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L’enorme patrimonio (pubblico) di centinaia di immobili militari inutilizzati passa dalla Difesa nelle mani del Demanio e dei Comuni. Spetta a loro decidere se utilizzarli per attività sociali o farne parcheggi e centri commerciali privati per battere cassa

La caserma “Staveco” occupa un intero isolato lungo la circonvallazione di Bologna, da Porta Castiglione a Porta San Mamolo. 37.500 metri quadrati subito fuori dal centro storico. Dentro c’è un parcheggio, gestito dal Comune, la sede di un Centro ricreativo dei dipendenti della Difesa e decine di capannoni, vuoti e abbandonati da almeno trent’anni (la Staveco -foto in basso- era un deposito per mezzi pesanti). Entro breve potrebbe diventare un parco pubblico, ma anche un enorme parcheggio sotterraneo o appartamenti di pregio: il governo italiano ha deciso di valorizzare gli immobili militari inutilizzati, un’eredità del XX secolo che la fine della leva obbligatoria, l’obiezione di coscienza e il calo demografico -ma soprattutto il cambiamento avvenuto nel modello di guerra e di presidio del territorio- hanno reso inutili. La Finanziaria 2007 stabilisce che nell’arco di due anni 804 immobili in tutta Italia passino dal ministero della Difesa all’Agenzia del demanio, nata nel 1999 e responsabile della gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato.

Si tratta di caserme dismesse, depositi di armi abbandonati, vecchi arsenali militari -le fabbriche di armi- ed ex campi di addestramento per un valore complessivo di 4 miliardi di euro.

Sempre con l’ultima Finanziaria il governo ha creato uno strumento ad hoc per la gestione degli ex immobili della Difesa (e non solo, vedi il box nella pagina a fianco): si tratta di una “concessione di valorizzazione” di 50 anni, detta per questo concessione “lunga”. In pratica, un investitore privato presenta al Demanio un progetto imprenditoriale, dimostra la sostenibilità economica e finanziaria dell’azione e assicura per mezzo secolo un affitto al Demanio (cioè alla casse dello Stato).

Gli imprenditori edili hanno subito drizzato le antenne: erano in tanti al workshop organizzato a fine maggio a Milano dall’Agenzia del demanio per presentare la “concessione lunga” alla fiera Eire (Expo Italia Real Estate) di Milano.

Il “la” ufficiale al progetto, che il Demanio ha chiamato “Valore Paese”, è arrivato con un decreto del 28 febbraio scorso. Sono stati trasferiti i primi 201 immobili (36 in Veneto, 28 in Emilia Romagna, 26 in Piemonte, 25 in Lombardia: la mappa completa è nella pagina a fianco), la maggior parte dei quali sono nei quartieri centrali delle principali città italiane. La seconda tranche è prevista a luglio.

Il 5 maggio, a Bologna, l’Agenzia e il Comune hanno firmato un protocollo d’intesa per avviare la “valorizzazione” dei primi 12 beni del pacchetto “Valore Paese”, 600 mila metri quadrati in zone di pregio (“Erano immobili. Oggi vi vengono incontro” lo slogan scelto del Demanio). Il protocollo crea un tavolo tecnico tra Demanio e Comune, per scegliere la destinazione degli immobili. Il ruolo degli enti locali è fondamentale: tocca a loro, infatti, modificare la destinazione d’uso degli immobili e decidere gli “indici edificatori”, ossia se e in che percentuale può essere aumentata la cubatura.

A Bologna la firma del protocollo coincide con il dibattito sul nuovo Piano strutturale comunale, che dovrebbe essere approvato entro il febbraio 2008. Il Comune può scegliere di destinare un parte degli immobili a usi pubblici e sociali. E sembra intenzionato a farlo, almeno in parte: della ex Staveco, ad esempio, che confina con i Giardini Margherita, il più grande parco pubblico di Bologna, il Comune vorrebbe fare una porta d’ingresso alla collina (subito dietro sorge la chiesa di San Michele in Bosco). L’assemblea del quartiere Porto - che si è riunita con l’assessore all’urbanistica Virginio Merola per scegliere la destinazione del bene - vorrebbe realizzare degli impianti sportivi, il Comune pensa anche a parcheggi sotterranei.

Un’altra delle aree trasferita dalla Difesa è quella dei Prati di Caprara, 27 ettari di verde usati per l’addestramento dei militari e molto poco edificati. L’assessore Merola spiega il meccanismo della valorizzazione: al margine del parco ci sarà una zona residenziale, e nell’intenzione del Comune chi costruirà le abitazioni realizzerà anche il recupero del parco, a costo zero per le casse comunali. Solo per recuperare la ex Staveco la spesa stimata è di 40 milioni di euro. Il Demanio, a inizio giugno, ha raggiunto un accordo con la Cassa depositi e prestiti, che si è impegnata a garantire finanziamenti agevolati a 50 anni agli Enti locali per la valorizzazione gli immobili pubblici, ma il comune di Bologna non sembra intenzionata a chiedere un prestito.

Intanto il Collegio dei costruttori edili incalza: vorrebbe almeno il 40% degli spazi lasciati alla libera iniziativa privata. Durante un dibattito radio con Merola, il direttore del Collegio, Carmine Preziosi, ha affermato che “la differenza tra costi e ricavi deve essere almeno del 30 per cento”. Altrimenti i privati potrebbero scegliere di non partecipare. E a Bologna -spiega Valerio Monteventi, consigliere comunale e presidente della quinta Commissione “Politiche abitative e della casa” - “il governo della città non è autonomo dalla esigenza dei signori del mattone”, che hanno appena mandato deserta una gara per costruire appartamenti a prezzi calmierati nell’area dell’ex mercato Fioravanti (vedi box a pagina 19).

Il meccanismo della “valorizzazione” è ancora più semplice per come ce lo racconta l’ingegner Mario Venturini, assessore all’Urbanistica del comune di Brescia, che insieme a quelli di Ferrara e Fano è stato protagonista della firma del secondo protocollo d’intesa con l’Agenzia del demanio, a inizio giugno: “L’accordo in sé è elementare. Da un lato il Comune è disponibile ad acquistare il controllo dei due spazi aperti, Campo di Marte e la Polveriera di Mompiano, che saranno destinati a parchi naturali attrezzati. Dall’altra il Demanio ci chiede che due immobili presenti in città possano avere un cambio di destinazione urbanistica”.

In particolare, in gioco c’è il futuro della caserma “Gnutti” (nella pagina precedente), che interessa molto costruttori e immobiliaristi. “É senz’altro l’elemento più interessante, in pieno centro storico - riprende Venturini-. Era destinata agli ufficiali, ed è vuota da parecchi anni”. Per il futuro della Gnutti l’assessore pensa a una destinazione residenziale o a un terziario direzionale di qualità, uffici di rappresentanza. D’altronde è un edificio di pregio: era il comando, la sede del circolo ufficiali.

Come si “valorizza”

La concessione di valorizzazione o “concessione lunga” è un nuovo strumento introdotto dalla Finanziaria 2007 (al comma 259) e consente l’affitto fino a 50 anni a soggetti privati di un immobile di proprietà dello Stato, che resta titolare del bene.

L’Agenzia del demanio l’applicherà a tutti quei beni (circa 11.500) che potrebbero garantire un reddito allo Stato in caso di gestione economica da parte di investitori privati compresi gli ex immobili militari trasferiti del ministero della Difesa nell’ambito del progetto “Valore Paese”.

Il primo bando di gara, promosso a fine giugno, riguarda la Villa Tolomei, a Firenze. Si tratta di una concessione non gratuita, e rivolta unicamente a soggetti privati: chi presenta un progetto di “valorizzazione” deve garantire di svolgere un’attività economica e dimostrarne la sostenibilità economica, assicurando che i costi per la riconversione dell’immobile non superino i ricavi derivanti dall’attività e di essere in grado di pagare all’Agenzia del demanio un affitto (determinato sulla base del valore del bene e del suo rendimento).

La riqualificazione e riconversione del bene nell’ambito di una concessione di valorizzazione prevede la modifica della destinazione d’uso dell’immobile e anche la possibilità di costruire nuovi edifici.

Un’operazione da 4 miliardi

Il comma 263 della Finanziaria 2007 trasferisce dalla Difesa al Demanio 804 beni immobili non più necessari per usi militari, il cui valore complessivo stimato è di 4 miliardi di euro. Il piano di cessione prevede quattro tranche. Il decreto per la prima, che contiene l’elenco di 201 immobili in tutte le Regioni italiane nona Statuto speciale (vedi mappa), è stato firmato il 28 febbraio scorso. L’elenco dei beni è su www.agenziadeldemanio.com

Illy: meglio i negozi

Anche il Friuli Venezia Giulia potrà “valorizzare” le sue ex caserme. A differenza del resto del Paese, però, la Regione autonoma acquista la piena titolarità sui 36 immobili elencati in un Decreto legislativo del 2 marzo di quest’anno.

In virtù dello Statuto speciale si tratta di una cessione gratuita, che il governo regionale intende far fruttare. L’ufficio stampa spiega che la Regione, una volta entrata in possesso dei beni (il trasferimento non si è ancora perfezionato), ne cederà la titolarità ai comuni. Però il presidente Riccardo Illy (nella foto) è stato chiaro: se in un periodo tra i due e i quattro anni i Comuni non riusciranno ad avviare progetti di “valorizzazione”, le cessioni saranno revocate.

Per valorizzare Illy intende che prima si cambia la destinazione d’uso dell’immobile, e solo dopo si mette in vendita il bene. L’obiettivo è di avere complessi residenziali e negozi nelle ex caserme, e in cambio un po’ di soldi nelle casse regionali.

L’edilizia sociale non paga

L’affitto non paga. Nonostante condizioni favorevoli -un’area di 22 mila metri quadrati di proprietà comunale messa a disposizione a un euro al metro quadro- a fine maggio nessun costruttore ha partecipato alla gara d’appalto indetta dal Comune di Bologna per la realizzazione di 300 alloggi nell’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti, nel popolare quartiere Navile. Il piano di utilizzo degli spazi è stato elaborato dal Comune nell’ambito di un laboratorio di ri-progettazione partecipata (“Laboratorio mercato”), che per due anni ha coinvolto nelle sue attività i cittadini del quartiere, che hanno chiesto -tra l’altro- case in affitto a “canone concordato”. Secondo Carmine Preziosi, direttore del Collegio dei costruttori, alla condizioni del bando non c’erano margini di profitto: solo il 30% degli alloggi, infatti, poteva essere venduto; per gli altri, il bando di gara prevedeva l’affitto a canone concordato per 40 anni (a 350 euro per i piccoli appartamenti da 40-50 metri quadrati e 5-600 euro per quelli di 90 metri).

L’edilizia sociale è un problema per Bologna, città che ospita 60 mila lavoratori e 40 mila studenti fuori sede (questi hanno a disposizione 1.500 posti letto tra ostelli e studentati). In città ci sono anche 600 alloggi Erp (Edilizia residenziale pubblica) che attendono la ristrutturazione per essere poi assegnati. Tutte le info sul laboratorio di quartiere su: www.comune.bologna.it/laboratoriomercato (sopra una riproduzione dell’area “com’è stata immaginata”).

I centri storici sono incompatibili con le automobili. Non solo per ragioni d’inquinamento ambientale. I veicoli a motore, diceva Antonio Cederna, se anche emettessero, non veleni, ma profumi soavi e salubri, sarebbero comunque inconciliabili con i centri storici. I quali si sono formati, nel corso dei secoli e dei millenni, a misura di pedoni, di cavalli, di carri e di carrozze. Non possono essere impunemente invasi da oggetti alieni per forma, per funzione e per colore. È una violenza, come mettere infissi di alluminio in un palazzo del Cinquecento. I centri storici sono anch’essi monumenti, ed è merito della cultura italiana del secolo scorso di averlo capito (a partire dalla carta di Gubbio del 1960) e di aver quindi ottenuto (a partire dalla legge ponte del 1967) la loro tutela integrale.

Tutela tutt’altro che soddisfacente. Non è questa l’occasione, Italia nostra lo ha fatto altre volte, per denunciare gli errori, gli abusi e le incongruenze nelle politiche locali e nazionali a proposito dei centri storici, che continuano a essere snaturati da usi impropri e abbandonati dai residenti, per primi quelli appartenenti a fasce di reddito sfavorite. Qui ci occupiamo solo del più grave e diffuso degli errori, quello appunto di lasciare libero accesso alle automobili, anzi di agevolare sempre di più l’invasione degli alieni, come succede con la realizzazione dei parcheggi sotterranei di cui tratta questo fascicolo.

Abitare nel centro storico è un privilegio: questo dovrebbe essere il punto di partenza di ogni politica d’intervento. Un privilegio per tante ragioni, ma soprattutto perché la qualità paesaggistica dei centri storici – determinata dall’alternanza di edifici monumentali di epoche diverse, e diversi per forma e concezione, con un tessuto abitativo minuto e anodino – è incomparabile con l’infimo livello della città contemporanea, con le espansioni del dopoguerra, la cui forma, il più delle volte repellente, è stata dettata esclusivamente dagli interessi fondiari. Il privilegio è ancor più evidente se poi si considera che i centri storici rappresentano una percentuale minima dello spazio urbanizzato, percentuale che ogni anno diventa più esigua per la crescita continua e inarrestabile delle città. Il prezzo da pagare rispetto al privilegio goduto è qualche disagio nell’accessibilità, disagio assolutamente sostenibile ove si disponga di un trasporto pubblico e di un servizio di taxi efficienti, di percorsi ciclabili ben distribuiti e dove i pedoni siano i protagonisti della scena urbana.

Privilegiati sono anche coloro che lavorano nel centro storico. Almeno per costoro dovrebbe essere pacifico che non si ha diritto a parcheggiare. È così in molte città europee. Non da noi. A Roma la lista degli aventi diritto al posto macchina è sconfinata, in sostanza basta pagare.

I parcheggi dei residenti (e dei lavoratori) dovrebbero invece essere previsti ai margini dei centri storici, come a Venezia, dove si vive benissimo senza la macchina sotto casa (aveva assolutamente ragione Le Corbusier nell’esaltare la modernità di Venezia). Una modalità d’uso come quella descritta è evidentemente alternativa alla tendenza in atto, e sempre più spinta, all’uso terziario o di alta rappresentanza (come nel caso di Roma) del centro storico, funzioni che portano inevitabilmente, per molti aspetti, all’omologazione del centro storico a qualsivoglia centro direzionale.

A spingere in questa direzione dissennata sono i grandi interessi fondiari e finanziari contro i quali è sempre più difficile trovare alleati.

«A più di dodici mesi dall'elezione di Prodi sono mancati del tutto segnali di discontinuità con il governo Berlusconi». Duro e severo l'attacco di Legambiente, che ha presentato a Roma un dossier sulla situazione delle politiche infrastrutturali del paese.

A essere preso di mira è il ministro di competenza, Antonio Di Pietro, «l'uomo delle autostrade». Colui che considera «carta stralcia il programma dell'Unione, che prevede un'alternativa al fallimento della Legge Obiettivo di Lunardi (ministro ai tempi del cavaliere), confermando il 77% dell'investimento finanziario complessivo per le opere già avviate dall'esecutivo precedente». Meglio, una sola novità c'è: il no al Ponte sullo Stretto. Ma - spiegano - per il resto si marcia sulla stessa via, meglio se di cemento.

Gli ambientalisti non usano mezzi termini per bocciare anche la lista di opere presentata da Di Pietro in un allegato al Dpef: «Si è dimenticato del Sud, delle città e delle ferrovie». Un elenco di interventi da 118 miliardi di euro, che evidenzia come l'Italia spenda quanto Spagna e Francia per le opere pubbliche. Il problema forse è il modo in cui vengono investiti fondi. Scorrendo, infatti, le voci della lista si scopre che l'Italia ha bisogno soprattutto di oltre 1700 chilometri di nuove autostrade, di cui le più urgenti sono le autostrade del nord, e di maxi-opere, prima tra tutte ovviamente la Tav. Niente ferrovie e treni e poco per le nuove metropolitane.

«Forse il ministro vive su Marte oppure crede che l'Italia si fermi a Napoli». E' sarcastico il commento di Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente, che non si capacita dell'attività svolta finora dall'ex pm. «Il problema è che non vede i veri punti di sofferenza del nostro sistema di trasporti: una rete ferroviaria arretrata ed insufficiente, soprattutto al sud, e una domanda di mobilità che si concentra nelle città con un milione e mezzo di pendolari. Per non parlare dell'integrazione modale per offrire un'alternativa al 90% delle merci che viaggia su strada».

Ma il ministro punta su altre priorità: la nuova autostrada Pedemontana Lombarda, il passante di Bologna, la nuova tangenziale est di Milano e, ovviamente, il trasporto su gomma. In seconda battuta però ammette l'urgenza per una serie di lavori anche al sud: l'alta velocità Napoli-Bari, la Palermo-Messina-Catania, per citarne alcune. «Peccato - denuncia ancora Legambiente - che sono solo parole, perché poi per compiere tutte le opere del sud si investono 500 milioni di euro e invece poi se ne stanziano ben 915 per costruire le autostrade della sola Lombardia». Evidente una sproporzione tra nord e sud, che deve fronteggiare una situazione sempre più d'emergenza.

Di Pietro nel suo elenco non cita mai nemmeno il protocollo di Kyoto. Un'altra pecca per Della Seta, che invoca una nuova strategia «per combattere i cambiamenti climatici che vedono negli spostamenti su gomma uno dei principali responsabili». Non a caso pochi mesi fa la Commissione Europea ha bocciato il piano delle emissioni di gas serra (Pna) presentato dal governo e ha fissato limiti più rigidi per i settori industriali, proprio perché il settore trasporti continua ad aumentare le proprie emissioni e non si individua alcuna politica di inversione di tendenza.

Di questo se ne è reso conto il ministro dei Trasporti Bianchi che ritiene indispensabile puntare per il futuro sui trasporti ferroviari e di mare e non sulla gomma. Questa presa di posizione fa gioire il fronte ambientalista che però chiede uno sforzo maggiore: «Bianchi e Pecoraro Scanio devono avere il coraggio di fronteggiare le pessime politiche Di Pietro, per rilanciare una vera politica infrastrutturale nel paese». Questa la loro ancora di salvezza.

La Giunta qualche settimana fa ha approvato una Delibera di Indirizzi inerente la “Carta delle aree agricole periurbane” facendo propria, unitamente al Piano di governo del territorio, la filosofia generale di attenzione al rilevante problema delle aree agricole di margine alla città.

Qualche giorno fa il giornale il Cittadino ha fatto un interessante pagina sulle aree agricole e sulla necessità della loro tutela. Problema di interesse non solo locale ma europeo. Infatti sulla eccessiva conurbazione in molte aree del Continente si stanno interessando i legislatori di molti paesi, economisti, ambientalisti e urbanisti.

Settimana scorsa si è svolto l’interessante forum indetto dalla Provincia di Milano (assessore Mezzi : politica del territorio) che ha posto l’attenzione sulle aree agricole (belle e documentate le relazioni sia di Camagni che degli ospiti di altri paesi). Problema non marginale nell’economia, nella qualità alimentare e dell’ambiente, nel paesaggio nel nostro ecosistema, che deve essere affrontato con puntualità nei piani territoriali e comunali (qualche decennio fa era interessante il dibattito anche disciplinare in urbanistica tra città e campagna).

Troppo spesso vi sono, anche nelle posizioni culturali e tecniche (come per la questione energetica) la sottovalutazione di questo problema scivolando nella illusione che il tema delle aree periurbane debba essere affrontato con visione “immobiliare” (ad esempio applicando principi scorretti di perequazione generalizzata per grandi ambiti territoriali e non solo urbanistici di produzione di virtuali gettiti volumetrici). Sembra essere il caso di Milano e altre città.

C’è , anche tra urbanisti, chi pensa ancora che queste aree costituiscano una riserva per ulteriori sviluppi o che il problema sia di dare loro una funzione “perequativa” generando volumetrie da vendere e spostare sulle aree urbane o ai margini delle stesse (anche a Monza qualcuno più grossolanamente ne ha parlato per la vicenda Cascinazza), con ciò perpetrando ulteriormente la storia di sempre. Con nuovo rivestimento, dell’urban sprawl. Una nuova illusoria deregolamentazione di fatto della centralità che il piano, la pianificazione territoriale deve avere nel riconoscimento dei principi di sostenibilità. Senza cogliere che siamo ad una svolta economica, sociale e culturale in riferimento alle città, al territorio ed al consumo del suolo come risorsa finita.

Non può sfuggire, in questo contesto e ne siamo abbastanza soddisfatti, che il Piano di governo del territorio di Monza, tra i primi qui da noi, ha affrontato questo problema. Non a caso nella stessa menzione speciale al piano di Monza, ottenuta alla “6 European Urban and Regional Planning Awards” si pone in evidenza la particolarità del nostro PGT che cerca di applicare principi propri di sostenibilità e si cita anche espressamente la questione agricola.

Qui a Monza qualche mese fa si è svolta l’assemblea della Confederazione italiana agricoltori proprio in riferimento ai principi introdotti dal piano di Monza in riferimento alle aree periurbane e agricole in particolare. Gli agricoltori, con la collaborazione del Politecnico di Milano ( prof.a Maria Cristina Treu), ma anche il comitato scientifico di Lega Ambiente, hanno posto le basi di una “Carta delle aree agricole periurbane” dove venga riconosciuta la partecipazione a pieno titolo della grande utilità e funzione che queste aree agricole svolgono per la qualità della nostra vita. Dei “ valori” che esprimono. Esse partecipano, per il nostro Piano alla formazione dei parchi di cornice alla città in continuità con quelli sovracomunali in particolare lungo il Lambro e lungo il Canale Villoresi.

IL PGT pone questa questione come rilevante e delinea anche risorse e politiche perché le aree agricole partecipino a pieno titolo al paesaggio ed alla economia del nostro territorio. Qui la perequazione non è quella di generare volumi etc. ma di trovare risorse nell’economia della città per “compensare” il ruolo ed il valore che le aree agricole perturbane svolgono per tutti. Anche il PTCP affronta come detto l questione e la legge 12/2005 da competenza all Provincia per aree che sono nel Piano delle Regole. Sono del parere con molti altri che dette aree debbano diventare sostanzialmente stabili e con valore intercomunale, sottratte in generale ai percorsi di negoziazione a fini edilizi e urbanistici ( diritti volumetrici o peggio).

Titolo originale: Developmentalism in the Big Apple – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Trent’anni fa, si poteva trovare facilmente un monolocale in un quartiere di ceto medio di New York City a 150 dollari al mese. Oggi, ne costa oltre 1.500: più di quanto il giocatore degli Yankees Reggie Jackson, all’epoca il più pagato nel baseball, guadagnasse nel 1977. Il suo appartamento sulla Fifth Avenue con terrazza affacciata su Central Park costa 1.466 dollari al mese. Mentre la paga minima non è certo salita a 27,82 dollari l’ora.

Come siamo arrivati a questo punto, è l’argomento del libro di Kim Moody, From Welfare State to Real Estate: Regime Change in New York City, 1974 to the Present (The New Press). Moody analizza il modo in cui il ceto affaristico di New York ha sfruttato la crisi fiscale degli anni ’70 per distruggere la “politica socialdemocratica” della città e imporre il programma neoliberale che detta “tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, deregulation, e cosa più importante il riaffermarsi di un potere di classe da parte dei capitalisti”.

Ne risulta una città dove la disuguaglianza è cresciuta sino a livelli estremi, ben oltre quelli di altre zone del paese, in cui un piccolo ma in crescita gruppi di cospiratori, costituito dagli incredibilmente ricchi, usa l’amministrazione come macchina per far soldi, esercitando un potere assoluto su uno svuotato ceto medio e su milioni di lavoratori dei servizi, spesso immigrati, e con paghe minime. Moody, che è co-fondatore di Labor Notes, espone tutto questo con lucidità e chiarezza. Per chi ama New York, la lettura di questo libro è un momento di comprensione e rabbia, come davanti alla storia di un delitto di cui si conosceva personalmente la vittima.

É convinzione diffusa, che la crisi fiscale del 1975 sia stata causata da politiche riformiste fuori controllo: l’estensione dei servizi sociali negli anni ’60, o i costi di gestione della più ampia rete di servizi di qualunque città americana, con 22 ospedali pubblici, un sistema universitario gratuito e la più capillare metropolitana del mondo. Moody indica come le spese in quella direzione avessero fortemente rallentato già dagli anni ‘60, mentre lievitavano per la città i costi degli interessi sul debito. Postula che l’eliminazione delle forti riduzioni fiscali per le imprese costruttrici avrebbe potuto far molto per evitare la crisi. Una spiegazione che appare un po’ fragile: la causa strutturale profonda era la massiccia deindustrializzazione della città. Moody nota come New York abbia perduto la sconvolgente quantità di 600.000 posti di lavoro industriali, fra il 1968 e il 1977. Fu eliminata così la ricchezza dei ceti lavoratori che era la base politica ed economica a sostegno del sistema di infrastrutture pubbliche. Sparì anche la fonte tradizionale di reddito legale dei quartieri più poveri della città.

Spaventati da quanto avrebbe potuto succedere in caso di bancarotta del sistema, i sindacati locali collaborarono al programma delle élite, di tagli dei posti di lavoro e dei servizi. La trasformazione verso un’economia dominata dalla finanza ripristinò in assoluto la ricchezza della città, ma la sua distribuzione ne risultò fortemente diseguale. E visto che il mondo del lavoro aveva tacitamente acconsentito a questa evoluzione delle cose, la politica della città nei 25 anni successivi sarebbe stata dominata da orientamenti razziali. Gli elettori bianchi votarono Ed Koch o Rudy Giuliani, con la sua campagna e le politiche orientate da slogan di basso profilo per legge-e-ordine. David Dinkins, unico sindaco nero (1990-93), evoca più una diversità simbolica che non una vera messa in discussione del programma delle élite. Moody nota come il sindacato insegnanti rifiutò di sostenerne la rielezione: il motivo, perché Dinkins aveva promesso loro un aumento di stipendio, promessa poi non mantenuta dopo l’opposizione dell’ establishment.

L’attuale sindaco Michael Bloomberg è spesso definito un liberal – un’epoca senza valori, questa, quando il solo fatto di non essere fanatico rispetto alla vita sessuale altrui basta a qualificare in qualche modo come progressista — ma è in realtà un devoto plutocrate. Non aggressivo come Giuliani (anche se simile a lui nel disprezzo per le libertà civili), ma il suo ruolo richiede tratti caratteriali diversi. Obiettivo di Giuliani era di mettere ordine nelle questioni razziali “ingovernabili”; quello di Bloomberg di consentire ai ricchi di accumulare altri mucchi di soldi. Moody definisce la filosofia del sindaco “immobiliarismo”: affollare lo skyline di torri ad appartamenti di lusso, regalando più di 3 miliardi di dollari l’anno di tagli fiscali a imprese e abitazioni per ricchi, mentre una quantità crescente di lavoratori residenti a New York spende oltre la metà di quanto guadagna per l’affitto. Nel corso di questo boom immobiliare, nota Moody, non solo il prelievo dai ceti operai — redditi e tasse commerciali — ha sorpassato le imposte sugli immobili come base di introiti per la città, ma lo stesso sistema delle tasse sugli immobili è così distorto che il proprietario di una casa bifamiliare di un quartiere nero a redditi medio-bassi vicino all’aeroporto Kennedy Airport paga quasi tre volte la percentuale sul valore di mercato di dodici stanze affacciate sulla Park Avenue.

Bloomberg ha fatto alcune promesse altisonanti, sulla costruzione di case economiche, ma Moody analizza le formule utilizzate per definire cosa venga considerato “economico”. Sulla base del reddito medio nell’area metropolitana, gli appartamenti che si affittano fino a 1.800 dollari al mese vengono classificati “medi”, come quelli nel progetto sportivo/residenziale per le Atlantic Yards a Brooklyn. E sia il sindaco che il Governatore Eliot Spitzer, un Democratico, si oppongono al ripristino del potere della città di controllare gli affitti. Moody non approfondisce molto la questione, ma la legge statale del 1971 che proibì alla città di contenere gli affitti in misura superiore a quanto accadeva nel resto dello stato, fu un annuncio dell’epoca neoliberale. Metteva di fatto il potere nelle mani dei Repubblicani delle zone suburbane ed esterne, i cui legami principali con la città sono i soldi che ricevono dai proprietari. Quando eliminarono tutte le norme di controllo degli affitti nel 1997, e poi quando l’ex Governatore George Pataki in pratica eliminò qualunque forma di repressione riguardo a canoni illegalmente elevati, l’amministrazione cittadina non fu in grado di far nulla per fermarli.

Contro tutto questo, Moody auspica la possibilità che emerga qualche nuova spinta sociale, dal milione di iscritti cittadini ai sindacati, o da organizzazioni di base come la Make the Road By Walking di Brooklyn, o da gruppi di quartiere e per la casa o anti- gentrification, per lottare contro il neoliberalismo. É una speranza debole per ora, ma essenziale.

Una recente, promettente tendenza, è la crescita delle organizzazioni contro il “razzismo ambientale”, ovvero la pratica di collocare inceneritori nei quartieri operai poveri latini e neri, già inquinati. Come mi ha detto un amministratore nei primi anni ’90 quando seguivo la campagna contro un impianto da 55 strati nella zona dei cantieri navali di Brooklyn: “Dove altro dovremmo metterlo? Sulla Quinta Strada?”

Un libro di Julie Sze, Noxious New York: The Racial Politics of Urban Health and Environmental Justice (MIT Press) analizza il modo in cui gli attivisti in questi quartieri presi di mira uniscono le questioni ambientali a quelle di classe e razza. Si sviluppano anche nuove tattiche com ele cosiddette “Squadre Terra”, adolescenti che collaborano con la Columbia School of Public Health per rilevare fuliggine e inquinamento da particolato in quattro incroci nella zona del deposito autobus di West Harlem; i militanti hanno usato i dati raccolti per convincere l’amministrazione a cambiare gli autobus, a veicoli ibridi.

Dal movimento emergono due principi. Uno è il focalizzarsi sugli effetti cumulativi dell’inquinamento nel quartiere. Nel South Bronx, dove in alcune scuole aveva l’asma il 40% degli alunni, gli attivisti hanno osservato che un proposto inceneritore di rifiuti sanitari avrebbe solo peggiorato le cose. Quando Giuliani ha chiuso la leggendaria puzzolente discarica di Fresh Kills a Staten Island nel 1996, e progettava di privatizzare lo smaltimento dei rifiuti e trasportarli via camion verso altri stati, una delle critiche principali al piano è stata che si sarebbero rovesciati gli scarichi dei motori diesel nell’aria di Williamsburg e del South Bronx, che ospitano gran parte dei punti di smistamento dei rifiuti della città. L’altro principio emerso è quello di “precauzione”, ovvero che sono i potenziali inquinatori a dover dimostrare che le loro operazioni si svolgeranno in modo non dannoso, e non le comunità a dover provare danni diretti.

La Sze intreccia in modo affascinante alcune storie nel suo libro, come quando sottolinea che all’inizio del XX secolo, l’80% delle città degli USA prescrivevano di riciclare i rifiuti organici e le ceneri di carbone. Ma si tratta di una scrittura che spesso cade nell’ovvio. Quando descrive il volantino delle organizzazioni ambientaliste che propone il Governatore Pataki insieme a un ragazzino nero con inalatore per l’asma, la Sze scrive, “ Un contrasto visivo, quello fra il politico più potente dello stato e il bambino di colore con l’asma, che rappresenta in modo letterale le politiche di base [dei gruppi] e il sistema delle convinzioni”. Visto che sono stati incrociati i documenti delle varie campagne per la giustizia ambientale, il libro avrebbe potuto anche avvantaggiarsi di diverse testimonianze dei protagonisti e delle comunità, valutando quali strategie paghino, e quali no: cosa che non è stata fatta e di cui c’è gran bisogno.

Abbiamo disperatamente bisogno di saggezza organizzativa, in particolare di fronte a quello che dimostrano chiaramente questi due libri, ovvero che il neoliberalismo è una miscela velenosa di oppressione economica e devastazione ambientale.

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Titolo originale: Life in the Sprawling Suburbs, if You Can Really Call It Living – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

“Possiamo dire che in qualche modo la città diffusa è una città intollerante”. Se questa breve citazione dell’architetto di Calgary Marc Boutin non vi spiega a sufficienza la prospettiva critica di Radiant City sul tema dello sprawl suburbano, chi ha fatto il film ne ha parecchie altre del genere.

Mescolando spezzoni di documentario a parti recitate (le due cose non si distinguono finché il film non tira fuori la sua migliore sorpresa), Radiant City è una cruda arringa sui danni culturali di certe mode architettoniche del dopoguerra. Nel film si propone un impietoso confronto fra il suburbio di primo ‘900, realizzato attorno a spazi pubblici collettivi che orientano a un’esistenza più pedonale, ai suoi discendenti del dopoguerra, che attiravano gli abitanti con la promessa di spazi enormi e di nessun bisogno di preoccupasi per quanto avveniva oltre i confini del giardino.

I registi, Gary Burns (che ha indagato questi territori molte altre volte, soprattutto nella commedia “ Waydowntown”) e Jim Brown, dipingono il suburbio residenziale diffuso e antisettico, con le sue culture dei lunghi spostamenti pendolari, come metodo sicuro per l’alienazione, ostacolo alla costruzione di senso comunitario, soprattutto di senso comune.

La proposta dei personaggi mescola esperti scientifici, e quelli che dovrebbero essere comuni cittadini. In questo gruppo vediamo un gruppo teatrale che sta preparando una commedia musicale sulla vita suburbana, una madre ansiosa che gestisce scrupolosamente ogni giornata con la scaletta appiccicata di fianco al frigo, un adolescente che osserva l’enormità del suo esurbio rigorosamente anonimo dalla cima di un ripetitore per cellulari (e spiega di fare attenzione a non restare più di qualche minuto per volta là in cima, perché non vuole predersi un tumore al cervello).

James Howard Kunstler, il critico della suburbanizzazione, appare durante tutto “ Radiant City” e contribuisce a definirne il tono generale, che si può sintetizzare come incredula lamentazione. Le spaventose, a tratti monumentali immagini cinematografiche di Patrick McLaughlin, sottolineano le frasi degli esperti, facendo apparire il suburbio come un paesaggio da incubo d’asfalto e cartongesso, dove va a morire la democrazia.

RADIANT CITY

Scritto e diretto da Gary Burns e Jim Brown; direttore della fotografia Patrick McLaughlin; montaggio Jonathan Baltrusaitis; musiche di Joey Santiago; prodotto da Shirley Vercruysse per la National Film Board of Canada. 85 minuti.

CON: Daniel Jeffery (Nick Moss), Bob Legare (Evan Moss), Jane Macfarlane (Anne Moss), Ashleigh Fidyk (Jennifer Moss), Curt McKinstry (Ken), Karen Jeffery (Karen)

here English version

Un flop il bando di gara sulla costruzione di alloggi in affitto all´ex mercato di via Fioravanti. Doveva essere l´inizio di una nuova era, quella della costruzione di case in affitto, dopo un decennio di chiacchiere inutili. I primi trecento alloggi a prezzo accessibile dei tremila che il Comune vuole realizzare in città. E invece ora si rischia persino di perdere i 6 milioni di euro stanziati dalla Regione.

Non si è presentato nessuno. Non un´impresa privata, né una cooperativa delle tante che dicevano di voler costruire case a poco prezzo. Ora i costruttori accusano: «E´ stato un dialogo tra sordi, non ci sono margini di profitto per le imprese private». Ma il Comune risponde: abbiamo dato tutto quello che ci avete chiesto, di più sarebbe un intollerabile spreco di risorse, meglio cambiare la legge e affidare all´Acer o altre istituzioni il compito di fare case in affitto.

In un modo o nell´altro sarà uno spartiacque la gara dell´ex mercato, dove il Comune aveva messo a bando un´area di 22 mila metri quadrati, valore di mercato 25 milioni, per un solo euro al metro. Terreno gratis, insomma, come chiedevano coop e costruttori. In più c´erano 6 mila euro di contributo regionale. Chi voleva poteva costruire fino a 300 alloggi. Solo il 30% però poteva essere venduto, gli altri in affitto per 40 anni.

Niente da fare. Non si è presentato nessuno. Eccetto un´impresa piccola che all´ultimo momento ha chiesto una proroga. Troppo tardi. Proroghe ne erano state date fin troppe dal Comune. Decine gli incontri con le imprese e i costruttori. Carmine Preziosi del collegio costruttori oggi accusa: «Non ci sono margini di profitto, servono più sostegni pubblici». Di parere opposto è l´assessore alla Casa Virginio Merola. «Più di così non potevamo fare - dice - aumentare i finanziamenti pubblici o il numero di case private da costruire su terreni pubblici sarebbe uno spreco di risorse inaccettabile». L´alternativa? «Rivedere la legge - risponde l´assessore - nessuno può chiedere ai privati o alle coop di rinunciare al profitto, allora bisogna che le case in affitto le costruisca qualcun altro: l´Acer o altri soggetti che oggi per legge non possono partecipare». E mentre chiede un cambiamento della legge («a questo punto ci riteniamo liberi dai vincoli del bando regionale») Merola si prende pochi giorni e per decidere in tempi brevi come rispondere.

Postilla

Costruire case a costo accessibile é la risposta alla crescita spropositata dei valori immobiliari che, a seguito della finanziarizzazione, ha ormai connotati sempre più speculativi. La Francia con la legge Borloo, case a 100 mila euro, e soprattutto l’Inghilterra con la riforma del social housing avviata nel 1997 dai laburisti sono due esempi di come paesi a noi vicini si muovono in questa direzione.

I requisiti di fondo per la costruzione di case a costo accessibile sia per la vendita che per l’affitto sono tre:

- utilizzare suolo di proprietà pubblica o nella disponibilità di un soggetto pubblico per abbattere i costi di costruzione;

- utilizzare risorse economiche non speculative raccolte sul mercato dei capitali per integrare il contributo pubblico;

- coinvolgere soggetti gestori del processo a carattere non speculativo che si occupano della riscossione dei canoni, della manutenzione degli immobili e di tutti servizi complementari contribuendo alla costruzione di un più forte senso di comunità.



In Italia sono in corso dei tentativi soprattutto nelle città del nord, quello di Milano avviato dalla Fondazione Cariplo attraverso la “Fondazione housing sociale” é il più avanzato. Altri tentativi sono in corso a Torino con la fondazione San Paolo, e ad Alessandria. A Roma l’Università Roma Tre ha presentato al comune un progetto di housing sociale per 1000 alloggi destinati solo all’affitto da costruire su aree pubbliche.

Manca però una volontà politica forte che vada in questa direzione e che comprenda soprattutto che non esistono vie italiane a questo modello. La scelta non può che essere l’avvio di un mercato intermedio tra quello sociale e quello speculativo del libero mercato. Per fare questo occorrono le tre condizioni di cui sopra, altri tentativi che vogliono tenere insieme le cose rischiano di naufragare, come quello di Bologna, o dall’altra parte rischiano di far passare per housing sociale interventi speculativi o di svendita a privati del patrimonio pubblico.

Il caso di Bologna insegna che non basta fare un bando e sperare che le imprese immobiliari si accontentino del 5% di redditività degli investimenti. Perché dovrebbero accettare questa limitazione? Perché stupirsi che il bando é andato deserto? Perché stupirsi che l’Associazione costruttori cavalcando l’insuccesso si proponga come l’interlocutore unico per risolvere il problema casa?

L’errore é aver puntato sulle imprese di costruzione invece di coinvolgere soggetti no profit. (Giovanni Caudo)

Dal 1982 in Francia è obbligatoria la redazione di un’analisi costi-benefici per la valutazione della fattibilità dei progetti infrastrutturali, che però nella maggior parte dei casi non è stata condotta. Questo mio articolo non ha la pretesa di rappresentare l’ultima parola sulla questione della linea ferroviaria alta velocità tra Torino e Lione, tuttavia tenta di proporre un’analisi basata su dati di partenza interamente esplicitati e che possono essere criticati e, se del caso, modificati. (1)

Il traffico

Oggi, il traffico passeggeri fra Torino e Lione che si distribuisce fra i tunnel stradali del Monte Bianco e del Fréjus e quello ferroviario del Moncenisio è pari a circa 2,5 milioni di persone l’anno. Il traffico merci assomma a 37 milioni di tonnellate e avviene prevalentemente su strada (1,5 milioni di mezzi pesanti per anno a fronte di un traffico ferroviario pari a 220mila vagoni). Negli ultimi dieci anni il traffico su strada è rimasto invariato, quello ferroviario è diminuito del 25 per cento.

Quale potrebbe essere il traffico della linea alta velocità nei prossimi trent’anni? Dipende da numerosi fattori: dalla crescita economica di Francia e Italia, dalla relazione fra crescita e domanda di trasporto, dal prezzo degli spostamenti e da altre condizioni di contorno.

Ipotizziamo che, per quanto riguarda i passeggeri, la nuova linea attragga il 50 per cento del traffico esistente e che faccia emergere un "traffico indotto" pari al 30 per cento di quello attuale: si determina così un traffico di 2 milioni di passeggeri all’anno. Per quanto concerne le merci, ipotizziamo che la linea Av attragga un quarto del traffico attuale e generi un traffico aggiuntivo pari al 10 per cento di quello esistente: si avrebbe così un flusso di 13 milioni di tonnellate. Si tratta di una stima generosa: in Francia il Tgv è un concorrente temibile dell’aereo, ma non dell’auto e non si danno casi di nuove linee ferroviarie che abbiano attratto quote significative di trasporto merci su gomma. Ipotizzando un tasso di crescita del 2 per cento all’anno, a 25 anni dall’apertura della linea Av si avrebbero 3,3 milioni di passeggeri e 21,3 milioni di tonnellate di merci.

I benefici per gli utenti

Il risparmio di tempo per i passeggeri con la linea Av può essere stimato pari a 2 ore, equivalenti a 4 milioni di ore per anno. Assumendo pari a 17 euro il valore di un’ora, si determina un beneficio annuo di 59,5 milioni di euro. Per il trasporto merci, ipotizzando un analogo risparmio di 2 ore per transito e un valore del tempo di 31 euro per ora, si stima un beneficio annuo di 28,7 milioni. Considerando anche il surplus del traffico indotto si ha un beneficio economico complessivo pari a 106,7 milioni di euro l’anno.

Le esternalità

Per quanto concerne l’inquinamento atmosferico, il costo ufficiale delle esternalità è pari a 0,1 euro per 100 auto-km e a 0,6 per 100 veicoli pesanti-km. Ipotizzando, assai generosamente, che la percorrenza su strada evitata sia pari a mille km per veicolo si determina una riduzione dei costi esterni pari a 1,35 milioni di euro per le auto e a 2,78 milioni per i veicoli pesanti. Tali valori vengono incrementati rispettivamente del 10 e del 110 per cento per la tratta (circa 100 km) percorsa nelle vallate alpine. Il beneficio in termini di riduzione di inquinamento atmosferico è quindi di 4,4 milioni di euro per anno.

Facendo ancora riferimento ai dati ufficiali, si può inoltre stimare un beneficio di circa 10 milioni di euro per la riduzione delle emissioni di Co2. Il beneficio in termini di riduzione degli incidenti stradali è dell’ordine dei 16 milioni di euro.

Oltre a tali ricadute positive in termini di impatto ambientale e di sicurezza occorre considerare la riduzione della congestione stradale? La risposta è negativa. L’attuale livello di traffico nei tunnel del Fréjus e del Monte Bianco è largamente inferiore alla capacità, si può dunque prevedere che anche in presenza di una sua crescita del 2 per cento nei prossimi venticinque anni, il traffico nei trafori continuerà a svolgersi con un buon livello di fluidità.

Stima dei costi e dei benefici

Sulla base dei dati sopra descritti, si possono stimare benefici complessivi pari a 136,7 milioni di euro per il primo anno di esercizio, di cui 106,7 rappresentano risparmi di tempo e i restanti 30 milioni sono da correlarsi al minor impatto ambientale e alla riduzione di incidenti nel trasporto su strada. S’ipotizza che tali benefici aumentino, proporzionalmente alla crescita traffico, del 2 per cento per anno nei quarant’anni seguenti.

Per quanto concerne i costi, poiché l’opera sarà realizzata totalmente a carico della finanza pubblica, occorre moltiplicare l’investimento (16 miliardi di euro che s’ipotizza, senza averne la certezza, comprensivo del materiale rotabile) per il costo opportunità dei fondi pubblici, stimato in Francia pari al 30 per cento. Si giunge così a un costo complessivo di 20,8 milioni. Per analogia con la linea del Tgv nord, s’ipotizza un costo di esercizio annuo pari al 2,67 per cento dell’investimento, ossia 427 milioni di euro per anno (i dati sono riassunti nella Tabella 1).

Debito e disavanzi per molti anni

Adottando un tasso di attualizzazione pari al 4 per cento, si determina un valore attuale netto del progetto negativo, pari a -25 miliardi di euro. I costi superano i benefici per ciascun anno di vita utile del progetto. Non è dunque possibile quindi un saggio di rendimento interno che eguagli costi e benefici.

Il bilancio appare dunque disastroso: un Van di -25 miliardi di euro significa uno sperpero di risorse della stessa entità. I benefici del progetto sono tali da non compensare neppure i costi di esercizio.

Dunque, non solo il debito aggregato degli Stati italiano e francese aumenterà di 16 miliardi, ma la gestione dell’opera andrà ad accrescere il loro deficit per i successivi quaranta anni.

Tabella 1 – Benefici e costi per l’anno di apertura all’esercizio della linea (Milioni di €)

Benefici socio-economici:

Risparmio di tempo: +88

Surplus per il traffico indotto: +18

Benefici esterni

Minor inquinamento atmosferico: +4

Minori emissioni di Co2: +10

Minore incidentalità stradale: +15

Costo d’esercizio: -427

(1) Per tutte le assunzioni si rimanda alla versione integrale dell’analisi contenuta nell’allegato.

Voilà qui est Rémy Prud'Homme

Nel quadro dei lavori e delle iniziative per l’adeguamento alla legge regionale 12/2005 del PTCP vigente, l’Assessorato al Territorio della Provincia di Milano ha promosso recentemente una interessante giornata di lavoro organizzata in due sessioni: una prima sul tema "Sviluppo territoriale e consumo di suolo. L'esperienza europea e lo scenario milanese"; una seconda su "Il processo di partecipazione per l'adeguamento del Piano territoriale di coordinamento provinciale" (si veda Pietro Mezzi in eddyburg.it).

Nella prima sessione è stato presentato da Vincent Fouchier, coordinatore del piano presso lo IAURIF (Institut d’Aménagement et d’Urbanisme de la Region d’Ile-de-France), il nuovo Schéma Directeur, approvato con delibera del Consiglio Regionale il 15 febbraio 2007[1].

Nella storia della pianificazione urbanistica e territoriale francese, la regione parigina ha giocato con continuità un ruolo eminente. L’ha giocato in particolare introno alla metà degli anni ‘60, in un’epoca di forte centralizzazione statale, grazie allo SDRIF promosso da un “urbanista demiurgo”, Paul Delouvrier: un piano ancorato ad un principio forte (il policentrismo) e realizzato attraverso alcuni progetti di grande rilevanza metropolitana (la realizzazione delle rete ferroviaria regionale/RER e le Villes Nouvelles); vuole tornare a giocarlo oggi, in epoca di decentramento, dandosi come obiettivo la sostenibilità di lungo periodo e proponendosi, a questo scopo, di applicare con coerenza il principio di sussidiarietà, in ciò avvantaggiata dal fatto che, in quanto regione capitale in cui risiedono 11.400.000 abitanti e in cui si localizza una quota cospicua delle attività economiche “di punta” del paese, la regione Ile-de-France gode di una competenza speciale: lo Sdrif è infatti “opposable” agli strumenti urbanistici locali: sia ai piani di inquadramento sopracomunale (SCOT) che ai piani urbanistici comunali (PLU).

Il piano per l’area metropolitana è costituito da tre elementi:

- un rapporto che evidenzia le sfide, gli obiettivi di lungo periodo e le modalità di realizzazione degli obiettivi;

- una cartografia generale che sintetizza i grandi orientamenti di compattamento urbano, di posizionamento competitivo in ambito internazionale e di protezione dell’ambiente naturale;

- un rapporto di valutazione ambientale che verifica la coerenza dello SDRIF con i piani di settore di scala regionale.

L’approvazione del piano è stata comunque preceduta da un lungo e capillare processo di concertazione con i diversi attori istituzionali, con le amministrazioni locali e con la popolazione, attraverso l’inserimento continuo in Internet, forum, atelier, conferenze interregionali e intercomunali, allo scopo di costruire un consenso preliminare sulle sfide da affrontare nel lungo periodo (2030) che sono state sintetizzate in tre principali obiettivi:

1. “promuovere una città più compatta e più densa per rispondere alla sfida abitativa e all’aggravamento delle problematiche energetiche e climatiche”,

2. “sviluppare l’offerta urbana e la qualità della vita in Ile-de-France, rafforzare il potenziale economico e l’attrattività internazionale,

3. “proteggere la biodiversità, valorizzare gli spazi agricoli e naturali, e garantire la coerenza del sistema degli spazi aperti”.

Entrando nel merito degli indirizzi e delle scelte prioritarie di politica territoriale ed urbanistica, Fouchier si è soffermato su alcuni temi cruciali, che appaiono tali anche per il territorio dell’agglomerazione milanese.

In particolare, il piano si dà l’obiettivo di realizzare 60.000 nuovi alloggi all’anno attraverso la densificazione di aree già urbanizzate: localizzandoli in aree ben connesse al sistema di trasporto pubblico; distribuendo in maniera più equilibrata l’edilizia sociale sull’intero territorio metropolitano; promuovendo maggior diversificazione funzionale locale (in particolare, la parola d’ordine è il riequilibrio habitat/emploi).

Un altro tema cui è stata dedicata una attenzione cruciale (ad esempio rispetto allo SDRIF del 1994) è la salvaguardia degli spazi aperti e del territorio agricolo: non soltanto tutela perenne dei parchi naturali regionali e dei parchi urbani, ma anche messa in rete dei territori da proteggere (cintura verde, corridoi ecologici, protezione dell’agricoltura periurbana,…).

Anche sui trasporti si vuole innovare, per governare in primo luogo la dispersione insediativa. La strategia consisterà nel migliorare le connessioni con il sistema ferroviario regionale, anziché estenderlo; nel ridurre drasticamente i progetti per nuove infrastrutture stradali previsti dallo SDRIF del 1994; nel realizzare una rete estesissima di piste ciclabili; nel raddoppiare le linee di TGV, realizzando nuove stazioni per decongestionare le stazioni parigine.

Quanto potrà essere efficace un piano che si applica ad un territorio così esteso, sul quale esercitano competenze decisionali in materia di uso dei suoli e di aménagement ben 1800 comuni e 4 Dipartimenti? La scelta dello IAURIF, che deriva anche dalla frammentazione amministrativa appena evocata, sembra una scelta intelligente, anche se per taluni aspetti di compromesso.

La cartografia di piano è molto precisa e detta regole cogenti per quanto attiene alla tutela degli spazi aperti, del territorio agricolo e dei corridoi ecologici (prioritario è, nelle parole perentorie degli estensori, “pérenniser l’espace agricole”).

La cartografia appare più di indirizzo, e quindi più flessibile, per quanto riguarda le opportunità di nuove urbanizzazioni: si indicano infatti dei “settori preferenziali di densificazione”, vale a dire delle aree estese all’interno delle quali le amministrazioni comunali potranno delimitare con maggiore precisione attraverso i piani urbanistici le zone di addensamento edilizio, comunque dando priorità al riuso di aree dismesse ben accessibili dal trasporto pubblico.

Due considerazioni, di prima reazione alla presentazione di Fouchier. La prima riguarda la differenza/distanza con il contesto milanese/lombardo. La tutela delle risorse territoriali agricole e degli spazi aperti (che, vale la pena di sottolinearlo, costituiscono attualmente l’80% del territorio dell’Ile-de-France; mentre, ad esempio, nelle quattro sub-aree del nord milanese, la quota di superfici occupate dall’urbanizzato e dall’urbanizzabile supera abbondantemente il 50% del territorio e raggiunge, nel caso dell’area Nord-Milano, l’83%) costituisce una priorità strategica dello SDRIF cui si accompagnano disposizioni molto cogenti.

Il tema costituisce una priorità anche nei lavori per l’adeguamento del PTC avviati dalla Provincia di Milano fra i cui obiettivi troviamo enunciati la compatibilità ecologico-paesistica delle trasformazioni, il contenimento dei consumi di suolo e il compattamento delle espansioni, la valenza paesistico-ambientale e di presidio al consumo di suolo degli ambiti agricoli cui si attribuisce la triplice valenza produttiva, naturalistica e paesaggistica. Tuttavia, le opportunità di successo in questo secondo caso appaiono molto più labili, perchè la legislazione urbanistica regionale lombarda si sta muovendo in tutt’altra direzione. Se, come è peraltro assai probabile dati i rapporti di forze in seno al Consiglio Regionale, sarà approvato il Progetto di legge n. 207 “Ulteriori modifiche e integrazioni alle legge urbanistica regionale 12/2005”, il PTCP potrà perimetrare soltanto le aree agricole di “interesse strategico”, sulla scorta di eventuali proposte dei Comuni ed attenendosi a criteri per la definizione di tali aree che saranno deliberati dalla Giunta Regionale. Si indebolirà dunque ulteriormente la pianificazione di inquadramento territoriale togliendo alle Provincia una competenza forte di cui ancora gode in materia di perimetrazione e tutela delle aree agricole, e si aprirà di fatto la strada ad un ulteriore incremento dei consumi di suolo.

Un elemento di preoccupazione può essere invece avanzato relativamente alla effettiva possibilità di realizzare gli obiettivi di compattamento urbano enunciati dal nuovo SDRIF, a fronte del risultato della recenti elezioni presidenziali francesi. Come sarà possibile arginare la dispersione insediativa, controllare i consumi di suolo e, soprattutto, garantire la mixité sociale, se il neo-eletto presidente Sarkozy, certamente un convinto fautore del “liberalismo attivo”, manterrà la promessa fatta nel suo programma elettorale, e più volte ribadita, di “garantire l’accesso alla casa in proprietà a tutti (e soltanto) i cittadini francesi”?

[di seguito scaricabili il pdf con la carta delle destinazioni generali e un file con tre carte distribuite nelle conferenze di presentazione del piano, non disponibili sul sito ufficiale http://www.sdrif.com/ dove comunque si trovano molte altre informazioni e documenti]

[1] Vincent Fouchier è peraltro ben noto a chi si occupa di consumi di suolo e sviluppo sostenibile: infatti, è sua una delle più approfondite analisi empiriche sulla relazione fra densità insediativa e trasporti relativa all’area metropolitana parigina pubblicata nel 1997 quando era Chargé de Mission pour l’Urbanisme presso il Secrétariat Général du groupe Central des Villes Nouvelles. Si veda: Fouchier V. (1997), Les densités urbaines et le développement durable. Le cas de l’Ile-de-France et des ville nouvelles, Paris, Edition du SGVN

La pubblicazione dell'articolo è consentita alla condizione di citare l'autore e inserire la dizione "“tratto dal sito web eddyburg.it”.

SDRIF fig 1-2-3

SDRIF fig 1-2-3

l'Unità

45mila sfratti l’anno, un’odissea chiamata casa

di Mariagrazia Gerina

In Francia nel 2005 si sono costruite 300 mila case, di queste 120 mila erano alloggi sociali. In Italia nello stesso periodo si sono costruite più abitazioni, 350 mila in tutto, e solo 1.500 alloggi popolari. Le case, in Italia, ci sono. Anzi, a fronte di 22,8 milioni di famiglie, sono 28,3 milioni. Eppure il disagio abitativo è in aumento. Un dato, fornito dal ministero dell’Interno lo racconta meglio di altri: in un anno (il 2005), ci sono stati 33.200 sfratti per morosità. In gran parte si tratta di persone che a fine mese non hanno abbastanza soldi per pagare il canone. Come suggerisce un altro dato decisamente significativo: su 4,3 milioni di famiglie che si rivolgono al mercato dell’affitto, il 75% vive con meno di 20 mila euro l’anno. Più o meno il reddito richiesto per accedere alle graduatorie per l’assegnazione di alloggi popolari, che però sono appena il 6% del patrimonio abitativo nazionale, in Europa la media è del 16%.

È in questi numeri, prodotti soprattutto nel grandi aree metropolitane del paese, la ragione dell’allarme sollevato dal sindaco di Roma Walter Veltroni con una lettera che, inviata mercoledì scorso, fa appello a nove ministri per lanciare il «patto sulle questioni sociali». La casa, prima di tutto. Perché l'«aumento del bisogno alloggiativo che si registra a Roma e nelle altre aree metropolitane» chiede risposte immediate. E perché la maggior parte del reddito familiare se ne va per la casa.

La metà delle famiglie italiane vive con meno di 1800 euro al mese. Mentre, secondo i dati Anci Cresme, nelle grandi città gli affitti sono aumentati negli ultimi anni dell’85%. A Roma i nuovi contratti impongono un canone medio di 1400 euro al mese, a Napoli a 1100, a Milano a 1600. Il 40% dei giovani compresi tra i 25 e i 34 anni fatica ad andarsene di casa. La spesa media per l’affitto nel 2006, secondo un’indagine Censis-Sunia-Cgil, ha raggiunto in Italia i 440 euro al mese (contro i 387 del 2003), che salgono a 600 nelle aree metropolitane.

Su 131 mila domande presentate in un anno per ottenere un alloggio popolare - dati Anci-Cresme -, solo 10.457 sono state soddisfatte dai Comuni. In totale, in Italia gli alloggi popolari sono poco più di 800 mila. Gli altri sono costretti a stare al passo con il mercato. Ma spesso non ce la fanno.

In tutto, nel 2005, sono state emesse 44.988 sentenze di sfratto, di queste 10.953 per finita locazione, solo 835 per necessità del locatore, il resto per morosità. Sono appunto le 33.200 famiglie sfrattate perché non pagano l’affitto. Sempre nel 2005, gli sfratti eseguiti dalla forza pubblica sono stati 25.369, mentre le richieste di esecuzione di sfratto sono state 104.940, con un aumento del 35.32% rispetto all'anno precedente. Di queste, 10.225 a Roma, 37.883 a Milano, 6.643 a Napoli. Numeri che, sommati, nel quinquennio 2001-5 fanno: 210.437 sentenze di sfratto, 455.878 richieste di esecuzione, 114.554 sfratti eseguiti.

Analizziamo un altro dato, che riduce l’enfasi sulle famiglie (l’80%) proprietarie di una casa. L’indebitamento di quanti si sono rivolte a istituti di credito per contrarre un mutuo è stimato in 240 miliardi di euro solo nel 2006 (fonti Cresme ed Eurispes).

Lo Stato invece spende molto poco per le politiche abitative. Dal 1978 al 1998, i prelievi sulla busta paga dei lavoratori dipendenti garantivano un finanziamento di 3-4 miliardi di vecchie lire l’anno per i piani di edilizia residenziale. Chiuse quelle entrate nel 1998, una fonte alternativa non è stata individuata. Secondo l’Eurispes la spesa sociale per la casa ammonta appena a 3,3 euro pro capite contro i 53,5 euro della Germania e i 214 euro della Francia. I trasferimenti per le Regioni nel 2004 non superavano lo 0,10% del Pil. I contributi per l’affitto, in particolare, non superano lo 0,07% del Pil, mentre in Francia arrivano all’1,9%. Investimenti gravemente insufficienti secondo il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative, che ha appena consegnato al governo alcune indicazioni per varare entro luglio dovranno tradursi un nuovo piano casa nazionale. «Ne discuteremo già nel prossimo Consiglio dei ministri», ha annunciato ieri Romano Prodi. Obiettivo, rilanciare un piano di nuova edilizia popolare per contenere la precarietà abitativa. Fondi necessari, secondo il tavolo: 1,5 miliardi l’anno, più 500 milioni di euro da spendere in contributi all’affitto. Mentre per incidere sul mercato degli affitti, la via indicata è quella degli sgravi Ici e delle detrazioni fiscali che incentivino i contratti a canone concordato e diano impulso anche ai Fondi immobiliari etici. Contemporaneamente, si ipotizzano oneri concessori ridotti per spingere anche le grandi aziende a promuovere nuovi piani edilizi per i dipendenti. Altra risorsa individuata dal tavolo sono le caserme e in generale il demanio. Oltre al patrimonio abitativo degli enti previdenziali, che i Comuni chiedono di censire per poter acquistare gli appartamenti non occupati con le stesse agevolazioni previste per gli inquilini.

Infine, nel caso in cui il governo dovesse decidere di cancellare l’Ici per la prima casa, il tavolo e l’Anci chiedono di individuare nuove fonti di finanziamento per i Comuni.

la Repubblica

Due miliardi per aiutare chi è in affitto

di Luisa Grion

ROMA - Meno tasse e sconti sull´Ici per chi decide di affittare la propria casa a canone agevolato; un miliardo e mezzo di euro l´anno - almeno - a vantaggio dell´edilizia sociale; un fondo di 500 milioni ai comuni per aiutare gli inquilini più poveri. L´emergenza casa arriva al Consiglio dei ministri: mercoledì prossimo il governo discuterà del piano elaborato da ministro delle Infrastrutture Di Pietro con le parti sociali. L´obiettivo è quello di inserire nel prossimo Dpef un capitolo di rilancio della politica abitativa, questione fondamentale visto che - nel paese delle case di proprietà - ci sono pur sempre oltre 4 milioni di famiglie che vivono in affitto.

«Si parte da un rifinanziamento della politica edilizia sociale che rimetta sul piatto almeno il miliardo e mezzo di euro che veniva garantito dal canale degli ex fondi Gescal - dice il ministro - e dal fondo di 500 milioni da destinare agli aiuti per gli affitti. Ma il piano si basa soprattutto su agevolazioni fiscali e soluzioni per affrontare l´emergenza».

Fra queste c´è la mappatura del patrimonio pubblico disponibile e la ristrutturazione di 20 mila appartamenti oggi in disuso. C´è l´idea di concedere detrazioni fiscali alle aziende che mettono in atto piani abitativi per i dipendenti e quella di riedificare le ex aree militari.

Per quanto riguarda l´aspetto fiscale, invece, vi è soprattutto il piano di agevolazioni previsto per chi affetterà la propria casa a canone agevolato. La possibilità è prevista già oggi, ma a metterla in pratica sono pochissimi. Ora per invogliare i proprietari ad utilizzarla, il piano nato dal tavolo aperto dal governo con le parti sociali (una ottantina di soggetti fra associazioni, sindacati ed enti locali) prevede un innalzamento dal 30 al 50 per cento le detrazioni aggiuntive sul reddito dei proprietari più l´azzeramento, e l´azzeramento o la forte riduzione dell´Ici.

Accanto a questo progetto che si appresta a portare in dote 2 miliardi a favore di chi non ha casa e vive in affitto, va affiancata la partita destinata ad agevolare chi invece vive in una abitazione di proprietà. Anche qui si parla di tagli all´Ici. L´idea - sulla quale ci sarebbe un accordo dell´Ulivo - è quella di esentare il pagamento sulla prima casa per una quota che potrebbe oscillare fra i 200 e i 500 milioni. Misura che potrebbe essere attivata per il 2008 e inserita - attraverso un emendamento - al disegno di legge sulle rendite finanziarie in discussione alla Camera. Ma il fatto che lo stesso Prodi abbia annunciato di voler parlare sia dell´Ici che delle proposte sulla revisione del catasto, ha in qualche modo fatto sì che si riapra uno spiraglio per chi vorrebbe intervenire subito. Magari sul saldo Ici che si versa a dicembre. Vincenzo Visco, viceministro delle Finanze, frena: «Le proposte saranno valutate in base alle risorse», ma certo - ha ammesso - «bisogna tener conto che l´80 per cento degli italiani ha una casa d´abitazione e un intervento sull´Ici ha un impatto redistributivo di qualche rilevanza».

Postilla

Tempestiva la proposta di Romano Prodi alla “ scoperta” di Walter Veltroni. Positivo il segnale dato dal riferimento all’utilizzo delle caserme. Qualche perplessità sul fatto che si continua a dimenticare il peso della rendita fondiaria sul costo dell’abitazione, e sul fatto che le politiche seguite negkli ultimi anni (dai governi nazionali, dai cmuni e dalle banche) hanno contribuito poderosamente ad aumentarne l’incidenza e a pagarle sia con l’indebitamento delle famiglie sia con le agevolazioni pubbliche.

.Pietro Mezzi è Assessore alla politica del territorio e parchi della Provincia di Milano

Si è svolta oggi la giornata di lavoro organizzata dall'Assessorato al territorio della Provincia di Milano, articolata in due sessioni: la prima "Sviluppo territoriale e consumo di suolo. L'esperienza europea e lo scenario milanese"; la seconda "Il processo di partecipazione per l'adeguamento del Piano territoriale di coordinamento provinciale".

La prima parte ha affrontato il tema dell'espansione degli spazi urbanizzati e della crescita della città diffusa, un fenomeno che in Italia assume dimensioni spesso notevoli, ma che coinvolge qualsiasi altro Paese. L'Agenzia per l'Ambiente dell'Unione europea ha rilevato che nel solo decennio tra il 1990 e il 2000 in Europa sono stati urbanizzati oltre 800 mila ettari di suolo: più di tre volte la superficie del Lussemburgo. Con questo ritmo in cento anni la superficie urbanizzata si raddoppierà.

Alcuni Paesi hanno affrontato il problema, stabilendo limiti quantitativi annui di suolo da urbanizzare e definendo una contrattazione economica che premi l'ente locale. Su questo tema sono stati significativi gli interventi del prof. Roberto Camagni (Politecnico di Milano) e di due esperti esteri: Marjo Kasanko (European Commission, Joint Research Centre) e Vincent Fouchier (Institut d'aménagement Ile de France). In Italia, invece, la continua espansione urbanistica dei singoli Comuni riduce in misura consistente gli spazi naturali e le aree dedicate all'agricoltura. Le amministrazioni non sembrano avere alternative per fare fronte alle esigenze di recuperare risorse finanziarie, ma la risorsa territorio non è infinita e, una volta attuata la trasformazione, la compromissione diventa irreversibile.

È quindi necessario sensibilizzare gli amministratori e i cittadini su questo rischio e suscitare un approfondito dibattito per l'individuazione di soluzioni che permettano uno sviluppo compatibile con il gettito fiscale per gli enti locali.

La Provincia di Milano ha assunto il tema del consumo di suolo come fattore alla base della propria elaborazione per una pianificazione territoriale che abbia come punto di riferimento la sostenibilità. Nel territorio provinciale milanese il 42,3 per cento della superficie è urbanizzata - comprese le previsioni contenute negli strumenti di pianificazione - ma si tratta di un dato medio, non è omogeneo. Se Milano esprime un valore del 70,8 per cento, questi sono i dati delle diverse aree: Brianza 54,1, Nord Milano 83,3, Rhodense 58,6, Legnanese 58, Castanese 27,8, Magentino 30,8, Abbiatense-Binaschino 13,1, Sud Milano 42,4, Sud Est Milano 27,7, Adda Martesana 35,5 per cento.

Il tema del consumo di suolo è propedeutico alla definizione di una pianificazione partecipata e sostenibile. E questo è l'obiettivo che la Provincia di Milano si è data quando ha messo mano al processo di adeguamento del proprio Piano territoriale di coordinamento.

Dopo la fase dei seminari tematici di lavoro che hanno visto confrontarsi con l'amministrazione numerose realtà presenti sul territorio, si va concludendo anche il secondo ciclo di incontri della Provincia con i Comuni raggruppati negli ambiti locali omogenei, i tavoli interistituzionali. Ora si entra nel merito dei contenuti dell'adeguamento del Piano territoriale, nel cuore del confronto politico sulle proposte da condividere con i Comuni: per arrivare entro l'estate alla formulazione definitiva della proposta di Piano che andrà all'approvazione del Consiglio provinciale nel prossimo autunno.

L'incontro di oggi è un momento essenziale per trarre alcuni elementi di bilancio, ma soprattutto per puntualizzare gli obiettivi che abbiamo di fronte. Uno dei quali è certamente la definizione dei contenuti di sostenibilità ambientale del Piano territoriale, attraverso i passaggi già definiti - in specifico con la procedura di Valutazione ambientale strategica - e la redazione del Rapporto ambientale.

Abbiamo alle spalle un lavoro importante, che costituisce una base decisiva per i prossimi passaggi. Con le positive premesse che sono oggi disponibili possiamo lavorare con slancio per dotare i cittadini della provincia milanese di un Piano realmente rappresentativo delle esigenze di uno sviluppo sostenibile.

Dal sito MilanoMet

Titolo originale: The world goes to town – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Che pensiate che la storia umana inizi nei giardini di Mesopotamia chiamati Eden, o più prosaicamente nelle attuali savane dell’Africa orientale, è chiaro che l’ Homo sapiens non ha iniziato la sua esistenza come creatura urbana. L’ habitat umano delle origini era dominato dalla necessità di trovare cibo, e caccia e raccolta sono cose da spazi aperti. Non fu sino alla fine dell’ultima era glaciale, circa 11.000 anni fa, che iniziammo a costruire qualcosa che si potrebbe definire un villaggio, e a quell’epoca l’uomo esisteva già da 120.000 anni. Ce ne vollero altri seimila per arrivare all’epoca classica, e alle città per svilupparsi fino a raggiungere i 100.000 abitanti e oltre. Ancora nel 1800 c’era solo il 3% della popolazione mondiale a vivere in città. In un qualche momento dei prossimi mesi, però, quella quota supererà la soglia del 50%, se non è già successo. Con saggezza o meno, l’ Homo sapiens è diventato Homo urbanus.

In termini di storia umana, questo potrebbe apparire uno sviluppo positivo. Certo sarebbe molto discutibile affermare che dalla campagna nono è mai venuto niente di buono. Presumibilmente, la ruota è un’invenzione dell’ambiente rurale. E anche gli abitanti delle città hanno bisogno del panem, oltre che dei circenses. Se il Dottor Johnson e Shelley erano nel giusto quando affermavano che i veri legislatori dell’umanità sono i poeti, allora bisogna di sicuro dare merito a colline, laghi e altre delizie rurali per averli ispirati.

Ma i contributi della campagna al progresso umano sembrano poca cosa, se paragonati a quelli urbani. Sviluppo della città è sinonimo di sviluppo umano. Coi primi villaggi è emersa l’agricoltura, l’addomesticamento degli animali: non si doveva più vagare per la caccia e la raccolta, ma si poteva invece riunirsi negli insediamenti, consentendo ad alcuni di sviluppare abilità particolari, e a tutti di vivere più sicuri dai predatori. Dopo un certo periodo i contadini riuscirono a produrre più di quanto si consumava, almeno nelle annate buone, e i vari prodotti dei villaggi- cereali, carne, stoffe, terraglie – si potevano scambiare. Attorno al 2000 a.C. si iniziarono a produrre gettoni di metallo, antenati delle monete, a titolo di ricevuta per le quantità di cereali depositate nei granai. Contemporaneamente, le città iniziavano a prendere forma.

Lo fecero a partire dalla Mezzaluna Fertile, striscia di terre produttive fra gli attuali Iraq, Siria, Giordania e Palestina, da cui emergeranno Gerico, Ur, Ninive e Babilonia. Col tempo vennero altre città in altri luoghi: Harappa e Mohenjodaro nella valle dell’Indo, Menfi e Tebe in Egitto, Yin e Shang in Cina, Micene in Grecia, Cnosso a Creta, Ugarit in Siria e, la più spettacolare, Roma, prima grande metropoli, che poteva vantare, al suo culmine nel III secolo a.C., una popolazione di oltre un milione di abitanti.

Abitare insieme significava sicurezza. Ma le persone si radunavano anche per via dei vantaggi pratici di stare tutti nel medesimo posto: vicino a un fiume o a una sorgente, su un’altura o penisole difendibile, vicino a un estuario o a una fonte di cibo. Era anche importante, ci insegnano gli storici, la capacità di un insediamento di attirare le persone in quanto luogo di incontro, spesso a scopi spirituali o sacri. Tombe, boschetti, anche caverne, potevano diventare luoghi sacri per cerimonie o rituali, verso cui la gente si dirigeva in pellegrinaggi. L’uomo non vive di solo pane.

Comunque il pane, in senso lato, era importante. Le persone arrivavano in città a pregare, ma anche per scambiare – il tempio era spesso anche il mercato – e i beni portati e venduti non erano solo prodotti dei campi, ma anche il frutto dell’opera di artigiani urbani e altri lavoratori qualificati. La città divenne centro di scambio, sia dei prodotti che delle idee, e quindi centro di apprendimento, innovazione, sofisticazione.

Non solo nella Mezzaluna Fertile, ma nei secoli anche a Alessandria e Amsterdam, Cambay e Costantinopoli, Londra e Lisbona, Teotihuacán e Tenochtitlán. É nelle città che l’uomo si libera dalla tirannia della terra, e riesce a sviluppare capacità, a imparare dagli altri, a studiare, insegnare, costruire le capacità sociali che poi fanno sembrare i campagnoli degli zotici. L’homo urbanus non è solo un uomo che vive nella città: è la città stessa.

Le città sono state naturalmente molto più di tutto questo, e non erano tutte uguali. Nel corso del loro sviluppo, alcune si distinguevano per il ruolo religioso (la Roma del secondo periodo), come il centro di un impero (Costantinopoli, Vijayanagara), nuclei amministrativi (Pechino), laboratori politici (Firenze), luoghi dell’apprendimento (Bologna, Fez), del commercio (Amburgo) o di lavorazioni particolari (Toledo). Alcune fiorirono, altre tramontarono, la longevità dipendente da vari fattori come conquiste, epidemie, malgoverno, collasso economico.

La tecnica si dimostra imparziale

Qualunque sia il contesto particolare in cui si sviluppa una città, comunque, il suo vigore molto probabilmente sarà influenzato dall’evoluzione tecnologica. Nello stesso modo in cui è la sovraproduzione agricola a rendere possibili i primi insediamenti stabili, sono le innovazioni nei trasporti a indurre lo sviluppo degli scambi da cui dipende la ricchezza di tante città. Ci sono altri sviluppi tecnologici che rendono possibile la sopravvivenza urbana. I romani, ad esempio, costruiscono gli acquedotti per portare acqua pulita in città, e fogne per renderla più salubre.

Ma se ne avvantaggiano solo i ricchi. La maggioranza dei romani, e degli abitanti delle città nel corso della storia, vivono nello squallore, molti ne muoiono. Le città sono affollate e malsane; le persone malnutrite; la malattia si diffonde rapidamente. Le città crescono in dimensioni e numero di abitanti per lunghi periodi, ma possono declinare e scomparire. Tra l’anno 1000 e il 1300 la popolazione urbana d’Europa si raddoppia, fino a raggiungere circa i 70 milioni (grazie anche in parte a un nuovo sistema di rotazione delle colture, reso possibile da nuovi attrezzi). Poi, con la Morte Nera, si riduce a un quarto. Muore anche la gente di campagna, a sono I cittadini ad essere particolarmente vulnerabili. La loro salute dipende soprattutto da acqua pulita e impianti sanitari, che pochi possiedono, e da sapone e medicine a buon mercato, che devono ancora essere inventati.

Non sorprende che il successivo grande sviluppo urbano derive ancora da un salto tecnologico: l’invenzione dei motori e delle macchine per la produzione. La Rivoluzione Industriale in un primo tempo fa assai poco per rendere migliore la vita urbana, ma offre posti di lavoro: parecchi posti di lavoro. Dalle fabbriche dell’era industriale iniziata alla fine del XVIII secolo nasce un’epoca urbana interamente nuova. I contadini abbandonano le terre a moltitudini per spostarsi nelle città, prima nel nord dell’Inghilterra, poi in tutta l’Europa e in nord America. Nel 1900, il 13% di tutta la popolazione mondiale era diventata urbana.

L’ultimo salto, da quel 13% al 50% in soli 107 anni, deve ancora qualcosa alla scienza e alla tecnologia: avanzamenti della medicina, insieme alle conoscenze sui modi di evitare le malattie, consentono a sempre più persone di abitare insieme senza soccombere, come accadeva un tempo, per la diarrea, la tubercolosi, il colera e altre epidemie. Ma i medesimi sviluppi, hanno allungato la vita anche nelle campagne, portando a enormi incrementi della popolazione rurale. L’ingegno umano non è riuscito a produrre nelle campagne una ricchezza corrispondente a tale crescita. Di conseguenza, molti abitanti di villaggi sono andati a cercare una vita migliore in città.

Le sole proporzioni e velocità dell’attuale espansione urbana, rendono improbabile qualunque grande cambiamento, del tipo di quelli che hanno segnato sinora la storia urbana. Si tratta soprattutto di poveri migranti, in quantità che non hanno precedenti, che producono bambini pure a ritmi senza precedenti. Si tratta dunque in gran parte di un fenomeno dei paesi poveri o poco ricchi; il mondo sviluppato si è lasciato alle spalle gran parte della sua urbanizzazione.

Ma nei paesi poveri si tratta di una tendenza che continuerà. Le Nazioni Unite prevedono che l’attuale popolazione urbana, di 3,2 miliardi di persone, aumenterà sino a quasi 5 miliardi entro il 2030, quando tre persone su cinque vivranno nelle città. L’incremento sarà particolarmente drammatico nelle regioni più povere e meno urbanizzate, in Asia e in Africa. Si tratta delle zone meno in grado di misurarsi col problema. C’è già il 90% della popolazione urbana di Etiopia, Malawi e Uganda, tre dei paesi più rurali del mondo, che vive negli slum.

Nel giro di dieci anni al mondo ci saranno quasi 500 città con oltre un milione di abitanti. Gran parte di questi nuovi cittadini sarà assorbita da metropoli di oltre 5 milioni. E alcuni staranno anche nelle megacittà, ovvero quelle da 10 milioni e oltre di abitanti. Nel 1950 solo New York e Tokyo potevano dire di essere così grandi, ma nel 2020, dice l’ONU, ci saranno nove città - Delhi, Dacca, Giacarta, Lagos, Città del Messico, Mumbai, New York, San Paolo e Tokyo – con oltre 20 milioni di persone. L’area metropolitana di Tokyo già ne contiene 35 milioni, più dell’intera popolazione del Canada.

La Megalopoli del mondo antico stava in Arcadia, parte della Grecia cantata da Virgilio come modello di semplice e lieta vita rurale. Le città che indica ora quel generico nome sono tuttaltro che arcadiche. Per quanto riusciti questi luoghi possano essere, se il successo si misura in termini di crescita di popolazione. Ma la gran parte si trova in paesi poveri, e molti degli abitanti, quando non la maggioranza, abita nello slum.

Invece nel mondo ricco la città sta attraversando cambiamenti di genere molto diverso. Molti dei nuovi centri fioriti nel corso della Rivoluzione Industriale e dell’epoca della manifattura ad essa seguita hanno perso popolazione. Anche New York, tanto a lungo epitome di sofisticazione urbana, ha attraversato un brutto momento negli anni ‘70. Alcune città mantengono un proprio ruolo come centri amministrativi, grazie alle condizioni politiche. Alcune sono ancora centri di scambio, grazie alla posizione geografica. Alcune tengono semplicemente perché hanno raggiunto un certo equilibrio. Altre però sono in difficoltà.

Fra i motivi tradizionali del vivere in città, molti (la presenza del luogo sacro, la vicinanza del cibo) hanno perso importanza. Alcune delle cose un tempo offerte dalla città (fabbriche, negozi) ora si possono trovare nei centri commerciali o zone industriali suburbane. La sicurezza, un tempo fra i motivi principali della concentrazione umana, spesso è questione sfuggente, più nelle vie della droga della metropoli che nell’ambiente dell’esurbio. La tecnologia, che storicamente ha favorito il progresso urbano, ora consente alle persone di lavorare nell’idillio rurale grazie al computer domestico. Nessuna meraviglia che molte città per continuare a prosperare debbano reinventarsi.

Quasi tutti i centri dei paesi ricchi, che siano stabili o in declino, si preoccupano di trasporti, inquinamento, energia, sacche di povertà eccetera. Ed esistono problemi in abbondanza. Ma si tratta di problemi di ordine differente rispetto a quelli affrontati dalle città dei paesi poveri, di gran lunga più drammatici e a fronte di risorse molto più scarse. Se i centri ricchi si preoccupano per flussi in aumento o calo relativamente modesti di popolazione, quelli poveri si confrontano con vere ondate di marea di migranti.

Dunque la storia delle città è giunta a un bivio.

Nota: la conclusione piuttosto brusca del testo si deve al fatto che sono state tagliate le frasi conclusive, che introducevano il successivo articolo sul tema dell’urbanizzazione mondiale proposto dall’Economist una audio intervista a Johnny Grimmond, a cui ovviamente rinvio, oltre che alla versione originale di questo estratto su Mall_int e qui su Eddyburg agli articoli relativi al Rapporto WorldWatch 2007 (f.b.)

here English version

In Italia, il mercato dell’affitto riguarda il 20% degli alloggi occupati, valore tra i più bassi in Europa, al di sotto del quale troviamo solamente quelli riferiti all’Irlanda, alla Grecia e alla Spagna . L’esigua percentuale stimata denota e conferma un carattere consolidato nella storia italiana ovvero la generale tendenza a privilegiare la proprietà della casa anche come bene di investimento familiare. Negli ultimi trenta anni (censimento 1971-2001) lo stock di abitazioni in affitto si è più che dimezzato passando dal 44,2% al 20,0% sul totale delle abitazioni occupate. Per contro, l’80% delle famiglie vive in case di proprietà.

Questi dati sembrano rafforzare la convinzione di una progressiva marginalità del mercato dell’affitto testimoniata anche dalla scarsa rilevanza delle politiche a sostegno delle locazioni emanate negli anni dalle stesse Istituzioni. La debolezza del mercato degli affitti è legata ad aspetti quantitativi ed aspetti qualitativi. Innanzi tutto, bisogna sottolineare la progressiva riduzione dell’offerta pubblica di abitazioni in affitto dovuta, da una parte, alla dismissione del patrimonio pubblico e dall’altra, alla sensibile riduzione dell’intervento diretto ovvero delle nuove costruzioni di edilizia pubblica. Alla riduzione dell’offerta pubblica di alloggi in locazione si aggiunge quella dell’offerta da parte degli Enti previdenziali che hanno, dal 1998, avviato un processo di cartolarizzazione del loro patrimonio immobiliare assecondando la generale convinzione di cui sopra, ovvero della necessità del possesso del bene casa.

Altro aspetto quantitativo determinante la debolezza dell’offerta locativa è, come detto, la crescente insostenibilità dei canoni di affitto per le famiglie a reddito medio-basso come conseguenza dei processi di finanziarizzazione che caratterizzano il mercato immobiliare. A tutto ciò, vanno aggiunti altri fattori, questa volta qualitativi, che sono rappresentati dalla frammentazione della domanda prodotta da differenti trasformazioni di carattere socio-economico. In primis, l’aumento del numero delle famiglie (soprattutto di quelle monopersonali), le trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro (aumento della mobilità e della flessibilità) ed, ancora, l’aumento del numero degli immigrati (crescita dei ricongiungimenti familiari). Da non trascurare, infine, soprattutto per le metropoli come Roma e Milano, la domanda di alloggi in locazione temporanea ad uso turistico.

Il caso Roma. A Roma, l’offerta di alloggi in locazione avviene quasi totalmente sul mercato libero (il 76% degli alloggi in affitto è di proprietà di persone fisiche). L’offerta di alloggi a canone sociale, quella delle case popolari, è in realtà una non-offerta per una duplice ragione: per il progressivo processo di dismissione del patrimonio e per l’assoluta rigidità nel suo uso. Oltre il 60% dei contratti di affitto che durano da più di 16 anni è costituito da canoni pubblici. Il doppio canale di offerta, pubblico e privato, è dunque solo teorico. L’unica possibilità concreta risulta essere l’affitto a prezzi di mercato. A ciò si aggiunge la rigidità nella distribuzione territoriale. Ad esempio, nelle aree centrali di Roma solo 2 alloggi su 10 in affitto sono pubblici: un dato che, con le recenti dismissioni, è già sceso ed è destinato a scendere ulteriormente. Ne consegue che, nel centro storico, l’affitto è solo in regime di libero mercato. Per comprendere l’impossibilità di accesso all’abitazione in questa area, basta ricordare che lì il rapporto tra il canone medio ed un reddito, ad esempio di 30 mila euro/anno, è pari al 70%. Pertanto, la sola soluzione per abitarvi è l’attivazione di forme di coabitazione, alle quali ricorrono sempre più spesso i non residenti. In Italia le case per i non residenti - studenti e lavoratori in trasferta - limitatamente ai grandi comuni, ammontano a 441 mila, circa il 10,7% dello stock residenziale. A Roma, secondo l’Istat, sono 136 mila le unità abitative occupate dai non residenti. Un dato già ampio ma che quasi sicuramente risulta inferiore a quello reale.

La domanda di case che proviene dai non residenti è una domanda di città e di integrazione con essa, è una domanda che si soddisfa sempre più attraverso forme di abitare che devono contemperare il bisogno di città e l’incidenza del canone di affitto sul reddito. Infine, si tratta di una domanda d’uso del bene casa destinata ad aumentare per la crescente mobilità nel mondo del lavoro. Una domanda che, come si è detto, risulta però disattesa e che rischia di diventare un punto debole per Roma nella competizione con le altre metropoli poiché manca il mercato dell’affitto rivolto a chi considera la casa alla stregua di un bene d’uso.

L’abitare temporaneo. Alla domanda tradizionale di alloggi in locazione si é aggiunta negli ultimi anni la domanda espressa dai non residenti che per motivi diversi abitano a Roma per periodi medio-lunghi. Sono coloro che per la crescente mobilità richiesta dal mondo del lavoro si trovano costretti a spostarsi, preferibilmente nelle grandi metropoli: sono i lavoratori precari e in trasferta, i giovani interessati ad esperienze di formazione e di lavoro che si muovono nel circuito delle città globali portando esperienze e valore aggiunto nella produzione e nei lavori; sono gli artisti, quelli impegnati nelle professioni di frontiera collegate ai centri di ricerca o alla sperimentazione di nuove tecnologie, al mondo del volontariato e, ancora, a tutte quelle professioni che oggi non hanno un nome ma che stanno nascendo attorno alla frammentazione del welfare urbano. L’uso del bene casa, e quindi l’alloggio in locazione, risponde al crescente dinamismo della vita sociale e lavorativa odierna.

“Scegliere” di comprare casa. La riforma degli affitti, introdotta con la legge 431 nel 1998 non ha prodotto effetti virtuosi e di calmieramento del mercato ma l’esatto opposto: una crescita incontrollata dei valori dei canoni. Da una indagine del Sunia risulta che una famiglia con un reddito di 30 mila euro/anno non può permettersi un affitto in una zona centrale della città di Roma dove l’incidenza del canone sul reddito supera il 70%, ma neanche in semiperiferia dove l’incidenza scende ma è ancora del 46% ed è invece al 37% per una casa in periferia. Un incremento che ha comportato l’avvicinamento del valore del canone di affitto con la rata del mutuo inducendo le famiglie ad indebitarsi per l’acquisto della casa. Nel 2002 a Roma i mutui erogati per importi compresi tra 150-200 mila euro erano l’8,4% del totale nel 2005 rappresentavano il 19%. I mutui superiori a 200 mila euro sono passati dal 2,5% all’11,3%. Per contro, i mutui compresi tra 50 e 100 mila euro sono scesi dal 46,8% al 28,5%. In sostanza, le famiglie “proprietarie” di case si sono indebitate per cifre maggiori e per un tempo più lungo. Infatti, i mutui di durata di 25 anni sono passati dal 2,6% al 13,6% e quelli compresi tra 30 e 40 anni dal 2,2% al 23,8%. Quasi il 66% dei mutui sono stati contratti con tassi variabili, leggermente più bassi di quelli a tasso fisso ma soggetti a fluttuazioni. Il 6% delle famiglie che ha contratto un mutuo (il dato è solo nazionale) dichiara di avere degli arretrati nel pagamento delle rate.

Gianfranco Bettin, Una Porto Marghera diffusa nel territorio, il manifesto, 19 aprile 2007

Una densa, grossa colonna di fumo, portata dal vento in alto nel cielo e che poi, nera e grigia, si sviluppa in un enorme serpentone alato. Una strana bestia che infine, come in una spaventosa metamorfosi, si muta in una specie di grande manta che, invece che negli abissi, si allarga nell'aria, la stessa aria che respiriamo, e sopra le nostre teste, sulle quali ricade ciò che il vento e il fumo diffondono: diossine, acidi clorurati e tutto il resto che può sprigionarsi da un incendio come quello scoppiato ieri pomeriggio alla De Longhi di Treviso. Era questo, visibile a decine di chilometri di distanza, lo spettacolo che ha dominato la scena nel cuore della Marca e ha coinvolto in parte le stesse province di Venezia e di Padova.

La De Longhi produce elettrodomestici, occupa un migliaio di dipendenti - che ora temono per il proprio lavoro - ed è una delle più note aziende della galassia produttiva veneta, che si configura come un modello alternativo a quello «a polo», tipo Porto Marghera, anche se le immagini di ieri sembrano venire direttamente dai dintorni del Petrolchimico.

La contraddizione, in realtà, è solo apparente. Il modello produttivo veneto, del nordest in generale, è uno dei più nocivi e pericolosi, specialmente laddove si è realizzato senza regole, senza vincoli, senza cura per l'impatto ambientale, con tassi di sfruttamento e di auto-sfruttamento (per la vasta presenza di aziende a conduzione familiare). Un quadro inquietante della situazione è stato recentemente pubblicato in un libro i cui autori ed editori hanno subito più di una intimidazione: «Il grigio oltre le siepi», a cura di Francesco Vallerani e Mauro Varotto (nuova dimensione editore). Stanco di vedere questo degrado, a 85 anni di età, il grande poeta trevigiano Andrea Zanzotto ha spesso alzato in questi mesi la sua voce. Ovunque, sono attivi comitati e gruppi di cittadini che reagiscono a difesa di aria, terra e acqua.

Sul fronte degli incidenti sul lavoro, il quadro è ugualmente drammatico. Il Rapporto Inail appena pubblicato segnala nel Veneto, per il 2006, 116 morti (18 in più che nel 2005) e 114 mila infortuni. A fronte di ciò, risultano del tutto sottodimensionate le risorse dello Spisal, delle Ulss e degli ispettori del lavoro. Nel contempo, da parte degli enti locali non si intende cambiare strada rispetto all'industrializzazione selvaggia che ha stravolto il paesaggio veneto. L'incidente alla De Longhi è, per tanti versi, esemplare. Segnala, in modo cupamente spettacolare, che c'è una Porto Marghera diffusa sul territorio, proprio mentre quella originale sta cercando faticosamente di entrare in una nuova era. Dimostra che di questa pericolosità non c'è vera consapevolezza: è infatti incredibile che un incendio di questa portata sia potuto svilupparsi così facilmente in un'azienda così nota e ricca. Ancora, viste alcune reazioni di autorità locali, si conferma che, tra troppi amministratori e tra i loro referenti nei servizi e nelle stesse autorità sanitarie (da essi nominate), dopo i primissimi momenti di emozione, la tendenza prevalente è alla minimizzazione. Così, ieri, a sera inoltrata, mentre si sentivano vigili del fuoco e carabinieri esprimere serie preoccupazioni, mentre si invitava la gente a non mangiare la verdura raccolta in zona e si disponeva perché gli alunni oggi non venissero fatti uscire da scuola, si diceva tuttavia che dall'incendio non è uscito niente di troppo cattivo. Insomma, passata la paura, torniamo al solito andazzo. Bisognerà invece tener desta l'attenzione, perché dopo l'incendio è proprio quello che resta nell'ambiente a dover preoccupare di più. Ed è proprio adesso, invece, che rischiano di prevalere gli interessati custodi del grigio che sta dietro le siepi.

Claudio Del Frate, Fabbrica nel parco. «Così si lavora meglio», Il Corriere della Sera ed. Milano, 19 aprile 2007

BRINZIO (Varese) — Che cos'è un parco? Un luogo da tenere sotto la proverbiale campana di vetro, dove l'uomo è una sorta di intruso per sua innata indole portato a far danni, o qualcosa dove è possibile immaginare anche attività economiche, persino industriali purché compatibili con lo stato di grazia dei luoghi?

La domanda che fino a poco tempo fa sarebbe stata solo retorica si è trasformata in qualcosa di molto concreto (dunque che esige una risposta) per il comune di Brinzio, centro del Varesotto interamente compreso nell'area protetta del Campo dei Fiori. All'ufficio di Sergio Vanini, sindaco del paese, si è presentato il rappresentante di un'azienda di software che ha depositato sul tavolo la seguente carta: la costruzione di un'azienda di programmazione informatica a Brinzio, nel cuore del parco, ad alta tecnologia, ma a impatto ambientale zero. Una cosa alla quale nessuno prima aveva mai pensato e soprattutto nessuno aveva mai formulato. Spunta dunque una fabbrica nel parco: la proposta «rivoluzionaria» è partita dalla Areaweb, gruppo informatico in rapido sviluppo su molti mercati mondiali ma che ha la sua casa madre a Binago, nel Comasco. La Areaweb si limita a confermare in termini generici la proposta, senza entrare nei dettagli. Dettagli, per la verità, che non sono stati al momento illustrati nemmeno al sindaco di Brinzio.

«Le persone con cui abbiamo parlato — racconta Vanini — non ci hanno presentato un progetto, si sono limitate a sondare il terreno, a valutare la nostra disponibilità. Ma come si fa a dare una risposta in assenza di dati concreti sulle volumetrie, sul tipo di produzione da insediare? Siamo in attesa di maggiori dettagli».

Qualche dettaglio, però, trapela già: la Areaweb avrebbe messo gli occhi, a Brinzio, su quel che rimane di una vecchia filanda attiva ai margini del paese nei primi decenni del '900. La zona è piuttosto isolata, abbandonata, ormai del tutto avvolta dalla vegetazione cresciuta in quasi un secolo di oblìo. L'idea di fondo sarebbe quella di far lavorare i «cervelloni» che programmano i computer in un ambiente rilassante. Particolare che rende la proposta ancor più innovativa: l'impianto sarebbe alimentato al cento per cento da fonti di energia rinnovabili, in sintonia con i vincoli del parco. Se il progetto andrà in porto a Brinzio, tanto meglio; altrimenti, par di capire, Areaweb si rivolgerà ad altre aree verdi.

L'interrogativo in attesa di risposta è però ancora quello di partenza: un parco è compatibile con attività umane diverse da agricoltura e allevamento?

Se il sindaco di Brinzio resta dubbioso sulla proposta che si è visto sottoporre, più risoluto appare Giovanni Castelli, presidente dell'ente che amministra il Parco di Campo dei Fiori: «Le norme di tutela furono scritte 20 anni fa, quando si pensava di dover mettere tutto sotto chiave. Molte previsioni, per fortuna, si sono rivelate infondate. Per quel che ci riguarda in quell'area un'azienda di software potrebbe pure starci, basta che sia di dimensioni sostenibili per le risorse, ad esempio l'acqua, disponibili. Si tratta in buona sostanza di una produzione intellettuale, non vedo in questo un attentato all'ambiente: anzi, ospitare chi vuole lavorare nel parco, purché nel rispetto dell'ambiente sarebbe la quadratura del cerchio. la gente lo frequenta nei fine settimana per svago, potrebbe farlo anche durante gli altri giorni. Sempre nel rispetto della natura».

Corrado Poli, Progresso e qualità della vita in un nuovo patto con la natura (id.)

La notizia che il direttore di un parco naturale è a favore della collocazione di un'impresa di software su un territorio protetto fa scalpore. La contraddizione potrebbe essere solo apparente, ma è densa di significati. L'azienda restaurerebbe un'antica filanda, sita nel Parco del Campo dei Fiori), pur di consentire ai suoi programmatori di lavorare in un ambiente rilassante che invita alla concentrazione. Viene proposto come un discorso di pura efficienza. Invece potrebbe nascondere un atteggiamento sociale ed etico, forse giustamente colto dal direttore del parco.

Oggi, lo spartiacque tra progresso e conservazione si dovrebbe riferire al diverso rapporto con l'ambiente. In America si parla dei cosiddetti «Cultural Creatives» i quali costituirebbero fino a un sesto della popolazione. Un mercato vasto, ma politicamente inesistente perché diviso sui vecchi fronti della politica. Queste persone sono pronte ad adottare modelli di vita alternativi, sia pure con diversa intensità, che vanno dal mangiare vegetariano a non usare la macchina, dal considerare un dovere morale riciclare i rifiuti al vivere in campagna.

Non sappiamo quanti siano in Italia i potenziali «Cultural Creatives», ma potrebbero rientrare tra di essi il direttore del parco e gli imprenditori che vogliono restaurare la filanda. Si tratta di nuovi gusti e di diversi status symbols. Nelle città del Nordovest americano si è sviluppato un gusto per le architetture e persino un'arte impregnata di valori ambientali. Queste città sono considerate per molti versi avanguardie culturali. È nei nostri geni essere attratti dalla natura e solo un compromesso ci fa amare la confusione e l'inquinamento delle città.

Chi non si sente inspiegabilmente attratto da un ruscello che scorre tra gli alberi? Chi non soffre tra il cemento polveroso? Per molti il compromesso oggi è diventato inutile poiché può godere di un benessere elevato pur evitando i mali della congestione, dell' inquinamento e della cementificazione del mondo.

Sta evidenziandosi una profonda contraddizione. Da una parte si pone l'industria tradizionale, dall'altra le nuove tecnologie. Il conflitto culturale tra le due parti si propone anche nell'elaborazione di nuovi modelli di vita e di pensiero. Ma è evidente che il progresso sta dalla parte di coloro che ricercano un nuovo negoziato con una natura da due secoli almeno bistrattata.

Quando sento ancora parlare di progresso associato alla costruzione di megastrade e ferrovie mi sembra di tornare nel XIX secolo. E mi sembra così vecchio chi ancora si esalta per il grattacielo più alto del mondo! Il progresso lo si deve cercare, invece, in questo riconoscimento dei valori ambientali che portano con sé una nuova sensibilità e un'eleganza culturalmente raffinata, vicine alla naturalità dell' esistenza umana. Se ci sarà ancora progresso, la direzione non può che essere questa.

Giorgio Fiorentini, Abitare a Milano, Il Corriere della Sera ed. Milano, 18 aprile 2007

Si può abitare a Milano in vari modi. Stefano Boeri, nel suo libro «Milano. Cronache dell'abitare», li elenca in modo caleidoscopico: abitare in una baraccopoli, in un letto per migranti, in una casa per anziani, per studenti, in un centro d'accoglienza e via via fino alle isole residenziali e ai «ghetti di lusso» dove tutti i servizi sono «su misura». Su questi modi di abitare si possono fare due considerazioni: difficilmente creano coesione e inclusione sociale e i prezzi delle case (e degli affitti) sono troppo cari.

Per risolvere il primo problema bisognerebbe superare le diversità che creano separazioni. Penso che la Milano dell'Expo 2015 debba investire fortemente nello spalmare le diverse etnicità nel tessuto connettivo di tutta la città. Tentando di rompere i ghetti o le aree monoetniche; magari creando una miscellanea di offerta di servizi in sintonia con le varie diversità e già orientati alla prospettiva delle seconde generazioni degli immigrati. Altrimenti si creerà una forza centrifuga che espellerà i meno abbienti salvo piccole enclave di abitazioni di sussidiarietà e di badantismo per la popolazione anziana.

Ma il «caro prezzi d'acquisto» delle case e il «caro affitti» sono l'altra realtà socialmente dirompente per Milano. Anche questa ostacolo alla coesione e all'inclusione sociale. A Milano dal 2001 al 2005 i prezzi delle case sono aumentati circa del 50%. Queste barriere di prezzo rischiano di ridimensionare la progettualità virtuosa per un welfare equamente distribuito. Una via, parziale ma concreta, per superare il caro prezzi è rappresentata dal modello di «autocostruzione assistita»: cooperative e non profit svolgono azioni di autocostruzione e autoriabilitazione in nuove aree edificabili e ad immobili degradati. Sono cantieri autogestiti e assistititi tecnicamente in modo sussidiario da ong, associazioni, cooperative. Cittadini in team solidale costruiscono reciprocamente le proprie case lavorando nel weekend, durante le ferie e in altri periodi con un risparmio fino al 70% dei costi di costruzione.

E' interessante notare che le famiglie che hanno fatto domanda di autocostruzione sono al 60% autoctone e 40% di origine straniera. Per dirla con con Luca Doninelli nei suoi «Scritti insurrezionali su Milano»: dove c'è Milano c'è casa.

Tommaso De Berlanga, La casa comincia con un tavolo, il manifesto, 18 aprile 2007

Il problema della casa si presenta in carne e ossa fuori dalla sala dove si svolge il primo incontro del Tavolo di concertazione sulle politiche abitative. Curiosamente, tra tutti i soggetti invitati (ministri di infrastrutture, solidarietà sociale, economia, politiche giovanili, per la famiglia; presidenti di regioni, province autonome, Anci, Federcasa, sindacati e costruttori) mancavano proprio i rappresentanti di inquilini, sfrattati, senza casa, occupanti e chi più ne sa di cosa voglia dire vivere senza un tetto sicuro sulla testa.

Così oltre 2.000 persone hanno raccolto l'invito delle associazioni storiche romane (Asia-RdB, Coordinamento di lotta, Sunia, Action, Comitato obiettivo casa, ecc) «assediando» pacificamente l'Istituto San Michele a Ripa, in piena Trastevere. Il ministro Paolo Ferrero ha quindi accolto una delegazione di manifestanti, a nome del governo, per ascoltare le loro proposte e invitarli, in risposta, a partecipare a «un tavolo parallelo» da cui criticare e in qualche modo «controllare» i lavori della sede istituzionale.

Ma i problemi fondamentali, apparsi subito chiari, sono due: risorse scarse e assenza di una visione di politiche abitative che risponda alla dimensione del malessere sociale. Lo stesso Ferrero ha ammesso che «servirebbero 10 miliardi», ma che bisognerà accontentarsi di molto meno («briciole», ha riassunto Angelo Fascetti dell'Asia). Soprattutto, all'interno del governo prevale un'impostazione assolutamente «mercatista», che recalcitra di fronte all'intervento pubblico per avviare una politica della casa diversa dall'attuale. Il massimo che si riesce a concepire è infatti il «recupero degli alloggi pubblici sfitti (pochissimi, ndr), autorizzazione ai comuni di acquisire alloggi da mettere sul mercato, verificare il complesso delle proprietà del Demanio, utilizzare gli immobili sequestrati alla mafia, rendere disponibili alloggi degli enti previdenziali». Nessuna intenzione invece di mettere in discussione la legge 431 (quella che abolì l'equo canone, scatenando la corsa verso il cielo degli affitti), né di rimpinguare un patrimonio pubblico massacrato da dismissioni e cartolarizzazioni. Nessuna risposta nemmeno alle proposte del Sunia: «introdurre la detraibilità dell'affitto dal reddito», per creare un «conflitto di interessi tra locatario e affittuario», e la «tracciabilità del pagamento», con l'obbligo di effettuarlo per assegno o bonifico (si azzererebbe o quasi il fenomeno dell'affitto «in nero»).

«Servirebbe un milione di alloggi», spiegano i comitati di movimento. Meno dei contratti di locazione che scadranno entro quest'anno, mettendo altrettante famiglie di fronte all'alternativa tra consegnare la propria busta paga al padrone di casa oppure lanciarsi nel «mercato delle occupazioni». Probabile perciò una manifestazione nazionale a maggio.

Le politiche seguite negli ultimi 20 anni hanno infatti privilegiato l'acquisto privato sul libero mercato, creando una quota enorme di popolazione indebitata con i mutui. Per chi è rimasto in affitto, il canone può arrivare a incidere fino al 60-70% dello stipendio. Una ricerca del Cresme - condotta per conto di Legacoop e Ancab - pubblicata proprio ieri, dimostra l'entità del fenomeno e il livello abnorme di redditività dell'investimento immobiliare in alcune aree (in certe città un nuovo immobile può rendere fino al 290%), visto che i costi di costruzione sono invece relativamente omogenei su tutto il territorio nazionale. Delude, in questo caso, la proposta: da ricercare «facendo i conti con il mercato», ma chiedendo alle amministrazioni locali di «far reinvestire» parte di questa redditività in aree e immobili da destinare all'emergenza abitativa.

Su eddyburg, il riferimento immediato è ai contributi più recenti diGiovanni Caudosul tema (f.b.)

Era noto, molte famiglie italiane se ne erano accorte: in Italia chi vive in affitto vive male. Ora un’indagine del Censis condotta per il Sunia e la Cgil e svolta con il metodo del campione telefonico a 5 mila famiglie in affitto, aggiorna e definisce anche il quadro socioeconomico di questo disagio.

1. I dati sulla consistenza confermano che nel mercato immobiliare italiano quello dell’affitto é un mercato marginale. Le famiglie in affitto rappresentano il 18,7%. Con valori più bassi ci sono l’Irlanda, la Spagna, la Slovenia, l’Ungheria. In Europa mediamente il mercato dell’affitto costituisce il 35-40% degli alloggi, il dato italiano si attesta, quindi, più o meno alla metà. Marginale é anche la quota degli affitti sociali, appena il 4,5%, qui la media europea é 4 volte tanto, il 21%.

2. Il forte incremento registrato dai canoni di affitto negli ultimi 7 anni: più 112,4% nelle città italiane con oltre 250 mila abitanti che diventa un +128,1% nelle sole città del Centro Italia. Incremento che, relativamente allo stesso contesto, misurato per il triennio 2003-2006 è del +25,9%. Si registra quindi un notevole incremento dei canoni che si é ulteriormente accentuato negli ultimi tre anni. In scadenza quest’anno ci sono altre decine di migliaia di contratti di affitto e il rischio é che, in assenza di interventi di calmieramento, questo trend sia destinato a crescere ancora di più.

3. La composizione socio economica delle 4 milioni 180 mila famiglie in affitto. Il 66% di queste famiglie sono monoreddito (la media nazionale é del 49%), il 76% ha un reddito fino a 20 mila euro. La composizione delle famiglie in affitto é per il 70,4% di 2/4 persone, ma c’é anche un 19,2% di famiglie monopersonali. Quasi un terzo dei capifamiglia ha come fonte di reddito la propria pensione (32,9%), mentre sono operai poco meno di 4 su 10 capifamiglia (39,6%). Infine, un quarto (25,1%) dei capifamiglia sono donne.

4. Incidenza del canone. Le famiglie con un reddito fino a 15 mila euro devono dare per l’affitto il 48% del reddito. Ma la spesa complessiva per la casa, ovvero il canone di affitto e le spese per le bollette, e il condominio, ammonta a 615 euro/mese (media nazionale) che sale a 760 euro/mese nelle città con oltre 250 mila abitanti. Pertanto l’incidenza della spesa per la casa sul reddito diventa per le famiglie con reddito fino a 10 mila euro, rispettivamente come dato medio nazionale e come dato medio relativo solo alle grandi città, del 62% e dell’86%. Per le famiglie con un reddito di 25 mila euro/anno l’incidenza del canone sul reddito é, se si vive in una grande città, di poco al di sotto del 40% (38,3%).

Il costo della casa al 2006, confrontato con i rilevamenti precedenti come quello dell’indagine Istat sui consumi delle famiglie (473 euro, dato 2003), registra un incremento che in tre anni é di circa il 30%.

Gli incrementi dei canoni di affitto se rapportati alla composizione sociale delle famiglie evidenziano come negli ultimi anni si sia prodotto un crescente squilibrio sociale, una erosione reale di reddito dalle fasce più deboli verso i ceti sociali più abbienti. Un travaso dai più poveri verso i più ricchi.

Una delle prime privatizzazioni é stata quella degli affitti, nel dicembre 1998 con la legge 431, governo d’Alema, fu abolito l’equo canone ma anche il regime dei patti in deroga. La convinzione era che liberalizzando i canoni il mercato si sarebbe autoregolato e avremmo avuto più offerta di alloggi in affitto e quindi più competizione e quindi più vantaggi per gli affittuari. Le cose come si vede dai dati sono andati in modo diverso (+112,4% di incremento in 7 anni).

Il prossimo 17 aprile si insedia il tavolo governativo sulla casa, composto da 5 ministeri e da un numero consistente di rappresentanze sindacali, associazioni di categoria, proprietà e imprese. Alcune associazioni di categoria, come il Sunia suggeriscono di ripartire proprio da qui: abolire la 431 e l’utopia del mercato libero e affermare invece il principio di porre un tetto ai canoni di mercato.

Questa è la storia di un'utopia diventata realtà. Ha a che fare col vivere insieme, condividendo alcuni spazi e servizi coi vicini di casa (lavanderia, stireria; ludoteca, biblioteca, orto, giardino, palestra ecc.) pur mantenendo la privacy nel proprio appartamento. L'idea è interessante. Anche se non è così nuova per chi ha vissuto la ventata degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Le neotribù attuali però non sono formate dai nipoti dei figli dei fiori ne da idealisti new age, ma da un panorama eterogeneo di single, giovani e meno giovani, coppie senza figli, famiglie più o meno numerose, anziani in cerca di socialità. E non si chiamano più "comune" o "casa collettiva" ma "cohousing". Che vuoi dire, appunto, abitare insieme. Nasce in Danimarca nei primi anni ottanta e viene adottato con successo in Usa, Gran Bretagna, Australia, Canada. È un modo organizzato di vivere in edifici pensati per più nuclei, scegliendosi i vicini di casa. Si abbattono i costi fissi di alcune aree perché uso e proprietà sono ripartiti su più persone. La convivenza tra più generazioni è facilitata, così come gli scambi di vicinato. Altro valore forte, il basso impatto: l'edificio dovrà consumare pochissimo (ci sono dei richiami a casa clima, casa passiva, bioarchitettura). Abitare in cohousing vuoi dire molte cose, ma una soprattutto: trovare persone interessate a un modo comune di concepire la vita a partire dalla dimensione quotidiana. Ogni gruppo fa storia a se e il percorso che può essere intrapreso è "su misura". Siamo andati a vedere le prime esperienze di cohousing in Italia.

IN TOSCANA TRA DUNE E PINETE

“Noi ce l'abbiamo fatta, volete venire a vivere con noi?". Con questa scritta a grandi lettere tipo murales il gruppo dei coabitanti di Calambrone (sul litorale tirrenico) accoglie i visitatori e si presenta ai nuovi arrivati. Il sito si chiama Cohlonia e sta nascendo negli spazi di Villa Maltoni, capolavoro dell'architettura razionalista anni Trenta di Angiolo Mazzoni. Tutt'intorno, il Parco di Migliarino San Rossore e le dune di sabbia. Cohousing Ventures si è accordata con la proprietà per destinare la porzione nord dell'ex colonia estiva al primo progetto di coabitazione toscano, probabilmente l'unico al mondo in una vil1a protetta dalle Belle Arti. C'è ancora qualche appartamento disponibile, su una quarantina di appartamenti con affaccio sul parco o sul mare e le visite sono numerose, in quello che potrebbe diventare un lifepark sul mare di stile californiano (24.000 mq di parco e quasi 1.000 di spazi in condivisione). «Per noi sarà un posto dove vivere, non andare in vacanza: tanto spazio per i bambini, tanto verde, accesso diretto al mare», raccontano Claudio e Stefania, che si trasferiscono qui per il piccolo Romeo di nove mesi. «Ma non solo: siamo cresciuti entrambi in piccole realtà, poco cemento e molta natura. A Milano abbiamo imparato e lavorato, ora siamo pronti a un ritorno alle origini». Stefania sogna una sala comune dove tenere corsi di yoga, Claudio di regalare al figlio pomeriggi di gioco condiviso coi vicini di casa. Gli altri cohouser di Calambrone sono golfisti, architetti, ingegneri, farmacisti con la voglia di ritmi tranquilli, ma anche nomadi itineranti tra campagna e città. Del resto a pochi chilometri c'è Pisa e in trenta minuti si arriva a Lucca e Livorno.

LA COMMUNITY VOLA LEGGERA

«Con Comunityone siamo partiti per dare vita a un luogo che potesse essere la nostra personalissima isola che non c'è». Enrico è la mente di questo neonato cohousing nel quartiere tra viale Monza e il naviglio della Martesana, zona nord Milano. Dodici nuclei di giovani artisti, neoarchitetti, studenti. «Avevamo a disposizione uno spazio industriale di mille mq, in una periferia milanese in rapida trasformazione, adiacente ai nuovi quartieri universitari della Bicocca e ottimamente servita dai mezzi di trasporto pubblico, la metro fermata Precotto è a poche centinaia di metri. Qui abbiamo immaginato casette invisibili con stanze "volanti", da vivere in condivisione; comunità dentro la comunità. Abbiamo scommesso sull'importanza vitale della bellezza; abbiamo salvato il salvabile perché il tempo è valore. Inestimabile». Insieme a Enrico, due amici con cui divide il taglio più grande dell'edificio, al primo piano, con un'ampia terrazza. Le altre undici unità sono tutte a piano terra, con l'affaccio sulla corte interna, piccole aiuole ritagliate nella pavimentazione ( «dove pianteremo alberi da frutto su un letto di sedum, la stessa erba usata sui tetti verdi»). Anche Lune, studi in comunicazione allo Ied, condivide il suo spazio nella Comunityone: vuole viverci bene e organizzare eventi nella sala comune. «Il business plan richiedeva la realizzazione di dodici appartamenti, parte per il mercato della vendita e parte destinati all'affitto. I materiali scelti sono umili e austeri: ferro, lamiera, legno, cemento, elementi naturali lasciati a vista», continua Enrico. «Il lavoro preliminare sulle piante ha generato grandi stanze utilizzabili come piccoli monolocali con soppalchi privati, soggiorno-studio al piano terreno e zona notte soppalcata. Abbiamo voluto spazi comuni che unissero la funzionalità necessaria a un'opportunità di aggregazione. É nata così , l'idea della lavanderia-centro della vita, di comunità affacciata sul giardino: qui, si potrà usufruire di macchine professionali per lavaggio e asciugatura mentre ci si scambia due chiacchiere. E guadagnare spazio all'interno degli appartamenti, riducendo costi e consumi". I più sportivi potranno allenarsi i con gli attrezzi dell'attigua palestra. Invenzioni hi-tech: una colonna d'acciaio zincato all'entrata di ogni appartamento raccoglie i cavi per le tecnologie disponibili e quelle che si renderanno necessarie per il buon cablaggio. Un canale d'alluminio è annegato nel pavimento e utilizzabile per il passaggio di cavi elettrici. Comunityone ha "la natura in testa": col tetto d'erba che copre le abitazioni e vive con le stagioni, garantendo il massimo dell'isolamento termico sia nei mesi caldi che durante l'inverno (grazie anche al sistema di ventilazione che crea una intercapedine d'aria tra la soletta in cemento egli strati superiori).



CASE, FABBRICHE E MUSEI

Sempre a nord di Milano, ma più a ovest, c'è il quartiere Bovisa, con le sue fabbriche riconvertite a terziario e abitazione, i nuovi insediamenti per la cultura, gli spazi per il tempo libero: la sede bis della Triennale, il futuro nuovo Istituto Mario Negri, decine di associazioni e di gruppi creativi. Uno Skate Park dove i giovani metropolitani si allenano e la " BauBau's factory", dove fotografi, architetti, designers, pittori lavorano in uno spazio interattivo. Qui sta nascendo l'edificio di quella che a tutti gli effetti è stata la prima comunità in cohousing italiana: in via Donadoni 12, sempre sotto la supervisione di Innosense (il pluriesperto Mortara, che ha seguito Cohlonia) su base Cohouhsing.it, arriva Bovisa Urban Village. È in questa zona in forte espansione, a 400 passi dalla sede del Politecnico, che parte il progetto di recupero industriale di un'ex fabbrica primi '900. Ci sarà spazio per 30 tra loft e mansarde con garage, giardini e terrazze private e 700 mq di spazi comuni, tra cui una piscina con solarium. «Non è un villaggio modello in stile utopistico-socialista tipo Crespi d'Adda, come temevo quando mi sono iscritta, ne una comune in cui tutti girano scalzi e le donne partoriscono in casa...», testimonia Paola, una delle prime a formare il gruppo (giornalista, una bimba di due anni). «Il punto è che chi fa una scelta di questo tipo ha già una cultura più o c meno intensamente orientata al rispetto dell'ambiente, al risparmio energetico, all'ecosostenibilità. E alla disponibilità reciproca». Il prezzo delle unità abitative - da 50 a 140 mq accorpabili - è inferiore a quello di mercato (3.200/3.400 euro al mq) e comprende la quota parte di tutti gli spazi comuni e i servizi condivisi. «Single, matrimonio o Dico? Be', io scelgo la tribù metropolitana. È un desiderio di convivenza che mi porto dietro da quando ero bambina, divisa tra la casa dei nonni in paese e quella dei genitori in città. Nella prima era tutto un andare e venire di persone, si intrecciavano relazioni e storie. In città eravamo chiusi. Da grande, sposata, ho cercato di riempire casa mia di amici, vicini, ragazzi alla pari, bambini in affido. Il mio happy end non è una coppia, è tanti. Gli sconosciuti del cohousing stanno diventando miei amici», dice Francesca, la "giorn-artista" del gruppo.

«Vengo dalla provincia e quello che cerco è una normale dimensione umana anche in questa città, dove ora lavoro», aggiunge Simone, sociologo sondaggista. «Ho colto quest'opportunità perché mi sembra tutto chiaro, esplicito. La zona mi piace, la gente anche. E lo stile dei coordinatori mi assomiglia. Sarà facile stabilire i confini tra pubblico e privato». Intrigante e molto partecipato anche il secondo esperimento in coabitazione.

Bioabitat sorgerà ad Abbiategrasso, hinterland verde milanese. Qui sono in gran parte giovani coppie con bambini, col desiderio di lasciare la città per una dimensione più aperta e naturale della vita. Con Giordana Ferri (gruppo Cohousing.it) stanno progettando insieme un insediamento molto sostenibile: due unità abitative di quattro piani, collegate da edifici con servizi condivisi. Gli appartamenti in duplex hanno un'esposizione est-ovest ideale e tanto verde intorno. Il prezzo sarà significativamente inferiore a quello di mercato, nonostante si tratti di case con importanti contenuti di bioedilizia e sostenibilità. Il primo spazio in Italia per lavorare in condivisione parte invece a Lambrate, a due passi dalla ex Faema di via Ventura, in un'altra vecchia fabbrica. Un polo creativo, un'officina di idee, un laboratorio di cose nuove che può ospitare fino a 30/40 avviate imprese, botteghe, studi professionali, agenzie web e di pubblicità, studi di architettura, associazioni. È la conferma che Milano è una città dalle molte opportunità. Secondo una ricerca DIS-Indaco del Politecnico (con GPF&Associati) il 43% dei milanesi è contento di vivere in questa città e 1'80% è sostanzialmente soddisfatto della casa in cui abita (anche se in affitto), ma per il 60% la casa è un "luogo aperto" non un rifugio. Tra i 3.500 milanesi che hanno risposto al questionario, il 90% denuncia la perdita della dimensione di quartiere e aspira a una vita permeata di forti valori sociali (amicizia, condivisione...). Il 40% non ha mai conosciuto i propri vicini di casa ma il 75% desidererebbe avviare scambi. Quasi il 50% vorrebbe abitare in un quartiere vero e "caldo".

E IL FUTURO?

Lo abbiamo chiesto al fondatore di Cohousing.it, presidente di Innosense - agenzia per l'innovazione sociale che ha dato avvio all'avventura italiana in collaborazione col DIS-Indaco del Politecnico di Milano (che ha fatto la ricerca preliminare). «Altri progetti nell'area di Milano e il primo a Roma. In contemporanea, la prima iniziativa di cohousing dedicata alla terza età (spero in Liguria). E un paio di insediamenti partecipati per quelli con coraggio e cuore, pronti a lasciare la città per rifondare la loro vita (ci stiamo muovendo su Volterra). Poi dipende da quanto velocemente crescerà la rete di promotori locali del cohousing a cui stiamo lavorando. In Italia c'è spazio per avviare almeno una decina di progetti l'anno». Vedremo anche le case per vacanze "condivise"? «Non credo: il cohousing tra persone che si vedono 3/4 settimane all'anno è una contraddizione in termini. Ma stiamo avviando interventi dove si possono comprare casa e laboratorio, altri che prevedono affitti prolungati, minicohousing da 5/6 famiglie in città. Spero anche nei retrofit-cohousing, che nascono dagli abitanti di un condominio che un giorno decidono di usare insieme i locali al pianterreno abbandonati, i negozi su strada sfitti, le terrazze comuni, gli androni e il garage in car-sharing. Non è così difficile. All'estero si fa anche questo con molte, piacevoli sorprese». Nei sogni di Mortara e del suo team (forse anche di molti che ci leggono) ci sono poi borghi abbandonati ristrutturati con garbo e in una logica di condivisione. «E magari un accordo col Fai per riabitare luoghi e siti che si aprono a malapena una volta l'anno e, perché no, una legge quadro che incentivi il cohousing nei piani di recupero di interi quartieri come Bagnoli a Napoli o i Mercati Generali a Roma», Il cohousing genera potenti "cellule staminali" di rigenerazione e integrazione sociale.

Titolo originale: The Renter's Manifesto – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Qui in Gran Bretagna tutti parlano dei lavoratori di Treorchy, Galles, che hanno perso il posto perché l’azienda simbolo Burberry ha trasferito la produzione in zone più a buon mercato del mondo. Non c’è bisogno qui di scendere in particolari, visto che ci sono storie simili anche negli Stati Uniti e altrove. Qualunque comunità, piccola o grande che sia, che dipende molto da una sola impresa, è molto vulnerabile a queste trasformazioni del panorama produttivo. Chiedetelo agli abitanti di Flint, Michigan.

Spesso si dà la colpa alla globalizzazione, ma non è solo questa la fonte di cambiamento. Anche la concorrenza nazionale può risultare altrettanto potente, come vi confermerà qualunque barista che abbia uno Starbucks nella stessa via. O le cantonate prese dai dirigenti: Toyota sta dimostrando che si guadagna a costruire automobili negli Stati Uniti, ma non a Detroit, e non con lavoratori sindacalizzati. Poi c’è l’evoluzione tecnologica. Basta pensare a tutti i dattilografi che sono stati costretti a imparare nuovi mestieri e trovarsi nuovi lavori, per via della potenza di Microsoft Office.

Le grandi città possono trovarsi in situazioni difficili se si specializzano troppo e poi scoprono che i tempi sono cambiati. Detroit è un esempio. Lo stesso vale per Manchester nel nord-ovest inglese. Birmingham, nelle midlands, ha una storia diversa, una città genericamente attiva, che fa di tutto, niente in particolare. Come ha sottolineato l’attenta osservatrice delle economie Jane Jacobs, Birmingham era ritenuta ad alta inefficienza se paragonata alle raffinate produzioni di Manchester, ma quando è arrivato il ciclo al ribasso, Manchester ne è rimasta devastata, mentre Birmingham ha continuato a barcamenarsi. Chicago, Seattle, New York, e Londra si sono reinventate in modi simili, più e più volte.

Il che ci porta al mistero di questa settimana: perché la gente abita ancora a Detroit, che ha tanto sofferto e per tanto tempo? Perché non trasferirsi a Chicago o a New York? Originariamente le persone si trasferivano in posti come Treorchy perché lì c’era il carbone da estrarre. Adesso che le miniere hanno chiuso – e anche la fabbrica della Burberry – perché ci restano?

Una delle ragioni, ovviamente, è che i legami sociali contano. A molti piace restare vicino a dove sono nati. Ma molti altri preferirebbero cercare nuove occasioni: vorrei dire, anche, nuove esperienze. Mio padre ha trasferito la famiglia quattro volte in quattro posti diversi sparsi per l’Inghilterra, inseguendo il lavoro. Anch’io mi sono spostato parecchio per trovare l’occupazione giusta, e raramente me ne sono pentito.

Ma i legami emotivi non sono l’unica cosa che ci trattiene. Ci sono costrizioni bizantine per la migrazione fra stati. Philippe Legrain, autore di Immigrants: Your Country Needs Them, sostiene che un sistema migratorio più libero promuoverebbe città creative ed economicamente più solide. Ha ragione.

Anche quando guardiamo alle migrazioni interne, ci sono degli ostacoli formidabili. Ovunque la gente sembra particolarmente propensa ad essere proprietaria dell’abitazione – come nel Regno Unito, in Spagna, in alcuni degli stati USA – ne soffre di conseguenza il sistema dell’occupazione. L’economista inglese Andrew Oswald ha dimostrato come in tutti i paesi europei, e negli stati USA, ad alti livelli di proprietà dell’abitazione corrispondano alti livelli di disoccupazione. Fattori più comunemente usati, quali un welfare molto generoso o gli alti livelli di sindacalizzazione, non spiegano la disoccupazione tanto bene quanto la tendenza alla proprietà della casa. Avere casa in affitto ed essere flessibili fa miracoli per quanto riguarda la possibilità di riuscire a trovare sempre un’occupazione interessante.

Ricerche recenti pubblicate dall’ Economic Journal indicano come chi possiede la propria abitazione tenda a formare reti locali più dense, che contribuiscono a stabilizzare posti di lavoro. Ma questi posti di lavoro sono meno ben collocati che altrove, e le distanze casa-lavoro più lunghe. Dunque ha ragione il professor Oswald a sostenere che dovremmo fare di tutto per rimuovere gli ostacoli ad affittare una casa, o a venderne una per comprarne un’altra. Sarebbe anche molto pratico se si potessero costruire case vicino a Manhattan.

Ma anche se facessimo tutto questo, gli economisti Ed Glaeser e Joe Gyourko spiegano che resta ancora un grave ostacolo: le case non camminano. Per quanto vadano male le cose a Detroit o a Treorchy, quelle case sono sempre lì, e se sono abbastanza economicamente accessibili, la gente continuerà a volerci abitare. Il risultato probabile è una grigia forma di sergregazione: Chi crede di poter trovare un buon lavoro nelle città in crescita si trasferirà lì, pagando affitti elevati. Chi ha meno fiducia, non vuole rischiare di smettere di essere disoccupato in una casa a poco prezzo, per diventare disoccupato in un’abitazione che costa molto. Detroit continuerà ad avere abitanti per parecchio tempo.

here English version

(* ) vedi in fondo

Incontriamo J.Donzelot a Roma, in occasione di un suo viaggio italiano che lo ha portato all’Università di Roma Tre per una conferenza sul futuro delle politiche pubbliche contro la marginalità urbana, ed a Bari per un convegno nazionale della Cgil sulle periferie urbane del nostro Mezzogiorno. Riconosciuto come uno dei maggiori studiosi di questione sociale ed urbana, Donzelot ha recentemente pubblicato un saggio nel quale ritorna sulle rivolte del novembre 2005 - Quando la città si disfa (2006) – proponendo un modello di analisi delle trasformazioni urbane al tempo della mondializzazione ed una decostruzione critica chiara e netta di 25 anni di intervento pubblico nelle realtà di banlieue. Un impegno a cavallo fra storia, sociologia ed analisi delle politiche pubbliche che dura da trent’anni, dal suo primo testo - La polizia delle famiglie (1977) – con una postfazione di Gilles Deleuze, ai più recenti Lo Stato animatore. Saggio sulla Politique de la Ville con Philppe Estebe (1994) e Fare società: le politiche urbane in Francia e negli Stati Uniti (2004).

AC In Francia, le sommosse del novembre 2005 nelle banlieues di tutto il paese sono state interpretate sia secondo una lettura più o meno tradizionale che ne riconduceva le ragioni alla perennità della questione sociale, sia come il risultato di una più specifica questione urbana. Possiamo dire che la nuova questione urbana mascheri in qualche modo la resistenza della vecchia questione sociale?

JD Direi che si tratta di entrambi i fenomeni: siamo di fronte sia ad una questione sociale sia ad una questione più specificamente urbana. Occorre essere ciechi per non riconoscere la profonda disuguaglianza che condiziona l’accesso agli studi, all’occupazione e soprattutto ad un lavoro che sia coerente con gli studi compiuti nel caso di una persona che risiede nei cosiddetti quartieri di relegazione. Nelle nostre banlieues si concentra la metà dell’edilizia sociale disponibile in tutto il paese, in situazione che richiamano sia la forma dell’enclave sia quella di un eccessivo decentramento. La discriminazione colpisce con nettezza: a parità di requisiti, le possibilità di essere assunto per un giovane di banlieue rispetto ad un giovane bianco autoctono e proveniente da un quartiere benestante é di 1 a 2. E’innegabile che il colore della pelle di un ragazzo beur disturbi molti datori di lavoro, preoccupati di avere una relazione corretta con la propria clientela. Allo stesso tempo, occorre essere stupidi per non vedere a qual punto e con quale rapidità la città si sia frammentata, seguendo in questo una tendenza della popolazione a puntare tutto sulle affinità elettive più che sulla convivenza con il diverso. Sembra proprio che le classi medie e superiori – colte, competenti, protagoniste dei circuiti della decisione – non vogliano più lavorare con i membri del mondo operaio, in tutte le sue complesse articolazioni, e soprattutto non vogliano convivere con loro nello spazio urbano. Le classi popolari le si accetta a distanza, quella distanza che in fondo permette la delocalizzazione a tutti i livelli: i lavoratori diventano meno costosi, non fanno sciopero, soprattutto non vivono vicino a te e non turbano la scolarizzazione dei tuoi figli. Si ama molto restare fra i proprio simili, quando se ne ha la possibilità. Viceversa, alcuni sociologi come Marco Oberti (autore insieme a Huges Lagrange di una recente ricerca sulle rivolte del novembre 2005, La rivolta delle Periferie, Bruno Mondadori, 2005) sostengono che le classi medie, soprattutto quelle che lavorano nella funzione pubblica, non sarebbero ostili alla mixité sociale. Purtroppo, occorre notare come questi sociologi visitino solo quei comuni dove gli eletti di sinistra compiono sforzi particolari in questo senso; ed anche che sono proprio questi i comuni dove più alta è la frequenza delle scuole private….Si tratta di una logica della separazione molto insidiosa. Nel caso di quelle banlieue coinvolte dalle rivolte del novembre 2005, il suo impatto si vede nello sviluppo di una logica da ghetto caratterizzata da una cultura del sospetto che coinvolge gli abitanti stessi, sempre sospettati di tradire l’altro e di ricorrere a mezzi illegali per la propria sopravvivenza…..Esattamente come in una prigione, dove si ha solidarietà esclusivamente in forma di ostilità contro il mondo esterno, nel sentimento condiviso del sentirsi tutti – egualmente – delle vittime. Allora, in questo caso, si brucia tutto: macchine, negozi, scuole….

AC L’impressione é che in questi quartieri si sperimenti il fallimento di un certo tipo di modernità nella sua forma urbana. La banlieue francese, dominata dai moduli compositivi tipici del movimento moderno, nasceva come potente meccanismo di coesione sociale, di modernizzazione del sociale per mezzo dell’urbano, per usare una tua definizione.

Si, siamo di fronte all’esaurimento – in forma molto acuta - di quell’esperienza. L’idea di modernizzare la società per mezzo dell’urbano rimanda all’ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l’affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista dei cosiddetti trenta gloriosi (definizione corrente in Francia per richiamare i trent’anni di ininterrotta crescita economica fra il secondo dopoguerra e la metà degli ani settanta, ndr), l’amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di urbanizzazione il cui principio fondamentale era quello di costruire dei quartieri che fossero delle anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell’affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita familiare corretta in una condizione di igiene e di comfort, senza che i bambini giocassero in strada (come succedeva normalmente nei centri storici…….) o che i capofamiglia spendessero il proprio tempo nei bistros (infatti, niente bistros in banlieue….). Più complessivamente, quella fase della modernizzazione si presenta come un mezzo di integrazione e quindi di miglior utilizzo della classe operaia nella fase di sviluppo fordista di quegli anni. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia. Si tratta di un sistema che all’inizio ha funzionato, l’abbandono delle campagne avveniva contestualmente alla trasformazione terziaria dei centri urbani: i francesi avevano di fatto accettato quella nuova forma dell’urbano….

AC Con gli anni settanta, assieme all’’esaurimento di quel ciclo di sviluppo produttivo assistiamo anche alla fine di questa peculiare forma francese di urbanesimo fordista. Lo spazio urbano, nonostante la tanto decantata exception francaise ed il relativo modello sociale, è stato preso in seguito da intensissimi processi di modernizzazione senza modernità in cui sono proprio i quartieri svantaggiati a costituirsi come elementi di verifica locale e localizzata dei processi di globalizzazione.

In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della promiscuità sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori di classe media che risedevano in banlieue. Inizia cosi’ la fase dello sviluppo peri-urbano e del mito della casa individuale nel verde. Tutto questo mentre si dava vita al meccanismo di relegazione, con l’assegnazione degli appartamenti improvvisamente resisi liberi a nuclei familiari d’origine immigrata, prevalentemente provenienti dal Maghreb, che potevano godere delle opportunità anche economiche dei dispositivi di raggruppamento familiare. Questo, in realtà, ha permesso di salvare la vivibilità dei quartieri di banlieue più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani – in senso sia spaziale sia sociale – dal mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che rimanda a quel processo più ampio di riorganizzazione dello spazio tipico delle società avanzate che ho definito come città a tre velocità. Assistiamo alla coesistenza di tre fenomeni: il costituirsi di questi spazi di relegazione dove si ha una sorta di stagnazione degli abitanti in luoghi non connessi ai grandi flussi, dove popolazioni di origine immigrata non si sentono appartenere né al proprio paese d’origine né alla società nella quale essi vivono; l’emergere degli spazi di peri-urbanizzazione, quelli dominati da agglomerazioni di case individuali sempre più lontane dall’urbanizzazione storica, dove vivono le classi medie per meglio proteggersi dalla racaille di banlieue (espressione peggiorativa utilizzata dal Ministro Sarkozy durante le sommosse del novembre 2005, ndr) ma anche perché i valori immobiliari nei centri urbani sono saliti troppo perfino per una famiglia di classe media; infine, gli spazi della gentrification: spesso vecchi quartieri popolari di grandi città che acquisiscono valore contestualmente al crescere della presenza di esponenti delle professioni legate alla nuova economia dei servizi, con la loro cultura transnazionale e la loro ricerca di servizi – specie ricreativi e culturali – di prestigio. A Parigi, assistiamo al fenomeno sempre crescente dell’evacuazione delle classi medie costrette a trasferirsi in mondi periferici sempre più lontani, lasciando la città a chi la merita: quelli che sono, per l’appunto, collegati con le altre grandi città del mondo…..

AC Torniamo alla realtà della relegazione. In Francia siamo di fronte al paradosso di un forte volontarismo dell’azione pubblica a fronte a risultati sempre più deludenti. Più di vent’anni di politique de la ville non sono riusciti ad intaccare il meccanismo della relegazione. Si tratta molto spesso di un discorso pubblico dai contorni neo-coloniali nel quale la banlieue ed i suoi abitanti diventano l’eccezione da ricondurre alla norma, un vulnus del patto repubblicano o la sede di una concreta minaccia comunitarista….

Il volontarismo francese in materia di trattamento del problema dei quartieri di relegazione é il frutto di una serie di fallimenti gravi. Esso non esprime l’idea di affrontare meglio il problema ma di farlo semplicemente svanire attraverso la dispersione della popolazione che fa problema. Più si trattano i luoghi con un determinismo urbanistico feroce e senza tener in alcun conto le persone, più si manifesta il desiderio di liberarsi di queste popolazione piuttosto che di aiutarle. La politique de la ville (definizione corrente del complesso sistema di politiche urbane volte al superamento del problema della relegazione urbana in Francia, ndr) è diventata un meccanismo che premia le amministrazioni locali che accettano di demolire la più grande quantità possibile di immobili in cui vivono le minoranze etniche. Questi immobili sono numerosi, almeno quanto gli eletti locali che desiderano farli sparire. Dunque, si tratta di un meccanismo che funziona! L’agenzia nazionale di rinnovo urbano finanzia i progetti in base al numero di demolizioni previste. Non si tratta quindi di una forma di partenariato ma di un meccanismo di ricompensa ed incitamento in stile anglosassone, con in più un autoritarismo alla francese.

AC Nelle tue ricerche tenti di individuare un’alternativa che dia spazio ad un protagonismo delle popolazioni. Non è casuale che il dibattito francese sia dominato dal fantasma del legame sociale: la politique de la ville ha lungamente fatto riferimento – in modo volontaria e normativo – alla necessaria ricerca di un legame sociale che sembra ormai farsi sempre più raro e sempre meno spontaneo. Di fronte al fallimento clamoroso di quanto fatto fino ad ora, tu parli della possibilità concreta di rifare la città, di ricostruire legame urbano…

JD Si, il mio ultimo volume – Quand la ville se défait – è proprio dedicato a questa possibilità. Rifare la città e re-imparare a fare società significa prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, limitando il tempo di permanenza in questi ultimi, per esempio. Più in generale, attraverso una combinazione di interventi a sostegno della mobilità delle persone e dell’elevazione di quella che io chiamo la capacità di potere del soggetto sul luogo in cui vive, possiamo forse ritrovare lo spirito della città, vale a dire ciò che fa la sua forza originale : la facoltà di slegarsi e legarsi liberamente in uno spazio che offra a ciascuno una dimensione intima e privata che sia però aperta all’esterno ed al movimento, alla possibilità di farsi vedere ed ascoltare. In breve, il contrario dell’essere assegnati a residenza, trasferiti, trattati, manipolati. Per quanto riguarda la realtà dei quartieri di relegazione, è evidente come la tentazione del trattamento fisico – anche attraverso grandi programmi di demolizione – sia molto forte per la classe politica. E’ la strada più spettacolare, la più mediatica, che se non condotta con la partecipazione degli abitanti si traduce in rivolte come negli Usa negli anni 60 ed in Francia, visto che grazie a ricerche recenti sappiamo che i disordini del novembre 2005 hanno avuto luogo specialmente nelle banlieues coinvolte in programmi di demolizione. Sono rivolte che muovono dal sentimento di persone che si sentono ridotte a cose, che si possono spostare senza che abbiano alcun diritto di parola ed espressione. Viceversa, le operazione di riqualificazione hanno senso solo se sono l’occasione del processo inverso : quello di un’elevazione della capacità di potere delle popolazioni nei loro quartieri, nelle loro città e soprattutto nelle loro vite.

Nota: (*) l'autore dell'intervista Alessandro Coppola ha inviato a Eddyburg con richiesta di pubblicazione la presente versione, diversa da quella de il manifesto (f.b.)

Una sintesi del testo che segue è stato pubblicato su la Repubblica, sabato 17 febbraio 2007 in Milano Cronaca con il titolo “Perché i prezzi delle case non cresceranno”. Si interviene nel dibattito sulla proposta del Comune di aumento degli oneri, negando che possa influire sull’aumento dei prezzi degli immobili.

Il dibattito che si è sviluppato sulle decisioni della Giunta Milanese in materia di fiscalità immobiliare – oneri di costruzione in aumento, ICI in riduzione – è importante, perché finalmente inizia ad illuminare un tema in genere oscuro, poco trasparente, poco frequentato dalla stampa, come quella della tassazione della rendita fondiaria-immobiliare. Un tema che incide in modo rilevantissimo sul benessere dei cittadini: in quanto acquirenti di immobili, in quanto proprietari di patrimoni, in quanto fruitori dei servizi di una città – verde, impianti sportivi, servizi di assistenza, mobilità, istruzione ecc. - che dovrebbero in larga misura crescere insieme alla città privata ed essere finanziati da una parte dei plusvalori generati dalle trasformazioni. Un tema tuttavia che, come molti altri, presenta delle specificità e difficoltà concettuali che non sono ben padroneggiate dai normali attori del dibattito pubblico – commentatori, politici o anche “addetti ai lavori”.

E’ così che un approccio ragionieristico ad almeno uno dei problemi affrontati, quello degli effetti dell’aumento previsto degli oneri di urbanizzazione e costruzione, sta a mio avviso creando errate valutazioni e fuorviando il dibattito stesso rispetto ai veri problemi sul tappeto.

Si afferma da più parti che l’aumento degli oneri farà lievitare i prezzi degli appartamenti, e qualcuno suggerisce anche l’entità degli aumenti: il 2%. Si tratta di un non-senso e di una previsione sbagliata: i valori dei suoli, urbani e rurali, ma anche il valore del metro quadro costruito, non hanno alcun rapporto col costo di costruzione; essi dipendono essenzialmente dal livello e dalla natura della domanda, a fronte di un’offerta limitata e difficilmente espandibile, caratterizzata da specificità di qualità e di localizzazione. Se così non fosse, come spiegare l’incremento dei valori immobiliari a Milano, che per appartamenti recenti centrali, semicentrali o anche periferici sono aumentati in media rispettivamente del 64%, del 54% e dell’83% in termini reali (e cioè deflazionati; dati Megliomilano) fra il 1998 e il 2005? E tutto ciò a fronte della costanza, se non della riduzione dei costi di costruzione in termini reali, grazie alla manodopera immigrata. La realtà è che, in presenza di due forti novità come la fuga del risparmio dalla borsa e dalle obbligazioni e la caduta del costo dei mutui immobiliari (dal 14% al 5% fra il 1996 e il 1998 grazie al vituperato euro), si è riversato sul mercato un enorme incremento di domanda (le compravendite sono aumentate in Italia in modo continuo da 600.000 nel 1997 a 1 milione nel 2006, dati Cresme) che è stato particolarmente intenso in città come Milano che godono anche di una rilevante attenzione da parte di operatori internazionali. Con grande vantaggio in termini di profitti lordi, come appare chiarissimo a tutti.

In secondo luogo: la rendita fondiaria (e la sua tassazione) non costituisce, secondo i padri dell’economia, un costo di produzione (che si riflette sui prezzi) ma una quota distributiva, un reddito che entra direttamente nella tasche dell’operatore, in misura maggiore o minore a seconda delle circostanze (della domanda). Ha dunque perfettamente ragione l’assessore Masseroli a negare spinte sui prezzi, che anzi mostrano già una tendenza alla stabilizzazione se non alla riduzione.

A Milano gli operatori immobiliari hanno goduto nell’ultimo decennio di questo fortissimo incremento della domanda, in presenza di regole urbanistiche di trasformabilità dell’uso dei suoli di chiara impronta deregolativa e soprattutto di una tassazione delle trasformazioni assolutamente (per non dire scandalosamente) leggera. Andiamo dall’abbassamento degli standard minimi (cessione di aree al Comune) contenuto nella nuova legge urbanistica regionale alla non imposizione di cessioni a standard sulle innumerevoli e rilevanti microtrasformazioni immobiliari; dalla ridicola entità degli extra-oneri negoziati dall’amministrazione nel caso dei PII maggiori a casi di esplicita massimizzazione della rendita emergente dalla trasformazione, attraverso concentrazioni di volumi costruibili ai limiti della sostenibilità, come nel caso del recinto interno della Fiera.

Gli oneri di urbanizzazione devono essere aumentati, non già in modo limitato come si propone, ma in modo sostanziale, per avvicinarci al livello dei paesi europei e soprattutto per compensare la comunità per i rilevanti effetti ambientali della crescente densità immobiliare e del consumo di spazi liberi. Una recentissima modifica alla legge urbanistica approvata dalla Giunta Regionale introduce un contributo suppletivo sulle nuove costruzioni che sottraggono suolo agricolo: si tratta di un concetto innovativo e benvenuto, dato l’elevatissimo consumo di suolo che caratterizza il nostro paese e l’area milanese in particolare; un concetto che deve però essere esteso e trovare traduzione in un’equa dimensione quantitativa, assai diversa dalla irrisoria determinazione di legge (da 0,5 a 1,5% del contributo di costruzione, già ridottissimo).

Veniamo infine alla riduzione dell’ICI. Questa imposta ha un significato solo operativo,mentre manca di una solida base logica: permette facilmente di fare cassa. Dunque la sua variazione risponde a esigenze di bilancio, che l’amministrazione deve valutare, e dipende dalle preferenze politiche delle coalizioni al potere. Una possibile riduzione potrebbe infatti essere diretta solo a certe categorie di proprietari (ad esempio solo sulla prima casa); oppure può essere estesa a tutti, anche alle società, nel caso di un orientamento, politico ed etico, opposto.

Nel caso dell’ICI, il vero intervento necessario concerne la verifica degli estimi catastali, ad evitare inesattezze e disparità di trattamento inaccettabili più che per aumentare gli introiti complessivi. Soprattutto, poter evidenziare incrementi di valore che derivano da interventi pubblici migliorativi, nel campo delle infrastrutture di mobilità o della qualità urbana, avvicinerebbe l’ICI alla più razionale ma difficilmente esigibile tassazione sull’incremento di valore degli immobili – una tassa che Milano ha utilizzato strategicamente nella breve finestra temporale della sua esistenza, nei primi anni ’60, per finanziare in parte la linea 1 della metropolitana.

Titolo originale: We will build new homes without destroying the countryside – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Secondo i titoli di prima pagina del Guardian di lunedì, ci sono betoniere turbinanti e fili d’erba urlanti, le green belt della Gran Bretagna rischiano di essere decimate da un esercito di costruttori di case agli ordini del governo ( 10,000 acres of green belt under threat, 12 marzo).

Il fatto che si tratti di sciocchezze non ha impedito che la guardia nazionale dei consiglieri Conservatori e la Campaign to Protect Rural England innestassero le baionette. “Non si può stare al sicuro da nessuna parte”, ha lamentato uno. “Moriremo di sprawl. É a rischio tutta la the green belt” ha proclamato un altro. Bristol si sta saldando a Bath, Bournemouth a Poole, Nottingham a Derby.

Ma che stupidaggini. Le ultime cifre mostrano che soltanto lo 0,02% delle superfici di spazi aperti e fasce agricole verdi è stato utilizzato per l’edificazione. Non mi sembra un caso di decimazione. La green belt mantiene in pieno tutta la tutela, e non verrà modificata dal white paper sull’urbanistica che sarà approvato quest’anno. La stragrande maggioranza delle case viene realizzata su aree di recupero urbane: il 77% del totale nel 2005, contro il 57% del 1997. Ogni regione può godere di ampie aree di campagna tutelata. Anche nel sud-est è effettivamente urbanizzato solo il 10,55% delle superfici: meno del nord-ovest (che comprende il Lake District) che ne ha il 10,6%.

Naturalmente, è inconsueto vedere consiglieri Tory in rivolta contro nuove abitazioni nei loro territori. Né deve sorprendere troppo ascoltare qualche iperbole dalla CPRE, che deve condurre le sue campagne e raccogliere fondi. Ma tutti questi e gli altri devono riconoscere che c’è bisogno di nuove abitazioni: ce n’è urgente bisogno.

Abbiamo una popolazione che aumenta e che invecchia, sempre più persone che vivono sole. Ogni anno si costituiscono oltre 200.000 nuovi nuclei familiari, ma nel paese in media si costruiscono 150.000 abitazioni. Sorprende assai poco che non si riesca a tenere il ritmo della domanda, e che sul lungo termine i prezzi delle case stiano aumentando.

Chi non vuole le abitazioni nella propria area si dichiara indignato. Ma dov’è la loro indignazione quando chi è in cerca della prima casa è escluso dal mercato perché si bloccano le nuove costruzioni? Dov’è il loro essere offesi, quando si tratta di famiglie stipate in case sovraffollate?

Oggi gli acquirenti di prime case subiscono davvero pressioni finanziarie. Ma faticheranno molto di più fra vent’anni, se non ci impegniamo a sostenere la realizzazione delle nuove case necessarie alla prossima generazione. La casa può essere la principale causa di diseguaglianza, il principale freno ad ogni aspirazione, la maggior causa di povertà e svantaggio, se non agiamo ora.

La realizzazione di altre case non deve avvenire a spese della tutela ambientale. Dopotutto, la stessa green belt fu introdotta dai paladini delle new towns del dopoguerra. Generazioni precedenti hanno dimostrato come sia possibile costruire molte case e proteggere anche l’ambiente.

Oggi abbiamo di fronte delle sfide ambientali. Ecco perché abbiamo fissato un’agenda decennale per la casa a zero emissioni, e chiesto alle amministrazioni locali di sviluppare idee di eco-insediamenti sulle aree urbane di recupero. Militanti ambientalisti e amministratori devono smetterla di usare racconti spaventosi, e iniziare seriamente a discutere su come e dove sia possible costruire abitazioni sostenibili, necessarie per la prossima generazione.

Nota: di opinione assai diversa Anne Power e John Houghton, da The Guardian 14 marzo 2007; altri articoli sul dibattito britannico contemporanea nella cartella Mall/ Spazi della Dispersione (f.b.)

here English version

I costi dell’alta velocità sono per lo meno triplicati rispetto al preventivo iniziale, gli obiettivi posti a premessa del progetto sono probabilmente irraggiungibili, i benefici ambientali trascurabili a fronte degli investimenti necessari e delle modificazioni da imprimere ai luoghi attraversati dalla rete.

Sul sito YouTube è possibile guardare la video intervista a Marco Ponti.

E’ stato molto difficile entrare, ieri sera, nella scuola elementare di Vecchiano dove si teneva il consiglio comunale aperto dedicato alla presentazione del progetto del nuovo insediamento Ikea a Migliarino, segno evidente dell’enorme interesse che questo ha provocato nella cittadinanza.

In più di quattro ore, tra presentazione dei tecnici Ikea, interventi e domande del pubblico e relative risposte (anche da parte del Sindaco), e nonostante non sia stato consegnato alcun materiale a stampa, ma solo proiettate delle slides, finalmente il quadro è divenuto più chiaro:

- è improprio chiamare questo “insediamento Ikea” o negozio Ikea: si tratta infatti di una proposta di trasformazione urbanistica della quale Ikea è solo una componente minoritaria, impegnando meno di un terzo dell’area;

- Si tratta di una trasformazione di una dimensione enorme, raggiungendo, tra aree destinate agli insediamenti, parcheggi e viabilità, circa 400.000 mq, come dire 40 ettari o anche 4 chilometri quadrati, più della dimensione dell’intera frazione di Migliarino e va a saldare quest’ultima con l’uscita dall’autostrada A11;

- Assieme al negozio Ikea, di dimensioni analoghe a quello di Sesto Fiorentino, vengono proposti insediamenti commerciali non meglio identificati per una superficie di vendita tra 20 e 30.000 mq e addirittura insediamenti abitativi per 22.000 mq di superficie utile (dati raccolti dall’esposizione);

- Le modifiche alla viabilità sono tutte locali, anche se ingenti e sono finalizzate a consentire un accesso diretto all’area dal casello autostradale;

- Ikea sbandiera, con una certa efficacia, soprattutto nei confronti degli amministratori, la prospettiva occupazionale, ieri sera addirittura portata a 800 unità, a fronte di un numero medio di addetti, negli altri centri esistenti, di 350-400 unità tra part-time, tempo determinato e tempo indeterminato pieno.

A detta di Ikea il sito prescelto è “perfetto” (commercialmente, s’intende) in quanto corrispondente ad un nodo viario (svincolo tra autostrada tirrenica e Firenze-Mare) e di bassa qualità paesaggistica. Una sorta di relitto agricolo destinato, prima o poi ad essere urbanizzato. Anzi la localizzazione è così “perfetta” che non è possibile spostare l’insediamento anche solo di un km, come in pratica avverrebbe localizzando – almeno il negozio Ikea – nella zona artigianale-commerciale di via Traversagna, a nord dell’autostrada A11.

Il bacino di utenza prefigurato riguarda tutta la fascia costiera che va dalla Foce del Magra a Piombino, corrispondente a circa 1.500.000 abitanti. Da questi dovrebbero venire circa l’80% dei clienti. Dunque, secondo i proponenti, il traffico indotto sarebbe sostanzialmente portato ad utilizzare l’autostrada.

Come è stato ampiamente sottolineato nel dibattito, la proposta appare:

- immotivata nella parte non-Ikea, laddove si propongono ulteriori superfici commerciali non previste dalla programmazione regionale, in quanto essa ritiene satura l’area pisana, Vecchiano compreso;

- generata da un movente meramente immobiliare, diretto alla valorizzazione economica dei terreni interessati, cosa che dà a tutta la proposta una insuperabile rigidità;

- in netto contrasto con le scelte del piano strutturale, il quale individua come vocazione generale del territorio la salvaguardia dell’identità storica e paesaggistica e la promozione di un turismo eco-compatibile;

- comunque diretta ad aggravare le condizioni critiche della circolazione in particolare sull’Aurelia, tenuto conto del traffico indotto non solo da Ikea, ma anche dall’altra offerta commerciale e conseguentemente a peggiorare la qualità ambientale, proprio a confine con il Parco Naturale di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli. Un indicatore in tal senso è dato dalla dimensione veramente enorme dei parcheggi previsti, pari a n.6.000 posti auto. Se consideriamo che il tempo di permanenza medio di un cliente è stimato in due ore, ed immaginando solo quattro ricambi al giorno, si raggiungono 24.000 auto/giorno di presenza!

Occorre aggiungere che la proposta appare in netto contrasto con i contenuti del nuovo Piano di Indirizzo Territoriale che la Giunta Regionale ha recentemente approvato come proposta al Consiglio, per cui appare difficile ipotizzare che con la Conferenza dei Servizi, cui i proponenti di appellano, come strumento di possibile modifica di tutti gli strumenti di programmazione/pianificazione, si possa conseguire questo obiettivo.

In sostanza, Ikea sembra tirata dentro una operazione non sua: in nessun altro insediamento che conosco è presente l’integrazione con altre tipologie commerciali, peraltro non precisate, qui dichiarata essenziale. Il suo prestigio, di azienda sana, in forte crescita e dotata di certificazioni di qualità ambientale e sociale appare in questo caso strumentalizzato a fini diversi, che purtroppo hanno il solito vecchio nome: la speculazione immobiliare.

Detto questo, come è stato detto da gran parte dei cittadini e anche degli esponenti politici intervenuti, una sola appare la soluzione politicamente sostenibile: il trasferimento del solo negozio Ikea nell’area produttiva di via Traversagna, cui comunque occorrerebbe associare un adeguamento dell’Aurelia da Madonna dell’Acqua a Torre del Lago.

Ma se le analisi sulla genesi della proposta sono corrette, di questo esito è lecito dubitare.

Migliarino, 6 febbraio 2007

Qui la postilla

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per la protezione del suolo e modifica la direttiva 2004/35/CE (presentata dalla Commissione)

Il suolo è una risorsa essenzialmente non rinnovabile e un sistema molto dinamico, che svolge numerose funzioni e fornisce servizi essenziali per le attività umane e la sopravvivenza degli ecosistemi. Dalle informazioni disponibili emerge che, negli ultimi decenni, si è registrato un aumento significativo dei processi di degrado dei suoli e ci sono elementi che confermano che, in assenza di interventi, tali processi continueranno ad aumentare.

Il suolo è sottoposto a pressioni ambientali sempre più forti in tutta la Comunità, determinate o acuite dalle attività umane, come pratiche agricole e silvicole inadeguate, attività industriali, turismo o sviluppo urbano. Tutte queste attività stanno danneggiando la capacità del suolo di continuare a svolgere tutta l’ampia gamma di funzioni indispensabili che offre. Il suolo è una risorsa di interesse comune per la Comunità, anche se in massima parte di proprietà privata: se non si interverrà per proteggerlo la sostenibilità e la competitività a lungo termine dell’Europa ne soffriranno. Il degrado del suolo incide, inoltre, notevolmente anche su altri aspetti di interesse comune per la Comunità, come le acque, la salute umana, i cambiamenti climatici, la tutela della natura e della biodiversità e la sicurezza alimentare.

La legislazione proposta, finalizzata a proteggere il suolo e a conservane la capacità di svolgere le funzioni ambientali, socioeconomiche e culturali che offre, è perfettamente compatibile con gli obiettivi di cui all’articolo 174 del trattato CE e tiene conto della varietà di situazioni che caratterizza le diverse regioni della Comunità. Il testo è fondato sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e sul principio “chi inquina paga”. Infine, si è basato su un’analisi dei potenziali costi e benefici di un intervento o di un mancato intervento e sul rispetto dello sviluppo socioeconomico della Comunità nel suo complesso e sullo sviluppo equilibrato delle singole regioni che la compongono.La direttiva proposta contempla i seguenti elementi:– istituzione di un quadro comune per la difesa del suolo basato sui principi della conservazione delle funzioni del suolo, della prevenzione del suo degrado e della mitigazione degli effetti di tale degrado, del ripristino dei suoli degradati e dell’integrazione di queste problematiche in altre politiche settoriali; – obbligo di individuare, descrivere e valutare l’impatto di alcune politiche settoriali sui processi di degrado del suolo al fine di tutelarne le funzioni; – obbligo per i proprietari di terreni di adottare misure di precauzione nei casi in cui si possa presumere che l’utilizzo che fanno del suolo possa ostacolare in maniera rilevante le funzioni svolte dal suolo; – approccio al fenomeno dell’impermeabilizzazione del suolo volto a garantire un utilizzo più razionale del terreno secondo quanto stabilito dall’articolo 174 del trattato CE e a mantenere il maggior numero possibile di funzioni del suolo; – individuazione delle aree a rischio di erosione, diminuzione di materia organica, salinizzazione, compattazione e smottamenti, e istituzione di programmi nazionali di misure. Occorre identificare l’estensione delle aree che presentano i rischi elencati; ai fini della coerenza e della comparabilità, i rischi devono essere identificati in base ad elementi comuni, tra cui parametri riconosciuti come cause di vari problemi considerati. Sarà inoltre necessario adottare obiettivi di riduzione del rischio e programmi di misure per conseguire tali obiettivi. I programmi potranno fondarsi su norme e misure già individuate e messe in atto in ambito nazionale e comunitario; – misure per contenere l’immissione di sostanze pericolose nel suolo, per evitarne l’accumulo che potrebbe ostacolare lo svolgimento delle funzioni del suolo e comportare un rischio per la salute umana e per l’ambiente; – istituzione di un inventario dei siti contaminati e di un meccanismo di finanziamento per la bonifica dei siti “orfani”, preparazione di un rapporto sullo stato del suolo e formulazione di una strategia nazionale di bonifica dei siti contaminati individuati. Viene proposta una definizione di “sito contaminato” e predisposto un elenco di attività potenzialmente inquinanti per il suolo: questi due elementi sono il punto di partenza per localizzare i siti che possono essere contaminati e procedere successivamente all’istituzione di un inventario dei siti che risultano effettivamente contaminati. Accanto a ciò, vi è l’obbligo, per i venditori o i potenziali acquirenti, di fornire un rapporto sullo stato del suolo per ogni compravendita di terreni in cui siano avvenute o siano in corso attività potenzialmente inquinanti. Una disposizione analoga, relativa al rendimento energetico degli edifici, è già contemplata dalla normativa comunitaria nell’ambito dell’articolo 7 della direttiva 2002/91/CE.

Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni Strategia tematica per la protezione del suolo

Il database Corine Land Cover5 mette in luce importanti cambiamenti nell’utilizzo del territorio in Europa che hanno ripercussioni sul suolo. Tra il 1990 e il 2000 almeno il 2,8 % del territorio dell’Europa ha subito una variazione in termini di destinazione d’uso, con un importante incremento delle zone urbane. Emergono anche notevoli diversità tra uno Stato membro e l’altro e tra regioni: nel periodo indicato, la percentuale di superficie colpita dal fenomeno dell’impermeabilizzazione variava, ad esempio, dallo 0,3 % al 10 %.

Postilla

Il documento è di notevole interesse: stabilisce una serie di punti fermi nell’intento di rafforzare considerevolmente la politica europea di difesa dell’integrità del suolo, considerato “risorsa essenzialmente non rinnovabile” e “sistema molto dinamico, che svolge numerose funzioni e fornisce servizi essenziali per le attività umane e la sopravvivenza degli ecosistemi”. Considera il suolo quasi esclusivamente dal punto di vista ecologico. Benchè il brano della “Comunicazione” che riportiamo qui sopra riveli come al legislatore europeo non sfugga il ruolo dell’espansione delle urbanizzazioni nella degradazione della risorsa territorio, non c’è per ora una parola che solleciti i governi a contrastare il consumo urbani di suolo. Ciò dipende certamente da una scelta politica (l’ambiente è pacificamente di competenza dell’Unione europea, l’urbanistica resta affidata pressochè integralmente ai governi nazionali). Ma indebolisce la portata pratica del provvedimento soprattutto in quelle regioni d’Europa (l’Italia) dove lo “sviluppo del territorio” sembra un dogma di tutti i governi nazionali, regionali e locali e di quasi tutti i partit

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