente. Che si continui e parlare alla vecchia maniera di “nuovi Piani di edilizia economica e popolare” senza tenerne conto, senza dare priorità sistematica a quest’altra possibilità. Non mi sta bene che sia liquidata sbrigativamente accennando a «francobolli urbanistici collegati a una estenuante sequela di modestissimi recuperi». Qui traspare, tra l’altro, una sorta di qualunquistica insofferenza per i “lacci e lacciòli”: la rassegnazione cioè all’incapacità comunale di amministrare la cosa pubblica in forme complesse con competenza e con cura. La paura di affrontare lo scabrosissimo tema del risanamento-rinnovamento dei modi di amministrare, essenziale per un paese che voglia dirsi civile.
Certo, è più facile tirar su metricubi su terreni sgombri che seguire decine e decine di casi diversi di acquisizioni di immobili. D’altra parte però se si fa il paragone fra i costi delle nuove costruzioni e le acquisizioni comunali possibili con gli stessi soldi, e magari anche fra l’occupazione che può venire dai nuovi cantieri o dai ri-adattamenti di costruzioni esistenti... Ma perché nessuno ha il coraggio di farli, quei conti?
In tutti i casi: parlarne non può che far bene. Spero proprio che “dopo” non capiti più a nessuno di sdottorare di ambiente in astratto ignorando i problemi concreti, né di imbarcarsi a fantasticare di maxiprogrammi edilizi senza un pensiero per i terreni sui quali dovrebbero sorgere. E che alle possibilità di risolvere i problemi abitativi all’interno delle zone già edificate si dedichi una attenzione molto ma molto maggiore.
Ultimo punto. Al mio accenno al malanimo degli assegnatari Ina-Casa degli Anni 50 nell’accedere ad alloggi assegnati “a scatola chiusa” Simoni contrappone il ricordo felice della sua giovinezza in un complesso Ina-Casa a Firenze. Sarà che io ho vissuto parecchie di quelle esperienze nel Sud dove ancora si faceva la fame, sarà che ricordo scene selvagge di distruzione e degrado di spazi e attrezzature comuni... Un episodio (semiserio) però ve lo devo. La consegna dei primi alloggi Ina-Casa a Palermo. Il vescovo, gli onorevoli, la benedizione, i discorsi: poi tutti dentro nei nuovi alloggi. E subito sui balconi, pennelli e barattoli di vernice alla mano, i giovanotti a pittare in rosso sui muri falci-e-martelli... Ricordo le facce dei democristiani di allora: «ma come? Non ci sono grati?» (tradotto: non voteranno per noi? ma allora chi ce l’ha fatto fare?)... E di Firenze Ina- Casa- “Isolotto” (bel quartierino, coi giardinetti pieni di rose) ricordo una distinta signora tutta indaffarata a spiegare che lei “lì” c’era capitata per sbaglio: «si immagini, con questa gente» e arricciava il naso... Non so se ho reso l’idea di quel che intendevo. E quanto alle iniziative sociali e politiche che nascevano allora in quei complessi e che Simoni ricorda (penso al quartiere Ina-Casa Tuscolano di Roma, a Giuliano Prasca che riuscì a far fare un campo sportivo su un’area destinata in progetto a un edificio-torre) non rappresentavano anch’esse una forma di ribellione contro quel tipo di ghettizzazione coatta? Non dimostravano la voglia di quei cittadini di decidere in prima persona?... Ha ragione Simoni. Cose da discutere ancora ce ne sarebbero tante.
Investita in pieno dalla «new wave» moralizzatrice generata dallo scontro al vertice del Partito a Pechino, la «Perla d'Oriente» resiste all'urto e rilancia con la spaventosa forza della sua economia. Progetti (e realizzazioni) sempre più faraonici, questa volta accompagnate persino da qualche correttivo di giustizia sociale
Non è finita. Shanghai lo sa e aspetta i colpi che la Commissione d'inchiesta sulla corruzione inviata da Pechino infliggerà ad altre teste autorevoli della politica e degli affari, dopo che a settembre è clamorosamente caduta quella del grande protettore, il segretario del Partito di Shanghai, Chen Liangyu. Chi ha la coscienza pulita scherza. «E' andato a prendere un caffè», si dice ridendo di chi sparisce perché è stato convocato da uno dei 100 ispettori installati da agosto a villa Moller, casa neogotica nel cuore della città vecchia che nel 1936 un amorevole padre svedese fece costruire per la figlia malata sulla base di una visione architettonica avuta dalla fanciulla in sogno. Nello stravagante edificio pseudo-Escher, da mesi si aggirano incubi più che sogni e chi è convocato parla a lingua sciolta. Mentre vengono allo scoperto e dilagano le chiacchiere sulle numerose amanti e il «decadente stile di vita» degli incriminati, ben conosciuti ai tempi d'oro ma oggi parte integrante della gogna sociale.
Le «confessioni» producono nuovi arresti, ognuno dei quali rende tardiva giustizia a qualcuno. L'ultimo provvedimento eccellente ha colpito il 6 dicembre scorso lo speculatore edilizio Zhou Zhengyi, accendendo le speranze degli abitanti del distretto di Jingan che già tre anni fa avevano accusato l'imprenditore, vicino alla cerchia del segretario del partito, di aver distribuito mazzette agli amministratori per avere in concessione, a prezzi di favore, i terreni dove si trovavano le abitazioni che i residenti erano stati costretti ad abbandonare in cambio di risarcimenti miserabili. Allora, in una tortuosa giravolta che doveva nascondere il marcio, l'imprenditore, già uno degli 11 uomini più ricchi di Cina, era finito dentro per manipolazione di titoli e falso in bilancio. Gli abitanti però non avevano avuto giustizia e il loro avvocato, Zheng Enchong, era persino finito agli arresti domiciliari.
Oggi si spera in qualcosa di più. L'aria è cambiata, questo è certo. Ma a Shanghai, e non solo, tutti sono sicuri che gli eventi in corso sono soltanto una resa di conti fra la fazione di Jiang Zemin e la nuova generazione guidata da Hu Jintao. Sulla volontà della leadership centrale di fare davvero piazza pulita della corruzione, parte integrante del sistema di scambio potere-denaro alla base del miracolo cinese, nessuno scommette, nonostante molti processi sulla gestione dei fondi pensione, cuore dello scandalo di Shanghai, siano in corso a livello nazionale. La rivelazione, il mese scorso, che 7,1 miliardi di yuan (700 milioni di euro) sono spariti in investimenti all'estero, speculazioni immobiliari , prestiti non autorizzati, e una buona parte non tornerà mai più nelle tasche dei lavoratori, ha in qualche modo messo in prospettiva il terremoto di Shanghai, «normalizzandolo», in una sorta di new wave moralizzatrice. Ma la memoria storica, e una pessimistica analisi dell'esistente, fanno da zavorra al decollo dell'ottimismo.
Tutti sotto inchiesta?
«Se il problema fosse davvero affrontato alla radice, dovrebbero mettere sotto inchiesta il 70-80% dei funzionari del Partito», osserva da Pechino l'avvocato Mo Shaoping. Difensore di leader operai, cyberdissidenti e giornalisti scomodi, l'avvocato è naturalmente poco portato all'indulgenza nei confronti di un potere repressivo che troppo spesso lo sconfigge con i suoi metodi brutali. Ma la sua analisi è vita vissuta nei labirinti di un sistema giudiziario ipotecato dal controllo immanente del Pc. In questa situazione di corruzione pervadente, gli arresti, secondo l'avvocato, «indicano un criterio di scelta preciso: l'attuale governo si vuole sbarazzare della generazione passata». Infatti, sottolinea, «sono anni che Chen Liangyu fa le stesse cose per le quali ora è stato incriminato ed è stato anche messo sotto accusa più di una volta»; ma «finché c'era Jiang Zemin a proteggerlo poteva continuare ad agire indisturbato. Nel momento in cui è entrato in carica Hu Jintao, che protegge altri, poiché Chen non fa parte della sua fazione non riceve lo stesso appoggio né la stessa benevolenza. Così è stato fatto esplodere il caso di Shanghai. Questo fa capire la parzialità e profonda ingiustizia del sistema».
L'avvocato Mo non si fa convincere neppure dalla portata delle indagini, che si sono allargate anche a Pechino, a Tianjin e in altre province, e hanno portato ad altri arresti. «In un modo o nell'altro», conclude, «gli indagati appartengono sempre, guarda caso, a una stessa generazione o corrente politica». E' anche alla luce di questi giudizi che appare ambivalente il provvedimento più recente di Pechino: rimuovere tutti i capi locali delle Commissioni per le ispezioni disciplinari - i castigamatti della corruzione - per nominare uomini scelti dal governo centrale,
Qualunque cosa sia in corso, un Armageddon o una miserabile lotta di fazioni, Shanghai l'insonne non dà mostra di esserne colpita a morte. Un piccolo incidente di percorso, uno sgambetto neanche troppo imprevisto sulla passerella splendente dove la rinata Perla d'Oriente marcia verso un visionario e radioso futuro. I cantieri a cielo aperto non smettono neppure per un minuto di spianare, rivoltare, costruire. E quel che si materializza sembra destinato anzitutto a stupire, in un parossismo di ovali, trapezi, torsioni barocche. Una sfida alla gravità dove si mescolano con audacia architettonica prossima all'arroganza le antiche forme cinesi e le concezioni più moderne. I più grandi architetti del mondo (ma purtroppo anche i mediocri) sembrano aver avuto carta bianca sul corpo di questa metropoli, e l'hanno riempito fino all'estremo come in preda all'horror vacui. Una frenesia da Prometeo paranoico che induce un senso di incertezza negli abitanti che, quando va bene, assistono allo stravolgimento del panorama circostante: ma assai più spesso subiscono lo sconvolgimento delle proprie vite deportate a chilometri di distanza, ai margini della foresta di pietra dove oggi sono conficcati oltre 500 grattacieli che superano i 100 metri di altezza.
La prossima tappa dichiarata è l'Expo 2010, che sta cambiando i connotati di un'area di oltre cinque km2, sulle due rive dello Huangpu a sud del vecchio Bund. Investimento minimo previsto, 10 miliardi di dollari: ma si sa che al conto finale si aggiungerà, per infrastrutture collegate, un ammontare ancora incerto ma collocabile fra i 15 e i 30 miliardi di dollari. Il futuro però ha in serbo anche altro.
Sembra incredibile che dietro una simile frenesia ci siano anche uomini pacati e sorridenti come il professor Zheng Shiling, uno dei principali architetti cinesi, influente teorico della scienza urbanistica riconosciuto a livello mondiale. Oltre che dell'Accademia delle scienze cinesi, è anche membro dell'Académie d'Architecture de France nonché Honorary Fellow all' American Institute of Architects. Essendo anche «General Schemer» dell'Expo 2010 e occupando una posizione preminente nella Shanghai Urban Planning Commission e nel Comitato per la conservazione delle aree storiche, tutta la città passata, presente e futura sta nella sua testa. La racconta in un bell'italiano, appreso nei tre anni, dall'86 all'89, che ha trascorso come visiting scholar alla facoltà di Architettura dell'università di Firenze. Sui tovaglioli di uno Starbuck café schizza alcuni progetti, come quello, avveniristico, dell'Isola Verde di Chongming, alla foce dello Yangtze. La terza isola cinese, (1225 km quadrati), è destinata a diventare, entro il 2020, un piccolo paradiso terrestre dove gli uomini vivranno e produrranno in perfetta armonia con se stessi e la natura.
Ma c'è un qualche rapporto fra simili progetti e la realtà, inquinata e rumorosa, vissuta quotidianamente dai quasi 10 milioni di abitanti dell'area centrale metropolitana, al di là delle dichiarazioni martellanti sulla «Better City, Better Life» (slogan dell'Expo 2010)? Sì e no, par di capire dal professor Zheng. E' tutta questione di recuperare il tempo perduto. Il passato è stato selvaggio, dal punto di vista architettonico e sociale. Nella sua prima fase di sviluppo, all'inizio degli anni '90, la città è stata territorio di scorrerie per molti speculatori armati di buone protezioni. Il segretario del Pc licenziato probabilmente collaborava troppo con i capitalisti, per il reciproco profitto ma anche per guadagnare potere e prestigio. Molte fortune si sono costruite in poco tempo e oggi si è capito perché.
Il professor Zheng descrive un primo atto dello sviluppo di Shanghai in cui, per anni, il governo non ha prestato troppa attenzione alla vita della gente. Oltre due milioni di persone hanno dovuto lasciare il centro storico della città per essere ricollocate in una periferia disagiata. Ancora due anni fa il governo ha costruito 20 milioni di m2 di case popolari per ospitare altre 800mila famiglie: il progetto è stato da lui criticato non perché fosse contrario allo spostamento (le vecchie case del centro erano sovraffollate e malsane) ma perché nell'area di ricollocamento non c'erano scuole né ospedali e i trasporti pubblici erano pressoché inesistenti. Ci sono state forti opposizioni da parte di alcuni residenti, ma resistere agli sfratti è difficile perché il suolo è pubblico e il governo può riprenderselo quando vuole, in nome dell'interesse generale che dichiaratamente è quello di rivalutare le aree. Il marcio nasce dai meccanismi di passaggio poco trasparenti. Gli eccessi hanno portato oggi a provvedimenti di riequilibrio. Gli indennizzi per gli sfratti sono aumentati notevolmente e il governo centrale ha imposto un controllo più stretto sulla concessione del suolo pubblico.
Ragione e delirio
Che la ragione stia prendendo il sopravvento sul delirio si percepisce anche da altri segni. Dal 2002 una legge stabilisce la preservazione di 12 quartieri di interesse storico nel centro della città, 27 km 2 che sono diventati quasi intoccabili e chi vuole abitarci potrà intervenire solo sulla base di permessi speciali. Anche in periferia e nelle ormai lontane campagne, sono state identificate 32 aree storiche da salvaguardare. Più in generale, spiega Zheng Shiling, si cercherà di rendere le periferie più vivibili. In questo i trasporti sono essenziali. Oggi Shanghai ha 123 km di rete metropolitana. Per l'Expo dovrà arrivare a 400 km, entro il 2020 a 700. Un progetto gigantesco ma, dice il professore, il governo ha la forza per farlo. Quanto a lui, ha particolarmente a cuore la vita «creativa», artistica e culturale, di Shanghai e sta elaborando appositi progetti.
La Grande Trasformazione avviata negli anni '90 con la decisione di estendere la città oltre la riva orientale dello Huangpu e creare la zona speciale di Pudong non è finita, dunque. Ai quasi 500 milioni di m2 costruiti a partire dal 1985, si aggiungono ogni anno 30 milioni di m2. Vale a dire che ogni due anni viene ad aggiungersi una estensione urbana delle dimensioni che aveva Shanghai nel 1949. Davvero difficile resistere alle tentazioni, in un mercato così bollente. Il recente scandalo, par di capire, ha solo rallentato la corsa, che comunque era già stata in qualche modo frenata dal mercato che lascia invenduti ettari di costruzioni.
L'area di Pudong vedrà progetti ancor più grandiosi. La sagoma del World Financial Center, il grattacielo del developer giapponese Minoru Mori, destinato coi suoi 492 metri a essere il più alto della città, si alza giorno dopo giorno e presto la sua forma ad apribottiglia, con una grande fessura in cima (faticoso approdo di una serie di polemiche che hanno abbattuto il progetto originario di porre in cima un cerchio che troppo ricordava il Sol levante), dominerà il lungo fiume insieme alla Oriental Pearl Tower, che col suo splendore metallico e rosa shocking detiene il titolo di torre della televisione più alta (e più kitsch) dell'Asia. Sono intanto in piena edificazione tre nuove città satellite, Jiading, Songjiang, New Harbour, che ospiteranno tra 500mila e un milione di abitanti ciascuna e serviranno a razionalizzare il disegno urbanistico della metropoli.
Per una visione d'insieme del futuro di Shanghai bisogna salire al quarto piano dell'Urban Planning Exhibition center, nella piazza del Popolo, dove la città racconta se stessa. Lo stordimento è assicurato dall'immenso plastico dove ogni progetto è immortalato fino all'ultimo ponte, mentre per la vertigine bisogna accomodarsi nella saletta dove il filmato proiettato su uno schermo a 360 gradi vi sospingerà verso il 2010 a tutta velocità. Shanghai vuole essere tutto: un centro finanziario di dimensioni mondiali, la città più verde (15 m2 di vegetazione a testa nel 2010), la più pulita, biologica e sana del mondo, il paradiso del terziario e dell'alta tecnologia, il luogo dove le industrie più inquinanti del mondo (a cominciare dalla chimica e dalla siderurgia) diventeranno amiche dell'ambiente.
L'ebbrezza però dura il tempo di scendere le scale e uscire dal grande mausoleo che la città ha dedicato a se stessa. L'aria gelida e sferzante di pioggia è impregnata di fumi acri, la cima dei grattacieli scompare sistematicamente nello smog che la avvolge, a leggere i giornali locali (Shanghai Daily) solo l'1 per cento dell'acqua della città è potabile. Sotto le tettoie del Kentucky Fried Chicken affacciato sulla piazza del Popolo staziona in permanenza, giorno e notte, un gruppetto di homeless. Seduti su sdruciti divani che hanno visto tempi migliori, fissano la folla che passa, senza vederla. Coppie di ciechi si sostengono a vicenda mentre fanno accattonaggio. Madri con figli minuscoli attendono a tarda notte gli avventori di ristoranti e locali notturni per avere un po' di elemosina. Viene in mente l'ombra di Lu Xun, che la notte inghiotte e il giorno cancella, mentre vaga senza sapere se è il crepuscolo o l'alba, e dice «C'è qualcosa che non mi piace, nella vostra età dell'oro. Preferisco non andarci».
Nota: oltre a fare riferimento agli altri numerosi articoli sulle grandi metropoli cinesi del terzo millennio, sia su Eddyburg che su Mall (il motore di ricerca interno è uno strumento molto efficace, provando con varie parole chiave), propongo qui anche il recente articolo di Howard French sul New York Times, che racconta il caso della metropoli nata dal nulla, Shenzhen da cui è possibile anche visionare i filmati "A Chinese City Boom" (f.b.)
Urban sprawl in Europe. The ignored challenge
European Environment Agency, Report n. 10/2006
L’Agenzia Europea per l’Ambiente dell’Unione Europea, in un Rapporto da pochi giorni scaricabile dal suo sito web, ha affrontato la problematica della dispersione insediativa: una “sfida ignorata” dai governi nazionali e locali sulla quale si suggerisce che il governo europeo debba intervenire con più decisione.
Fra il 1990 e il 2000 in Europa sono stati urbanizzati più di 800.000 ettari di suolo: un’area tre volte più grande del Lussemburgo; e se questa tendenza proseguirà inalterata, si assisterà a un raddoppio del suolo urbanizzato nei prossimi cent’anni, con un impatto drammatico sui consumi di energia e di risorse territoriali e, soprattutto, sulle emissioni di gas serra ed i cambiamenti climatici. Nel Rapporto si sottolinea più volte la stretta correlazione fra deregolamentazione urbanistica e dispersione insediativa: “where unplanned, decentralised development dominates, sprawl will occur in a mechanistic way”, e si auspicano modelli compatti e policentrici di sviluppo urbano, già più volte invocati nei documenti di politiche di sviluppo territoriale dell’OCSE e dell’UE e, in particolare, nello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo. Si sottolinea altresì che compattamento e policentrismo potranno essere effettivamente ed efficacemente realizzati soltanto attraverso piani elaborati alla scala pertinente (ovviamente sopracomunale) e con indirizzi forti e condivisi.
Utilizzando la base di dati Corine Land Cover 2000 e la metodologia MOLAND, il rapporto illustra, anche attraverso la cartografia tematica, le tendenze alla dispersione all’opera su alcune macroregioni: le regioni densamente popolate, ma anche i territori che hanno beneficiato degli aiuti delle politiche regionali dell’Unione Europea e le fasce costiere. In particolare, si sottolinea il rischio che i nuovi stati membri dell’UE, per effetto dell’accesso ai Fondi di Coesione, possano nei prossimi anni registrare dinamiche di consumo di suolo simili a quelle dell’Europa più sviluppata.
Inoltre, si riportano i risultati dei casi di studio relativi a sette città che costituiscono sia buoni che cattivi approcci alla pianificazione urbana.
Nell’ultimo capitolo si affronta il tema delle politiche di governo dello sprawl urbano. Riconosciuto che gran parte dei problemi ambientali che affliggono le città sono originati da elementi esogeni (l’economia di mercato globale, le reti di traffico trans-europee, i grandi cambiamenti sociali, economici e demografici, l’inquinamento cross-boundary, etc.), si afferma con determinazione che soltanto superando la frammentazione locale e valorizzando il coordinamento intergovernativo e la pianificazione di area vasta sarà possibile porre sotto controllo un modello di sviluppo urbano che produce costi pubblici e collettivi insostenibili.
Secondo l’EEA, il governo europeo può, e deve, svolgere un ruolo importante: perché l’adesione al protocollo di Kioto gli consente di intervenire sui paesi membri che non ottemperino alle leggi in materia ambientale emanate in sede europea; e, inoltre, perché potrebbe subordinare l’attribuzione dei Fondi Strutturali e di Coesione 2007-2013 all’ottemperanza a linee guida appositamente predisposte per sollecitare un più deciso impegno dei paesi membri nel controllo dello sprawl.
Le linee guida, conclude il rapporto, potrebbero subordinare la attribuzione dei Fondi alla presenza di piani integrati alla scala sopralocale che salvaguardino il territorio rurale; alla realizzazione, da parte dei governi nazionali e locali, di investimenti volti a garantire l’adeguamento alle disposizioni legislative dell’Unione Europea in materia di qualità dell’aria, del trattamento delle acque e dei rifiuti, e dell’inquinamento acustico, e a ridurre la congestione del traffico attraverso il potenziamento del trasporto pubblico. Infine, si potrebbero co-finanziare azioni e progetti scaturiti da piani urbanistici e territoriali che pongano al centro il controllo dello sprawl e la riqualificazione ambientale delle aree urbane.
Su eddyburg_Mall la sintesi in italiano del Rapporto; da qui si può scaricare direttamente dal sito EEA Report n. 10/2006(f.b.)
Domani a Bologna si svolgerà una strana assemblea: i pendolari insieme al ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi. A organizzare la manifestazione che ha per nome «Pendolaria, la libertà di muoversi in treno» è Legambiente che ha studiato il problema, contato i ritardi stazione per stazione e contemporaneamente ha dato una mano per sviluppare la coscienza e la lotta. I pendolari, stando al pensiero dominante, sono quelli pretendono di lavorare o di andare a scuola, a molti chilometri da casa, senza neanche avere un Suv per i loro spostamenti. Il ritardo medio dei loro treni è stato calcolato in 5 minuti e mezzo. «Report» di ottobre ci ha fatto sapere che con 5 minuti di ritardo viene rimborsato il prezzo del biglietto - in Spagna. Per quanto riguarda l'Italia, i 5 minuti e mezzo di ritardo connaturati in media a ogni viaggio sono un fulgido esempio della famosa media del pollo. Ieri Milano - la Milano pendolare, 400mila persone - era furente per i settanta minuti di ritardo di molti treni. Migliaia di giornate perdute. Sono un milione e mezzo, i pendolari. L'anno scorso erano migliaia di meno; l'anno prossimo saranno forse migliaia di più. Viaggiano in treno per risparmiare denaro o il tempo necessario a parcheggiare l'auto; ma molti non vogliono inquinare e ingorgare il mondo. E considerano senza senso buttare in un'interminabile colonna di auto due ore ogni giorno. Si viaggia in treno per risparmiare vita. I settanta minuti di ritardo, non infrequenti a Milano, ma anche i trenta, anche i dieci minuti, significano perdere le coincidenze, arrivare tardi al lavoro, mancare un appuntamento, giocarsi la prima ora di scuola, lasciare in attesa un bambino al nido. Da pendolari si vive un po' peggio. In molte parti d'Italia hanno però preso coscienza, si conoscono per i frequenti viaggi e le lunghe attese insieme e sono collegati a vari siti internet. Non vogliono rinunciare al treno, non passeranno mai all'auto. Vogliono treni sicuri e puliti, un po' più comodi, un po' meno carichi. C'è poi da dire che i trecentomila pendolari che si spostano in treno, a Roma, rendono possibile la scelta dei quattrocentomila che usano l'auto. Se un giorno, presi da furore, partissero tutti in macchina, Roma sarebbe bloccata senza rimedio. Altro che i mille tassisti contrari al decreto Bersani che hanno messo in tilt la città! Il rilancio del traffico ferroviario, chiamato pomposamente «investimento sul ferro» ha avuto un ruolo importante nelle proposte del nuovo governo. A ben guardare però i grandi quattrini vanno alle autostrade, come di consueto, come ai tempi della Legge obiettivo. Quel che resta per il ferro è ripartito tra 1,5 milioni di viaggiatori pendolari e 0,2 milioni di viaggiatori per le lunghe distanze. Ma gli investimenti vanno invece per tre quarti all'alta velocità, mentre i passeggeri comuni - i pendolari - sono trascurati e abbandonati a se stessi. I loro poveri vagoni non interessano agli appaltatori dell'Alta velocità.
“ Arrivare in aereo in questa metropoli del deserto è ingannevole come un miraggio. Da 3.000 metri si vedono spazi vuoti in tutte le direzioni e si potrebbe giurare che lo sprawl suburbano possa proseguire tranquillamente senza alcun controllo. Si potrebbe giurare che non ci sono confini in vista alle lottizzazioni che si estendono per chilometri”. Inizia così, un articolo di John Ritter sulla regione di Las Vegas pubblicato lunedì scorso da USA Today, e prosegue raccontando come, una volta al suolo, chiunque inizi a rendersi conto (i costruttori di case e strade per primi) di come lo spazio sia letteralmente finito. La conclusione, molto pragmatica, è che bisogna cominciare, piaccia o meno ai pasdaran della villettopoli coi centri commerciali e affini, a diventare più città, stare un po’ più stretti e condividere gli spazi verdi, in definitiva a guadagnarci tutti in quanto a socialità, zone pedonali, varietà di ambienti. Il modello, come osservano urbanisti e investitori, è quello della città europea: compatta, a misura d’uomo, cresciuta quando ancora l’abuso di spostamenti automobilistici e grandi zone di “segregazione funzionale” non aveva iniziato a produrre quel blob indistinto.
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E noi qui in Europa, evidentemente ben consapevoli di tanta ricchezza, la ostentiamo in modo fresco, giovane, creativo: buttandola dalla finestra.
Ad esempio nell’enorme regione urbana dell’Italia settentrionale, cresciuta per quasi duemila anni secondo le grandi campiture disegnate dalla geografia: le linee degli sbocchi di valle alpini e appenninici, il serpentone del grande fiume, e di qua e di là i puntini degli insediamenti umani e le linee dei percorsi che li collegano. Con l’epoca industriale, della macchina, del vapore e dell’elettricità, i puntini si sono gonfiati e moltiplicati, le linee di connessione allargate e staccate dalle determinanti geografiche. Alle vie, e ferrovie, si sono sovrapposti e sovrimposti i “corridoi”, ahinoi!
Ahinoi, perché questi corridoi in sé sarebbero un bel concetto utile e moderno, se non venisse manipolato dai soliti sofisti a senso unico. L’idea di corridoio nasce a definire un’idea di mobilità elastica e complessa, di processo anziché di progetto. La sua interpretazione distorta diventa invece una fascia allargata tanti quanti sono gli appetiti da soddisfare, e una somma di opere varie sparpagliate dentro a questa fascia. Si evocano così i miti dei grandi spazi e delle nuove frontiere anche dove di spazi ce ne sono rimasti assai pochi, e semplicemente per saturarli di oggetti vari, di dubbia utilità e logica collocazione.
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È il caso, tra l’altro, della sedicente “città ideale” di VeMa, che come suggerisce il nome starebbe a cavallo fra le due province di Verona e Mantova. Presentata con un discreto clamore mediatico alla Biennale Architettura di quest’anno, è stata giudicata dalla stampa soprattutto per il suoi caratteri formali e storici. Anche le critiche meno passive, come quella di Maurizio Giufrè sul Manifesto, ne hanno indicato soprattutto una natura di “ anacronistico e sterile esercizio accademico”. Magari!
Esercizio accademico forse. Sterile proprio per niente, visto che su quel rettangolone dalle accattivanti forme architettoniche moderne si sono giù puntati gli interessati sguardi di banche e investitori. Ed era naturale, perché questa sedicente città ideale cala sul territorio come una vera e propria ciliegina sulla torta: la torta della “valorizzazione” a colpi di opere infrastrutturali, manco a dirlo nel contesto di almeno un paio di “corridoi”: l’ormai leggendario Lisbona-Kiev, e quello - minore ma mica tanto – che passa per il Brennero.
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E qui, nelle pianure a cavallo fra le due province, a est del Mincio, si intreccia una vicenda parallela a quella di altri nodi padani, più o meno noti e discussi. Ci sono le linee ad alta capacità (visto che la velocità ce la siamo persa per strada) ferroviaria, ci sono le grandi autostrade parallele e trasversali, e tutti i vari incroci attrezzati, stazioni, interscambi, annessi e connessi.
Del resto, come dicevo all’inizio, questo potenziale triangolo d’oro per i venditori di asfalto e precompressi non è più una steppa selvaggia almeno da duemila anni. Passava e ancora a lunghi tratti passa, l’antica Postumia romana, che sale dalle basse cremonesi, attraverso la piana di Goito, e attraverso Villafranca su fino a Verona, dove a Porta Borsari si ricongiunge alla linea pedemontana padana superiore. Non è più lastricata, naturalmente, né percorsa dai pesanti sandali delle legioni. Asfaltata, abbastanza allargata e percorsa dalle auto, salta ancora però agli occhi su qualunque cartina stradale per come taglia dritta dritta a 45° le piane di Gazoldo Ippoliti, fra Piadena e Goito. Lì a Gazoldo passa proprio davanti ai capannoni di una delle principali imprese del mantovano, e oltre: la Marcegaglia. Esattamente nel punto dove si prevede uno svincolo del futuro Ti-Bre (Tirreno-Brennero), tracciato autostradale verniciato in questo tratto su quello bimillenario della Postumia (coerenza tecnica), e che a est di Goito si curva verso Nogarole Rocca, a congiungersi con l’A22. Nel posto che hanno chiamato VeMa.
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Ma se guardate le suggestive immagini Google Earth di VeMa, non troverete traccia di tutto questo. Già: la città ideale discendente di Sabbioneta, Pienza, magari delle città di fondazione del ventennio nelle paludi redente, deve per statuto stare sospesa nell’aria, senza tempo e senza spazio.
Peccato che lo spazio lì attorno, immerso nel suo tempo, esista eccome. Naturalmente trattasi di territorio reale, non appeso alle grandi categorie dello spirito: campi, villette, nuclei storici, capannoni, macchie di bosco, fossi, strade, eccetera. Per darci un’occhiata un buon percorso è quello trasversale che comincia proprio a Goito, dove gli infiniti rettilinei della vecchia Postumia si interrompono sulla riva del Mincio, e dove superato il ponte della statale Brescia-Mantova (quella che scende dal futuro HUB/TAV di Montichiari) si entra nel territorio a est del fiume. C’è un’aria di campagna, e insieme di variante della città diffusa veneta, da queste parti, lungo la strada che taglia la pianura verso l’abitato di Roverbella e i confini provinciali. Poco più a nord, dopo la confluenza nel tracciato della Mantova-Villafranca-Verona e l’abitato di Mozzecane, un’altra trasversale attraversa dei bei campi coltivati a scatoloni precompressi, inoltrandosi a est fino all’abitato di Pradelle e al ponte sulla A22. È dall’alto del ponte, guardando verso sud che appoggiando la mano sulla spalla di un ipotetico architetto potremmo pronunciare il fatale “tutto questo un giorno sarà tuo”.
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Suo per modo di dire. Dato che fra strade, svincoli, autostrade, stazioni di interscambio e via di questo passo, la città ideale sarà disegnata secondo linee che vengono da ben altro tavolo di progettazione. Quel genere di espansione suburbana che gli storici dello sprawl ci raccontano da decenni, definito dalle decisioni della road-gang e in cui gli architetti si inseriscono firmando il trattamento a verde di un parco per uffici, o le ardite forme del nuovo factory outlet a cavallo delle otto corsie …
Pensare, che da anni i convegni più o meno affollati di accademici e pubblico risuonano della fiera intenzione di “riqualificare la città diffusa”. A prima vista, si direbbe che la riqualificazione consista nel riempire i pochi spazi rimasti disponibili, e lasciando quelli “diffusi” tali e quali al loro destino. Ci sarebbero centinaia di occasioni anche grosse di lavoro progettuale, da queste parti, ma ahimè bisognerebbe sporcarsi le mani con la città vera, con le distanze, le densità, i condizionamenti. Insomma bisognerebbe lavorare.
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Meglio, molto meglio, atterrare con la propria astronave concettuale Enterprise nel virtuale spazioporto disegnato dai corridoi intermodali, in quei terreni pronti a schizzare alle stelle in qualche piazza finanziaria, magari meno ben disegnata di quelle di VeMa, ma molto più vicina ai cuori degli investitori. Magari guardando giù dall’ Enterprise verso il mondo vero dei campi e dei capannoni, si può anche borbottare, coerentemente perplessi come il signor Spock: illogical!
E quando anche a est del Rio Mincio i gringos non troveranno più i prati con le vacche al pascolo, e da Mantova a Verona ci saranno soltanto metri cubi – griffatissimi, per carità - sparsi a profusione, potremo gemellarci con Las Vegas, la vera città ideale. Nel senso dei risultati finali, di spazio vitale tutto esaurito, si chiude: rien ne va plus.
Nota: l'articolo è stato scritto - con poche varianti - per il sito megachip.info, e quindi può contenere qualche ripetizione rispetto agli aspetti del tema trattadi da Eddyburg; faccio riferimento comunque almeno qui ai testi di: Giufré; Guerzoni; Salzano e ad una mia precisazione ; su Mall è disponibile l'articolo su Las Vegas citato in apertura di John Ritter ; altra "grande opera" non citata direttamente, ma che si intravede in una delle immagini allegate, è l'autostrada regionale Cremona-Mantova (f.b.)
Da “La città inclusiva. Argomenti per la città dei pvs”, a cura di Marcello Balbo, Franco Angeli, Milano 2002. Contributi di Jordi Borja, Rod Burgess, Fernando Carrion, Alain Durand-Lasserve, Caren Levy, Ricardo Montezuma, Annik Osmont, Laura Petrella, Carole Rakodi, Ronaldo Ramirez, Daniela Simioni, Franz Vanderschueren
La città produttiva
I testi di questo volume sono tutti attraversati da due fili conduttori.
Il primo è la crescente polarizzazione, frammentazione, esclusione che, sotto la spinta delle trasformazioni in corso nel sistema economico internazionale, investono le città dei pvs. La globalizzazione, che la si interpreti come fenomeno che ha radici lontano nel tempo, o che la si consideri invece un’innovazione specifica di questi ultimi anni, ha rilevanti conseguenze sull’or-ganizzazione e sul funzionamento economico, sociale, istituzionale e dello stesso spazio fisico della città. Liberalizzazione dei mercati e privatizzazione dei servizi, insieme alla spinta a ridurre la presenza dello Stato e la sua azione redistributiva, per quanto modesta, hanno provocato un’accentuazione degli squilibri interni alla città, l’aumento della povertà urbana, l’esclusione di un numero sempre maggiore di persone dalle opportunità offerte dalla città, il diffondersi della violenza.
All’inizio degli anni novanta si è fatta strada la consapevolezza che le città stanno al centro dello sviluppo economico: le economie urbane contribuiscono ovunque per il 60%, più spesso per il 70% o l’80%, alla produzione della ricchezza nazionale. Le città sono il motore della crescita, per questo è indispensabile che funzionino bene, che siano efficienti, che riducano gli sprechi per essere competitive sulla scena nazionale e internazionale (World Bank, 2001). Delle opportunità che la città offre (Getting the Best from Cities), la Banca Mondiale sottolinea innanzitutto, e sostanzialmente, il potenziale economico:
Le città sono fonte di produttività e innovazione. Industrie e servizi si sviluppano in città perché imprenditori e piccole imprese possono condividere mercati, infrastrutture, lavoro e informazioni. […] Le città promuovo la trasformazione della conoscenza, delle istituzioni e delle attività economiche. […] Per mantenere la promessa di migliori condizioni di vita, le città hanno bisogno di istituzioni più forti in grado di rendere più accessibili le risorse e di assicurare una più equilibrata distribuzione dei beni pubblici tra i diversi interessi” (World Bank, 2002).
La città viene vista dunque sempre più come un prodotto da vendere, ma di fatto lo è, come conseguenza della globalizzazione che obbliga a competere per catturare investitori e utilizzatori esterni, che nei pvs vuol dire sostanzialmente esteri.
Di fatto è il tema della competitività a dominare non solo le politiche urbane ma anche quelle urbanistiche, sempre più impostate intorno all’obiettivo di rendere la città attrattiva, vale a dire capace di attirare risorse da fuori. La recente “riscoperta” dei centri storici in America Latina, o nei paesi asiatici e africani, in particolare quelli del mediterraneo, nella cui cultura salvaguardia e conservazione non sono mai state particolarmente sentite, è significativa. Il recupero delle aree storiche risponde infatti prima di tutto all’esigenza di offrire qualcosa da “vendere”, nel senso ampio del termine, ma anche in quello stretto, dato che la vendita ai privati di più o meno grandi porzioni pubbliche dei centri storici è una strada che i governi locali tendono a imboccare sempre più spesso[1], nella speranza di attrarre investitori appunto, di avviare la riqualificazione di queste parti di città spesso degradate, e di ottenere qualche entrata con cui incrementare il bilancio[2].
Certo, il discorso è ammantato sempre di altri obiettivi, in particolare la salvaguardia e il recupero di un patrimonio che appartiene alla storia del luogo, ai valori culturali e all’identità stessa della città e dei suoi abitanti: obiettivi che si possono condividere e considerare del tutto legittimi, ma che appaiono secondari o comunque non disgiungibili da quelli della competizione economica[3].
Analoghe considerazioni si possono fare sul marketing urbano, diventato obbligatorio anche per le città dei pvs, ovviamente soprattutto per quelle di maggiori dimensioni. Indispensabile lo è sempre stato per quelle città che si vendevano sul mercato turistico, direttamente o ad emblema del paese, come Bangkok (Thailandia), Damasco (Siria), Dakar (Senegal) o Rio de Janeiro (Brasile), ma è diventato un terreno su cui le città sono costrette a presentarsi se non vogliono restare ai margini dei flussi finanziari e di investimento internazionali[4].
Con la globalizzazione, i meccanismi dell’integrazione diventano sempre più deboli, sia all’interno della città che rispetto al territorio che la circonda. La città produttiva approfondisce sempre più la separazione tra attività locali, informali ma non solo, in grado di sopravvivere solo perché situate in un luogo preciso e legate a un mercato altrettanto preciso, e attività che si svolgono nel mercato globale che possono benissimo fare a meno delle prime, dei loro luoghi e territori, con i quali hanno poco o nulla a che spartire.
Lo sviluppo delle tecnologie di informazione e comunicazione che sta alla base della globalizzazione, costituisce un ulteriore fattore di differenziazione. La possibilità di servirsi di queste tecnologie, teoricamente di facile diffusione, nelle città dei pvs riguarda in realtà una sparuta minoranza della popolazione, quella che dispone di una linea telefonica, che ha i soldi per comprarsi il computer, e che può permettersi di pagare la connessione a internet. Ma, di nuovo, per stare nella globalizzazione le città devono essere in grado di offrire buone infrastrutture di comunicazione: a Bangkok, paese dove il numero di linee telefoniche è superiore a quello dell’intero continente africano, vengono installate fibre ottiche lungo i “corridoi intelligenti” in modo da connettere con il centro città aree della periferia o qualche piccolo centro esterno, scavalcando tutto quello che c’è in mezzo; a San Paolo (Brasile) gli investimenti si concentrano sull’offerta di sistemi infrastrutturali estremamente avanzati per le fasce di popolazione a redito alto, mentre “la drastica riduzione dell’intervento pubblico per quanto riguarda acqua, luce e telecomunicazioni, insieme alle misure di riduzione delle sovvenzioni incrociate, mette il resto della popolazione in condizioni di svantaggio, o peggiori di un tempo” (Unchs, 2001).
L’esclusione urbana
Sotto certi aspetti, le città dei pvs sono sempre state luoghi dell’esclusione, a partire dalla colonizzazione, quando alcune di esse si sono consolidate e molte sono addirittura nate. La differenza è che oggi, nel contesto della globalizzazione, l’esclusione viene stabilita dal valore aggiunto che ognuno è in grado di apportare al prodotto città: la globalizzazione infatti esclude le persone, i territori e le attività, che non producono o non contengono valore, per lo meno quello di interesse all’economia globale.
La nozione di esclusione sociale viene spesso usata come sinonimo di povertà, anche se a volte criticata in quanto meno esplicita della seconda sulle conseguenze dei meccanismi dell’economia di mercato, della liberalizzazione, delle privatizzazioni.
Tuttavia, fare riferimento all’esclusione sociale consente di mettere in luce sia le cause della povertà e delle disuguaglianze nella città, sia le diverse conseguenze che la povertà può avere in termini di inclusione o di esclusione appunto, a seconda di variabili oltre che economiche, di classe, genere, età, appartenenza etnica o religiosa. La riflessione condotta in questi anni ha consentito di capire che la povertà è un grande problema fatto di tanti problemi diversi: sulla povertà influiscono fattori diversi, economici certo ma anche sociali e culturali, fortemente legati al contesto locale.
Per questo in città si può essere poveri senza essere esclusi, perché comunque si appartiene a un sistema di reti sociali e di meccanismi di solidarietà; viceversa si può essere esclusi senza essere poveri, anzi a volte l’essere parte dell’esclusione significa poter accedere a lavori che, per motivi diversi, altri gruppi rifiutano o, per ragioni sociali, non possono svolgere[5].
Il concetto di esclusione sociale consente anche di riflettere meglio sui legami tra fattori macroeconomici e fattori locali, quelli che si presentano al-l’interno della città, con caratteristiche specifiche in ogni città. Vi sono stretti legami tra l’esclusione legata a fattori nazionali e locali, e quella provocata dai meccanismi della globalizzazione; anzi, non di rado questa si innesta sui primi, servendosene e approfondendo disuguaglianze che già esistono (Beall, 2002).
Nella città dei pvs l’esclusione presenta essenzialmente tre dimensioni.
La popolazione esclusa da beni e servizi urbani di base come la casa, l’acqua, le fognature, i trasporti è molta: nell’Africa subsahariana due terzi della popolazione non è collegata alla rete idrica, in America Latina il fabbisogno abitativo alla fine del secolo era valutato tra i 17 e i 21 milioni di alloggi, a seconda dei criteri (Mac Donald, Simioni, 2000), mentre in Asia meno di quattro abitazioni su dieci disponevano di un qualche sistema fognario. Negli anni novanta spesso la situazione è andata peggiorando: quasi ovunque in Africa, nella maggior parte dei paesi dell’America Latina e in un numero non piccolo di quelli asiatici, compresi quelli del sudest del continente che fino alla crisi avevano visto per diverso tempo le proprie economie crescere a tassi di due cifre.
Invece, casa, infrastrutture e servizi sono componenti essenziali di quella “domanda di città” che occorre soddisfare perché sia riconosciuto davvero il “diritto alla città”, ma questa non è la condizione in cui si trova la maggior parte delle città dei pvs, in particolare quelle di grandi e medie dimensioni.
All’esclusione dai servizi urbani e da condizioni abitative adeguate[6] si accompagna la sempre maggiore difficoltà di avere un lavoro se non fisso almeno stabile, pagato adeguatamente e regolarmente, in condizioni dignitose. In qualsiasi città dei pvs è il settore informale a fornire un reddito a quote elevate della popolazione, non di rado per la maggioranza. Negli anni novanta, con la dismissione o la riduzione di molte delle attività del settore pubblico, imposte dai Programmi di aggiustamento strutturale, sono state le “microimprese” a fornire la quasi totalità di nuovi posti di lavoro: le attività informali oggi sono ormai la principale fonte di occupazione urbana nella maggior parte delle città.
La terza dimensione è quella dell’esclusione dalla rappresentanza politica e dalla presa di decisioni. Chi vive nei quartieri dell’irregolarità del suolo o della casa, in particolare quelli ai margini o fuori dalla città che spesso nemmeno appaiono nelle carte; o chi, ma non di rado si tratta delle stesse persone, lavora quando e come può nelle precarie attività dell’informale, meno instabili di quanto si sia portati a pensare ma comunque esposte ai rischi di una situazione anch’essa spesso di irregolarità, se non di illegalità: questi gruppi di popolazione difficilmente vengono riconosciuti come parte della società urbana e dunque non possono avanzare alcuna pretesa di far parte della città intesa come istituzione politica, di essere citoyens e non semplici citadins.
La città dell’esclusione
Il secondo filo conduttore è però che se la città esclude, ad escludere non è la città, ma il contesto di mercato globale in cui si collocano crescita e trasformazioni urbane.
In Argentina, dove più del 90% della popolazione è urbana, per la crisi conseguente alle politiche liberali “suggerite” dal Fondo Monetario Internazionale, nel primo semestre di quest’anno il pil è diminuito del 16%, con ovvie drammatiche conseguenze sull’occupazione e i redditi, prima di tutto quelli urbani. In Indonesia, la brusca fine del miracolo asiatico della metà degli anni novanta ha fatto diminuire il pil del 15%, ancora oggi non completamente recuperato: anche in questo caso, come in tutti gli altri paesi del sudest asiatico che hanno vissuto lo stesso processo, gli effetti sulle città sono stati devastanti, con il vero e proprio blocco di interi settori produttivi, primo fra tutti quello della costruzione, la drastica diminuzione dei consumi, l’aumento vertiginoso dei poveri urbani.
Progetti e investimenti per migliorare le condizioni di vita della popolazione urbana, in particolare quelle delle fasce più povere, dipendono in misura più o meno ampia dai flussi di risorse che vengono dall’estero: in alcuni casi si tratta dell’unica fonte su cui si può contare. Tuttavia, i programmi pubblici di aiuto allo sviluppo, finanziati dagli organismi multilaterali o dalle cooperazioni bilaterali, oltre che essere assai poca cosa[7], nella maggior parte dei casi sono instabili e imprevedibili, a volte con obiettivi discutibili. Quelli che più contano, sotto il profilo quantitativo, sono di gran lunga gli investimenti privati[8], la cui priorità è ovviamente la redditività degli investimenti, non certo la riduzione degli squilibri o una maggiore giustizia sociale.
A questo si somma la minore presenza dello Stato e la conseguente diminuzione delle sue capacità di ridurre le disuguaglianze. Liberalizzazione e privatizzazione significano quanto meno recupero dei costi, più spesso ricerca, legittima, di un profitto. Realizzare questi obiettivi lasciando da parte meccanismi di compensazione tra gruppi sociali con capacità economiche fortemente diverse, significa escludere importanti quote di popolazione dall’accesso alla casa, all’acqua, ai trasporti, al mercato del lavoro formale, cioè dal “diritto alla città”.
Le strategie urbane, e urbanistiche, costituiscono a loro volta fattore di esclusione. Gli insediamenti informali sono il risultato di politiche errate, conseguenti alla volontà di rispondere alla domanda di alloggi a basso costo attraverso l’intervento pubblico, secondo un modello consolidato nei paesi del Nord, ma del tutto inadatto a fornire un’offerta abitativa sufficiente nei pvs. La città “irregolare” è la risposta all’assenza di alternative praticabili, non la volontà o il desiderio di irregolarità dei suoi abitanti. Allo stesso modo, l’assenza o l’insufficienza di infrastrutture e servizi in molte parti della città derivano dall’adozione di standard e soluzioni tecniche incompatibili con le risorse, pubbliche e private, disponibili (Balbo, 1999).
Le attività informali per lungo tempo sono state osteggiate, pur rappresentando non solo la parte più dinamica dell’economia ma, in quanto meccanismo di redistribuzione delle risorse, anche il principale fattore di integrazione sociale e di contenimento della conflittualità. Esattamente come nel caso degli insediamenti irregolari, il problema sta nell’assenza di alternative. Nessuno ambisce a un’occupazione precaria, mal pagata, svolta in condizioni ambientali spesso al di là dell’accettabile, con il continuo rischio di essere cacciati o, se va bene, multati per i motivi più diversi.
Ad escludere non è dunque la città, ma i meccanismi del mercato globale rispetto ai quali liberalizzazione e privatizzazione sono scelte quasi obbligate che amministrazioni e attori locali hanno poche possibilità di contrastare, ammesso che lo vogliano, pur trattandosi di scelte che aggravano ulteriormente gli squilibri di una crescita urbana non poggiata su una concomitante crescita economica e dei redditi.
L’idea della città produttiva è andata sempre più prevalendo su quella della città come luogo di incontro, di mediazione e di integrazione sociale, e amministrazioni e attori locali hanno poche o nulle possibilità di contrastare tali meccanismi
Per una città più inclusiva
È indispensabile invece che la città sia, o torni a essere, “inclusiva”.
“La ‘città inclusiva’ è il luogo dove a chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla razza o dalla religione, è permesso partecipare produttivamente e positivamente alle opportunità che la città ha da offrire.” (Unchs, 2000).
Città produttiva e città inclusiva sono due modi di essere non facilmente conciliabili. Con il decentramento, il compito di combattere gli effetti di esclusione, è affidato ai governi locali, ma per mettere in atto strategie inclusive occorre stabilire a quale inclusione si pensa, in che termini, a vantaggio e nell’interesse di chi: alla nozione di città inclusiva si possono dare infatti significati molto diversi, traendone strategie altrettanto differenti.
L’inclusione non può ridursi all’integrazione degli insediamenti irregolari e delle attività informali nei meccanismi del mercato formale della casa, dei suoli, del lavoro. Questo significherebbe disconoscere le differenze, non ammettere che le città e le società urbane dei pvs si sviluppano in contesti istituzionali, seguendo norme sociali e secondo sistemi di valori specifici, non sempre riconducibili alla logica del mercato ormai dominante.
La lotta all’esclusione e il rafforzamento dell’inclusione richiedono politiche urbane, economiche e sociali all’interno delle quali sia chiaramente posta la questione del diritto alla città: politiche integrate in cui i temi della povertà, delle condizioni insediative, delle opportunità di reddito siano affrontati congiuntamente, come si usa dire, in maniera integrata.
Per questo occorre che i meccanismi decisionali siano anch’essi “inclusivi”. Governance e pianificazione strategica sono strumenti indispensabili di una strategia di inclusione, che non possono però essere utilizzati in un’ottica di competizione e di marketing.
L’esclusione, la frammentazione della società e dello spazio urbano sono la risposta di alcuni segmenti della popolazione di fronte all’incapacità o all’impossibilità dei governi di gestire la crescita della città e le sue trasformazioni. Gli insediamenti irregolari possono essere visti come la risposta “dal basso” all’insufficiente offerta di case a basso costo, così come la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti possono essere considerati l’alternativa alla mancanza di un servizio pubblico, o alla sua privatizzazione.
Ma la città inclusiva non può fondarsi sulla frammentazione delle sue parti, su condizioni e funzionamenti così profondamente diversi. Per restare il luogo dell’incontro, della mescolanza e dell’integrazione delle differenze, l’unica strada percorribile sono politiche che promuovano una più equa distribuzione delle risorse, e gli attori primi di queste politiche oggi sono inevitabilmente i governi locali.
Nelle città dei pvs, dove senso di appartenenza, coesione sociale e concetto di cittadinanza risultano sempre più deboli, l’inclusività appare ogni giorno più difficile da ricostituire con gli strumenti di governo tradizionali.
Non esistono risposte univoche, ma la costruzione di un Progetto di città, che parta dalla ridefinizione dei modi della rappresentanza di gruppi e dei singoli individui sembra aprire uno spiraglio per contrastare le tendenze all’esclusione. Governance significa partecipazione e partenariato, dunque prima di tutto riconoscimento di tutti e delle differenti capacità, possibilità e aspirazioni. Urban governance significa assumere l’ipotesi della città come soggetto sociale e politico complessivo, insieme di soggetti diversi che, partecipando alla costruzione di un Progetto di città, si misurano intorno a un’idea attorno alla quale i differenti interessi si organizzano, i gruppi sociali si confrontano e si incontrano arrivando, forse, a mobilitarsi per cercare di realizzarla.
Rispetto a un’inclusione nel e di mercato, la differenza è dunque sostanziale. Governare la città e i suoi processi non può limitarsi a garantire quante più condizioni possibili per un buon funzionamento dei meccanismi dell’economia. Si tratta invece di ricomporre gli interessi dei singoli intorno a una nuova identità urbana collettiva, a un ricostituito senso di appartenenza, a una ristabilita convergenza su, e a partire da, un territorio.
Nel quadro della competizione tra città cui si trovano assoggettate anche, e forse prima di tutto, quelle dei pvs, le alternative che si danno sono ben poche: o si riesce a far parte della globalizzazione, o se ne sta fuori. Stare fuori è assai facile, spesso lo si è già. Complicato è entrarci, o semplicemente restarci, perché i posti disponibili sono pochi. È una competizione che può non piacere, ma è certo che è meglio parteciparvi che essere semplici spettatori. Nella città dei paesi in sviluppo non è possibile mobilitare le risorse necessarie (forse non sufficienti) per stare dentro alla globalizzazione, senza trovare un punto di incontro tra i diversi interessi da cui muovere per la costruzione di una città inclusiva.
Se è vero che chi vive nei quartieri irregolari o lavora nell’informale contribuisce in misura sostanziale a far funzionare la città, è tempo che la città contribuisca altrettanto sostanzialmente a migliorare le condizioni di questa popolazione, riconoscendo il suo diritto alla città e alla cittadinanza.
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[1] Il ruolo assunto da Carlos Slim, il proprietario della più importante catena di televisione messicana e una delle persone più facoltose dell’America Latina, nel recupero del centro storico di Città del Messico, è forse il caso più emblematico.
[2] Non a caso il recupero dei centri storici si traduce prima di tutto nella loro trasformazione in vetrine di negozi, ristoranti e caffè piacevolmente disseminati nei palazzi, nelle corti e nelle strade stesse.
[3] Del resto lo affermava esplicitamente il Prefeito di Salvador de Bahia, Magalhaes, cosciente del fatto che di spiagge come quelle che circondano la città, bellissime, in Brasile ve ne sono migliaia di chilometri, mentre di centri storici come il Pelourinho ve ne è uno solo, che occorreva dunque riqualificare e “risanare” dai suoi abitanti, per poterlo vendere.
[4] Vi sono ormai manifestazioni internazionali organizzate appositamente per il marketing urbano, con annessa vendita, come l’annuale Marché International des Professionnels de l’Immobilier (Mipim) di Cannes.
[5] Come la raccolta dei rifiuti, o comunque di lavori socialmente stigmatizzati, da sempre svolti da, e riservati a, particolari gruppi sociali o etnici.
[6] Questa la formula, volutamente indefinita, adottata a Istanbul nel 1996 dalla Conferenza Habitat II e da allora usata nelle sedi internazionali.
[7] L’impegno di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del pil è stato sempre disatteso: attualmente l’Italia destina poco più dello 0,1%, gli Stati Uniti ancora meno.
[8] Nel 1998 il rapporto tra finanziamenti pubblici per lo sviluppo e investimenti privati è stato di uno a due per i paesi a basso reddito; di uno a otto in quelli a reddito medio (World Bank, 2001).
Titolo originale: Differing approaches to growth management – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sul margine occidentale del centro di Baltimora, case a schiera dalle finestre inchiodate e lotti liberi segnano la posizione di Poppleton, un tempo vivace quartiere interno, alla vigilia di una radicale trasformazione.
Entro il prossimo anno, inizierà la demolizione di centinaia di case vuote per far posto a nuove abitazioni unifamiliari, palazzine e appartamenti con un investimento di 300 milioni di dollari. Il recupero dell’area di Poppleton è una delle priorità sia del sindaco Martin O'Malley che del Governatore Robert L. Ehrlich Jr.
Il progetto illustra bene similitudini e differenze nel modo in cui i due contendenti alla carica di Governatore dello stato vogliono gestire la poderosa crescita del Maryland. Con la prevista riorganizzazione della base militare e le relative migliaia di nuovi nuclei familiari e posti di lavoro verso il Maryland nei prossimi anni, i sondaggi mostrano che la crescita è uno dei temi principali nelle elezioni di quest’anno.
“La gente vuole vedere le cose cambiare davvero” sostiene Dru Schmidt-Perkins, direttore esecutivo a 1000 Friends of Maryland, gruppo che sostiene una urbanizzazione compatta e la tutela delle superfici rurali. “Si cercano i rapporti con cose come scuole, traffico, tasse. Si vogliono vedere soluzioni”.
Entrambi i candidati alla carica di Governatore sono favorevoli alla riorganizzazione dei vecchi centri urbani come strumento per governare la crescita verso l’esurbio. Ma le loro storie, e le loro argomentazioni, si differenziano significativamente sui modi per farlo.
L’amministrazione Ehrlich orienta i propri sforzi per costruire collaborazioni con le amministrazioni locali, secondo un approccio che a sentire i rappresentanti statali sta producendo risultati. Ma i sostenitori delle tutele storiche e ambientali affermano che l’amministrazione repubblicana è rimasta in gran parte passiva di fronte alle intense pressioni a edificare, particolarmente ai grandi progetti residenziali sulla costa orientale e nel Maryland occidentale.
O'Malley e i suoi collaboratori promettono che, se sarà eletto, lo stato sarà più aggressivo nel governo della crescita. Si indicano a questo proposito i successi ottenuti nel recupero dei quartieri urbani degradati di Baltimora. Ma alcuni rappresentanti dei comitati cittadini di quartiere affermano avvertire disagio riguardo al rapporto troppo buono fra il sindaco democratico e i costruttori, a spese degli edifici storici.
Il Maryland è il quinto stato per densità di popolazione negli USA e le previsioni dell’ufficio censimento danno una crescita da 5,5 milioni di persone nel 2005 a 7 milioni nel 2030. Limitazioni politiche e giuridiche ai ritmi di crescita in molte circoscrizioni suburbane, possono significare che molta di questa nuova popolazione finirà per cercarsi casa o nelle città, o negli ex campi dove oggi esistono poche regole urbanistiche.
Anche se in un primo tempo aveva tagliato finanziamenti e personale rispetto agli sforzi pionieristici verso la Smart Growth del suo predecessore, Ehrlich ha dichiarato il proprio sostegno al contenimento dello sprawl, ma a modo suo. Due anni fa, ha lanciato Priority Places, programma che offre sostegno tecnico e normative statale ai progetti di recupero nei vecchi centri e quartieri urbani, come Poppleton a Baltimora.
“Ritengo che si sia fatto qualcosa mai riuscito prima: rivitalizzare le veccie città così che la gente non voglia spostarsi verso zone agricole e centri minori” ha dichiarato Audrey Scott, ministro per la pianificazione.
L’amministrazione indica anche le riforme legislative introdotte per spingere i piani di recupero in 159 ex zone industriali, dette “ brownfields”, per una superficie totale di 1.000 ettari. Ricorda anche I programmi per insediamenti coordinati al trasporto pubblico su aree di proprietà statale in tutto il territorio, come il complesso State Center in centro a Baltimora.
Ma si sono finanziati poco, questi simbolici programmi Priority Places. Ad esempio l’intervento di Poppleton, avanza quasi esclusivamente su fondi della città e dagli accordi con un costruttore privato.
“Sto ancora aspettando che arrivino davvero i vantaggi” commenta a questo proposito Paul T. Graziano, a capo del Department of Housing and Community Development comunale, nominato da O'Malley.
L’amministrazione Ehrlich con la sua versione della Smart Growth si è anche attirata forti reazioni. Il programma Live Near Your Work, innovativo per l’assistenza all’acquisto della casa, è stato ampliato – o indebolito, a seconda dei punti di vista – per abitazioni entro quaranta chilometri dal posto di lavoro.
I responsabili statali dicono di aver collaborato con le amministrazioni locali a migliorare i piani di sviluppo, colpendo quando necessario alcuni comuni – ad esempio Westminster e Mount Airy nella Carroll County, o Queenstown nella Queen Anne's County – che consentivano di costruire ad esaurimento delle disponibilità d’acqua o di depurazione.
Ma altri accusano l’amministrazione Ehrlich di non aver fatto di più per scoraggiare l’urbanizzazione nelle zone esterne, in particolare il progetto Blackwater Resort nella Dorchester County e la proposta Terrapin Run nella Allegany County.
Il Planning Department statale ha approvato il piano della città di Cambridge per un progetto turistico vicino al Blackwater National Wildlife Refuge, sostenendo che era obbligato a farlo. Poi una commissione statale che controlla l’insediamento sulla costa della Chesapeake Bay ha negato l’autorizzazione.
Stephan Abel, portavoce del Department of Natural Resources ha dichiarato ieri che lo stato annuncerà oggi ufficialmente l’acquisto di 300 ettari di superficie nei pressi della riserva, precedentemente destinato all’edificazione.
L’amministrazione trattava sin da agosto la cessione, ha precisato Abel.
Ha sostenuto che i tempi dell’annuncio – il giorno prima delle elezioni – non hanno niente a che vedere con la politica. “L’iter si è precisamente concluso in coincidenza con questa data”.
Per quanto riguarda il progetto della contea di Allegany, i funzionari statali dicono di non aver ancora deliberato sulle questioni idriche perché è troppo presto per farlo. L’approvazione locale del progetto è in corso di esame da parte di un tribunale per un ricorso.
La League of Conservation Voters cita il caso di questi progetti e la volontà statale di esaminare la possibilità di vendere acque dai propri terreni, come motivi per dare un voto insufficiente all’amministrazione Ehrlich in fatto di Smart Growth. Gli ambientalisto criticano anche il governatore per aver sottratto 480 milioni di dollari alla tutela delle superfici dall’urbanizzazione, anche se a seguito del miglioramento dei bilanci statali questi fondi sono stati ripristinati.
“La sue tendenza spontanea non è quella di proteggere l’ambiente; è di lavorare coi costruttori”, commenta Cindy Schwartz, direttrice esecutiva della League, che ha base ad Annapolis.
Ehrlich è sostenuto dal comitato di azione politica del Maryland Farm Bureau. Earl Hance, che ne è presidente, spiega che i coltivatori non incolpano il governatore di aver sottratto i fondi di tutela dei territori per risanare il bilancio, e apprezzano il fatto che siano stati reintrodotti.
O'Malley ha promesso invece di riattivare lo Office of Smart Growth statale, che Ehrlich aveva ridotto ai minimi termini e poi accorpato al Planning Department. Si è anche impegnato ad offrire più sostegno tecnico e finanziario alla pianificazione territoriale locale.
I suoi collaboratori sottolineano come durante la sua amministrazione democratica la città abbia sperimentato un boom edilizio senza precedenti, e come si sia interrotto l’esodo di popolazione di lungo termine da Baltimora.
La città ha istituito un fondo di rotazione di 59 milioni di dollari per acquisire e bonificare terreni, che si alimenta poi attraverso la vendita delle superfici ai costruttori privati. Nessun significativo finanziamento è arrivato né dallo stato né dal governo federale, si afferma.
In tutto il territorio comunale, la quantità di case vendute annualmente si è quasi raddoppiata dal 1999 al 2005, e lo stesso hanno fatto le concessioni edilizie rilasciate. Il valore medio di un’abitazione venduta, contemporaneamente, è più che raddoppiato rispetto al 1999, raggiungendo i 179.000 dollari.
“Più crescita avviene qui, meno si orienta verso i campi di granturco, e questo fa bene allo stato”, spiega Graziano, commissario per la casa di O'Malley.
Non tutti in città considerano rincuoranti i risultati di O'Malley in materia di recupero.
“É promuovere la crescita ad ogni costo” commenta Paul Warren, vicepresidente della Mount Vernon-Belvedere Association. “Dal punto di vista ambientale, starei molto attento se lui [O'Malley] controllasse anche terreni agricoli. Mi chiedo se sarebbe altrettanto rapido a cederli di quanto a fatto con le proprietà storiche”.
Il gruppo della zona di Mount Vernon si è scontrato con l’ufficio urbanistica cittadino per il progetto di consentire edifici alti entro il corridoio storico di Charles Street: una battaglia che alla fine ha vinto. Ma il gruppo ha invece perso nell’opporsi alla demolizione del vecchio complesso ad appartamenti Rochambeau su Charles Street, eseguita per conto della Arcidiocesi di Baltimora che vuole realizzare un giardino di preghiera di fronte alla restaurata Basilica dell’Assunzione, principale cattedrale cattolica del paese.
Alcuni citano anche altri esempi di demolizioni di edifici storici, come quella da parte dell’Università di Baltimora dell’Odorite, una ex concessionaria di automobili in stile simil-Tudor costruita nel 1915, per far posto a spazi per gli studenti.
I collaboratori di O'Malley difendono la gestione pubblica di questi progetti e affermano che sono stati fatti tutti gli sforzi per conservare le strutture storiche della città e i quartieri. Indicano il recente pagamento di 6 milioni di dollari da parte del comune all’Università, per realizzare un nuovo parco cittadino di 20 ettari su spazi aperti a Mount Washington.
I giudizi esterni sui progetti di recupero sono in genere positivi. Un critico senza peli sulla lingua di cose urbane, come James Howard Kunstler, ad esempio, dopo un giro a Baltimora lo scorso anno ha scritto che la città “ha compiuto un’incredibile ripresa, in gran parte su dimensioni proiettate verso il futuro” con una “ottima miscela di rinnovi e nuove realizzazioni”.
I punti di vista dei contendenti sul governo della crescita
Smart Growth
Ehrlich: Taglio di fondi e personale allo Office of Smart Growth, accorpato al Maryland Department of Planning, dove coordina Priority Places, programma che offre aiuto tecnico e normativo ad alcuni progetti di recupero selezionati. Istituzione di task force con funzionari locali per affrontare i problemi di revisioni circoscrizionali e della casa economica.
O'Malley: Si impegna a ripristinare l’ufficio per la Smart Growth, con “nuova enfasi sulla creazione di vere collaborazioni con le municipalità e le contee” nella pianificazione territoriale in tutto il Maryland. Promette maggiori finanziamenti e sostegno tecnico.
Tutela delle superfici:
Ehrlich: Ha spostato 480 milioni di dollari dal Program Open Space per risanare buchi di bilancio statali, e ha bloccato temporaneamente i programmi di tutela. Più tardi ha ripristinato i fondi, conservando 30.000 ettari: 4.000 in meno del primo mandato del suo predecessore.
O'Malley: Fisserà l’obiettivo di conservare una quantità di territorio maggiore ogni anno, di quanta non ne venga consumata dall’urbanizzazione. Promette di “finanziare pienamente” il Program Open Space, per acquisire superfici da destinare a parchi e riserve naturali.
Insediamento turisticoaBlackwater
Ehrlich: Il Planning Department statale ha inviato a Cambridge una lettera in cui si delineano le preoccupazioni, e che ha ottenuto alcune concessioni. Ma la destinazione da parte della città delle superfici annesse a “ priority funding area” significa finanziamento di strade e altre infrastrutture. I funzionari sostengono di non poter legalmente bloccare il progetto, ma lo stato dovrebbe annunciare oggi l’acquisto di 300 ettari nei pressi del fiume Little Blackwater.
O'Malley: In un primo tempo ha dichiarato che il progetto era di competenza locale, ma più tardi ha sostenuto i conservazionisti nella loro richiesta allo stato perché salvasse il Little Blackwater e la riserva naturale a valle, acquistando i terreni.
Conservazione storica:
Ehrlich: Ha sostenuto le leggi per il credito di imposta sulla conservazione degli edifici storici. Ha aumentato i finanziamenti per le “ heritage areas” a 3 milioni di dollari. Si è opposto alla demolizione dell’Odorite – concessionaria d’auto del primo ‘900 –da parte dell’Università di Baltimora.
O'Malley: Ha accantonato il piano di rinnovo della zona occidentale che avrebbe demolito molti vecchi edifici, chiedendo un certo equilibrio fra conservazione e nuovi interventi. È stato però criticato di recente dai conservazionisti per aver consentito la demolizione dell’Odorite e del Rochambeau, e per il sostegno agli edifici alti a Mount Vernon.
Nota: per chi non lo sapesse, ebbene sì: ha vinto il democratico O'Malley (f.b.)
Alberto Annicchiarico,Ikea raddoppia entro il 2010 e sbarca in Sicilia, Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2006
Il signor Ikea, con la sua passione per brugole e viti, si sa, non è tipo da accontentarsi facilmente. Così se il fatturato italiano 2006 sale a 1,1 miliardi, in crescita del 24,3% e, quindi, fa anche meglio del +17% delle vendite in tutto il mondo (a 17,3 miliardi di euro), la multinazionale svedese dell'arredamento intende rafforzare a breve e medio termine la presa sul Belpaese. Il nostro mercato è maturo, ma ancora tra i più redditizi.
I mega-negozi gialli e blu che dai primi anni '90 hanno iniziato a popolare le periferie della grandi città, sono destinati a moltiplicarsi rapidamente. Di fatto è previsto un raddoppio, da 4.476 a 8.665 dipendenti, di qui al 2010, con otto nuovi punti vendita (Ancona-Camerano già a fine mese), compresa la relocation di Milano-Corsico, che diventerà il centro più grande d'Italia e tra maggiori in Europa. Nel Sud Napoli ha fatto da apripista nel 2004, a Bari l'inaugurazione è fissata per la metà di febbraio 2007. In gestazione, poi, ci sono Salerno e, tornando a Nord, Trieste e Parma. Spicca lo sbarco in Sicilia, con l'avvio del cantiere a dicembre e l'apertura entro il 2007 a Catania. Seguirà Palermo. Ancona e a Bari, intanto, si aggiungeranno agli 11 negozi già esistenti, e nel 2006-7 saranno creati circa mille nuovi posti di lavoro. Italia, insomma, al centro dei piani di espansione, alla pari di Giappone, Russia, Cina e Turchia. Dodici gli Ikea store aperti nel mondo negli ultimi sei mesi (il totale è di 237 in 34 Paesi) e altri 19 entro il 2007.
Il colosso fondato da Ingvar Kamprad nel 1943, diventato un brand mondiale di culto grazie alla formula del design alla portata di tutti, resterà solidamente ancorato al suo modello di crescita. Non sono alle viste acquisizioni né quotazioni in Borsa. «Il nostro core business - spiega al Sole24Ore.com l'amministratore delegato di Ikea Italia Retail, Roberto Monti, 45 anni - è e rimane l'home furnishing. Non abbiamo intenzione di ampliare il perimetro delle nostre attività, piuttosto opteremo per una copertura geografica sempre migliore attraverso i nuovi punti vendita. Il Giappone è un esempio in questo senso: è un mercato enorme, abbiamo inaugurato il primo negozio a Tokio in aprile». Manco a dirlo, è già un successo. «Le cose, in effetti, vanno già molto bene, questa settimana se ne aggiungerà un altro e contiamo di andare oltre la capitale. Lo stesso vale per Cina e Russia, senza dimenticare i paesi occidentali. Tra i paesi in fase di maggiore di sviluppo ci sono proprio l'Italia, che è il mercato a maggior crescita tra quelli consolidati, poi la Francia, gli Stati Uniti e, naturalmente, la Germania. Quanto alla Borsa, non è compatibile con la nostra filosofia di bassi margini uniti a forti economie di scala ed efficienza di gestione».
Tra i segreti della crescita in Italia, dove Ikea ha il 5,1% della quota di mercato, c'è, ovviamente, l'allargamento della base della clientela. È l'andamento a doppia cifra a sorprendere ancora. «Mantengono un andamento molto positivo del +10-15% - dice Monti - anche i punti vendita aperti da dieci o quindici anni. Un peso fondamentale ce l'ha la politica dei prezzi che serve a non perdere i clienti più fedeli e a portarne di nuovi». Fatto 100 nel 1994, l'indice dei prezzi al consumo, secondo i dati della società, arriverà a 134,4 nel 2007 contro l'88,5 del catalogo Ikea. Nel settembre 2005 la riduzione media dei prodotti è stata del 5,3% con investimenti per 57 milioni di euro. A settembre 2006 la politica di tagli al listino continua: -2% con un investimento di circa 23 milioni. «Il ceto medio ha sempre più bisogno di contare su un'offerta di arredamento adatta a mezzi economici più limitati, ma è anche vero che cambia l'attitudine dei consumatori (il 43% degli italiani che visitano Ikea è laureato, età media 40 anni, il 72% ha una casa di proprietà, ndr): oggi si lega meno il valore del marchio al costo del prodotto».
Tra le novità in vista, seppure in embrione, l'arrivo dei prebbricati BoKlok (circa 70 metri ad appartamento, si monta in un giorno, costo intorno ai 40mila euro) già inseriti in programmi di edilizia sociale in Scandinavia e in fase di consolidamento anche un primo esperimento in Gran Bretagna. «Non intendiamo correre - precisa Monti - BoKlok è un progetto prematuro per l'Italia. Abbiamo però accertato che l'interesse per abitazioni alternative c'è. Anche in questo caso l'Italia è tra i Paesi più interessanti: è ancora troppo bassa l'offerta di case di qualità a prezzi accessibili».
Il sito Infocommercio nella sua newsletter dell’ottobre 2006 precisa che:
La svedese Ikea, con la multinazionale delle costruzioni SkanSka, propone nel suo catalogo anche case prefabbricate (palazzine fino a 4 piani con appartamenti e villette) a prezzi varanti da 25.000 euro a 45.000 con il nome BoKlok (in svedese, “vivere in modo ecocompatibile”). All’interno di ogni appartamento una o due camere da letto, cucina arredata, bagno con doccia e ripostiglio. La costruzione/assemblaggio viene realizzata da operai specializzati in meno di un mese. Nel 2007 verrà costruito a Glasgow in Scozia un intero quartiere “povero” BoKlok.
[per inciso, si tratta di un intervento concordato con il locale Housing Council per la zona di Drumchapel: vedi l'ultimo articolo di questa rassegna]
Dal sito Boklokhttp://www.boklok.com/
L’idea generale
BoKlok offre buone case a basso prezzo per tutti. Abitazioni di alta qualità e ben progettate. Le case BoKlok sono uniche, per forma e funzione. Sono abitazioni smart, adatte ai bisogni quotidiani della famiglia moderna. Il nostro marchio di fabbrica sono ampi spazi interni luminosi con alti soffitti. E anche piccole zone residenziali ben concepite dove si conoscono i vicini e ci si sente tranquilli e sicuri.
Terreni
Per realizzare la nostra idea di bassi prezzi, non cerchiamo spazi nelle zone più esclusive. D’altra parte, sono indispensabili buoni accessi a comunicazioni e servizi. L’acquisizione delle aree si attua attraverso i nostri agenti nei rispettivi bacini geografici di mercato.
Caratteristiche dei luoghi [esempio dal caso Gran Bretagna]
BoKlok cerca di realizzare nuove abitazioni in tutta la Gran Bretagna. Siamo particolarmente interessati a localizzare i nostri interventi nelle zone della Grande Londra, in Kent, Surrey, Sussex, Hampshire, Yorkshire, Teeside, Tyneside e Scozia Centrale.
La linea di prodotti Boklok attualmente offre abitazioni nei formati di blocchi ad appartamenti da sei alloggi in su. Ciò premesso, siamo alla ricerca di aree adatte alla costruzione di complessi da 12 a 100 alloggi.
Prendiamo in considerazione aree sia già destinate dai piani che prive di destinazione, sia zone per case economiche che terreni disponibili sul libero mercato.
Abbiamo una buona disponibilità di risorse e possiamo agire rapidamente per quanto riguarda l’acquisto dei terreni.
Il prodotto BoKlok è particolarmente adatto a zone di proprietà degli organismi pubblici, dove l’edificazione può contribuire a realizzare case economiche per il segmento residenziale intermedio.
Prodotti
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Le case BoKlok sono progettate per dare la sensazione di abitare in una casa davvero propria. I complessi sono di pochi piani, con un numero di isolati contenuto. A completare il senso di comunità e l’ambiente sicuro, i cortili interni e gli spazi verdi con panchine e alberi da frutto.
Gli interni sono progettati accuratamente con una pianta aperta flessibile, alti soffitti e ampie finestre, che conferiscono agli appartamenti un carattere arioso e contemporaneo.
Il nostro cliente
BoKlok mira a rivolgersi a un pubblico più vasto possibile, nella fascia di reddito media e leggermente inferiore alla media.
Il nostro cliente sarà:
- il piccolo nucleo familiare
- la famiglia di lavoratori dipendenti con un reddito medio di circa 20.000-45.000 € l’anno
- persone che non possono accedere alle abitazioni sociali
- acquirenti della prima casa
- persone attualmente allontanate per motivi di prezzi, saturazione di proprietà, orientamento all’affitto, dalla zona scelta
E, per concludere, un estratto da un bollettino locale di Glasgow dell'anno scorso, che riassume l'ottima strategia di penetrazione del prodotto
(red.) Un nuovo quartiere, Drumchapel (bollettino locale dell’omonimo sobborgo di Glasgow), ottobre 2005 – http://www.drumchapel.org - Titolo originale: New Neighbourhood
Il consiglio comunale di Glasgow ha scelto il gruppo per il recupero di una superficie di 50 ettari a Drumchapel
Il consorzio vincente - New City Vision – è composto dai costruttori Bishopsloch, Cannon Kirk Homes e Laing O’Rourke.
Il progetti per Drumchapel riguardano la trasformazione di otto aree industriali dismesse. In un arco di cinque anni, saranno costruite 1.208 case per famiglie, e insieme negozi di quartiere, strade, percorsi pedonali, illuminazione, spazi verdi. Il presidente del consiglio municipale Steven Purcell, ha dichiarato: “Drumchapel si è davvero trasformata molto negli anni recenti, con nuove abitazioni, spazi per il tempo libero, verde, scuole e sport.
“Ma sappiamo ceh c’è ancora molto da fare.
“Questo nuovo intervento porterà veri vantaggi alla zona. Le nuove case contribuiranno ad attirare persne a vivere a Drumchapel assicurando un futuro da comunità vitale. Non si tratta semplicemente di nuove abitazioni: ne verranno anche posti di lavoro e occasioni di formazione professionale. É un processo di rinnovamento sociale, inserito in un programma che sto promuovendo in tutta Glasgow”.
Il consorzio ha anche precisato che collaborerà con IKEA, il produttore svedese di arredamenti, per realizzare case sperimentali standard in una parte dell’intervento. Anche la Royal Strathclyde Blindcraft Industries fornirà il 20% dei componenti del complesso, prodotti industrialmente altrove.
Il progetto, secondo le linee stabilite dal Consiglio municipale, deve essere un piano di realizzazione con priorità all’acquisto da parte di chi è in cerca di prima casa, e lavoratori nei settori chiave dei servizi. Altri importanti elementi del contratto fissati dall’amministrazione sono che il consorzio vincente dovrà collaborare con la Drumchapel Opportunities, agenzia di sviluppo locale, per gestire un processo di formazione e garantire posti di lavoro agli abitanti.
Il consorzio è andato anche oltre, impegnandosi a lavorare con l’impresa locale Blindcraft, creando altri 40 posti di formazione-lavoro e istituendo una propria agenzia di collocamento collegata alla Drumchapel Opportunities per dare lavoro sia nei cantieri che nei servizi di mensa istituiti per i lavoratori.
New City Vision ha dichiarato che una volta portato a termine il progetto, sarà messo a disposizione un fondo comune di un milione di sterline per contribuire alla manutenzione da parte degli abitanti.
Il consigliere Hanzala Malik, responsabile del Development and Regeneration Services Committee, ha dichiarato: “Questo programma di rigenerazione cambierà radicalmente l’aspetto di Drumchapel portando vantaggi economici e sociali alla comunità locale. Offrirà anche alle famiglie un’occasione per un salto qualitativo in termini di abitazione, con un’offerta che va dalle case economiche a quelle per il ceto medio superiore.
“Il Consiglio ha stabilito che l’impresa costruttrice prescelta deve creare posti di lavoro locali e formazione professionale. Siamo lieti di annunciare che la cosa durerà sia nel periodo di cinque anni della costruzione, che in un programma successivo”.
Le linee del Consiglio hanno espressamente richiesto che i progetti rappresentino un caso eccezionale di qualità, con ampia scelta di tipologie, ad assicurare a Glasgow un suburbio attraente, desiderabile e sostenibile. […]
Nota: è sorprendente - fatti i necessari aggiornamenti - la stretta analogia fra la proposta BoKlok, e il suburbio preconfezionato anni '50 alla Levittown; estratti e traduzioni dal sito BoKlok sono miei (f.b.)
10.2004 - Uno scambio di messaggi, a proposito di un articolo su Eddyburg. L'editing e la traduzione in italiano sono di F. Bottini.
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Il governo battuto dall'opposizione rientra nel «normale» gioco politico. Meno normale che le truppe berlusconiane - la Casa delle libertà - si siano accanite contro la povera gente: sono al massimo 200 mila le famiglie a rischio di sfratto. Oltretutto. quello bocciato ieri al senato non era l'ennesimo blocco degli sfratti che per legge tutti i governi dal dopoguerra a oggi sono stati «costretti» ad approvare. Insomma, non si trattava di una legge generalista di blocco, ma di un decreto molto selettivo, visto che a essere garantite (per appena tre mesi) erano le famiglie a basso reddito e con figli a carico o con persone con seri handicap. O, ancora peggio, di famiglie con malati terminali o ultrasettantenni.
Che diranno ai loro elettori e alle loro coscienze i cattolici senatori dell'Udc? E come si giustificherà Fini con la sua base popolare che ricorda con nostalgia l'epoca delle case popolari del fascismo? Brinderanno alla vittoria della minoranza ottenuta sulle spalle di 200 mila famiglie? Il silenzio quasi assordante della Casa della libertà è un segnale che, forse, qualcuno un po' di vergogna ce l'ha. Al contrario dell'Uppi, l'associazione dei piccoli proprietari di case che ha brindato alla bocciatura. A conferma che ormai quasi tutto quello che è piccolo in Italia (a partire dalla struttura industriale) fa schifo. Di più: i piccoli proprietari non si rendono conto di essere una razza in via di estinzione che porta acqua unicamente ai grandi gruppi immobiliari che si sono impadroniti (esentasse) di enormi patrimoni.
Negli anni '70 nei cortei urlavamo «la casa si prende, l'affitto non si paga: questa è la nostra riforma della casa». Forse c'era un po' di estremismo. Forse. La riposta è stata l'equo canone che (secondo i padroni) ha ingessato il mercato. Ma quello che è peggio case in affitto non se ne trovavano più. Oppure l'affitto si doveva pagare (salato) in nero. Di qui, sempre dei padroni, la richiesta: liberalizziamo il mercato degli affitti. Vedrete che le case torneranno a essere disponibili e la concorrenza produrrà una riduzione degli affitti.
Ma non è andata così: gli enti pubblici, le assicurazioni hanno cominciato a vendere il loro patrimonio e milioni di famiglie la casa sono state costrette a comprarla. Con grandi sacrifici, mangiando «pane e sputo» come si dice a Roma. Gli immobiliaristi hanno poi fatto il resto: soprattutto nelle grandi città hanno comprato (e venduto) grandi quantità di immobili. Con loro sull'affitto non si tratta: arrivano con moduli prestampati dove la cifra è già scritta. E case di periferia diventano quasi care come appartamenti del centro. Prendere o lasciare.
L'Italia è all'ultimo posto in Europa per patrimonio pubblico abitativo. Un tempo era al primo posto: beati i tempi del piano «Fanfani case» quando lo stato direttamente o indirettamente costruiva case in abbondanza svolgendo (magari con qualche scandalo) il suo ruolo. Certo, i soldi molto spesso arrivavano dagli stessi lavoratori, attraverso la ritenuta (la Gescal) prelevata direttamente dalla busta paga. Ora quella ritenuta non c'è più, ma sono in molti a farsi forti con i soldi (il Tfr) dei lavoratori: i padroni e dal prossimo anno lo stato. In cambio i lavoratori non hanno nulla: potrebbero pretendere che il governo di centro sinistra utilizzi parte di quei soldi per finanziare l'edilizia per le famiglie con problemi economici e sociali. Epifani, Angeletti e Bonanni e Angeletti dovrebbero battere un colpo.
In queste settimane (fino al 19 novembre) l’Arsenale di Venezia e i Giardini della Biennale, ospitano l’esposizione «Città, architettura e società». Un percorso denso di contenuti, questioni e problemi aperti, attorno ad un fatto inedito nella storia dell’umanità: da qui a pochi anni, il 75% della popolazione mondiale abiterà nelle città (molti in metropoli o città regione che dir si voglia). Questo è il principale elemento problematico che scatena l’onda di dati, immagini, progetti e simulazioni che si dispiegano nelle corderie dell’Arsenale (dove l’esposizione affronta «forma e vita di 16 città/regione» del pianeta) e poi, in modo più metaforico (per usare un delicato eufemismo), ai Giardini, dove sono rappresentati 50 Paesi e oltre 100 città.
Se si prova a dedurre la conseguenza esplicita dell’affermazione problematica alla base della 10.a Biennale di Architettura, logica dice che la parte minoritaria dalla popolazione mondiale - il 25% appunto – da qui a pochi anni vivrà in uno sterminato territorio (cioè la grandissima parte del suolo terrestre) semi abbandonato, nel quale il paesaggio rurale e naturale sono il terreno di risulta sul quale poggiano le infrastrutture che portano linfa ai nodi vitali – le città regioni/regine – e dal quale è facile immaginare scomparirà ogni segno storico e sociale della «produzione primaria».
Su questo impianto la tesi che sembra uscire dai curatori della mostra campeggia in un titolo - quasi intimidatorio - a grandi caratteri, tra le prime sezioni: «la forma urbana determina il futuro del Pianeta». In altri termini, è la città, quella «iper e super», densa e compatta, con i suoi segni e con i suoi contenuti che produrrà la direzione di marcia per la società di questo secolo. Ed è su di essa che l’architetto – di nuovo demiurgo! – grazie ad operazioni orientate soprattutto all’intensificazione e alla densificazione di queste ipercittà, potrà imprimere un segno fisico capace di sferzare lo sviluppo degli uomini verso orizzonti di «sostenibilità, inclusione, uguaglianza sociale, tolleranza...».
Ecco spiegato lo slogan «salire anziché uscire» nella sezione dedicata a Londra. Dove si dice – in sostanza – che siccome la capitale del Regno Unito ha una bassa densità, l’edificazione di grattacieli è la giusta prospettiva per scongiurare la «suburbanizzazione» e la «dispersione insediativa», e per concretizzare gli obiettivi di solidarietà e sostenibilità appena ricordati.
Per Milano poi l’elogio del grattacielo si fa addirittura enfatico (e forse ironico): «dopo anni di scarsa attività del mercato, a Milano si sta iniziando nuovamente a costruire (..) creando una nuova tipologia ad alta densità che sortirà effetti radicali sull’immagine e sul paesaggio urbano».
L’Italia contribuisce al ragionamento su «Città, architettura e società» con «invito a VEMA», la nuova città di fondazione che secondo Franco Purini – il suo ideatore – dovrebbe sorgere nei pressi di Nogarole Rocca, tra le province di Mantova e Verona, in un luogo ritenuto strategico perché attraversato da due corridoi della rete europea dei trasporti. Una città utopica per 30 mila abitanti, dove rifondare i valori della vita urbana, da opporre alla patologica dispersione insediativa, che affligge, con i suoi alti costi collettivi, la bassa padana. Così il gesto dell’architetto traccia il solco nel vergine suolo agricolo, tra le terre del formaggio Grana e quelle del riso Vialone Nano, e disegna un rettangolo aurico entro il quale si accenderà la fiamma della vita sociale. Provocazione o seria intenzione? Non è chiaro. Gli sponsor del progetto sono però tutt’altro che incerti: tra gli altri l’Associazione degli Industriali, il Collegio dei Costruttori, e la Banca Agricola Mantovana.
E’ comunicata fino all’esasperazione la parola chiave di questa Biennale: «forma». La forma, il disegno, il tracciato, l’architettura, l’edificio, sono ad un tempo ineluttabile destino e matrici di nuove e magnifiche sorti per il genere umano. Siamo costretti a vivere in città, alcuni anche in megalopoli, perciò è lì che si deve concentrare la ricerca per una vita migliore. Lì che l’architetto progetta un nuovo ordine etico. E il territorio? E il conflitto che ha generato questa ineluttabile tendenza all’inurbamento globale? E i governi - l’espressione democratica della volontà dei cittadini - che sono tra i principali attori di questi fenomeni? E l’ipotesi di costruire reti e sistemi policentrici, per riconquistare equilibrio tra urbano e rurale, sostenuta addirittura dall’Unione Europea nemmeno due lustri fa? E l’emergente cultura del recupero e della manutenzione (del paesaggio, della città, dei sistemi locali, ecc.)? Dove stanno le riflessioni a proposito di questi temi? Non sono forma, ma sostanza. Questa può essere una prima risposta ad una pesante assenza. E la sostanza si fatica a mettere in mostra.
L’urbanistica e il governo del territorio, quelle attività fatte soprattutto da un sistema al cui centro stanno i cittadini e i loro rappresentanti, e al cui margine stanno gli architetti, sono processi tutt’altro che estetici; sono faticose costruzioni collettive, che disegnano prospettive per il futuro non sempre tradotte in opere (grandi o piccole) ma in flussi, dialettiche, comportamenti, stili di vita, tendenze; o meglio in «politiche». Politiche che sono – per loro natura - lontane dal glamour che accompagna i progettisti alla moda.
Non che il progetto e le sue forme siano poco importanti per le città. Edifici e attrezzature, infrastrutture e spazi pubblici, hanno bisogno di buoni progetti, capaci di cogliere a pieno la contemporaneità e i mille volti della complessità. Ma esse non sono lo strumento che modifica «la vita». Sembra infatti pericolosamente semplicistico sostenere che da un gesto architettonico si possa conseguire un effetto diretto sugli stili di vita, per esempio, di una comunità.
Esemplare, in questo senso, è il caso di Napoli. La sezione Metrò-Polis della Biennale si concentra sui progetti e sulle realizzazioni delle stazioni della metropolitana: spesso splendide architetture che portano la firma dei nomi più prestigiosi dello star system internazionale, da Fuksas a Siza, da Rogers a Botta. Inafferrabile o addirittura assente è invece l’imponente lavoro che da oltre due lustri il Comune di Napoli sta portando avanti, nella progettazione integrata di un complesso sistema di trasporti pubblici con le previsioni urbanistiche del Piano Regolatore: operazione - questa sì - che muterà sensibilmente non solo il volto della città ma anche la vita dei suoi cittadini. I quali godranno, oltretutto, di stazioni e fermate bellissime. Oltretutto, appunto.
E’ condivisibile quindi l’accento che i curatori della Biennale pongono sulla necessità di limitare il consumo di suolo vergine, stabilendo dei limiti all’invadenza patologica dell’urbanizzazione a bassa densità. Come pure è condivisibile il tentativo di affrontare l’inurbamento epocale verso il quale ci stiamo dirigendo, invocando giustamente termini quali inclusione, mobilità sostenibile, uguaglianza sociale, tolleranza, disponibilità di spazi pubblici. Ma se si vuole andare oltre le provocazioni e le allegorie proposte dalla decima Biennale di Architettura, bisogna forse che architetti e progettisti facciano un passo indietro. Bisogna che si riconosca che è solo da un processo dialettico, olistico e di lungo periodo, che le città potranno trovare una via più equilibrata allo sviluppo; si deve dire con chiarezza che nessuna forma, alta o bassa, di pietra o d’acciaio, può ordinare la vita di una collettività; e, infine, bisogna riconoscere il territorio nel suo insieme come campo di studio, di progetto e di verifica, per comprendere e delineare il futuro delle società, prima che delle città.
Manuela Cartosio, Alitalia, un hub di troppo. Quale?, il manifesto, 17 ottobre 2006
Oggi Prodi incontra l'ad di Alitalia Cimoli. Non si placa la guerra tra filo Malpensa e filo Fiumicino. Innescata da Rutelli
Ieri in Borsa il titolo Alitalia ha guadagnato 5 punti, la metà di quanti ne aveva persi giovedì scorso, dopo che Prodi aveva definito «fuori controllo» la situazione dell'ex compagnia di bandiera (211 milioni di perdite nel primo semestre dell'anno). Il recupero cade alla vigilia dell'incontro di oggi tra il presidente del consiglio e l'amministratore delegato di Alitalia Giancarlo Cimoli. E nel bel mezzo di un ritorno di fiamma della «guerra degli hub», combattuta tra il «partito» di Fiumicino e quello di Malpensa.
Il ministro dei trasporti Alessandro Bianchi definisce il faccia-faccia di oggi «un passaggio nodale» per capire l'atteggiammento dell'azienda verso l'iniziativa del governo che si è assunto la «responsabilità» di definire una nuova strategia per far uscire Alitalia dalla crisi. Nuova, nel senso di diversa da quella disastrosa di Cimoli. In sostanza, Bianchi indica la porta all'amministratore delegato. Che, per togliere il disturbo, chiede una congrua ricollocazione, oltre a 8 milioni di buonuscita. Da Madrid ieri Prodi ha smorzato l'allarme rosso lanciato la settimana scorsa: «Le possibilità di ripresa per Alitalia sono ancora molto forti. Credo potrà avere un ruolo in futuro». Da sola o alleandosi con altri compagnie? «Lo decideremo entro il 31 gennaio, mi sono preso tre mesi per riflettere».
Mentre Prodi riflette, il vicepremier Rutelli domenica ha scodellato la sua ricetta per salvare la compagnia aerea in un'intervista a Repubblica che ha fatto il botto per due righe: Alitalia è andata a rotoli «anche» per colpa di Malpensa. A sentir dire che l'hub della brughiera è il tallone d'Achille dell'Alitalia ii sindaco di Milano Letizia Moratti è insorta, con una contro-intervista: «Malpensa non è il problema ma la soluzione ai problemi della compagnia. Se il governo non lo capisce, non fa un dispetto a Milano o a me. Lo fa all'azienda. Un'Alitalia concentrata su Fiumicino sarebbe condanna a una lenta agonia».
E' divampata la guerra (verbale) trasversale ai partiti e ai sindacati: Nord pro Malpensa, Roma pro Fiumicino. «Un derby stucchevole Roma-Milano, un dibattito sconclusionato e superato», l'ha definito Rutelli per disconoscerne la paternità, «io ho posto temi completamente diversi: liberalizzazione di voli, complementarità tra aeroporti e nuove alleanze che guardano a Est». Ma la complementarità rutelliana è a tutto vantaggio di Fiumicino. I «nordici» hanno capito l'essenziale e si sono regolati di conseguenza.
Il presidente lombardo Formigoni chiede «subito» un incontro con il governo per sapere se, come Rutelli, è intenzionato a fregarsene dei «30 milioni di cittadioni e dei 3 milioni di aziende del Nord che hanno bisogno di volare in tutto il mondo». E' «ingeneroso» imputare a Malpensa i guai dell'Alitalia, osserva il presidente della Provincia di Milano Penati (Ds). Per il leghista Maroni, abbandonare Malpensa sarebbe una tragedia per Alitalia, perderebbe tutto il traffico business e diventerebbe una compagnia «laziale». Cimoli «crede» in Malpensa, «per questo vogliono farlo fuori». Sul fronte opposto, il presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo sottoscrive le dichiarazioni «equilibrate e lungimiranti» di Rutelli. Il sindaco Veltroni, compare di Rutelli, fa il pacifista: «No alla guerra tra Roma e Milano».
In Lombardia i sindacati dei trasporti fulminano Rutelli. A livello nazionale cercano di salvare capra e cavoli, ma sotto sotto pendono per Fiumicino. «Alitalia è un compagnia nazionale, non potrà mai essere una municipalizzata né di Roma, né di Milano», dice Fabrizio Solari, segretario della Filt-Cgil. Il segretario della Cisl Bonanni condivide «alcuni elementi» del piano Rutelli
Alberto Statera, "Basta dualismi Milano-Roma o il Paese va allo sfascio", la Repubblica, 17 ottobre 2006
Veltroni: Alitalia da salvare come fu per l´Iberia. Il sindaco di Roma replica anche a Cacciari: che abbiamo mai tolto a Venezia con la festa del cinema?
Complici gli aeroporti, che sono una cosa seria, ritorna la «questione settentrionale» forse meno seria, con uno spreco di diatribe provinciali degno di miglior causa. Roma o Milano, Milano o Roma? Fiumicino o Malpensa, Malpensa o Fiumicino? Sembra andare in bianco e nero - spettacolo eterno e stucchevole - l´Italietta Anni Cinquanta che vuole il meneghino serio e laborioso, il romano insopportabile e cicalone come il marchese del Grillo; la capitale morale del Nord grigia, seria e negletta, la capitale ufficiale della Repubblica arruffona e ladrona.
Il vice premier ed ex sindaco di Roma Francesco Rutelli, col suo piano di salvataggio dell´Alitalia, a fin di bene ha riacceso la miccia, il suo predecessore da vice premier e successore da sindaco Walter Veltroni invoca «l´intelligenza complessiva delle cose», usando non a caso un´espressione dell´ex arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini.
Sindaco Veltroni altro che intelligenza complessiva delle cose, dicono da destra che lei è il vero capo della lobby di Fiumicino, che lavora solo per Roma, che vuole affossare Malpensa, che frega a Venezia il festival del cinema, facendo imbufalire il presidente del Veneto forzista Giancarlo Galan, ma anche il sindaco di centrosinistra Massimo Cacciari.
«Se si continua a ragionare così sa che cosa succede? Che questo Paese va per aria. Non esiste una questione di Milano, di Roma, di Venezia, di Fiumicino e di Malpensa. Non esiste neanche su queste basi una questione settentrionale. Esiste soltanto un´unica grande questione nazionale. Non c´è il meridione, il settentrione e il centro. Smettiamola con questo ottuso conservatorismo, con la sindrome di Vicenza, col dualismo Roma-Milano che fa sorridere in tempi di globalizzazione».
Ci dica della lobby di Fiumicino, sindaco Veltroni.
«Dico che se si fa la guerra tra Malpensa e Fiumicino, la sola vittima sarà l´Alitalia. Ciò che non deve accadere, perché non c´è grande Paese che non abbia una compagnia di bandiera».
Compagnia di bandiera? Ma come, mettiamo ancora in mezzo la bandiera? Non cerchiamo, a parte la bandiera, di fare una società che abbia i voli necessari, a prezzi civili, che arrivi in orario e che magari sia privatizzata?
«Dico compagnia di bandiera per ragioni diciamo sentimentali. Nel senso che un grande Paese come il nostro non può fare a meno di una grande compagnia aerea. L´Alitalia purtroppo è scesa da una quota di mercato del 55 per cento al 41 per cento, mentre l´Iberia è stata salvata e rilanciata. La Spagna, più di noi, si dimostra un Paese che ha voglia di futuro, non ha paura di cose nuove. E´ una nazione che riesce a ragionare in modo sistemico, in termini di Paese, non di città o di aree geografiche. Noi continuiamo invece a incagliarci spesso in qualche amenità».
Sindaco, la prego: torniamo su Fiumicino e Malpensa.
«Milano e Roma hanno vocazioni diverse. Roma più turistica, Milano più business. Milano ha un problema grave tra Malpensa e Linate, anche perché è Linate con le rotte internazionali che frega Malpensa. L´Alitalia, da parte sua, non ha saputo distinguere tra dimensione turistica e business. Ci sono due milioni di passeggeri che vanno su hub non nazionali per le destinazioni africane. Peggio: l´Alitalia ha cancellato i voli per San Paolo del Brasile che erano al 78 per cento, per Chicago al 76, per Sydney all´85, per Manila all´81. Il mercato potenziale da Roma non servito attualmente è pari a 3.100.000 passeggeri. Pensi poi che oggi ho partecipato a una riunione che aveva lo scopo di spostare un po´ di traffico da Ciampino a Fiumicino, perché Ciampino non ce la fa più con i voli low cost. Se poi la clientela del Nord non va a Malpensa, ma a Francoforte o a Parigi, di chi è la colpa?».
Lei, sindaco, dicono che voglia diventare una specie di zar del turismo italiano.
«L´affluenza turistica a Roma è aumentata del 25 per cento in tre anni e del 10 per cento nell´ultimo anno. Abbiamo già firmato un protocollo con Alitalia, Aeroporti di Roma e Camera di commercio per garantire un afflusso sui 3 o 4 milioni di passeggeri aggiuntivi su Roma».
Complimenti, ammesso che Alitalia esista ancora, lo vada a spiegare ai piccoli imprenditori del lombardoveneto, che vi accusano di volergli togliere pure Malpensa oltre a tutte le infrastrutture promesse, mentre loro faticano con l´industria e voi ve la cavate col turismo.
«L´Alitalia esisterà ancora perché noi abbiamo a cuore il destino dei lavoratori e crediamo nella responsabilità dei sindacati. Non voglio invece soffermarmi sugli errori commessi tra Roma, Linate e Malpensa, dove tra l´altro si perde il doppio dei bagagli che si perdono a Fiumicino. Dico solo che Roma ha un prodotto interno lordo pari a quello dell´Ungheria o della Repubblica Ceca. Non accetto perciò una polemica piccina di questo genere. La questione, ripeto, non è Roma e Milano, o Nord e Centro, o Sud. Roma e Milano possono e devono svolgere il ruolo più forte per tirare il Paese, non possono dividersi su Fiumicino o Malpensa. Io voglio ragionare sul Paese, non instillare nuove paure. Roma ha quello che ha. Milano ha la Scala, il Piccolo, l´arte contemporanea. Con Letizia Moratti ce lo diciamo sempre e siamo d´accordo».
Scusi, sindaco Veltroni, lo sappiamo che lei è per definizione buonista e vuole sempre mettere tutti d´accordo, ma qui la questione è un po´ complicata, è il Nord che dice di non capirvi più e che voi non capite loro. Un cortocircuito?
«Questo è un Paese di società veloce e di democrazia lenta, un Paese che ha bisogno di decisioni sulle infrastrutture, lo sa il Nord e lo sa il Sud. Sugli aeroporti, sulle strade. Non ci si può perdere su questioni territoriali o di campanile. Ma purtroppo abbiamo assorbito i veleni della Lega di Bossi, di tutti quelli che volevano bruciare il Colosseo. La Lega ha meno successo del passato, ma gli epigoni di centrodestra, pur un po´ meno scortesi, sono uguali a loro».
Massimo Cacciari dice che il centrosinistra con il Nord ormai ha chiuso, soprattutto dopo la storia Fiumicino-Malpensa. Si lamentano anche per la festa del cinema di Roma, una sua invenzione che vivono come un furto a Venezia.
«Ma che cosa abbiamo mai tolto a Venezia? Abbiamo avuto a Roma decine di migliaia di persone, successo, affari. Cos´è questo conservatorismo diffuso, ormai fuori tempo, localistico e non nazionale?».
Lo dica a Cacciari.
«No, lo dico a me stesso. Dico che l´idea che la sinistra parlamentare sia bella e il governo brutto non funziona, salvo che l´esecutivo non diventi una dittatura, o quasi, come è capitato nell´epoca Berlusconi. Il nostro è un sistema politico fragile, a causa della legge elettorale. Bisogna introdurre un´accelerazione e un compattamento delle coalizioni, un punto apicale in cui si assumano le responsabilità, con un bilanciamento democratico».
Serve forse la bella Repubblica presidenziale o la monarchia, sindaco Veltroni, per decidere il destino di Malpensa o di Fiumicino?
«Forse serve un sistema politico meno debole di quello attuale».
Cacciari dice che occorre il Partito democratico come panacea di tutti i mali, compresa la questione settentrionale. Ma che c´entra il Partito democratico con la questione settentrionale?
«Cacciari ha ragione, se si riferisce al bisogno di uno schieramento coeso, a precise indicazioni programmatiche e a forti elementi di stabilità nel governo. Così, Malpensa o non Malpensa, con il Nord non avremo chiuso».
postilla
A qualunque dei variegati punti di vista riassunti sopra si voglia aderire, o meno, dovrebbe saltare agli occhi la grande incertezza di prospettive entro cui ci si sta muovendo. Il che mette ancora più in rilievo le sciagurate (a dir poco) scelte recentemente documentate da Eddyburg di articolazione e sviluppo quantitativo, da un lato delle polarità aeroportuali dell’area padana, dall’altro della ben più corposa rete di opere e insediamenti che si portano fatalmente appresso. Basta ad esempio confrontare le prospettive della ineluttabile crisi di Malpensa come esposte qui sopra, con l’urgenza che Lega e Forza Italia lombarde mettono nell’accelerare le procedure del Piano d’Area per Montichiari, secondo hub per accogliere fantomatici traffici smistati dal “sovraccarico” di Malpensa. E nella relazione del Piano d’Area per Montichiari si spiega chiaramente che con la stazione Alta Capacità ferroviaria lo scalo si troverebbe a solo un’ora da Venezia, quindi in grado di fungere pure da “porta dell’est”.
Peccato che, in contemporanea, a Venezia vengano presentati gli altrettanto faraonici progetti per “Marco Polo City”, altro mega-polo aeroportuale con cementificazione annessa, che si rivolge al medesimo bacino di utenza (magari nella relazione c’è scritto che con la TAC si arriva a Montichiari in un’ora …).
Ciò premesso, si vedano per Montichiari, gli articoli HUB? BURP! sul Piano d’Area , la cronaca di Francesco Di Chiara da Bresciaoggi della prima assemblea VAS sul progetto , e una mia nota pubblicata dal sito Megachip.info col titolo L’ombelico della Megalopoli Padana; per Marco Polo City il riferimento è all’ampia rassegna di articoli raccolti recentemente qui su Eddyburg (f.b.)
La dispersione insediativa costituisce una tipologia di occupazione del territorio periurbano connotata da alcune specifiche “patologie”: discontinuità dell’urbanizzato accoppiata a crescente segregazione funzionale e sociale; riduzione nell’intensità d’uso delle risorse territoriali non giustificata dalle dinamiche di crescita demografica ed occupazionale; perdita di habitat naturali e di biodiversità; incessante incremento della mobilità su gomma, con effetti di sovraconsumo di energia, di congestione delle infrastrutture stradali e di elevato inquinamento ambientale; impossibilità di fornire un adeguato servizio di trasporto collettivo; maggiori oneri nella distribuzione dei servizi; banalizzazione e omologazione dei territori di frangia metropolitana sfigurati e colonizzati da “non luoghi” (grandi centri commerciali, sale multiplex, factory outlet, discoteche, parchi a tema,…); indebolimento dei legami cui è affidata la coesione sociale…
Malgrado gli elevatissimi consumi di suolo periurbano, forse più che altrove nel nostro paese siamo ancora alla ricerca di quadri analitici e interpretativi condivisi e, soprattutto, di efficaci strumenti normativi e progettuali per governare gli effetti indesiderabili dello sprawl: in questo senso, la partecipazione di alcune regioni italiane al progetto EXTRAMET costituisce una occasione importante per lo scambio di idee e di esperienze sul che fare per quei territori ibridi di confine urbano-rurale definibili come “campagna urbanizzata” in cui si manifestano “fenomeni di urbanizzazione cui non compete il titolo di città” (Salzano, 2002) e che richiedono nuovi approcci di pianificazione integrata e alla scala pertinente.
Svilupperò la mia riflessione avanzando in primo luogo alcune considerazioni sulle cause della dispersione periurbana e sui suoi costi pubblici e collettivi. Ma questi aspetti sono ormai ben noti e mi limiterò pertanto ad evocarli molto sinteticamente.
Metterò invece a fuoco con maggiore dettaglio alcuneinnovazioni possibili in materia di governo della dispersione insediativa periurbana, sulla base di alcune mature riflessioni che si vanno strutturando a livello internazionale, sia nell’ambito della ricerca sia in quello della legislazione e della pianificazione territoriale e urbanistica, ricorrendo alla esemplificazione di alcune Buone Pratiche all’opera.
Sembra a me che le pratiche più fertili si stiano indirizzando lungo tre direzioni principali: maggiore flessibilità del processo di pianificazione intesa come costruzione di una migliore capacità governance territoriale; nuove regole prescrittive per il controllo del consumo di suolo da applicare alla scala territoriale pertinente; nuova progettualità ancorata a principi di mercato corretto e di sostegno economico premiale alla cooperazione intercomunale.
Titolo originale: Sprawl Has Different Causes Than Chicago Author Suggests – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
[Recensione: Sprawl: A Compact History (Chicago 2005), di Robert Bruegmann]
Fra le cose per cui Chicago è famosa, come i grattacieli del XIX secolo o i panorami sulla riva del lago, c’è quell’oggetto di culto dell’economia noto come “Scuola di Chicago”. I suoi adepti predicano che un dio onnivedente e onniscente chiamato “Mercato” ci guiderà fino alla Terra Promessa se lasciato libero di agire.
L’Università di Chicago l’anno scorso ha pubblicato un libro di Robert Bruegmann, storico dell’arte della windy city, intitolato Sprawl: A Compact History. Appena uscito in edizione economica, si nota come il libro sia permeato dalla Scuola di Chicago nello stesso modo in cui le curve delle strade disegnano le lottizzazioni.
Secondo Bruegmann, lo sprawl ha messo a disposizione del ceto medio il tipo di abitazioni di cui un tempo poteva godere soltanto l’aristocrazia. Effetti collaterali, come la perdita di spazi aperti o la congestione da traffico sono messi da parte, e i critici dello sprawl bollati come culturalmente elitari. Cantando le lodi dello sprawl come trionfo popolare, Bruegmann evita altre spiegazioni del fenomeno, come i prestiti federali a tasso ribassato, o le autostrade costruite coi fondi pubblici.
Dal mio punto di vista è soprattutto la spesa pubblica nelle reti di trasporto – locale, statale, federale – a portare la responsabilità maggiore per l’insediamento sparso a bassa densità che caratterizza lo sprawl degli ultimi tre quarti di secolo, sia a livello nazionale che nella nostra regione dei Tre-Stati. Lottizzazioni, centri commerciali e direzionali, semplicemente non potrebbero esistere senza le strade, superstrade ad accesso limitato e relativi svincoli e articolazioni, realizzate dal governo.
Nello stesso modo in cui all’inizio del XIX secolo i canali hanno prodotto delle città organizzate attorno ad essi; come un secolo fa linee ferroviarie e tranviarie hanno determinato i cosiddetti streetcar suburbi, coi centri urbani attorno alle stazioni; così strade e freeways nel XX secolo hanno determinato lo sprawl. Sono sempre i trasporti ad aver costruito il tipo di insediamento, ed è il governo ad aver condizionato le modalità dei trasporti. Una tendenza che inizia con l’antica Roma, quando si costruiscono le vie attraverso l’Europa, o con lo Stato di New York che realizza il canale Erie nel 1817, fino alle amministrazioni che oggi costruiscono strade e aeroporti. Potrei scommettere, che il livello di diffusione insediativa di un paese oggi possa essere previsto guardando al bilancio generale degli investimenti per i trasporti, alle percentuali destinate a modalità addensanti come quelli collettivi, o decentratici come le strade.
Bruegmann cerca di evitare il rapporto fra sprawl e una determinate modalità di trasporto, affermando che le città “si diffondono da tempi immemorabili”. Anche i ricchi antichi romani, nota Bruegmann, amavano le ville in campagna. Ma si tratta solo di una falsa analogia. Certo, c’era qualche abitazione o fattoria all’esterno delle città medievali, ma stare appena fuori dalle mura della Barcellona medievale nell’ Anno Domini 1200 non è esattamente la stessa cosa che abitare a ottanta chilometri di Interstate I-10 da Houston, oggi.
Ad un certo punto, Bruegmann afferma: “non è davvero logico dare la colpa dello sprawl nel dopoguerra alle freeways … non ci sono motive particolari per ritenere che il decentramento causato dalle strade sia stato in qualche modo diverso da quello causato dalle ferrovie”.
Ma davvero? Le ferrovie un secolo e mezzo fa hanno determinato un’estensione in città come New York, ma non è la stessa cosa della dispersione. Le densità generali erano più elevate, nelle città, con le ferrovie e le metropolitane, di quanto non avvenisse prima della loro introduzione, il che è molto diverso da quanto accaduto dopo le autostrade. É un problema di fisica. Posto semplicemente, è impossibile stipare più di tante case e attività attorno ad una strada perché tutte le auto utilizzate da abitanti e lavoratori devono essere depositate da qualche parte. Le stazioni ferroviarie e della metropolitana non hanno questo problema. Inoltre, sono necessarie molte più corsie stradali per far muovere il medesimo numero di persone, rispetto ai binari.
Ciò non significa che Sprawl sia del tutto un brutto libro. Lo storico dell’arte è un meraviglioso osservatore, e si è sobbarcato molti e frequenti viaggi da frequent flier attorno al globo per documentare le varie tipologie insediative del XX secolo. Le sue descrizioni di questi territori in nazioni da noi meno conosciute come Germania, Italia, India o Thailandia, accompagnate da foto dell’autore, sono magnifiche. Ha anche ragione quando afferma che la tendenza in questi paesi è verso lo sprawl, non ad allontanarsene.
Ma come sa chiunque abbia mai posseduto un’azione, le differenze nei decimali contano. É certo che l’Europa occidentale tenda allo sprawl. L’ho descritto nel mio articolo del 1995 “ Eurosprawl”. Ma il sistema dell’urbanizzazione è ancora molto più compatto, ad esempio in Francia, solo per citare uno degli esempi chiave. Le persone abitano case più piccole, ma hanno più accessibilità alla campagna, camminano e vanno in bicicletta di più, passano meno tempo bloccati nel traffico. Gran parte degli americani non hanno queste possibilità, anche se molti abitanti della regione dei Tre-Stati le hanno. Ma Bruegmann non sa o non vuole vedere tutto questo, e continua a presentare lo sprawl come fonte di più occasioni, anziché di meno.
Per le stroncature a Bruegmann si veda su Mall quella di Josh Stephens per Planetizen (oltre a quella del sottoscritto linkata sopra); qui sono stati pubblicati anche vari testi dello stesso Bruegmann, reperibili attraverso il motore di ricerca (f.b.)
Titolo originale: Road to Progress, or End of a Rural Lifestyle? Scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini
“ COMPRATI un pezzetto di West Virginia!” strilla un cartello su una strada a due corsie serpeggiante, qui nell’area rurale della contea di Hardy, 170 chilometri a ovest di Washington. Campi ondulati e belle tenute coltivate che risalgono ai primi dell’800, condividono sempre più da vicino il paesaggio degli Appalachi con tratti del Corridoio H, strada federale a quattro corsie progettata a metà anni ’60, ma che si sta costruendo soltanto adesso.
Parte del piano nazionale autostradale legato alla difesa nel periodo della guerra fredda, il Corridoio H era pensato per offrire una via di fuga dalla capitale nazionale in caso di emergenza. Ai nostri giorni, alcuni abitanti della ancora sonnacchiosa cittadina di Moorefield, capoluogo di contea, giudicano la strada più un collettore di sprawl urbano che un percorso di fuga.
Come indica quel cartellone, nella contea di Hardy sono lottizzati e in vendita pezzi di ex piantagioni, a prezzi che si rivolgono a diversi interessati: abitanti di Washington e della Virginia settentrionale che cercano uno spazio che si possano permettere fuori dall’area metropolitana; catene commerciali come Wal-Mart, che di recente ha aperto uno dei suoi negozi super discount in un campo di fieno; attività economiche locali, come un’impresa per la lavorazione del pollame e un produttore di arredi in legno.
Renick Williams, 71 anni, coltivatore i cui antenati sono stati fra i primi coloni europei in West Virginia, dice di credere nelle cose che cambiano col tempo. Ha venduto il campo di fieno alla Wal-Mart e ha costruito un albergo e cinema multisala a Moorefield.
“Mi piace coltivare, ma le cose stanno cambiando qui” racconta Williams, “E se non ne trae vantaggio la mia famiglia, lo farà qualcun altro”.
Williams, insieme ai due figli e a un nipote, è proprietario della RCS Land Company, che controlla circa 2.000 ettari di terreno inedificato, che lottizza e vende ai costruttori o investitori 5.000 metri quadrati o più alla volta, a 30.000 dollari. In uno di questi spazi da 24 porzioni messo a disposizione due anni fa, ne sono state vendute oltre la metà, racconta.
Ma per chi vuole mantenere un tipo di vita rurale nella contea di Hardy, con le sue distese di spazi aperti ondulati che arrivano fino alle montagne, la nuova spinta edilizia non è benvenuta. Su una superficie di oltre 1.500 chilometri quadrati vive una popolazione di circa 13.000 abitanti, ovvero circa 8,5 abitanti al chilometro quadrato, secondo gli ultimi dati censuari. “É una zona davvero bella, una delle poche ancora intatte che sono rimaste, e sarà rovinata, come tutto il resto” giudica Diane Hypes, responsabile editoriale del Moorefield Examiner and Hardy County News, notiziario settimanale.
La signora Hypes abita in un appezzamento da 32 ettari in cima a un’altura, che ha comprato 18 anni fa per 46.000 dollari. Racconta che di recente glie ne hanno offerti 250.000 per la proprietà, ma che ha rifiutato di vendere.
Si oppone al progetto da 2 miliardi e quattro corsie del Corridoio H, e si astiene dallo scrivere qualunque articolo a proposito nel giornale, incaricando un corrispondente di coprire l’argomento.
Tim Ramsey, proprietario della Lost River Real Estate, dice che c’è stata “quasi una corsa alla terra” nell’area della contea di Hardy, dopo gli attacchi terroristici del 2001. Il suoi clienti – fra cui proprietari di seconde case, pensionati e persone che lavorano a distanza dalla contea di Hardy per parte della settimana, passando solo un paio di giorni a Washington – comprano i terreni come rifugio sicuro. Case in legno di montagna su due ettari di terreno si vendono a 200.000-300.000 dollari, dice.
Un anno dopo gli attacchi, lo stesso Ramsey si è trasferito da Washington aprendo il suo ufficio immobiliare, insieme a un ristorante e un motel, a Lost River, centro che prende il nome da un fiume che scompare nel terreno, per riemergere parecchi chilometri a valle.
Neda Akbarzadeh, 33 anni, vive a Fairfax, Virginia, ed è project manager per un’impresa che lavora per il governo a Washington. È proprietaria di 8 ettari nella contea di Hardy, comprati di recente a 70.000 dollari. Pensa di costruirci una piccola casa in legno fra gli alberi.
La signora Akbarzadeh ha venduto la sua proprietà, molto più a ovest in Virginia, perché con la realizzazione del Corridoio H si sono ridotti i tempi di spostamento dal nord dello stato a meno di due ore, rendendolo così un posto molto desiderabile per una seconda casa, racconta. E anche se non ha niente contro le lottizzazioni, dice, si oppone ai nuovi venuti che sradicano gli alberi.
Per rappresentanti della contea di Hardy come Harold K. Michael, eletto alla West Virginia House of Delegates, il grande potenziale del Corridoio H alla fine sarà lo sviluppo economico dell’area rurale degli Appalachi, a partire da Wardensville nel West Virginia fino a 170 km più a ovest, a Elkins.
Il corridoio ha molti tratti già realizzati, ma non è ancora completo, e gli oppositori lottano contro la prosecuzione dei lavori, affermandone l’invasività ambientale, definendolo “la strada verso il nulla” dato che non collega direttamente alla Virginia.
Michael la vede in modo diverso. “La strada dà accesso alle appendici più settentrionali della West Virginia” sostiene. “E anche se per il momento può anche andare verso il nulla, arriverà da qualche parte. Per ora, ha suscitato molto interesse nel settore immobiliare, e cambiato il sistema degli spostamenti pendolari interni della contea. La gente per lavorare e fare acquisti andava verso la Virginia, adesso per queste cose sta all’interno della contea”.
Altro vantaggio, sostiene Michael, è il fatto che la strada abbia alleggerito dal traffico le arterie locali che si snodano lungo il corso dei fiumi. Queste spesso sono teatro di gravi incidenti fra auto e camion che trasportano merci dalle fabbriche della contea di Hardy, come i prodotti da pollame della Pilgrim’s Pride, o della American Woodmark, che costruisce componenti per la cucina e il bagno.
“La cosa ironica” aggiunge “è che il Corridoio H può essere ancora chiamato in qualche modo una via di fuga in caso di grave emergenza, por spostare 6-8 milioni di persone fuori dall’area del District of Columbia verso la West Virginia.”
A parte tutto l’ottimismo economico, la questione dello sprawl urbano pesa parecchio secondo gli urbanisti, come Mallie J. Combs-Snider, direttrice operativa della Rural Development Authority della contea di Hardy, responsabile per lo sviluppo economico dell’area.
Un problema è che con l’aumento dei costi degli immobili residenziali, possano essere allontanati dall’area i lavoratori delle fabbriche, che no riescono più ad acquistare, dice. Uno dei principali temi in agenda, racconta, è proprio quello di inserire nell’offerta di case anche quelle per lavoratori.
Altra questione, la tutela dei terreni agricoli, anche se qui si tratta di un obiettivo più difficile, dato che si tratta di una scelta volontaria.
“Il nostro obiettivo è di incoraggiare i proprietari a risparmiare quanto più territorio agricolo possibile, e a questo fine offriamo incentivi fiscali” dice. “Ma si tratta di semplici programmi discrezionali: possiamo soltanto incoraggiare il land-banking”.
La strada, che si snoda come una stretta striscia attraverso le line brumose dei crinali montani, per qualcuno è una visione magnifica, un modello di moderna ingegneria stradale.
La vede in questo modo Kenneth W. Dyche, direttore esecutivo del Region 8 Planning and Development Council, organizzazione statale creata per sostenere la crescita economica.
“Sì, onestamente lo sprawl urbano è una preoccupazione” racconta Dyche. “Ma d’altra parte, la strada ha dato accesso a una serie di panorami che non sapevo esistessero, e io abito qui da trent’anni”.
Nota: sul ruolo del sistema autostradale nello sviluppo insediativo USA, vedi anche questi articoli di Micheal Cabanatuan, e di Robert Sullivan (f.b.)