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Nel vasto altopiano vuoto della sociologia che si specializza sempre più nei dettagli e sembra aver perduto uno sguardo d’insieme (un fenomeno altrettanto evidente negli Stati Uniti come in Italia) sembra toccare ai giornalisti il compito di dare notizie sul paesaggio cambiato.

Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita, il nuovo libro di Aldo Cazzullo (Rizzoli, pp. 289, euro 16), è nato dal doppio sguardo di un giornalista colto che sa dedicarsi bene a un grande evento o a un minuto dettaglio, specialmente quando l’evento o il dettaglio hanno a che fare con la vita politica del momento. Ma continua a guardare intorno, nel paesaggio italiano e a vedere l’insieme. Quell’insieme lo intriga perché Cazzullo nota cambiamenti clamorosi.

Vede nascere in questo Paese, da un capo all’altro della penisola, una nuova religione. Vede un immenso pellegrinaggio verso e attraverso megacattedrali, si rende conto che, come in tutti i culti, ciascuno è da solo e ciascuno è raggiunto da solo dai messaggi del culto, anche se in apparenza la folla dei pellegrinaggi appare composta di orde (i più giovani) e da intere famiglie, con vecchi al seguito. Finora soltanto un narratore - Niccolò Ammaniti - aveva dedicato pagine che sono un vero e proprio documento, una sorta di film verità, alla vita-pellegrinaggio negli outlet italiani.

Nel romanzo Ti prendo e ti porto via prima, scortati e confortati anche da materiale documentario come Bowling at Columbine (il primo successo internazionale Di Michael Moore) avevamo pensato agli outlet come a immense stazioni di conforto nel mezzo delle praterie americane, ovvero in un mondo senza città, senza piazze, senza luoghi destinati nei secoli all’incontro in pubblico.

Cazzullo, con la sua dettagliata Esplorazione del fenomeno«outlet» in un territorio percorso e ripercorso dalla storia, fittamente popolato di piazze e di chiese, lungo catene quasi ininterrotte di piccole città con tante e profonde radici locali di tradizione e persino codici di comportamento sempre osservati, sempre rimbalzati tra le generazioni, dimostra al lettore che sciami di astronavi «outlet» si sono posate dovunque in Italia, larghi, solidi, chiusi, estranei alla storia, impermeabili (indifferenti) a qualunque cultura perché portano una cultura propria e diventa capace di travolgere, o meglio di cancellare tutto il prima.

Uno strano futuro è già cominciato. Ma, prima di tutto, che cosa è un outlet, che cosa ci fa in Italia, e perché è importante parlarne? Tecnicamente la parola outlet - che si potrebbe tradurre «fuori» o «altrove» - è diventata consueta negli Stati Uniti per indicare una combinazione virtuosa tra costo del terreno e dell’edificio,dislocazione lontana e inizialmente senza valore, del luogo in cui sorge l’emporio, la vastità della costruzione che consente, a costi bassi, di ospitare un numero altissimo di punti di vendita - o boutique - la disponibilità di parcheggi quasi senza limiti, e in molti casi il funzionamento di «navette» che facilitano l’accesso a giovanissimi e anziani, producendo una inedita, sconfinata potenzialità quanto al numero di visitatori, dunque di acquirenti.

Tutto è nato da una fuga delle imprese commerciali dalle città, dai costi di nuovi insediamenti metropolitani, sempre più inaccessibili, dalla ricerca di ampi e diversificati luoghi di vendita. L’origine degli outlet è dunque una ribellione tipicamente americana a situazioni apparentemente immutabili.

Ogni area urbana americana aveva da decenni le sue zone di vendita tipo supermercato, ipermercato e «department store» (grandi magazzini) definitivamente insediati, definitivamente al riparo da sfide e concorrenze nello stesso ambito urbano. Chi ha seguito il fenomeno dalla nascita di questi centri di megavendite ricorda che il primo «outlet» della vita commerciale americana - dunque del mondo - è stato il «Disney World» di Orlando, in Florida, una sgargiante, luminosa città del futuro costruita su terreni paludosi rifiutati, nonostante la rimozione di ogni limite o regola perle costruzioni, da qualunque acquirente (quel terreno non poteva avere neppure una destinazione agricola) e prescelta per il vasto progetto della Disney a causa della irrilevanza del costo del terreno e della offerta dello Stato della Florida di provvedere gratuitamente a tutti i collegamenti delle nuove strutture con le reti necessarie. «Disney World » di Orlando è stata una scossa per due settori chiave della economia americana: costruzioni e commercio. La rivelazione ha rovesciato il celebre detto del mondo immobiliare americano secondo cui i tre requisiti indispensabili di una costruzione di valore sono «location, location, location».

La rivelazione è stata: la location (il luogo) non conta più. Non solo. Ma la lontananza isolata e selvaggia e decisamente fuori mano diventava una attrazione in più, anzi l’attrazione principale: andare altrove, una sorta di avventuroso «out of the borders», fuori dai confini, di cui parlavano tante canzoni americane.

«L’altrove» che ha consacrato il successo degli outlet americani interpretati come una sorta di «gita a Chiasso»si è rapidamente trapiantato nel paesaggio italiano così profondamente diverso, dove un piccolo centro storico e con chiesa d’autore, mura romane e ruderi del castello, è a poca distanza da qualche intatto capolavoro della storia.

Tutto ciò dimostra che il viaggio di esplorazione di Aldo Cazzullo nella vita a avventure degli outlet italiani è una impresa assai più delicata, complessa e necessaria di un viaggio negli outlet americani. Là il vuoto, anche fisico, poggia sul vuoto storico e sul vuoto del territorio. Nel senso che una curiosa civiltà evanescente fatta di una massa di oggetti e nessun disegno, progetto o destinazione occupa vasti spazi di lande altrimenti abbandonate.

Al contrario una Italia affollata di storia, la storia delle città, dei rapporti, dei riti, delle celebrazioni, delle processioni, dei palii, dei santi protettori, vede depositarsi sulle sue radure tutt’altro che vuote i dischi volanti dei nuovi «outlet » carichi di oggetti da vendere già disponibili ovunque, salvo il prezzo che è, certo, conveniente ma non ha alcun rapporto con la necessità.

Qui torna utile una importante intuizione dell’esploratore Cazzullo negli outlet italiani: l’attrazione più grande non è la «la gita a Chiasso» (nella felice espressione di Arbasino anni Sessanta) ma l’esatto contrario: l’ingresso in una materializzazione fisica della televisione, spot e programmi.

Qui il senso di appartenenza non è dato dalla presenza dei divi o delle celebrità, ma dalla identificazione del territorio. È come nel gioco magico e fantasioso raccontato da Woody Allen La rosa purpurea del Cairo. Con una differenza importante: lo schermo del cinema è un mondo esotico, avventuroso, lontano, lo «outlet» è il passaggio di frontiera dal fuori al dentro del più domestico degli oggetti, lo schermo della televisione di casa. Là dentro sei più a casa che a casa. Sei nel territorio giusto in cui riconosci ogni oggetto, e ogni dettaglio. Quella immensità di oggetti in offerta ti appare familiare e quotidiana. Ma è davvero un’Italia in «svendita» (come dice il sottotitolo del libro di Cazzullo) quella dei vasti outlet affollata in cui si celebra, per numeri molto alti di cittadini, una «festa fredda» che da l’impressione (l’illusione) di essere senza fine? Forse è - piuttosto - uno strano museo di scienze naturali, in cui vengono esposti (ovvero si autoespongono) i cittadini tipo di un paese senza passioni, senza ideali comuni, senza un interesse che leghi tutti (una volta si diceva «interesse nazionale ») tranne un intenso,meticoloso, infaticabile acquisto di beni di consumo. Del resto, non viene detto anche da autorevoli voci politiche che«dobbiamo aumentare i consumi?» e il totem del Pil (il mitico prodotto interno lordo, non è il grande misuratore della nostra collettiva volontà di comprare ciò che la nostra volontà di comprare induce a produrre?

Dunque Aldo Cazzullo, nel suo libro documento che occupa, con la esplorazione giornalistica, lo spazio della scienza sociologica d’altri tempi ci porta in visita nella sala macchine del più strano strumento mobile della nostra età. Non arriva, non parte, non promette o permette alcuna avventura.

Produce una grande simulazione di sentimenti, entusiasmi, passioni, ideali, persino gioia, tutti antichi tratti umani che non esistono più in natura. Non negli outlet, immense piazzole di sosta di una civiltà interrotta.

postilla

Come probabilmente i lettori abituali di eddyburg avranno notato, molti dei temi toccati da Furio Colombo, e che evidentemente appaiono inediti a parte della cultura e del giornalismo italiano, sono da alcuni anni ricorrente oggetto di attenzione per questo sito. Vorrei qui sottolineare però come questa “scoperta giornalistica” del territorio del commercio e dell’intrattenimento, del suo successo in terra italiana anche in quanto spazio moderno di interazione sociale, abbia ahimè ancora un limite forse ineliminabile nell’essere a sua volta fenomeno di moda e costume. Non è un caso forse, se in rapidissima successione sono stati pubblicati oltre al fortunato libro di Cazzullo, anche quella specie di autobiografia “anticomunista” del patron Esselunga Bernardo Caprotti (Falce & Carrello), il più sistematico e storico La Spesa è Uguale per Tutti di Emanuela Scarpellini, e più di recente Autogrill. Una storia italiana, di Simone Colafranceschi.

Il fatto è che gli spazi del commercio e dell’intrattenimento sono sempre più la punta di un iceberg di una domanda sociale di modernità, e relativi ambienti, a cui pare proprio che il settore pubblico non voglia dare alcuna risposta. Da un lato delegando appunto gli operatori commercial-immobiliari a sostituire le piazze (pubbliche) coi propri complessi (certo collettivi, ma per definizione privati), dall’altro non percependo più come centrale la stessa idea di spazio pubblico. Come dimostrano ad esempio la scarsa sensibilità di quasi tutte le parti politiche in generale ai temi dello sprawl, o il tentativo ancora in corso di privatizzare le aree a standard, sposando la linea secondo cui si tratterebbe di “superfici inutilizzabili” in quanto non destinate allo sfruttamento edilizio, a quanto pare per alcuni unica funzione legittima dello spazio urbano.

In definitiva: ambienti del commercio o meno, pare impossibile tentare di capire il rapporto fra spazio, società, immaginario, se non si usa un approccio meno settoriale, proprio tentando di recuperare nel suo insieme quella “idea di città” che certo improvvisato azzonamento culturale vorrebbe farci perdere (f.b.)

Le grandi opere della Legge Obiettivo del governo Berlusconi (con l'eccezione del Ponte sullo Stretto), sono state fatte proprie dall'attuale governo, malgrado nel programma elettorale di quest'ultimo figurasse l'intenzione di mostrare chiari segnali discontinuità rispetto all'approccio da shopping list dell'esecutivo precedente. I fondi però sono pochi e alcune opere devono essere rinviate o cancellate dalla lista. Anche se si tratta di opere poco utili, le proteste sono vibrate. Meglio lasciare che gli enti locali che protestano se le finanzino da soli.

Opere escluse

Il problema con la shopping list di Di Pietro, come in passato con quella di Lunardi è che i fondi continuano a non essere sufficienti per tutti gli investimenti, e questo fatto provoca vivaci reazioni degli interessi esclusi: in particolare, per la linea Alta Velocità Genova-Milano (“Terzo valico”) sono da segnalare le reazioni dell’ex-ministro Lunardi, del sindaco di Genova e del governatore della Liguria (anch’egli ex-ministro dei trasporti), tutti uniti sotto un'unica bandiera. Questa linea non è stata proposta per il finanziamento dalla Commissione Europea, per l’ovvio motivo che non si tratta di un collegamento internazionale, ma ciò non ha mitigato le proteste. Altre reazioni negative sono emerse per l’autostrada tirrenica (Livorno-Civitavecchia).

Vediamo più da vicino le due opere “escluse”, che in effetti sono tra le meno difendibili dell’elenco dell’ex-presidente del Consiglio. La nuova linea ferroviaria Milano – Genova è stata più volte dichiarata non necessaria dal gruppo dirigente di FS, dopo accurate analisi della domanda possibile e della capacità residua delle due linee già esistenti. L’ex-ministro Lunardi commissionò il rifacimento di tali analisi alla società Ispa, che aveva ogni interesse a dichiarare fattibile il progetto anche in presenza di ritorni economici molto modesti. Ispa dichiarò anch’essa il progetto non fattibile, prima di essere sciolta d’autorità dalla Commissione Europea poiché chiaramente finalizzata a mascherare spesa pubblica (agli occhi di Bruxelles, e dei contribuenti italiani, si può aggiungere). Il governo allora dichiarò che avrebbe comunque “garantito” il 100% dei finanziamenti, eludendo i risultati delle analisi e la modesta funzionalità del progetto.

L’autostrada Livorno – Civitavecchia attraverserebbe una delle aree meno abitate del paese e più pregiate dal punto di vista ambientale (ma di questo aspetto non ci occupiamo) e si affiancherebbe a una strada statale quasi interamente a quattro corsie (la SS1, Aurelia). Facendo i conti, anche sulla base di ipotesi molto favorevoli al progetto, le speranze di dimostrare una qualche utilità dell’opera sono molto scarse (1). È così che lo studio ufficiale (ovviamente affidato a un soggetto non neutrale) postula che alla Aurelia attuale vengano posti limiti di velocità pari a 30-40 km-ora, cioè, di fatto, che si chiuda. ANAS approva.

Proteste vibrate, numeri nascosti e discrezionalità

Tornando alle proteste degli esclusi (che, verosimilmente, si moltiplicheranno), il loro aspetto peculiare è che ciascuna area adduce “forti” motivazioni a difesa dell’indispensabilità dell’opera che la riguarda: il nord più sviluppato a causa del traffico che già c’è e, simmetricamente, il sud al fine di indurre sviluppo, che genererà poi il traffico, ecc.

Un’altra motivazione, addotta come essenziale per le opere transfrontaliere (non perdere i finanziamenti europei) dovrebbe attenuarsi, dopo aver verificato che per l’opera più critica, la linea Alta Velocità Torino-Lione, tali finanziamenti coprono circa il 5% dei costi totali. Come era prevedibile, del resto, date le somme disponibili a livello europeo (8 miliardi per 27 paesi), e i costi reali dell’opera [link Prud’homme, la voce, 25/05/07: “L’analisi costi-benefici boccia la Torino-Lione”]. Ma di questi numeri difficilmente la pubblica opinione sarà informata. Il finanziamento (peraltro non ancora certo) sarà presentato come un successo che rende indispensabile che i contribuenti italiani contribuiscano con il 98% mancante (senza contare gli “sforamenti” successivi (2). Tuttavia la discrezionalità politica nell’assegnazione delle risorse sembra davvero irrinunciabile, e per questo motivo nessuna analisi “comparativa” è alle viste. Tutte le opere sono a priori “strategiche per il Paese”, e quindi non valutabili secondo la prassi internazionale.

Una dimensione da tenere presente in questo atteggiamento è che i destinatari dei fondi sono quasi esclusivamente imprese nazionali (non solo in Italia), perché il settore delle opere civili non è facilmente apribile alla concorrenza. Consideriamo, per esempio, l’unica opera “cancellata” dall’attuale Governo, il Ponte sullo Stretto (neanche una delle più inutili, in realtà): subito si decide di allocare quei fondi alla stessa area geografica. Ma chi ha detto che i progetti di cui ha bisogno quell’area debbano ammontare a tre miliardi di Euro, e non a due o a quattro? Significativa appare la prevalenza delle logiche spartitorie su quelle funzionali ed economiche.

Rischi maggiori e mali minori

C’è però, se sono vere le premesse, il rischio concreto e grave che la costruzione di opere di dubbia utilità non sia il problema economico maggiore. Infatti una logica spartitoria/elettoralistica porta ad allocare le (scarse) risorse a pioggia, in uno schema perfettamente funzionale a quella logica: consentire l’avvio di un grande numero di opere molto “visibili”, per le quali tuttavia arriveranno fondi insufficienti a terminarle (e il sistematico gonfiarsi dei costi rispetto a quelli preventivati va in questa direzione). Infatti nessuno dei decisori risponderà né dei costi né dei tempi, come è apparso recentemente evidente per il progetto di Alta Velocità ferroviaria. Lo “stop and go” delle costruzioni può da solo incrementare di alcune volte il costo-opportunità delle opere (per il solo fatto che le risorse rimangono immobilizzate per un lungo tempo). Una stima per il passante ferroviario di Milano ha raggiunto la quantificazione del 100% di aumento del costo dell’opera per la collettività.

Paradossalmente, l’affermazione del sindaco di Genova e del governatore ligure di voler autofinanziare la linea AV Milano-Genova con risorse locali va nella direzione corretta, già seguita dai francesi. Questo atteggiamento, infatti, sicuramente aprirebbe un dibattito democratico sulle priorità di spesa, da cui probabilmente sorgerebbero forti spinte a minimizzarne i costi (spinte oggi assenti, o addirittura di segno opposto). Il problema, tuttavia, è che anche qui vi è il serio rischio di ricorrere a schemi di “finanza creativa”, tali da occultare l’onere ai veri pagatori di ultima istanza. L’Italia ha un’ottima tradizione in questo campo.

Ne aveva parlato qualche giornale, dalla metà di settembre, così, quando l’ho visto nella vetrina della cartoleria del paese emiliano in cui vivo, non ho saputo trattenermi dal comperare il libro: è pubblicato nella collana “gli specchi” di Mondadori, scritto da Bernardo Caprotti, ottantenne imprenditore dei primi supermercati italiani.

Il sottotitolo “Le mani sulla spesa degli italiani”, rieccheggiante uno dei tormentoni preferiti dai politici di Destra, con il corredo di una prefazione di Germinello Alvi e di un allegato storico-documentario di Stefano Filippi, promette di rivelare i retroscena della diffusione della “grande distribuzione” nel nostro Paese, nel quale operano anche le Cooperative associate nella COOP Italia, con una quota di mercato di quasi il 18 per cento, mentre il restante 82 è coperto dal settore privato, e di questo l’8 spetta alla sua Esselunga.

Socio di cooperativa di consumo da più di 40 anni, ne ho seguito la trasformazione fin dagli striminziti spacci del dopoguerra, diffusi in ogni sobborgo della mia Regione e, a macchia di leopardo, in tanti altri luoghi e aziende d’Italia e di tanti altri Paesi. Ho seguito le prime introduzioni di locali a “libero servizio”, superettes e supermercati, poi da progettista ho praticato l’urbanistica commerciale degli anni ‘70 con i centri commerciali di quartiere, fino alle grandi strutture alternative: quella dell’Ipermercato “alla francese” e quella dello Shopping Center, che Victor Gruen ha imposto in America, e in tutto il mondo, dai primi anni ‘60 ad oggi.

Ho partecipato anch’io, con tanti altri, miei clienti, collaboratori, costruttori, allievi a quel febbrile impegno, a quello spirito di squadra, alla sensazione del rischio incombente e alla soddisfazione per il risultato, per la qualità conseguita, per i traguardi di efficacia raggiunti.

Lo stare nel mercato ha un suo innegabile fascino che si accresce quanto più si studia e si comprendono le sue dinamiche, la tensione fra i “central places”, la concorrenza Schumpeteriana fra le diverse tecniche di distribuzione, vecchie, nuove, rinnovate.

Comprendo quindi il calore con cui il vecchio leone parla delle sue imprese, delle difficoltà e delle durezze affrontate per farle diventare sempre più grandi, alla rabbia verso chi vi frappone ostacoli. La penetrazione nel mercato di una forma distributiva innovativa, che promette prezzi più bassi, ma che per farlo deve cambiare sia gli stili di consumo di moltitudini, che la stabilità dei ceti commerciali, non è certo “una passeggiata”. Nella polarizzazione e nella diffusione urbana necessaria alla espansione della grande distribuzione moderna, si scontrano il corporativismo delle categorie, l’arroganza dei burocrati e dei politici nazionali e locali, l’intermediazione parassitaria della rendita sui suoli, le “dazioni” ai potentati, fino al crimine in doppio petto e all’artiglio delle mafie.

Caprotti, che viene da una famiglia proprietaria di filande in Brianza, finisce quasi per caso (ma certo in virtù delle “entrature” e del capitale di famiglia) a lavorare nel commercio che si definisce “despecializzato”, soprattutto alimentare e impianta i primi punti di vendita a libero serizio derivati da modelli di grande successo oltre oceano.

Ma il nord Italia del miracolo, di vecchie città malamente ricostruite, di consumi meschini, di mercatini rionali e carrettini, di clientele affezionate alle storiche botteghe non assomiglia alle Grandi Pianure e la penetrazione è lenta e difficile, ostacolata da interessi e paure.

Solo quando, con le lotte di fabbrica degli anni ‘60, che Caprotti subisce e stigmatizza, cresceranno i salari e quindi i consumi, i suoi supermercati avranno un po’ più di clienti.

Negli anni ‘70 e ‘80 ci saranno altri, più duri scontri sindacali e sociali che, mentre si espande la società dei consumi, sempre più ricca. e sprecona, mentre il libero servizio si estende in sempre più vaste e periferiche superfici, innescano la ridda degli scioperi aziendali, delle assemblee, dei gatti selvaggi e incombe la minacia dell’esproprio proletario.

Alla pretesa di paghe più alte si risponde con l’innovazione tecnologica che aumenta la produttività del lavoro: Esselunga diviene leader nei sistemi di magazzinaggio automatizzati e nell’introduzione del codice a barre che riduce drasticamante il personale e la sua qualificazione. Ben scavato vecchia talpa, avrebbe esclamato qualcuno.

E da quel periodo che il marginale e frammentato arcipelago di spacci delle Cooperative di Consumo, sorge e ingrossa l’ondata di unificazioni, trasferimenti, ampliamenti che si conclude alla fine del secolo con la presenza sul mercato delle nove sorelle coordinate da COOP ITALIA.

A questo punto gli affari del nostro si scontrano ripetutamente con quelli della cooperazione che ha dalla sua, come cantava Majakowsky l’ “uragano di voci flebili e sottili”, il Gran Partito che amministra Regioni, Provincie e Comuni e spesso calca la mano pubblica per favorire le imprese sostenute dalla sua base popolare.

Caprotti questi episodi se li lega al dito e li racconta con ricca documentazione, poi allarga il tiro e scomoda tutto il repertorio delle ostilità per la cooperazione, i comunisti, il sindacato, tale e quale lo esternano, da qualche anno, Berlusconi e i suoi pubblicisti: evasione fiscale autorizzata, strumentalizzazione della base sociale, finanziamento del Partito, collateralismo con i poteri politici, sfruttamento del personale, uso spregiudicato delle opportunità fornite dalla normativa societaria.

Di suo ci aggiunge l’accusa di scarsa produttività e prezzi più alti rispetto a quella ottimale di un suo punto di vendita campione, in via Ripamonti a Milano. Tali differenze sono certificate da rilevamenti di un’agenzia indipendente francese, ma resta il dubbio sulla validità del confronto fra un solo punto di vendita ottimale e ricco e le medie di vari punti Coop, molti dei quali sono forzatamente peggio ubicati e organizzati, per la diffusione capillare su vasti territori.

Ciò che poi sembra particolarmente offensivo, per Caprotti, che si dilunga in dettagliate biografie, coadiuvato dall’appendice di Filippi, è il materiale umano che amministra le imprese cooperative: gentucola che viene dalle sezioni di base, dal sindacato, che talvolta si monta un po’ la testa a maneggiare tutto quel ben di Dio, talaltra si compiace di una grigia modestia, ma in complesso salvo rare eccezioni, manca di stile, anche quando indossa il blazer, o le mitiche braghe bianche.

E giù anche con le ultime di cronaca, dai patti coi furbetti alle intercettazioni telefoniche. Hanno perfino osato proporgli di comperare le Esselunga per metterci il marchio Coop, quello disegnato tanti anni fa dal compagno Steiner. Impudenti!

Ricordo vecchie caricature in cui la triade Cooperativa, Casa del Popolo, Camera del Lavoro, veniva additata come un insieme di piovre bolsceviche, da bruciare.

Non condivido gran parte di quel che oggi è diventato il movimento cooperativo italiano: le leggi accomodate, il controllo della base sociale dribblato da dirigenti arroganti, le spregiudicate alleanze ed avventure con soggetti poco raccomandabili, l’eccessiva concentrazione, l’esternalizzazione e il precariato. Sono particolarmente critico verso il settore della cooperazione di consumo per la sua indulgenza verso il consumismo, l’estromissione della base sociale dalle decisioni, la scarsa attenzione al corretto uso del territorio.

So che molti di sinistra, radicale o no, la pensano come me e si impegnerebbero per una riforma del movimento cooperativo sugli originari principi e su scelte più decise verso un nuovo mondo possibile e necessario.

Proprio per questo non posso seguire il vecchio capitano d’industria nella sua indignazione per le altrui scorrettezze, ne i suoi fiancheggiatori antipolitici e reazionari che pescano nel gossip.

La competizione per la conquista dei mercati, di posizioni e di rendite, è una lotta senza esclusione di colpi, fatta di pressioni, di scorrettezze, di finte e di favori. E’ una lotta di belve che, come i felini, possono apparire più eleganti di coccodrilli e iene, ma che mordono carni vive o putride, con pari, repellente avidità.

Ciò non toglie che i mezzi adottati dai dirigenti di alcune cooperative di consumo per prevalere in alcuni degli scontri descritti e documentati abbiano raggiunto durezze inaccettabili, compromettendo l’azione degli enti locali e l’etica stessa della politica. Chi fa le spese, in definitiva, di queste viscide lotte fra poteri, sono i cittadini e i consumatori che pagano con moneta sonante e spesso duramente guadagnata, le posizioni di monopolio e le lesioni ai diritti di una democrazia partecipata.

Forse con una pubblica denuncia, non così tardiva e di parte di alcuni di questi episodi si eviterebbero alcune di queste bassezze e si potrebbero allontanare i loro protagonisti. Forse questa denuncia permette di evitare che analoghe storture si manifestino oggi, in un epoca in cui gli ipermercati di cui parla Caprotti sembrano negozietti a confronto con i nuovi mega e outlet, “superluoghi” del consumo ritualizzato.. O forse sono troppo ingenuo?

Del racconto a me è rimasta particolarmente impressa la figura di un protagonista, il facchino ai formaggi, il compagno Bulgari che esclamando “Libertà è aderire alla maggioranza!” esprimeva, a modo suo, certo troppo sintetico, quello che è uno dei principi di base della democrazia, e anche della cooperazione: che ogni testa vale un voto e prevale la decisione più condivisa, alla quale poi ci si può liberamente adeguare, mantenendo la propria opinione da far valere quando serva.

Calderara di Reno BO, 14-10-2007

Stia attento il ministro Rutelli a prendere di petto i geometri perché il loro Collegio Nazionale poi querela per diffamazione. L’ha fatto col fotografo Oliviero Toscani e l’ha fatto col sottoscritto e col direttore del Tirreno, Bruno Manfellotto. Siamo stati tutti assolti, addirittura in istruttoria, da giudici i quali, per fortuna, hanno ritenuto tuttora prevalente il diritto alla libertà di espressione sancito dall’articolo 21 della Costituzione.

Francesco Rutelli, attaccando Villettopoli e quella che viene definita « architettura geometrile», ha voluto in realtà porre sotto accusa un sistema di sviluppo edilizio diffuso, di qualità mediocrissima, che sta consumando, anzi divorando il paesaggio italiano più bello e integro, dovunque. Allora però il ministro per il Beni e le Attività culturali (visto che il ministro per la Tutela dell’Ambiente a questi problemi sembra poco interessato: batti un colpo, se ci sei, Pecoraro Scanio!) dovrebbe fornire alcune rassicurazioni di fondo. Lui e il governo di cui fa parte.

1) il Codice per il Paesaggio, di cui si occupa la commissione Settis, non allenti, ma semmai stringa, le maglie della co-pianificazione Stato-Regioni rendendo i piani paesaggistici prescrittivi e non soltanto «di indirizzo», indicativi insomma, per i Comuni, restituendo invece un ruolo autorevole alle Direzioni regionali e alle Soprintendenze territoriali di settore con qualche significativo intervento positivo sugli organici del tutto insufficienti;

2) il MiBAC non si lanci in accordi con le singole Regioni, che sviluppino quella linea di federalismo che porta alla distruzione di quel po’ di Stato residuo, e quindi di visione generale degli interessi del Paese, come prescrive tuttora (speriamo) l’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Della Nazione, sia chiaro. Le recenti proposte in merito della Regione Lombardia vanno quindi lasciate dove stanno: accoglierle o trattare al ribasso sarebbe follia.

3) il MiBAC prescriva alle Regioni di attenersi alle sentenze, ormai numerose, della Corte Costituzionale (n.102/06 e seguenti), in base alle quali viene ribadita la sovraordinazione nella attività pianificatoria delle Regioni sulle Province e di queste ultime sui Comuni e quindi non praticabile la sub-delega ai Comuni della tutela paesaggistica, come avviene, ad esempio, in Toscana: Con una equiordinazione meccanica e coi disastri che sappiamo, avendo i Comuni una visione tutta «municipale» che li porta a privilegiare l’edilizia, l’Ici, gli oneri di urbanizzazione e quant’altro è subito spendibile per turare i buchi di bilancio, sacrificando il paesaggio, ritenuto un valore del tutto secondario. Le sub-deleghe alla tutela dalle Regioni ai Comuni erano già state fortemente criticate dall’allora ministro Giovanna Melandri alla Conferenza Nazionale per il Paesaggio. Basta rileggersi quegli utili testi.

4) Il governo ripristini in Finanziaria il dispositivo della legge Bucalossi la quale vietava di utilizzare per la spesa corrente gli introiti da concessione edilizia (consentiti soltanto per spese di investimento), norma sciaguratamente cancellata - e si capisce perché - da una Finanziaria berlusconiana. In questa forma i Comuni, per evitare un ulteriore indebitamento, scaricano la loro bancarotta sul paesaggio. Per sempre.

5) Infine, il governo Prodi dia subito attuazione a quella parte del suo programma nella quale si propone - vista la disperante situazione italiana - un incisivo risparmio nel consumo di suoli liberi (spesso agricoli) alla maniera della Germania Federale (legge Merkel del 1998) o alla maniera del Regno Unito (legge Blair ispirata da Richard Rogers, del 2001) dove il 70 per cento delle nuove costruzioni deve sorgere su aree già edificate o comunque ex aree industriali e soltanto il 30 per cento su suoli liberi. Va recuperato il ddl De Petris per il paesaggio agrario. Va valorizzato il Patto del Chianti che prevede il bilanciamento fra terreni persi e terreni ricostituiti.

Ho appena parlato bene di una situazione toscana e di altre vorrei parlare - come mi chiede il tenace e ciarliero assessore regionale alla «buona urbanistica» Riccardo Conti. Purtroppo non me ne offre molti motivi. La Toscana non è certo il peggio d’Italia, l’abbiamo detto e ripetuto fino alla noia, ma, essendo stata resa bellissima per mano dei suoi contadini, mezzadri, proprietari, artieri, artisti, in epoca storica, è pure la più esposta a rampogne, nostre e altrui. E purtroppo, che nella regione più ammirata d’Italia sono nati 162 Comitati di protesta, che la magistratura si è mossa già più volte, che il paesaggio appare, a occhio nudo, in più punti ferito, son tutti fatti di cronaca, molto concreti. Nell’articolo uscito ieri su questo giornale Conti contrappone i dati sul consumo di suolo, certo consolanti, ricavati dal satellite, dati diversi da quelli più volte da me esposti e che però provengono dalle metodiche rilevazioni dell’Istat e dei suoi Annuari. Rilevazioni ufficiali, ufficialissime. Come la cartina, pure Istat, sulla densità di popolazione, che certo in Toscana, soprattutto in alta collina e nella spopolata Maremma, risulta più bassa. Come lungo la dorsale appenninica, come fra Emilia e Liguria, o all’interno di Sardegna e Basilicata. Ma nell’area fra Firenze, la Versilia, Livorno e Pisa distinguere fra città e campagna è sempre più arduo. Non per caso, nei permessi di costruzione (ultimo dato, 2003), la Toscana risulta al sesto posto, mentre è al nono posto per popolazione con una crescita modestissima nell’ultimo trentennio (+ 1,0 per cento). L’assessore ammette pure - fatto importantissimo - che i Comuni toscani considerano restrittivo ed eccessivamente «conservatore» il Piano di Indirizzo Territoriale appena varato in Regione. E poi però continua ad affidare a quegli stessi Comuni (che vogliono più cemento) la tutela del paesaggio. Strane contorsioni dialettiche dalle quali, alla fine, il Bel Paese esce a pezzi.

In conclusione, al ministro Rutelli diciamo che, se desse attuazione ai punti sopraindicati, ci farebbe compiere i primi importanti, seri passi avanti - dopo i disastri del berlusconismo e di uno pseudo-federalismo costoso e lassista - avviando verso la salvezza un Paese che per ora sembra lanciato, di corsa, e in cambio di un’edilizia speculativa e d’accatto, all’autodistruzione. Anche turistica. Ma che colossale stupidità.

Legambiente, Limitare il consumo di suolo & costruire ambiente, promuovere un governo sostenibile del territorio, Convegno, Politecnico di Milano, 7 novembre 2007

Il suolo è una risorsa naturale non rinnovabile e ogni suo degrado (erosione, cementificazione, inquinamento, ecc.) comporta una perdita: dalle funzioni produttive, agricole e forestali, a quelle paesaggistiche ed ecologiche, a quelle connesse alla regolazione dei bilanci idrici superficiali e sotterranei e del ciclo del carbonio (di cui il suolo è il principale sink terrestre).

L’urbanizzazione del territorio comporta alterazioni o addirittura perdita, irreversibile, di suoli.

Il problema del .consumo di suolo. viene ulteriormente aggravato in quanto, nonostante le dinamiche demografiche siano stazionarie, vi è una continua richiesta di suoli da edificare, assecondata da scelte dettate da esigenze di autonomia finanziaria a cui gli enti locali fanno fronte con gli introiti di imposte e oneri da edificazione. In tal modo le città crescono a dismisura, quasi sempre senza una organica pianificazione ecologica, e con uno sguardo che non va oltre i confini amministrativi, provocando frammentazione e dispersione insediativa che, oltre a consumare suolo, tende a provocare danni all’agricoltura, sprechi energetici, riduzione della qualità del paesaggio e degli ambienti naturali, incremento della mobilità su gomma e, in ultima istanza, perdita di vivibilità nelle città, nelle aree metropolitane e nelle località turistiche.

Il suolo rimane una risorsa difficile da comunicare. Sempre dominata dalla dimensione privatistica della rendita. Ma il valore e le funzioni del suolo sono invece molte altre e hanno una valenza collettiva. Esse sono di chiara evidenza per il mondo scientifico, sebbene meno presenti alla politica e al sentire comune, più sensibili ai tradizionali (e sempre gravi) fenomeni di inquinamento in altri comparti ambientali. Inoltre mancano dati omogenei sulle dimensioni del suo spreco; risulta non sempre immediato rendersene conto. È difficile (ma oggi doveroso) “alzare lo sguardo” oltre il proprio lotto e percepire che si è di fronte ad un problema di dimensioni ormai notevoli e generalizzato.

È pertanto necessario avviare un dibattito sul tema della tutela dei suoli, sull.esigenza di trovare soluzioni diverse per sostenere i bilanci degli enti locali emancipandoli dalla dissipazione di risorse territoriali, sull.introduzione di principi di fiscalità ambientale, di efficaci forme di compensazione ecologica, di un sistema di regole finalizzato a ridurre lo spreco di suolo libero. Insomma, pare scontato ma non lo è, occorre un governo del territorio concretamente responsabile e sostenibile, che ribalti le priorità tradizionali e si dia, velocemente, principi e regole chiare per un futuro nel quale garantire spazio per tutti. Natura compresa.

Damiano Di Simine, presidente Legambiente Lombardia

PER UNA COSTITUENTE DEI SUOLI

non è solo terra

In Lombardia il suolo libero è risorsa scarsa, preziosa, ma questa constatazione di chiara evidenza non è stata finora sufficiente a generare politiche di tutela degne di questo nome. Non si tratta di un problema solo lombardo: è il nostro ordinamento ad essere privo di uno 'Statuto' dei suoli, che elevi questa risorsa al ruolo che le compete e che è implicito alla definizione che ne danno gli studiosi delle scienze del suolo: ' il prodotto della trasformazione di sostanze minerali e organiche, operata da fattori ambientali attivi per un lungo periodo di tempo sulla superficie della Terra ... capace di provvedere allo sviluppo delle piante superiori e, pertanto, di assicurare la vita all'uomo e agli animali'. Dunque, i suoli sono frutto di una evoluzione lenta nella storia biologica del pianeta: anche in Pianura Padana, area geologicamente giovane, gran parte dei suoli attuali si sono evoluti nell'arco di decine o anche di centinaia di migliaia di anni. Per di più si tratta di una risorsa limitata e circoscritta alla superficie terrestre – il suolo fertile è solo un sottilissimo strato di poche decine di centimetri – oltre che non rinnovabile, se non in tempi che trascendono la nostra esistenza. Esso inoltre è il substrato indispensabile della vita vegetale e di tutti gli organismi che dai vegetali dipendono, quindi anche di quelli appartenenti alla specie umana. Non male, per della banale terra. Ciò che è di chiara evidenza per scienziati ed agricoltori, non sembra esserlo per il legislatore lombardo nè per quello nazionale, che invece ha previsto tutele parziali e condizionate, riferite a specifici attributi e funzioni.

La legge nazionale sulla tutela dei suoli, la ormai storica 183/89, si occupa in realtà di bacini idrografici e di prevenzione del dissesto, ovvero di una funzione connessa ai suoli e alla loro funzione di regolazione idrica che deve essere salvaguardata. Una funzione indubbiamente fondamentale, tanto che siamo sicuramente tra coloro che hanno più apprezzato l'innovazione normativa portata dalla 183, e a maggior ragione siamo preoccupati per la sua abrogazione a seguito del DLgs 152/2006 attualmente oggetto di revisione parlamentare. Ma il suolo è anche altro. Il suolo è innanzitutto substrato essenziale per l'espressione della biodiversità terrestre e base produttiva per l'agricoltura; nella sua estensione e nella diversificazione degli ambienti esso esprime il paesaggio, come irrinunciabile spazio 'sociale' e identitario di una comunità, secondo la nuova definizione della Convenzione Europea sul Paesaggio. Il suolo riempie un comparto della biosfera (la 'pedosfera') di importanza fondamentale per la chiusura dei cicli biogeochimici (tra questi, il ciclo del carbonio di cui il suolo è il principale 'sink' terrestre) oltre per il ciclo dell'acqua. Solo in ultima istanza, il suolo è anche spazio disponibile per insediamenti e infrastrutture la cui realizzazione – se applichiamo le basilari definizioni di sviluppo sostenibile - non può pregiudicare i diritti e le possibilità delle future generazioni.

Non ci sembra affatto normale che le sorti del suolo vengano stabilite per via esclusivamente amministrativa da atti che si richiamano ad una disciplina – l'urbanistica – che già nell'etimologia esprime la negazione dei suoli, la trasformazione delle superfici in qualcos'altro. Ed in effetti all'estero ciò non è: altri Paesi, che come l'Italia hanno conosciuto i problemi connessi con il consumo dei suoli e con la conseguente trasformazione del paesaggio, hanno sviluppato norme di salvaguardia che attribuiscono al suolo valore di bene comune e come tale indisponibile. Ogni trasformazione, ogni rivendicazione di diritti, incluso quello edificatorio, è subordinata alla prevalenza dell'interesse pubblico alla conservazione del complesso delle funzioni e dell'organizzazione dei suoli.

Da noi invece la produzione normativa recente ha istituzionalizzato la contrattazione di aree e destinazioni su base sostanzialmente privatistica, indebolendo le possibilità di agire per salvaguardare la preminenza dell'interesse collettivo sulle aspettative di imprese e privati.

L'Unione Europea si è allertata, per mettere in guardia i Paesi membri circa i rischi della crescita inflattiva e disordinata del consumo di suolo. La Valutazione Ambientale Strategica finalmente entrata nel nostro ordinamento è strumento per verificare la sostenibilità delle scelte di pianificazione territoriale. Ma anche questo strumento risulta depotenziato nella misura in cui al suolo non viene riconosciuto lo status che gli compete: la perdita o la compromissione di suolo non è, di fatto, contabilizzata come un danno ambientale connesso alle trasformazioni, se non per via indiretta.

In Lombardia, la legge urbanistica regionale ha lasciato intravedere spazi per procedure di pianificazione locale più partecipata, ma il PGT, il nuovo strumento urbanistico comunale, non ha finora prodotto alcun argine alla crescita degli spazi urbanizzati a scapito del tessuto rurale. Le stesse province lombarde, che pure si sono finalmente dotate di strumenti di pianificazione d'area vasta (i Piani Territoriali di Coordinamento) - in diversi casi anche di ottima qualità - hanno assistito ad una progressiva erosione delle possibilità di intervenire e guidare i processi di trasformazione territoriale, pur restando almeno per ora titolari dell'importante responsabilità di disciplinare gli ambiti agricoli.

Nel frattempo procedono proposte normative, legate al settore infrastrutturale, che prevedono che il finanziamento delle future autostrade lombarde contempli anche il vantaggio del costruttore nella localizzazione di insediamenti a complemento dell'autostrada stessa: si può immaginare quale alluvione di cemento speculativo una simile norma comporterebbe per i suoli lombardi più pregiati, che vedrebbero prosperare ancora più di adesso il fenomeno degli outlet, dei centri commerciali e logistici, dei cinema multisala.

Ci sembra che l'esigenza di definire una norma, uno statuto per i suoli come risorsa naturale e bene comune, sia più che matura, in particolare per fronteggiare una situazione di dissipazione territoriale che nella nostra Regione è di giorno in giorno più preoccupante. Vogliamo cominciare, con il convegno di oggi, una discussione aperta su questi temi: una discussione che dovrà coinvolgere diversi ambiti di competenza ed affrontare diverse problematiche, non ultima quella della sostenibilità ambientale della fiscalità locale che – nella situazione attuale di riforma fiscale incompiuta – viene ritenuta a torto o a ragione il principale fattore di promozione del consumo di suolo, laddove per i comuni sempre a corto di risorse la scelta più immediata o più facile è quella della svendita del proprio più importante patrimonio, il territorio.

Forse è già tardi per discutere di come frenare il consumo di suolo, molte trasformazioni sono già avvenute in modo irreversibile. Di certo non si può perdere altro tempo, per questo vogliamo elaborare e presentare strumenti, come quello che verrà illustrato oggi della compensazione ecologica preventiva, che possano servire da subito come elementi per invertire la tendenza anche attraverso meccanismi di salvaguardia attiva che, oltre a disincentivare il consumo di suolo e di spazio, generino risorse per la gestione sostenibile del territorio e per l'espressione delle funzioni del suolo.

Paolo Pileri, Arturo Lanzani, Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano

APPUNTI PER UNA PROPOSTA DI LEGGE

Limitare il consumo di suolo, riqualificare i suoli non edificati, dare primato alla formazione di natura e paesaggio, compensazione ecologica preventiva, promuovere un’urbanizzazione sostenibile e responsabile.

Premessa



L’attività edilizia per lungo tempo, in un passato ormai un po' distante, è stata strettamente associata ad una contestuale attività di costruzione di spazi urbani di convivenza e di socialità e ad una attività agricola e forestale di cura del suolo. Da molto tempo questa contestualità si è incrinata: gli edifici spesso si appoggiano come oggetti isolati alle infrastrutture, senza costruire spazi urbani, l’attività edificatoria è ormai totalmente scissa (anche nel mondo rurale) dall’attività di cura del suolo. Le stesse infrastrutture si appoggiano alla terra senza sempre domandarsi quali rapporti mutano e quali effetti producono.

Inutile nascondere che la de-responsabilizzazione culturale verso gli spazi aperti dell’agricoltura non ha favorito il diffondersi di concetti alternativi, e altrettanto potenti, all’idea di agricoltura produttiva o di aree agricole libere e pronte per essere trasformate in aree edificate. La pratica del progetto urbano in Europa e la stessa legislazione italiana e lombarda a favore dei programmi integrati si è configurata come precondizione per riportare al centro una contestualità nella realizzazione di spazi urbani e collettivi di edilizia privata.

Oggi è ancor più urgente attivare un analogo circuito virtuoso tra trasformazione dei suoli, attività edilizia e costruzione della natura, non solo per urgenti e meritorie ragioni ecologiche, ma anche perché spazi aperti con forte contenuto naturalistico sono oggi più che mai elementi decisivi per definire l’abitabilità, la vivibilità di un territorio.

L’obiettivo di questa proposta è pertanto duplice:

- da un lato limitare l’uso edificatorio del suolo evitando che esso diventi un deposito (confuso) di manufatti spesso sottoutilizzati e abbandonati e che i livelli di urbanizzazione in alcune porzioni del territorio raggiungano livelli insostenibili,

- dall’altro legare ogni attività edificatoria ad una contestuale attività di costruzione dell’ambiente e della natura negli spazi aperti.

Il ragionamento è il seguente: la trasformazione di suolo da un uso naturale o seminaturale ad un uso artificiale, ovvero la sua asportazione o copertura permanente, si responsabilizza nei confronti dell’ambiente. Pertanto ogni trasformazione si deve accompagnare ad un serio processo di valutazione della necessità e della sostenibilità dell’intervento che la richiama. Questo processo non fa altro che sollecitare il progetto a mettere in atto dapprima tutte le azioni possibili per ridurre gli effetti ambientali che esso inevitabilmente comporta. Questo stesso processo, riferito invece al momento del piano, si traduce in una attenta valutazione riguardante la reale necessità di trasformare irreversibilmente un determinato suolo.

In entrambi i casi, la trasformazione porta con sé una pur minima sottrazione di spazi e di risorse naturali che gravano sulla bilancia ambientale locale. Ecco che allora si può immaginare di introdurre una serie di contropartite, a carico del trasformatore (pubblico o privato che sia), capaci di fornire in altri lotti, ma in un intorno territoriale definito (tendenzialmente nello stesso comune) un credito ecologico.

Questo credito non fa altro che ‘ compensare’ quella sottrazione ambientale inevitabilmente tolta al territorio e al paesaggio che, pur con tutte le eco-soluzioni poste in essere in fase progettuale, rimane da ‘riparare’.

Sull'atto del 'riparare' e del 'compensare' non è inutile dirsi chiaramente che cosa è possibile fare con riferimento al comparto ambientale del suolo, in quanto è evidente che la perdita di 'spazio' e di organizzazione del territorio non è in se' compensabile. La pertinenza del concetto di compensazione ecologica diventa però tale se si definisce uno 'statuto dei suoli' facendo ricorso alle categorie 'funzionali', proprie della definizione della scienza del suolo [1] (il suolo come 'risorsa naturale limitata e insieme di funzioni connaturate alla vita terrestre'), e non più solo geometriche ('spazio territoriale'). Tale cambiamento di prospettiva, che impone una visione transdisciplinare, permette di chiarire che le 'funzioni' del suolo sono nella maggior parte dei casi effettivamente ripristinabili, entro ragionevoli limiti, con azioni compensative.



La presente proposta tiene conto di entrambe le connotazioni – spaziale e funzionale – del suolo e ne persegue la salvaguardia attiva attraverso una strategia 'win win' per disincentivare il consumo di suolo e di spazio, trasferendo risorse al potenziamento e al consolidamento delle funzioni dei suoli liberi.

Occorre pensare che questo processo ‘compensativo’ appena descritto è assimilabile, da un lato, a quella che fu l’introduzione degli oneri di urbanizzazione per la realizzazione di strade, servizi urbani, etc, dall’altro alla più recente pratica dei programmi integrati e del progetto urbano. Insomma se nel passato vi è stata necessità di iscrivere la richiesta di costruire ad una condizione di fornitura di capitali sociali in quanto infrastrutture e servizi erano (e sono) necessari per l’abitare, oggi (ma avrebbe dovuto esserlo anche ieri), periodo di evidente deficit ambientale ed ecologico e periodo di scarsa disponibilità di risorse territoriali come gli spazi aperti, è immaginabile di attribuire ad ogni trasformazione, quando ineludibile, una responsabilità ecologica che si traduca ad esempio in una sorta di onere ecologico attraverso il quale si possa generare nuova natura altrove rispetto alla trasformazione, concorrendo a generare una dotazione ecologica e ambientale necessaria per la qualità della vita insediata.

Si tratta di chiudere circuiti logici rimasti aperti. Si tratta di dare strada concreta ad una volontà, positiva e pertinente con le competenze dei soggetti della pianificazione, che è quella di costruire ambiente, di fare natura chiedendo al settore edilizio di farsene carico in quanto consumatore di suolo, ovvero la risorsa basilare per impostare un progetto ambientale territoriale.

Oggi molte delle iniziative di ‘greening’, di innalzamento della biodiversità, ma anche di miglioramento paesistico rimangono soffocate ad uno stadio di progetto se non di idea in quanto non hanno finanziamenti e luoghi dove concretizzarsi.

Ancor più occasionale nell’agenda è la considerazione del tema della trasformazione dei suoli senza limitazione o con obiettivi di limitazione relativi e quindi, di fatto inefficaci.

L’espansione pare un fatto non limitabile. Oggi, ancor più di ieri, l’espansione avviene a spese di aree che in non poche porzioni della regione lombarda e del territorio italiano sono le ultime aree disponibili, le ultime aree che potrebbero essere in grado di innalzare una naturalità minacciata o non considerata con sufficiente responsabilità. Da qui la necessità di immaginare un meccanismo capace di fornire aree per la natura nel momento in cui emerge una domanda di aree per trasformazione urbanistica. Condizionando l’essenza stessa del secondo alla possibilità del primo.

La proposta attuale è quindi quella di aprire una nuova strada che non vuole essere negativa verso ‘il trasformare’ invocando blocchi, divieti e vincoli. Vuole essere positiva, ovvero 1) indirizzare le trasformazioni a utilizzare aree già compromesse e 2) consentire di trasformare responsabilmente le aree (eventualmente anche quelle libere) accompagnandosi a un processo di pre-valutazione della reale necessità e della virtuosità ambientale della trasformazione e condizionando comunque questa a rilasciare un’area, altrove, da equipaggiare ecologicamente.

Ecco allora qui proposti una nuova serie di principi per tutelare il delicato equilibrio tra ciò che una trasformazione toglie alla natura e al paesaggio e ciò che una trasformazione può dare alla natura e al paesaggio, tenendo conto che, responsabilmente, un freno ai consumi di suolo occorre darselo per non compromettere le risorse residue a ancora a disposizione.

Ecco allora una proposta per spingere l’urbanizzazione verso l’uso di aree già compromesse e verso l’adozione di standard ecologici ed edilizi elevati e scoraggiare l’urbanizzazione delle aree libere.

Come risulta da quanto detto, la proposta non entra nel merito delle scelte di piano e neppure nel progetto (si chiede comunque una qualità elevata non solo di disegno, ma anche di prestazione ambientale), ma il suo contributo sta nell’ invocare un approccio positivo alla pianificazione. Non si vuole togliere la potestà decisionale al governo locale, ma la si vuole nobilitare con un approccio che punta alla reale sostenibilità e, quindi, alla generazione di risorse ecologiche ed ambientali.

In altri termini, presa in totale autonomia, la pratica della compensazione ecologica preventiva non garantisce da sola il buon governo del territorio. Sarebbe una pretesa e una ingenuità. E non è questo l’obiettivo (peraltro sarebbe il caso di dire che neppure la perequazione assicura un buon governo, sebbene su questa pratica…..).

La compensazione ecologica preventiva semplicemente crea ‘responsabilità’ innanzitutto attraverso un ribaltamento delle poste in gioco (prima la natura e l’ambiente e poi le trasformazioni), quindi utilizza qualche disincentivo (o incentivo a seconda dei punti di vista) e fornisce un utile strumento operativo, regolativo e di indirizzo valorizzabile senza particolari problemi e sofferenze da buoni piani, politiche e progetti che comunque rimangono i soli riferimenti concettuali e operativi che possono garantire un buon governo del territorio.

Un approccio capace di avvicinare, e magari chiudere, i circuiti aperti che ancora ci sono: urbanizzazione vs. rinaturazione, ad. esempio.

Evidentemente, però, il richiamo alla responsabilità deve essere rotondo e senza incertezze. Ecco allora farsi strada l’esigenza di anteporre all’inizio ciò che per decine di anni è stato in fondo al processo: la formazione di natura e la costruzione di ambiente devono essere fatti prima di avviare l’intervento trasformativo. Prima deve essere fornita l’area e resa disponibile al soggetto pubblico e poi si può iniziare l’opera. Prima si iniziano i lavori ecologici e poi quelli urbanizzativi. La rotondità della proposta, nonché la sua credibilità, hanno qui uno snodo fondamentale. Qui invertire l’ordine degli addendi produce un cambiamento di risultato. Sul tavolo rimangono ancora parecchie questioni tecniche, procedurali, di disegno e sostantive ancora da affrontare e, probabilmente, da declinare localmente e tematicamente. Ma ora occorre mettere il cuore della questione al centro del dibattito ed iniziare, responsabilmente, a studiare vie di impegno sociale e ambientale concrete e trasferibili alla nostra dimensione decisionale e politica. Un processo di questo tipo ha già convinto alcuni paesi europei (Germania in testa) che hanno, appunto, scelto di avviarsi verso una soluzione di simile positività per la pianificazione.



STATUTO DEI SUOLI

Principi fondativi



Art. 1 – il suolo è una risorsa strategica che va preservata

Il suolo libero costituisce una risorsa non rinnovabile per l’uomo, la società, la natura e l’ambiente: come pausa spazio di rallentamento e silenzio, come natura fruibile e abitabile, come spazio di complessità ecologica, come presupposto della produzione agricola e al relativo servizio ecologico. Il suolo va preservato e occupato con usi non reversibili solo se e quando necessario. Occorre ridurre i consumi della risorsa suolo. La necessità di ogni uso trasformativo del suolo (nuova occupazione o sostituzione di occupazione già esistente) deve essere oggetto di un iter di valutazione al fine di evitare la facile e non sostenibile sottrazione di spazio e funzioni alla natura e alle risorse ecologiche ed ambientali in generale e la perdita di risorse biologiche esistenti o che potenzialmente si insedierebbero.

Il consumo del suolo, in qualunque forma e copertura esso si presenti, o la sua alterazione da parte di un’attività antropica rappresenta dunque una forma di danno all’ambiente e all’ecosistema in quanto modifica l’assetto e le condizioni originarie dell’ambiente. L’entità del danno dipende da diversi fattori (che saranno oggetto di successiva specificazione e metodologia di valutazione) tra cui lo stato delle coperture attuali, la qualità dei suoli, la strategicità rispetto al disegno ecologico territoriale, etc. Tale danno ambientale non è mai totalmente eliminabile e va evitato, ridotto, mitigato e, in ogni caso, controbilanciato con un’opportuna compensazione ecologica (art. 4) al fine di riprodurre altrove le condizioni e le funzioni ecologiche perse o non sviluppate.



Art. 2 – Affermazione dei principi ‘no unless’ (nulla a meno che), ‘no net loss’ (nessuna perdita secca). La formazione della natura

Il suolo libero costituisce un bene comune e irrinunciabile per la comunità, pertanto l'interesse generale alla sua salvaguardia accompagna ed anticipa ogni motivazione particolare volta ad operarne la trasformazione.

I principi internazionali ‘no unless’ (nulla a meno che) e ‘no net loss’ (nessuna perdita secca, che potrebbe anche specializzarsi in ‘no net loss of ecological values’) integrano i principi di sostenibilità ai quali oggi si ispirano le diverse legislazioni in materia di governo del territorio e dell’ambiente. Inoltre non è pensabile un governo del territorio che si impegna solo a conservare la natura e le risorse naturali, ma occorre un impegno, concreto e fattibile, a formare nuova natura e nuove risorse.



Art. 3 – Il bilancio ecologico locale non va peggiorato

Ogni livello amministrativo (comune, provincia, comunità montana, parco, regione, etc.) che gestisce un territorio attraverso gli strumenti di governo previsti deve provvedere a stilare un proprio bilancio ecologico da cui emerge il grado di naturalità e lo stato delle risorse naturali caratterizzanti il territorio. Tale bilancio, locale, non può essere peggiorato neppure provvisoriamente. Ogni forma di trasformazione e uso del suolo non può generare alterazioni negative del bilancio ecologico locale. È a carico del soggetto pubblico titolare dello strumento di governo del territorio definire le modalità di regolazione e di gestione di tale bilancio ecologico.



Art. 4 – compensazione ecologica preventiva

Poiché ogni uso del suolo produce un, pur minimo, impatto ecologico ed ambientale mai completamente eliminabile, occorre che il titolare, pubblico o privato, di ogni trasformazione compensi gli impatti residuali generando nuovo valore ecologico e ambientale, ovvero, formi nuova natura [2]. La progettazione e la realizzazione degli interventi di compensazione ecologica devono essere concordati con il titolare degli strumenti di governo del territorio e asseverati da un garante terzo, esterno, competente in materia. La compensazione ecologica deve essere realizzata all’esterno delle aree trasformate, ma all’interno del comune. La compensazione ecologica comprende due contributi:

1. la cessione di aree (anche scollegate da quelle oggetto di intervento) e

2. il loro equipaggiamento naturale/ecologico.

L’ottenimento del titolo costruttivo (permesso di costruire o similari) è condizionato alla corresponsione di entrambi i contributi che non possono essere oggetto di monetizzazione. Le aree cedute a titolo compensativo vengono acquisite alla pubblica proprietà e sono vincolate alla non edificabilità.

Al fine di garantire di i) non peggiorare il bilancio ecologico locale e ii) realizzare effettivamente i contributi ecologici richiesti, le aree per la compensazione ecologica devono essere fornite e cedute al soggetto pubblico prima del rilascio del permesso di costruire e le opere di compensazione ecologica devono essere avviate prima delle opere di trasformazione e uso del suolo. In tal senso si parla di compensazione ecologica preventiva.

Cessione di aree e equipaggiamento ecologico a carico del titolare della trasformazione si configurano come onere ecologico all’urbanizzazione.



Art. 5 – Verifica preventiva della disponibilità di aree urbane già edificate e urbanizzate

Le nuove esigenze di edificazione dovranno dirigersi prioritariamente verso il riuso delle aree urbane (non agricole e non libere) non più utilizzate o sottoutilizzate. Prima di trasformare un’area libera (pubblica o privata; per usi pubblici o privati e/o per interesse pubblico) occorre verificare, a livello locale, che non vi siano aree urbanizzate abbandonate o non più utilizzate e che potrebbero essere trasformate al limite senza produrre un danno ambientale a differenza di quello producibile con la trasformazione di un’area libera. Pertanto nel caso in cui l’attività edilizia coinvolga aree già edificate ed urbanizzate e si realizzi secondo i criteri dell'art. 7, la compensazione ecologica preventiva non è dovuta.



Art. 6 – Depositi verdi

Al fine di garantire possibilità e condizioni eque al diritto di trasformare il territorio, i comuni e le altre amministrazioni competenti per territorio possono individuare delle aree pubbliche, a basso valore ecologico, che possono essere oggetto di miglioramento ambientale ed ecologico. Tali aree sono individuate dal soggetto pubblico in base ad un disegno ecologico [3] e alle esigenze di miglioramento paesistico-ambientale ed ecologico del territorio e vanno a costituire il cosiddetto ‘deposito verde locale’. Nel caso in cui il richiedente titolo costruttivo si trovi nella condizione (da accertare) di non avere aree da cedere, potrà allora figurativamente acquistare un’area del deposito verde versando il corrispettivo all’amministrazione pubblica locale e farsi carico delle opere di equipaggiamento/miglioramento ecologico in accordo con il soggetto pubblico locale. Il soggetto pubblico può, in mancanza di aree, stipulare con gli agricoltori degli accordi d’uso delle aree agricole al fine di aumentarne la dotazione ecologica permanente. Gli agricoltori riceveranno i contributi della compensazione ecologica preventiva che, in ogni caso, devono prevedere i corrispettivi per le voci 1) e 2) dell'art. 4.



Art. 7 - Insediamenti ed edilizia ecocompatibili

Quando ineludibili e dopo aver passato le fasi di valutazione opportune, le nuove urbanizzazioni e la nuova edilizia dovranno comunque rispondere a criteri di ecocompatibilità, di basso impatto ambientale e di uso parsimonioso delle risorse energetiche e idriche. La prestazione ambientale dei nuovi insediamenti e delle nuove attività edilizie potranno essere assimilate a forme di mitigazione ambientale generando così una diminuzione del danno ambientale da riparare con la compensazione. Non escludendosi comunque anche in tale attività edilizia una trasformazione di suolo libero, una quota di compensazione ecologica rimarrà sempre non eliminabile.

Art. 8 – Registro dei suoli

È istituito il registro dei suoli presso ogni comune. Il registro dei suoli fornisce informazioni costantemente aggiornate sull’uso del suolo e sulle superfici urbanizzate, utilizzando una procedura valutativa da definire, trasferisce le informazioni agli altri livelli amministrativi.

Nota: di seguito scaricabili i pdf dei due interventi riportati, e il volantino del convegno con tutto l'elenco degli interventi (f.b.)

[1] Occorre rilevare che nel nostro ordinamento non esiste uno 'statuto' dei suoli, i suoli non sono considerati risorsa naturale limitata e come tale sottoposti ad una disciplina che ne preveda la conservazione. Esistono normative settoriali (tutela dei suoli per la prevenzione del dissesto, ovvero in quanto connaturati alla definizione di paesaggio o di aree protette, ecc.), non una disciplina che valorizzi il suolo in quanto suolo. Opportuno è a questo punto introdurre una definizione di suolo, sapendo che ne esistono diverse declinazioni disciplinari. La scienza del suolo ne parla come: “il prodotto della trasformazione di sostanze minerali e organiche, operata da fattori ambientali attivi per un lungo periodo di tempo sulla superficie della Terra, caratterizzato da specifica organizzazione e morfologia, capace di provvedere allo sviluppo delle piante superiori e, pertanto, di assicurare la vita all'uomo e agli animali

[2] In ciò la compensazione ecologica preventiva si ispira anche al principio di riparazione compensativa già citato nella DIR 2004/35/CE

[3] Tale disegno dovrebbe essere a sua volta di un progetto ecologico locale o di un piano ecologico-paesistico comunale che a sua volta tiene conto delle indicazioni ecologiche e paesistiche previste nel livello di pianificazione provinciale.

[…]

E poi avrei dovutoparlare della periferia in cui si svolge questa storia. Un brutto palazzo di ferro e vetro in un quartiere di centri commerciali, che poi è il posto dove io vivo e vado a passeggiare. Perché da noi si passa il tempo a Cinecittà Due o al centro commerciale Anagnina, da Carrefour o Leroy Merlin, da Decathlon o Mondo Convenienza. E se lo dici agli intellettuali ti prendono per scemo.Quelli ti rispondono chele passeggiate si fanno per le strade di Roma, a Trastevere, al limite a Testaccio. Che si va in villa, quella che fu dei Borghese, dei Torlonia. Ma in questo pezzo di Roma da cui cerchiamo di scappare ci stanno a malapena un po'di marciapiedi. E l'unico parco è uno dei posti più inquinati d'Europa visto che è a ridosso dell’aeroporto di Ciampino. Qui diciamo che è ma fortuna averci Ikea con la sua temperatura ideale d’estate e d'inverno, l'aria condizionata che è più pulita di quella che ci arriva dalla finestra. E se ci vai col pupo ti danno anche il menù baby all'angolo del fast food. Io lì non ci ho avuto ancora il coraggio di mangiare. Forse perché mio figlio c'ha meno di un anno e non ho ancora la scusa per farlo.

E infatti l'argomento che non ho considerato è forse il più importante. È il pensiero che ha permesso lo sviluppo di questi palazzi, la simbiosi tra il mobile componibile pensato in Svezia e costruito in Cina a basso costo e l'operatore a cui hanno fatto credere di aver raggiunto un traguardo acquistando una nuova libreria con il basso stipendio consentito dal suo lavoro quasi cinese. Il pensiero che accosta e mescola nella borgata il menù baby al precariato. Il pensiero che fa pensare al panino da 50 centesimi come a un'opportunità e invece è una galera. È l’impossibilità di permettersi un pranzo migliore, mettere i librii suscaffale fatto dal falegname con il legno vero, passeggiare ,n una strada del centro o in un parco silenzioso.

[…]

“Super” è un prefisso connesso alle immagini di superiore, eccessivo, straordinario, eccezionale. Un connotato che può essere assunto da oggetti, persone, situazioni, ma anche da “luoghi”, determinati non solo spazialmente, anche idealmente.

Il prefisso «super» è infatti ascrivibile non tanto all’elemento topografico del luogo, quanto al suo valore simbolico. Questo capita, ad esempio, per conseguenza di un’azione che innova radicalmente uno stato di fatto, tramite una realizzazione architettonica di impatto, capace di inserirsi con identità e singolarità: è il caso, per esempio, della nuova Fiera di Milano, dell’Auditorium Parco della Musica a Roma, di Eden-Olympia descritta da Ballard in Super Cannes[1].

I superluoghi trovano il loro spazio ideale nei “territori della globalizzazione”, dove si spostano le “folle solitarie” raccontate da David Riesman già negli anni ’50 del secolo scorso [2]. Territori i cui confini si rivelano sempre più incerti, perdendo progressivamente senso: un aeroporto non è più solo una piattaforma intermodale per mondi lontani, ma diventa oggi porta di scambio quotidiano tra città distanti migliaia di chilometri, dov’è consentito intrattenersi in spazi condizionati e cablati, accedere all’acquisto di prodotti costosi, alla moda, “tipici”, particolari, o godere di una campagna di saldi di fine stagione; l’aereo diventa così un mezzo di mobilità pubblica come un treno suburbano e l’aeroporto una fermata del vasto sistema metropolitano transnazionale.

Queste nuove pratiche di scambio sociale, economico e culturale, tra le moltitudini che vivono e frequentano i superluoghi, si manifestano con le stesse modalità e con le medesime intensità con cui tradizionalmente il cittadino vive lo spazio pubblico della sua città, con la differenza che ad essere sovvertito è il concetto di “prossimità”. Esemplare a questo proposito è appunto l’impatto che le compagnie di volo low cost e gli aeroporti “minori” da esse utilizzati, stanno producendo: una rilevante ridefinizione di reti di città e di economie a scala continentale, che stravolgono gli assetti tradizionali e la potenza dei sistemi urbani consolidati, a favore di “reti minori” e di città “marginali”, innescando trasformazioni sostanziali dei tessuti urbani di contorno; trasformazioni spesso casuali o demandate a scelte di pianificazione prive di studi comparativi e critici, che nei casi di insuccesso determinano condizioni di degrado e periferizzazione.

La localizzazione delle grandi strutture di vendita - per fare un altro esempio - con rilevanti bacini d’utenza, è – come noto - la conseguenza della diffusione del modello di mobilità privata, fondato sull’uso incessante dell’automobile. L’accessibilità al consumo è anche qui strategica; i nodi infrastrutturali sono allora nuove centralità, che addensano progressivamente grandi sistemi monofunzionali disgregati e disgreganti rispetto alla città consolidata, la cui esistenza sembra diventare più un ostacolo allo sviluppo che un opportunità: una opposizione che disegna un paesaggio pulviscolare, frutto di una “esplosione” [3] dei fattori urbani, tendenzialmente segnato da percorrenze erratiche.

La caratteristica più distintiva del superluogo è dunque la sua capacità di dominare il territorio a cui appartiene, generando fenomeni di forte urbanizzazione, attraendo a sé masse e flussi. Una capacità che deriva dalla sua potenza simbolica, dal suo peso economico, dal suo ruolo nella società moderna. Ma anche dalla sua velocità d’azione e adattamento: il “just in time” dell’urbanistica, il “prêt-à-porter” dell’architettura, seguono pedissequamente il dinamismo del mercato, la vacuità delle “tendenze”, le esigenze di una mai completamente definita società contemporanea, e assieme sono il vettore che materialmente trasforma il territorio metropolitano. In estrema sintesi, si tratta di un modello di produzione urbanistica di “massa standardizzata”, flessibile nelle forme e nei contenuti, veloce nell’adattarsi ai nuovi paradigmi di consumo.

Guardando ai territori colonizzati da questi fatti, appare ormai evidente come queste “strutture di massa”, musei, aeroporti, grandi stazioni ferroviarie, centri commerciali di prima generazione (i contenitori scatolari prefabbricati), centri commerciali di seconda generazione (città miniaturizzate a tema, tipo outlet, città della moda, città dell’elettronica, dell’arredamento, parchi ludici ecc.), multisala cinematografici, sembrano accomunate da un denominatore: una sostanziale disattenzione alla qualità del progetto e una (apparente) casualità dell’iniziativa, che – molto spesso - non rispondono ad alcuna razionalità collettiva; ad alcun interesse generale.

Sembra cioè di poter certificare - in generale - l’insufficienza o l’assenza di un progetto complessivo che contenga e contestualizzi, normalizzandoli, gli impatti di questi ambiti. Sembra che il territorio e le città siano ridotti al ruolo di spettatori, piuttosto che di attori, di questa ridefinizione delle funzioni, delle relazioni di vita e al ridisegno del paesaggio in senso lato.

Rimane il fatto che la nostra civiltà, orientata su abitudini, stili di vita, comportamenti di consumo e produzione, di massa e globali, sembra non poter fare a meno dei superluoghi. E’ intorno a questa necessità che occorre capire come formulare gli strumenti adatti per il governo e la progettazione della città futura.

Si tratta dunque di governare il fenomeno “superluoghi”; qui sta la questione centrale che, sia la ricerca promossa dalla Provincia di Bologna, sia le pagine di questo libro affrontano, per tentare di rispondere ad alcune principali domande: i «superluoghi» sono nuova città? Come si possono progettare sinergie utili ad evitarne la periferizzazione? A quali tecniche progettuali ricorrere per ridurre il conflitto causato dalla complessità che li rappresenta, tutelando il paesaggio storico e naturale? La qualità architettonica fino a quale livello è capace di incidere sull’immagine di ambienti pensati e cercati dai fruitori per la loro specializzazione tematica e per la loro offerta funzionale?

Le risposte desumibili dai contributi più avanti argomentati, non sono univoche né semplici. L’eterogeneità delle riflessioni e degli spunti contenuti in questo volume, testimoniano questa complessità.

Se una sintesi è possibile, va certamente ricercata nella necessità di governo e di progetto che la fenomenologia che abbiamo chiamato superluoghi esige oggi, per impedire che si intensifichi un pericoloso antagonismo: quando la città rifiuta (ignora o sottovaluta) un dialogo con un fenomeno emergente e di vasta portata – i superluoghi – si espone ad una frattura difficilmente sanabile. Periferie, metropolizzazioni del territorio, sfrangiamenti urbani, quando non vere devastazioni del paesaggio, sono l’esito di questa rinuncia.

Per molto tempo si è cercato di non “contaminare” la città – quella storica in particolare – con funzioni e attrezzature presuntamente disarmoniche, conflittuali o “incongrue”, sospinte dal mercato, o dalle esigenze sociali moderne; paradossalmente – spesso – si è ottenuto il risultato opposto. Allontanare il problema, o peggio ignorarlo nella speranza che si perda nello sterminato territorio metropolitano, non ha contribuito a “salvare la città”. La contaminazione è avvenuta, il contagio si è diffuso alla grande velocità cui il nostro tempo ci ha abituati. L’esito è evidente e documentato anche nelle pagine di questo libro.

Si tratta ora di riprendere un dialogo interrotto, tra la città così come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, e le nuove forme del suo sviluppo. Non per essere subalterni al mercato, né alle pressioni speculative, né tanto meno alla fluttuazione delle “tendenze”. Bisogna riprendere questo dialogo per rimettere al centro della questione territoriale e urbana il governo pubblico e il progetto di qualità, con nuovi tentativi capaci di riconiugare pianificazione di lunga durata e progettazione architettonica. Una attività di ricerca e sperimentazione che deve partire soprattutto dagli enti territoriali: Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni possono trovare in quest’ambito d’innovazione le ragioni per un nuovo protagonismo.

[1] Nel suo noto romanzo (Super Cannes, Feltrinelli, Milano, 2002) Ballard descrive con acuta chiarezza le caratteristiche di questi luoghi dell’eccesso, soffermandosi in particolare sui quartieri privati e non accessibili della residenza di lusso.

[2] Riesman D., La folla solitaria, Il Mulino, Bologna, 1956.

[3] Ci si riferisce alle note conseguenze del così detto sprawl; si veda in particolare AA.VV., L’esplosione della città, Compositori, Bologna, 2004.

Postilla

Il testo costituisce l’introduzione al catalogo “La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana”, Damiani, Bologna, 2007, pp. 6-9.

Il volume rappresenta l’esito bibliografico di una ricerca condotta dalla Provincia di Bologna i cui risultati sono illustrati in queste settimane a Bologna nel corso di numerose manifestazioni al cui programma si rimanda.

In eddyburg, che da sempre segnala la pericolosità e la pervasività dei fenomeni urbani e non, connessi al moltiplicarsi dei "non luoghi", sono presenti un’ampia documentazione sull’argomento e alcuni interventi critici sull’iniziativa bolognese che, per l’importanza dei temi trattati, merita senz’altro di essere ripresa in una discussione più allargata alla quale invitiamo tutti i lettori di eddyburg (m.p.g.)

Su Mall, un interessante (ed eccentrico) saggio sui "sub-luoghi" non incluso nel catalogo (f.b.)

Los Angeles A più di dieci giorni dall'inizio degli incendi che hanno bruciato 1000 km2 di California i bollettini meteorologici, consigliano ancora «cautela» per anziani a bambini esortando chi soffre di asma a rimanere in casa. La cappa opprimente che ha avviluppato una regione di 300km per 100 (in cui abitano 15 milioni di persone) compresa fra Ventura e il confine messicano, ha provocato la chiusura di molte scuole, altre hanno rinunciato all'ora di ricreazione e di ginnastica a causa della qualità dell'aria. Ma mentre il fumo comincia infine a dissiparsi gli incendi hanno lasciato uno strascico di polemiche assai familiari.

Nella gerarchia naturale delle psicosi californiane, gli incendi sono quelli che hanno forse il maggiore impatto psicologico proprio perché interessano uno dei paesaggi più metaforici dello stato: suburbia, manifestazione tangibile di quella crescita costante che è sacramento fondativo della mentalità di frontiera, specie nel west. I terremoti sono democratici nell'imprevedibiltà dei loro epicentri e scadenze, i fuochi invece sono una certezza che avviene con regolarità matematica essendo parte integrante e necessaria di quest'ecosistema a macchia mediterranea. Una zona in cui un numero eccezionalmente alto di piante sono adattate a provocare periodici incendi per sviluppare una conseguente rifioritura e la distribuzione dei semi sul territorio, oltre che per la fertilizzazione naturale del terreno. È un fenomeno talmente integrato nei cicli naturali che l'università di Riverside a est di Los Angeles offre anche un corso in «ecologia del fuoco». L'analisi della stratificazione geologica conferma che da sempre i venti caldi del deserto che soffiano ogni anno soprattutto nei mesi autunnali, hanno provocato incendi boschivi naturali nei canyon e nella macchia riarsa dalla siccità. Un ciclo di rinnovamento naturale c'è sempre stato, la grande differenza è che ora nella natura ci sono case, a centinaia di migliaia. Accanto all'«ecologia del fuoco» è cresciuta smodatamente una geografia del consumo

Il fordismo edile

La crescita suburbana costituisce il dato costante dello sviluppo urbano americano degli ultimi 60 anni, con radici nel dopoguerra quando per accomodare i reduci protagonisti del boom economico e demografico, emerge un nuovo fenomeno di «fordismo edile» con la costruzione di megacomprensori che applica il sistema della catena di montaggio. Periferie istantanee come Lakewood in California e Levittown a New York, comunità «pianificate» fatte di decine di migliaia di case monofamigliari progettate serialmente grazie alla standardizzazione di metodi e materiali. Sono le sitcom suburbs che fungono anche da contenitori modulari per un conformismo consumista dell'effimero.

Emerge così un nuovo paesaggio, un'inedita geografia della coabitazione che non può più definirsi urbana ma è suburbana. Le periferie diventano il fulcro del nuovo sviluppo contemporaneamente al declino delle città. Una dinamica che si accelera con la sovrapposizione delle tensioni sociali causate dal movimento dei diritti civili: dagli anni '60 in poi la trasmigrazione interna verso le periferie è quella della popolazione bianca in fuga dai centri cittadini fatiscenti lasciati in mano a neri (le inner cities). Il white flight è la dinamica sociale predominante nello sviluppo orizzontale delle città americane per 50 anni, un fenomeno che in California, patria dello sprawl, è accentuato dalla fortissima crescita demografica ed economica capace di creare ex novo intere regioni «suburbanizzate» come la San Fernando Valley, dove risiedono 2 milioni di persone in gran parte etnicamente omogenee. È un fenomeno inestricabilmente legato all'emergenza di un «complesso edile-industriale», una lobby di forti interessi economici che perpetua un modello scarsamente sostenibile (ma altamente commerciabile, soprattutto grazie alle agevolazioni governative ai mutui bancari che si dagli ani '50 sono una sovvenzione ai profitti privati dei costruttori).

Gli interessi immobiliari fanno della casa un oggetto consumabile e uno status symbol dando luogo alla nuova geografia post-urbana che è ormai il paesaggio americano prevalente: periferie prive di centro in cui case individuali coprono vaste zone a bassa densità attorno a posti di lavoro decentrati, raggiungibili unicamente in automobile lungo vettori autostradali. Una suburbanizzazione «regionale» dove la vita sociale si raggruma attorno a franchising di fast food, multisala, tangenziali e centri commerciali.

Già dalla fine dello scorso decennio è questo il paesaggio che definisce l'esperienza americana contemporanea: sono più numerosi gli americani che vivono in zone periferiche «para-urbane» che quelli che risiedono nelle campagne e nelle città messi assieme. L'industria immobiliare, sovvenzionata dallo stato ha cooptato i temi mitici della narrativa nazionale - indipendenza, individualità e frontiera - arrivando a produrre una mappa tangibile del libero mercato, un urbanesimo della speculazione capitalista che ha soppiantato la città.

L'espansione infinita

Un fenomeno che in California è assolutamente prevalente e che spinge oggi lo sviluppo suburbano sempre più addentro a un territorio agricolo e «selvatico» sotto l'impulso di una crescita demografica irresistibile che si attesta attorno ai 600.000 nuovi abitanti ogni anno; la previsione è che in 50 anni la popolazione californiana passerà dagli attuali 35 a 60 milioni. È l'incontro fatale dell'«ecosistema del fuoco» con questa «geografia dell'ipersviluppo» che fa degli incendi naturali della regione un periodico e prevedibile «olocausto suburbano». Ogni anno la stagione dei fuochi torna a minacciare le propaggini più recenti ed estreme della suburbia - quella exurbia che si inerpica per i canyon e nella macchia delle colline californiane, verso il deserto e sulle montagne dell'hinterland - le San Gabriel, San Bernardino, Palomar - la natura che delimita un bacino in cui risiedono 17 milioni di persone.

Alcune di queste «edge cities», come quelle nelle contee di San Bernardino e Riverside, sono abitate in prevalenza da gente che non può permettersi il costo esorbitante dei quartieri piu «desiderabili» in prossimità del Pacifico, questa è una lumpen-suburbia in cui vive un proletariato bianco ( e recentemente anche ispanico) spesso in abitazioni a costo minimo come le mobile homes, case «impermanenti», acquistate come prefabbricati e «posate» su un lotto in affitto. Ma molta exurbia è abitata invece da una facoltosa middle class bianca, i consumatori target dei comprensori che a un ritmo impressionate ricoprono le campagne fra Los Angeles e San Diego con ville a schiera il cui costo medio ha raggiunto il mezzo milione di dollari. Visto che nel modello americano i servizi pubblici vengono finanziati in gran parte dalle imposte sulla casa, queste comunità recintate godono di buone scuole e servizi che attraggono una demografia bianca e facoltosa vero le cosiddete «McMansion» , le ville serializzate, sfornate come i panini tutti uguali di Mcdonalds. Con la loro media di sei stanze (nel 1945 la media era 3), 300 mq, doppio garage e giardinetto di ordinanza sono l'attuale incarnazione dello status symbol imprescindibile del sogno americano: la casa propria. Sono questi luoghi, dunque, l'epicentro dei cataclismici incendi che un anno sì, un anno no, devastano la California. I fuochi, insomma, ci sono sempre stati: se però vent'anni fa i focolai della scorsa settimana avrebbero bruciato perlopiù la sterpaglia secca dei canyon, ora le stesse zone sono piene di case. E non c'è nulla che renda l'idea di «impermanenza» come le rovine fumanti di una McMansion divorata dal fuoco. I materiali di costruzione in serie, legno e cartongesso, vengono annientatai dalle fiamme. Tutto ciò che rimane delle megaville bruciate a Rancho Bernardo o Santiago Canyon sulle colline di Orange County sono i camini in mattone, i frigoriferi, i barbeque e i mobili da giardino in ferro battuto attorno alle piscine annerite. Un tableaux mort del sogno suburbano che ricorda una scultura di Keinholtz, un'archeologia infernale del terziario postindustriale che prevale oggi da Malibu a Silicon Valley.

Negli ultimi venti anni la contea di San Diego, la più duramente colpita dalle fiamme, ha perso il 60% della propria campagna mentre le zone suburbane sono aumentate del 39%. Nella vicina Riverside il tasso di crescita è stato ancora maggiore con 25.000 nuove case costruite ogni anno in grappoli di villette a schiera che si intravedono dalle autostrade e che sorgono sulle colline spianate di fresco dai bulldozer precedute dai grandi cartelloni che ne publicizzano la vendita. Paesaggi di alienante uniformità dove cresce una generazione che non ha mai visto un marciapiede, per cui è incomprensibile il concetto di uno spazio pubblico, di un negozio che non sia il franchise di una catena commerciale.

Da New Orleans a San Diego

La fame insaziabile di spazio in California spinge questo paesaggio ex-urbano sempre più addentro al territorio soggetto ai periodici incendi, dove una fiamma spinta da raffiche di vento caldo (il Santa Ana del deserto) a 100km e alimentata dalle resine combustibili delle piante native, può divorare un canyon in pochi minuti.

Questo è il luogo del «disastro dei benestanti» dove lo sviluppo si ostina a spingersi e dove si pretende che un esercito di pompieri con la sua aeronautica antincendi fermi le fiamme e protegga le case a un costo enorme sostenuto dai contribuenti. Per questo George Bush si è precipitato a San Diego per promettere la ricostruzione dopo aver abbandonato la città di Katrina: New Orleans è povera e nera ma ancora più a suo svantaggio, è una vera, vecchia, città e come tale di scarsa utilità immobiliare per l'industria suburbana.

Gli ultimi incendi sono seguiti ora dall'ormai consueto dibattito sulla necessità di modificare i modelli di sviluppo verso criteri più razionali e sostenibili: smettere ad esempio di costruire ville di plastica sulle colline combustibili. Ma la possibilità che le riforme vengano effettivamente varate sono minime. I limiti alla crescita sono anatema al sacramento del progresso impugnato da un' industria edile dagli enormi interessi finanziari... quindi per il prevedibile futuro almeno, la California continuerà a bruciare.

Nota: superfluo ricordare al lettore che sia su Eddyburg che su Eddyburg_Mall ci sono intere cartelle dedicate ai problemi sfiorati da Luca Celada nella sua ampia rassegna. Il riferimento specifico qui può essere invece al sostanziale fallimento delle politiche energetiche di Arnold Schwarzenegger (il quale se non altro ci ha provato, a differenza del nostro centrodestra), proprio di fronte all’intreccio di interessi che produce e si alimenta dello sprawl; gli stessi interessi che speculano pesantemente anche sull'emergenza, in un quadro inquietante militar-economico tratteggiato da Naomi Klein sull'ultimo numero di The Nation, proposto in italiano da Mall (f.b.)

Come ogni estate, ad agosto, Richard Rogers, si riposa in Toscana. Arriva da Los Angeles. Subito prima, a Londra, ha ricevuto il Pritzker Prize, equivalente al Nobel per l’Architettura; l’anno scorso, alla Biennale di Venezia, il Leone d’Oro alla Carriera. Riconoscimenti importanti, che si aggiungono, tra gli altri, al Premio Imperiale del Giappone, alla Legione d’Onore francese, all’attribuzione del titolo di Pari d’Inghilterra. Ma ciò che davvero conta, per il progettista di molti tra i più innovativi edifici del mondo, chiamato insieme a Daniel Libeskind, Norman Foster e Fumihiko Maki alla ricostruzione del World Trade Center a Manhattan, è aver contribuito alla riqualificazione delle grandi metropoli moderne.

A 74 anni, passeggiando per Londra, Barcellona, Berlino, Lisbona, o New York, o Seul, si trova a vivere dentro la sua visione realizzata: quartieri ad alta densità, nati dal riuso delle aree industriali dismesse, popolati di costruzioni high-tech, (prototipo il Beaubourg, creato dalla coppia Richard Rogers/Renzo Piano nel 1977) e spazi pubblici pedonalizzati, sottintesa l’idea di piazza della città rinascimentale (Rogers rimanda alla sua nascita, avvenuta in quel di Firenze), luoghi ameni di incontro e scambio tra persone, fulcro della progettazione e della rigenerazione urbana sostenibile, ma anche punto nodale dei collegamenti cittadini.”

Lord Rogers, come ha fatto?

“A far entrare architettura e progettazione urbanistica nell’agenda della politica? Da bambino ero dislessico e lottavo disperatamente per non essere l’ultimo della classe, ho imparato la tenacia… e anche tante cose sulla convivenza sociale: arrivavo in Inghilterra da Trieste, nel ’39, dove la mia famiglia viveva da 2 generazioni. Poi gli studi… io credo nella responsabilità etica dell’architettura, sono ancora un convinto modernista, e penso che l’architettura abbia il ruolo dell’arte di avanguardia: deve generare nuova coscienza e preparare il futuro.”

La sua personale ossessione, che ha prodotto una dottrina: il “rinascimento urbano”.

“L’80% della popolazione mondiale vive nelle città, è il dato da cui partire. In Inghilterra il 90%. E sono loro, le persone, il primo referente dell’urbanistica. Poi c’è il mutamento climatico, la più grande minaccia al futuro del nostro pianeta, che ci impone di tutelare l’ambiente naturale ponendo un limite al consumo di suolo e di energia. E quindi la città deve essere: compatta (rimanere all’interno dei suoi confini), verde (anche perché progettata in modo sostenibile: gli edifici producono il 50% dell’inquinamento), multi-centrica (tanti quartieri ognuno con una sua identità e autonomia), integrata (la convivenza di ceti sociali diversi evita sofferenza e delinquenza), multi-funzionale (ci vivo, ci lavoro e ci passo il tempo libero), ben connessa (anche perché ben pianificata: ci si va a piedi, in bicicletta, in autobus, in metrò).”

Facciamo l’esempio di Londra.

“Negli Anni ’80 era il caos, non esisteva nemmeno un Ufficio che avesse la responsabilità della pianificazione. La politica della Thatcher, in coincidenza col più grande boom immobiliare del secolo, era totalmente al servizio della speculazione. E ovviamente favoriva l’espulsione delle classi povere dalla città verso i quartieri dormitorio, con il devastante corredo di nuovi centri commerciali, quadruplicati poco dopo il suo arrivo. A proposito! Ma che sta succedendo in Italia? Da nessun altra parte al mondo vedo il cancro dei centri commerciali, multisale comprese, dilagare come da voi… state distruggendo il tessuto sociale delle città, fate chiudere i negozi e consegnate i centri storici ai turisti che li trasformano in parco dei divertimenti… guardi qui vicino, anche Pienza… “

Appunto. Siamo qui perché Lei ci indichi un rimedio.

“Io, all’epoca, scelsi di impegnarmi in campagna elettorale a fianco del New Labour Party, scrissi in quell’occasione il mio unico libro: Architecture: A Modern View (1991). Quando abbiamo vinto, era la sera delle elezioni del 1997, ricordo che ero in mezzo alla folla del South Bank a Londra, a urlare di gioia. Poi nel 1998, con Tony Blair, abbiamo creato la struttura che doveva individuare le cause del declino urbano e costruire una prospettiva per le nostre città, la Urban Task Force. Oggi molte delle 105 Raccomandazioni,frutto del lavoro iniziale, fondano la nostra politica nazionale per grandi e piccole città. Ci tengo a dire che a Londra abbiamo avuto un incremento della popolazione di 1 milione di persone in 10 anni e non abbiamo toccato un solo metroquadrato di green field, la campagna intorno alla città. Abbiamo costruito solo su brown field, le ex aree industriali. Dal 2001 è legge nazionale: il 70% di ciò che si decide di costruire, laddove esiste, deve essere su brown field, e a Londra il sindaco Livingstone sta arrivando al 100%.”

Unrisultato straordinario.

“Abbiamo ottenuto questo aumentando la densità edilizia. E non vuol dire salire in altezza. A Barcellona, che ha la più alta densità d’Europa, la media è di 8 piani, tranne un paio di grattacieli. Il punto è che non dovremmo mai costruire meno di 40 unità per ettaro. Questo parametro è tale perchè servono 5.000 persone per rendere economicamente sostenibile una fermata d’autobus, le case distanti, a piedi, non più di 8 minuti. Se costruisci così 3 ettari, ad alta densità, puoi garantire una linea d’autobus, se arrivi a 4/5 puoi avere la stazione. Sto sempre parlando di edificare su brown field, naturalmente! Lo sa, abbiamo calcolato che la costruzione di una villetta fuori dal perimetro urbano, nel green field, costa alla collettività € 50.000. Sono tasse invisibili che la comunità paga, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: distruzione del paesaggio, una sconfinata periferia di non-luoghi… accelerazione del riscaldamento globale.”

Per questo, anche con Livingstone, avete puntato sul trasporto pubblico.

“Le misure più radicali, per ridurre le emissioni legate alla mobilità,sono del 2003: a Londra in un’area di 22 km quadrati, con un buon 20% della popolazione contro, è stato imposto un ticket giornaliero di circa € 8,00, sconti solo per i residenti e il ricavato a finanziare il trasporto pubblico. Dopo 1 anno: 70.000 auto in meno, 29.000 passeggeri in più sugli autobus, puntualità migliorata del 30% , inquinamento ridotto del 15%.”

Niente parcheggi?

“Per carità! Un’altra follia tutta italiana, questa dei parcheggi sotterranei nei centri storici! Così si continua a inquinare, a congestionare la viabilità, si rallenta la velocità dei mezzi pubblici… A Genova, per esempio, so che Renzo Piano ha provato a opporsi. Pensi che a Londra, negli ultimi 40 anni, non abbiamo autorizzato la costruzione di un solo parcheggio.”

Quindi, a 10 anni dall’istituzione di Urban Task Force, il bilancio è totalmente positivo?

“Segnalo che avevamo un precedente. Nel dopoguerra con le città distrutte e il paese in rovina, il governo del Labournazionalizzò i diritti edificatori e per contrastare lo sprawl, il dilagare delle casette fuori dalla cerchia urbana, impose un greenbelt attorno all’area di Londra. Era il 1944. La popolazione in eccesso sarebbe stata accolta nel sud-est d’Inghilterra, oltre il greenbelt, nelle “new towns” accuratamente pianificate e edificate dallo Stato. E comunque la mia risposta è no. Ciò che siamo a riusciti a fare a Londra non vale per tutto il paese. Rimangono enormi disuguaglianze nelle nostre città, i prezzi delle case sono spinti verso l’alto, l’offerta di edilizia sociale è insufficiente, il potere dei costruttori rimane troppo grande. C’è di buono che, per ottenere i permessi, sono obbligati a costruire un 35% che viene immesso sul mercato a prezzi accessibili, in vendita e in affitto. Il sindaco Livingstone, vorrebbe alzare questa quota fino al 50%. Oggi in Inghilterra la percentuale di alloggi di edilizia sociale, in rapporto al totale di alloggi esistenti, è del 21%.”

In Italia siamo al 4%, l’Olanda, invece …

“In Olanda è il 35% , ma lo stato è padrone quasi del 90% dei terreni e questo perché li hanno materialmente strappati al mare! L’Olanda da questo punto di vista è un modello per tutti. Noi usavamo lo stesso sistema prima della Thatcher, credo che ci torneremo: acquistare i terreni, per poi vendere ai costruttori i lotti edificabili. Così si esercita un controllo anche sulla qualità della progettazione, non solo sull’offerta di edilizia sociale.”

A proposito di qualità…

“Per me la qualità del design si deve esercitare innanzitutto sugli spazi pubblici. A Londra abbiamo istituito per questo CABE (Commission for Architecture and the Built Environment) che valuta i progetti dei nuovi insediamenti e tra breve altre tre Commissioni saranno funzionanti nel resto del paese. Esaminano i progetti e possono bloccare l’iter autorizzativo. Lo sa che in Inghilterra non serve un professionista per firmare? Chiunque può farlo. Il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale poi si incarica di controllare la conformità agli standard.”

Lo considera un buon sistema?

“Guardi, mi verrebbe voglia di rispondere con una battuta: in Italia gli architetti firmano il progetto, ma poi sono gli Uffici comunali che ci mettono le mani. Succede così: intanto si blocca tutto, poi si taglia un pezzo qui, se ne mette un altro lì e finalmente lo si chiude nel cassetto. Restiamo in Toscana: il mio primo progetto, per l’area di Novoli, è del 1978; del 1983 è quello per il recupero delle rive dell’Arno (nel frattempo sono riuscito a farlo sul Tamigi), poi viene l’area ex-Fondiaria di Castello, nel 1995, sempre a Firenze. Aggiunga, nel 1999, il piano per riqualificazione della Passeggiata di Viareggio e il più recente, commissionato nel 2001, per il centro di Scandicci. Ebbene, non se n’è fatto niente, sono trent’anni che faccio progetti in Italia, ma ancora non ho costruito una casa.”

C’è da chiedersi se architetti della sua fama non vengano usati come arieti, per far saltare i Piani Regolatori: un nome importante per far passare aumenti di cubature altrimenti ingiustificabili.

“Forse…”

Riguardo al suo progetto per l’area ex Alitalia alla Magliana di Roma, Legambiente si è fatta portavoce della protesta; a Viareggio è nato il Comitato Salviamo la Passeggiata… per Scandicci, i Comitati dei Cittadini denunciano il tentativo di saturare residui spazi verdi…

Ricordo ancora, con entusiasmo, un’assemblea a Scandicci con la gente, fino all’una di notte, ad ascoltare il progetto sulla loro città. Era il 2002. Non sono i cittadini a bloccare i progetti, ben venga il loro contributo. E tra l’altro, quello di Scandicci, è l’unico ancora in essere… Guardi, io nel 2003 ho pubblicato su la Repubblicauna lettera aperta al Sindaco Leonardo Domenici…”

Cosa diceva nella lettera?

Chiedevo, dopo 7 anni, che fine avesse fatto il mio Piano guida per Castello, mentre vedevo Firenze continuare ad espandersi oltre i confini urbani, consumando il suo bellissimo e prezioso territorio. Segnalavo la mia preoccupazione che, sotto la pressione delle dinamiche di espansione, si considerino solo le convenienze della politica, rinunciando alla qualità sostenibile della città del futuro”.

Non ha usato mezze parole.

Senta: questo è il paese dove è nato il concetto di proprietà pubblica, a Roma, l’avete inventato voi! Ma in Italia, e non da oggi, chi governa ha perso il senso di responsabilità nei riguardi della cosa pubblica. E manca il riconoscimento del bene comune come valore condiviso. Un esempio? Dato che siamo in Val d’Orcia…”

Monticchiello?

Sì, ma prima voglio dirle che se lei guarda giù dalle mura di Pienza, ancora vede un paesaggio intatto. Aver conservato la bellezza è frutto di una cultura che c’è, o c’era fino a pochissimo tempo fa. E’ per questo che vengo qui. La lottizzazione speculativa di Monticchiello é la negazione di questa cultura. Conservare il paesaggio è interesse pubblico. Costruire quegli edifici, a Monticchiello, è interesse privato.”

Demolire?

Bisogna coltivare la passione per un gesto del genere… sì, voi italiani ce la potete fare. Ma prima di buttar giù, bisogna avere il coraggio di dire no: chi vuole una seconda o una terza casa in mezzo alla campagna deve trovarsela tra quelle esistenti.”

Si obietta che villettopoli sviluppa l’economia locale.

“Non voglio rispondere a una tale scemenza. Sappia che una classe politica, se non ha una visione collegata a un progetto, a un’idea di società del futuro, non potrà mai essere all’altezza del compito che gli affidiamo.

«QUARTIERI-GHETTO», «quartieri sensibili» o altri «quartieri d’esilio» sono, da una ventina d’anni, oggetto di articoli allarmistici o sensazionalistici (1). Ma è solo questa la cosa su cui dobbiamo riflettere e preoccuparci? Perché queste categorie territoriali, che emergono in Francia dagli anni 1985-95, non sono un semplice «riflesso», per quanto deformato, della realtà sociale; non si tratta soltanto di esagerazione o di menzogne. È in gioco anche e soprattutto una nuova maniera di guardare alla povertà urbana e di riflettere su di essa che, paradossalmente, insistendo sulla gravità del «problema», ha come caratteristica principale quella di occultare l’origine della dominazione sociale, economica o razzista.

Come si è arrivati a questo punto?

Per capirlo, conviene distogliere lo sguardo – almeno per un momento – da quegli eterni oggetti d’indagine, i «quartieri sensibili» e i loro abitanti, per interessarsi al modo in cui il «problema delle periferie» è stato definito negli anni 1985-1995. È a quell’epoca infatti che una nuova politica pubblica è stata messa in atto in 500 quartieri di edilizia popolare. Questa focalizzazione ha avuto un doppio effetto. I dispositivi della cosiddetta politica «della città» hanno permesso di rinnovare numerose zone della parte vecchia della città ( cité), offrendo un sostegno messo in campo a livello locale da professionisti dello sviluppo sociale. Nello stesso tempo, i finanziamenti supplementari ottenuti e spesi non hanno mai preso la forma di una ridistribuzione sociale e spaziale delle ricchezze, suscettibile di arginare il fossato delle disuguaglianze economiche.

Malgrado i numerosi appelli al «piano Marshall per le periferie», i finanziamenti sono stati limitati. D’altra parte, dei tagli severi erano nello stesso tempo stati inflitti alle politiche sociali in materia di educazione o di sanità, in quegli stessi quartieri popolari.

Inoltre, la focalizzazione sui «quartieri sensibili» non riguarda che determinati aspetti. La diagnosi sulla quale si è appoggiata la politica della città non si è limitata al fabbricato; la riabilitazione dei vecchi quartieri degradati è stata condotta sulla base di una nuova parola d’ordine: la partecipazione degli abitanti. Per iniziativa degli attori locali, si sono allora sviluppate riunioni di concertazione sulla riabilitazione delle cité, picnic collettivi e consigli di quartiere in cui questi abitanti dovrebbero porre le loro domande perché vengano più ascoltate.

Simili procedure sono necessarie.

Ma, mentre si insisteva su questo, passavano in secondo piano realtà economiche, come la disoccupazione, che gli abitanti di quei quartieri, per buona parte operai e/o immigrati, subiscono in pieno. I «quartieri» hanno attirato l’attenzione dei poteri pubblici, ma al prezzo di un altro riposizionamento delle «difficoltà». Le griglie territoriali, che sono state massicciamente utilizzate per ripensare la povertà, hanno giocato un ruolo paradossale, funzionando come eufemismi per designare gli abitanti non più in riferimento allo status sociale, ma in funzione della loro «origine» nazionale, culturale o «etnica ». Questa etnicizzazione della questione sociale (che affonda le radici molto indietro nella politica della città) ha avuto l’effetto di presentare le cosiddette origini «etniche» come problemi – cioè come minacce – per la società, e non come problemi per le persone vittime di razzismo.

«Cittadinanza», «partecipazione degli abitanti», «progetti», «valorizzazione della «prossimità« e del «locale », «trasversalità» e «concertazione» tra «partner»: è difficile interrogarsi su queste parole d’ordine tanto sono diventate familiari. L’indagine è tanto più difficile in quanto quel vocabolario ci sembra ormai umanista e progressista, in un contesto politico in cui la retorica dell’insicurezza, della «feccia» e delle «zone senza diritto» è prevalente.

Eppure, la partecipazione degli abitanti, quando è diventata la panacea per curare il «male delle periferie», è stata definita in maniera singolarmente restrittiva: occultamento delle condizioni di vita materiali in favore del «dialogo » e della «comunicazione»; psicologizzazione e dunque depoliticizzazione dei problemi sociali, alimentate da una rappresentazione del quartiere come spazio neutro e pacificatore; valorizzazione della buona volontà individuale così come delle soluzioni modeste e puntuali, svalorizzazione concomitante della conflittualità e delle rivendicazioni troppo «politiche».

Una serie di libri e di manuali destinati ai nuovi professionisti dello sviluppo sociale spiegano per esempio come trasformare le «rivendicazioni in proposte », le «domande di assistenza in progetto di sviluppo» e, soprattutto, secondo la formula consacrata dall’uso, come insegnare agli abitanti a «pescare il pesce » piuttosto che riceverlo. Si vede così in che modo la politica della città ha partecipato alla ridefinizione delle politiche sociali come interventi individualizzanti e «responsabilizzanti», intimando agli abitanti di «prendere in mano» le trasformazioni necessarie.

Inoltre, la svolta repressiva che ha luogo a partire del 1997 ha un rapporto con la maniera in cui è stato definito il problema dei quartieri dal 1985 al ’95. Poggia sulle stesse categorie territoriali e apparirà tanto più legittima in quanto, già da dieci anni, la povertà viene presentata come una questione innanzitutto psicologica e locale, e che gli individui che la subiscono sono invitati a riformare se stessi piuttosto che puntare il dito sui meccanismi strutturali che li condizionano.

La storia di questa depoliticizzazione presenta tuttavia degli aspetti sorprendenti. Affonda infatti le sue radici in un forte movimento di protesta. Durante gli anni ‘60, urbanisti, lavoratori sociali, militanti e ricercatori hanno denunciato l’approccio autoritario e tecnocratico dello stato pianificatore per promuovere, in nome del «quadro di vita», un’azione definita «globale» di riabilitazione delle cité, che coinvolgesse le collettività locali, e funzionasse sulla base di una maggiore concertazione con gli abitanti. Un movimento particolarmente importante si è sviluppato, in Francia come in altri paesi europei o americani, contro l’urbanismo delle torri, delle barre e delle autostrade, e contro le operazioni brutali di rinnovamento nel centro città. I principi fondanti delle politiche della casa dal dopo guerra (la pianificazione urbana e l’affermazione dello stato, rappresentante e promotore dell’interesse generale) subiscono negli anni ’70 una carica supplementare, anche se l’ispirazione ideologica è tutt’altra, con l’avanzata dei dogmi neoliberisti.

La crisi profonda che ne segue apre allora la strada ad altri modi di fare e di pensare i problemi urbani. La politica della città è il risultato di questi movimenti riformatori, ma le sue manifestazioni concrete si comprendono solo in rapporto al contesto in cui essa s’è istituzionalizzata. Negli anni ’80, la sinistra al potere si decise a compiere la svolta detta «del rigore».

Provenienti, per la maggior parte, dall’ambiente dell’associazionismo e del parapubblico, ma anche da tutto il movimento critico e contestatore del dopo- maggio ’68, i promotori dello sviluppo sociale dei quartieri occupano posizioni marginali nell’amministrazione. La politica della città, per la quale cercheranno di consolidare le esperienze condotte nei quartieri a insediamento sociale, offre loro una riclassificazione professionale e un luogo di riconversione militante (2).

Ma questo è possibile solo a prezzo dell’adesione al reinquadramento di bilancio e alla ridefinizione delle politiche sociali, concepite ormai non più come politiche di ridistribuzione ma come la messa in campo locale e minimale di una rete di sicurezza per i meno favoriti.

Il termine «quartiere», prima «di habitat sociale», poi «in difficoltà» e infine «sensibile», si carica di connotazioni negative: si descrivono questi territori come zone che hanno più bisogno dell’intervento di terapeuti che dello sviluppo di un’azione autonoma. In modo che la dimensione di protesta, molto presente nell’appello alla mobilitazione degli abitanti, si eclissa per far posto a un’azione pubblica razionalizzata, con produzioni statistiche e sviluppo di un nuovo settore professionale: lo sviluppo sociale urbano.

Non soltanto gli attori della politica della città si sottomettono a questo nuovo quadro politico, ma alcuni di loro, desiderosi di riformare lo stato e non soltanto i quartieri disagiati, adotteranno in egual musura la tematica della «modernizzazione dei servizi pubblici» che, nelle versioni liberali dominanti, si riduce spesso a un semplice arretramento (3). Si vedono così degli ex militanti (provenienti dal movimento maoista, per esempio) mostrare una diffidenza crescente verso gli abitanti accusati di compiacersi dell’assistenzialismo, e soprattutto verso lo stato in quanto tale, sospettato di incoraggiare questo assistenzialismo e di non generare che disfunzioni e rigidità.

Oltre le traiettorie dei promotori di un’azione sui «quartieri» e le scelte della sinistra governativa, gli intellettuali hanno giocato un ruolo-chiave. Nelle università come nei ministeri, la questione delle periferie genera una vasta produzione letteraria, che non si limita a un’analisi dei problemi sociali ed economici. Diversi intellettuali hanno maturato l’idea che quei territori segnino o incarnino l’avvento di una nuova questione sociale.

Ora, questa griglia interpretativa, ripresa dai media e utilizzata dagli attori della politica della città, postula che i problemi sociali mettano ormai in gioco degli «esclusi» e degli «inclusi» e siano unicamente legate alla città. Un certo numero di lavori, strettamente connessi al concetto di esclusione, sono perciò venuti a legittimare l’arretramento delle questioni legate al lavoro. Queste ultime apparterrebbero a un periodo che si vorrebbe passato, e bisognerebbe adesso rivolgersi verso le periferie, territori percepiti come «tagliati fuori» o «relegati», e venire in aiuto a delle popolazioni descritte come «dimenticate» e non più «sfruttate» o «dominate» (4).

Ultimo elemento-chiave: l’atteggiamento dei municipi, in primo luogo quelli gestiti dalla sinistra, in cui si trova la maggior parte dei quartieri d’habitat sociale. Dalla fine degli anni ’80, questi municipi hanno adottato la tematica dell’«esclusione» nei «quartieri » e ne hanno ratificato la dimensione spoliticizzante. La politica della città ha conferito credito e, soprattutto è apparsa all’inizo degli anni ’90 come portatrice di soluzioni nuove per inquadrare la gioventù degli strati popolari (evitando così le «rivolte»). Ben più a lungo, la «democrazia locale» ha suscitato la speranza di colmare il fossato che si è aperto tra la classe politica e i cittadini, segnatamente quelli delle classi popolari (5).

La «spazializzazione dei problemi sociali» (6) ha per effetto quello di rendere invisibile tutto quello che la situazione dei quartieri più poveri deve a quel che succede negli altri universi, come i «bei quartieri», meno mediatizzati ma altrettanto chiusi, o ancora il mondo del lavoro in cui si disfa e si ricompone la «condizione operaia» (7).

Ma bisogna insistere sulle battaglie simboliche dagli effetti decisivi che si giocano nei ministeri, gli uffici degli esperti, i media... e anche presso gli intellettuali, e il cui esito da diversi decenni porta a far dimenticare l’impatto delle politiche macroeconomiche, la rimessa in causa della funzione ridistritutrice e protettrice dello stato sociale, o ancora l’ampiezza e l’impunità delle sue discriminazioni.

(1) Loïc Wacquant, Parias urbains. Ghetto. Banlieues. Etat, La Découverte, Parigi, 2006.

(2) Cfr. Reconversions militantes, Presses universitaires de Limoges, 2006.

(3) Yasmine Siblot, Faire valoir ses droits au quotidien. Les services publics dans les quartiers populaires, Presses de Sciences Po, Parigi, 2006.

(4) François Dubet e Didier Lapeyronnie, Les Quartiers d’exil, Seuil, Parigi, 1992.

(5) Michel Koebel, Le Pouvoir local ou la démocratie improbable, Editions du Croquant, Bellecombe-en-Bauges, 2006.

(6) Sylvie Tissot et Franck Poupeau, «La spatialisation des problèmes sociaux », Actes de larecherche en sciences sociales, n. 159, Parigi, settembre 2005, p. 5-9.

(7) Michel Pinçon e Monique Pinçon-Charlot, Grandes Fortunes. Dynasties familiales etformes de richesse en France, Payot, Parigi, 2006 ; Stéphane Beaud e Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière. Enquêteaux usines Peugeot de Sochaux, Fayard, Parigi, 2005.

(Traduzione di E.G.)

Nota: Sylvie Tissot è ricercatrice in scienze sociali all’università Marc Bloch di Strasburgo, autrice di L’Etatet les Quartiers. Genèse d’une catégorie del’action publique, Seuil, Parigi, 2007; un percorso del tutto divergente da quello descritto è quello antagonista che conduce ad esempio ai centri sociali autogestiti italiani in quanto Conflitti emergenti dal territorio così come descritto in questo saggio deli anni '70 (f.b.)

Sull'economia si discute, si polemizza, ci si accapiglia costantemente; e non potrebbe andare diversamente, tanto è diventata centrale quest'ultima rispetto alla politica, anzi ormai dominante essendone la funzione pubblica del tutto subordinata. Linea di comando pressoché assoluta da cui far discendere scelte e decisioni, così come modelli di civiltà e perfino emozioni e immaginario. Esito del vittorioso passaggio capitalistico di fine secolo che tutto ha globalizzato e uniformato.

Ma tra i tanti e anche inediti filamenti con cui l'economia si palesa e si sviluppa, ce n'è uno su cui incombe invece un'opaca reticenza. L'immobiliarismo. Quell'oscura palude in cui sguazzano innumerevoli gli interessi finanziari, nel passato secondari rispetto al ciclo edilizio ma oggi completamente sovrastanti. Una folla di «operatori» compete e si affanna per ritagliarsi il proprio segmento di utile nel cosiddetto mercato immobiliare, che di conseguenza dilata allo stremo i suoi costi, i suoi prezzi e soprattutto i suoi profitti. E ciò smarrendo progressivamente l'elemento originario di tanto sviluppo, il prodotto sporco, quello fatto con i mattoni: quasi un accessorio di un gorgo inestricabile di intermediazioni e stratificazioni finanziarie.

Su tutto questo poco si sa, poco si dice. E non perché tanta speculazione crei un qualche imbarazzo: il rossore non fa parte della tavolozza del sistema economico. Ma perché sui patrimoni immobiliari si regge buona parte della filiera bancaria

Non sfuggirà che quando si parla di sistema bancario si allude a un ambito assolutamente predominante, in grado di condizionare non soltanto la ritmica dell'economia ma la stessa decisione politica.

Capite bene che, di fronte a un potere così esteso e ramificato, il bisogno sociale del bene casa è un ricciolo di polvere che fastidiosamente si annida in un angoletto.

Cosa volete che contino i tanti povericristi che non hanno dove abitare, variabile del tutto secondaria perché refrattaria alla logica di un mercato inaccessibile? Milioni di persone che in questo paese soffrono e penano, accucciati nelle auto o nelle baracche o sotto i ponti; anziani che muoiono prima per paura di essere sfrattati, bambini che crescono con l'angoscia dell'ufficiale giudiziario, ogni scampanellata alla porta un batticuore, giovani donne, ragazzi con una prospettiva di vita già compromessa, famiglie dolenti con un nonno malato, con un figlio disabile. Ma ormai anche chi ha un reddito dignitoso eppure insufficiente per affittare un appartamento o accendere un mutuo.

Come si fa a nascondersi che questo è un problema grave?

E' che da noi la politica non vuol fare ciò che dovrebbe, ciò che normalmente si fa negli altri paesi: intervenire nel mercato immobiliare, per attenuarne le ferocia. Edificare case popolari, ai costi reali, per offrire un accesso sostenibile all'abitare. Cioè essere competitivi con l'ingordigia: basta poco per eliminare la bolla parassitaria che si frappone tra la domanda e l'offerta, e depurare così il sistema. Un po' di keynesismo, mica la rivoluzione.

Ps. Nella finanziaria del prossimo anno ci sono 550 milioni di euro per l'emergenza casa, e l'offerta abitativa pubblica, se tutto va bene, comincerà a rendersi disponibile nel 2009. Ma da dopodomani termina l'efficacia del blocco degli sfratti. C'è un frattempo che non torna. Qualcuno ci sta pensando?

COME UN EDITTO MEDIEVALE, ne dà lettura pubblica l’araldo di Action: «Il presidente vista la grave situazione di emergenza sociale in materia abitativa...», scandisce al megafono il responsabile dell’Agenzia dei diritti, Andrea Alzetta, detto Tarzan,

che legge una dopo l’altra le cinque pagine di ordinanza firmate dal mini-sindaco del decimo municipio Sandro Medici fino al punto finale: «Il presidente ordina con effetto immediato la requisizione degli alloggi attualmente in uso agli inquilini...». «Si tratta di un prolungamento coattivo dell’attuale contratto», spiega Medici, già assolto dalla Cassazione per le requisizioni vere e proprie a cui era già ricorso in passato. Gli inquilini continueranno a pagare affitto e penale d’occupazione. Applaude la piccola folla radunata davanti al 33 di via Statilio Ottato, traversa di via Tuscolana. Uno degli stabili dove sono scattate le 244 «requisizioni» targate Rifondazione: «Strumento estremo», dicono i presidenti del Prc, Susi Fantino, del IX municipio, e Andrea Catarci, dell’XI, che, a pochi giorni dalla scadenza del blocco degli sfratti e in assenza di nuova proroga, hanno firmato ordinanze simili a quelle di Medici, che da solo ne ha firmate 8 per un totale di 212 requisizioni. «Anche ad altri livelli potrebbero prendere in considerazione questo esempio», rilancia il segretario romano Massimiliano Smeriglio.

«Appartamenti requisiti dal presidente del X municipio», recita lo stendardo che campeggia sulla facciata di via Ottato. Una palazzina con le veneziane ai balconi e i panni stesi. Appesi qua e là cartelli che invocano il passaggio da «casa a casa», promesso dalla legge 9 del febbraio scorso (che finalmente ha rimesso in campo un piano per la casa) e poi di nuovo dal decreto fiscale del 2 ottobre che a questo scopo ha stanziato 550 milioni di euro (il piano straordinario). Ma le «garanzie» rischiano di restare lettera morta. L’ultimo stop agli sfratti deciso 8 mesi fa scade infatti il 14 ottobre e da lunedì a Roma circa 3 mila sfrattati, considerati particolarmente fragili perché anziani, disabili, con basso reddito, potrebbero ritrovarsi con l’ufficiale giudiziaro alla porta. Mentre il «piano staordinario» per dare loro un’altra casa è ancora «in itinere».

Per il Lazio ci sono 55 milioni di euro. Si tratta di fondi straordinari, da impiegare subito (o mai più) per approntare misure d’emergenza. E la Regione, che ancora non ha provveduto a farlo, dovrà indicare entro il 22 ottobre ai ministeri delle Infrastrutture e della Solidarietà sociale come intende spenderli. Oggi l’assessore Minelli farà partire una lettera in cui indicherà le priorità del Campidoglio: acquisto di case dagli enti, cambi di destinazione d’uso, centri d’assistenza. Ma i tempi sono stretti.

«C’è un solo modo per evitare che la requisizione diventi paradossalmente l’unico strumento d’intervento», spiegano gli assessori di nove città tra cui Roma. E lo stesso sindaco Walter Veltroni invoca la «proroga» in una lettera indirizzata al prefetto Mosca, a cui il sindaco chiede di «promuovere presso il Governo» un ulteriore stop agli sfratti.

Titolo originale: Bridge’s Private Ownership Raises Concerns – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

DETROIT — Quasi due chilometri di acciaio verniciato di azzurro sul fiume Detroit, uno dei tanti ponti, ma serve alle migliaia di camion e ai milioni di dollari di merci che ci rombano sopra ogni giorno fra Stati Uniti e Canada.

E questo normalissimo ponte a quarto corsie è il confine commerciale più trafficato del Nord America, con un terzo di tutti gli scambi via strada — ovvero oltre 122 miliardi di valore in merci l’anno — tra i due paesi.

Però la struttura, l’Ambassador Bridge, non è di proprietà di nessuno dei due stati, né delle città di Detroit o di Windsor, la corrispondente canadese di Detroit, né di nessuna agenzia pubblica responsabile per i ponti. La proprietà è di un signore, e della sua privata compagnia.

Secondo una procedura degna di nota, trattandosi di un passaggio così importante, è Manuel J. Moroun, miliardario molto riservato dell’area suburbana di Detroit che controlla un impero dei trasporti in camion, il proprietario del ponte, uno dei due soli casi sul confine settentrionale degli Stati Uniti, e di gran lunga il più significativo dal punto di vista economico a gestione privata del paese.

Ora, con tanti scambi commerciali che dipendono da una singola struttura, ci si è cominciato a chiedere cosa accadrebbe se fosse attaccato dai terroristi, o se l’Ambassador Bridge, che si avvicina agli 80 anni, dovesse cedere.

E così è partita una gara per realizzare un altro ponte da 1 miliardo di dollari.

In una convergenza di interessi vari che coinvolge sicurezza nazionale, affidabilità del sistema delle infrastrutture, crisi economica dello stato del Michigan, la particolare situazione locale ha posto una semplice domanda: chi sarà, il proprietario?

Inaugurato nel 1929, l’Ambassador Bridge era stato realizzato in forma private da Joseph Bower, finanziere di New York. Anche durante la sua costruzione, infuriò una lotta – animata soprattutto dal sindaco di Detroit – su chi dovesse poi gestire il ponte, se una compagnia privata o un ente pubblico.

All’epoca, abbondavano i ponti di proprietà privata, anche se presto la tendenza generale si allontano dal modello. Poi Moroun iniziò ad acquisire quote azionarie dalla proprietà del ponte, la Detroit International Bridge Company, raggiungendo il controllo della compagnia circa trent’anni fa.

Fra i 24 ponti e gallerie stradali che collegano Canada e Stati Uniti, solo l’Ambassador e l’attraversamento fra International Falls, Minnesota, e Fort Francis, Ontario, sono privati.

I sostenitori di un collegamento di proprietà pubblica qui dicono che si tratta dell’unica scelta saggia, la sola che consenta coordinamento e regolamentazione. Sono molto preoccupati, dicono, di lasciar continuare un solo uomo nel suo regno pluridecennale su un collegamento vitale fra nazioni.

“Quell’uomo guadagna miliardi di dollari dal ponte” spiega Raymond E. Basham, senatore Democratico dello stato del Michigan, e aggiunge che soltanto un ponte di proprietà pubblica potrebbe assicurare i controlli strutturali e di sicurezza interna necessari. “Quando si arriva agli spiccioli, dal suo punto di vista ci sono mille incentivi per non avvertirci se qualcosa non va. Noi abbiamo degli obblighi risotto alla sicurezza delle persone”.

Ma Moroun, conosciuto dai più col soprannome di Matty, vuole costruirsi da solo un altro ponte. I rappresentanti della sua compagnia affermano che realizzeranno un attraversamento su sei corsie in sostituzione dell’Ambassador, e quest’ultimo potrà anche essere sistemato ed eventualmente riaperto se quello nuovo dovesse avere qualunque difficoltà. La compagnia ha già acquisito e sgomberato decine di edifici, per far posto al gemello privato dell’Ambassador.

Per un certo verso, l’offerta di Moroun sembra una tentazione, in particolare su questa sponda del confine. L’economia industriale della regione, totalmente auto-centrica, è in caduta libera, e i legislatori di Lansing, la capitale dello stato, hanno evitato per un pelo la crisi di tutti i servizi pubblici il primo di ottobre, dopo un blocco dovuto alla necessità di trovare 1,75 miliardi di dollari per coprire un previsto buco di bilancio statale.

“É solo una pazzia per i contribuenti del Michigan e del Canada farsi carico del conto di questo ponte” giudica Alan Cropsey, senatore statale Repubblicano favorevole all’attraversamento privato. “Perché sentono la necessità di costruire un ponte e far concorrenza al settore privato? Perché ora?”

Ciascuno dei due progetti – quello pubblico e quello private – costa circa un miliardo. Ciascuno ha bisogno di parecchie autorizzazioni da parte degli uffici pubblici di entrambi i lati del confine. E per ciascuno alla fine si dovrà pagare, in termini di pedaggi di attraversamento per gli utenti, rispondono i sostenitori del progetto pubblico.

Alcuni abitanti di Detroit e Windsor, in particolare chi vive vicino alle rampe dell’Ambassador Bridge, mette in discussione la necessità di qualunque nuovo ponte. Nel 2000, hanno attraversato oltre 12 milioni di auto, camion e autobus, calcolano i funzionari dei trasporti del Michigan. Nel 2006, i veicoli sono stati meno di 10 milioni, nonostante la quantità di camion sia rimasta invariata.

“Chi ha bisogno di un altro ponte?” chiede Victor Abla, le cui finestre nel quartiere sud-occidentale di Detroit di Hubbard Farms guardano sull’Ambassador. “Con tutti quei camion in fila che già ci sono, l’inquinamento è orribile nel quartiere, i livelli di asma sono alle stelle”.

Ma alcuni studi sul traffico del ponte mostrano che verrà raggiunta la capacità massima entro il 2015, spiega Mark Butler, portavoce di Transport Canada, ufficio governativo. Altri affermano che ci vorrà di più. Per ora, resta una domanda: quale ponte verrà realizzato?

I sostenitori del ponte pubblico lamentano che i progetti di Moroun saranno guardati con attenzione particolare dai decisori, grazie alla lunga storia di contributi per le campagne elettorali. E in realtà i registri dei contributi politici, rivelano anni di donazioni, da parte sua e della famiglia, a una ampia serie di personaggi e gruppi di entrambi gli schieramenti.

Attraverso Dan Stamper, presidente della Detroit International Bridge Company, Moroun ha rifiutato un’intervista in tempo utile per il presente articolo. La cosa si farà forse “circa fra un mese” ha precisato Stamper.

Per parte sua Stamper si schiera a favore del ponte privato. Liquida la questione dei rapporti di Moroun coi politici, e giudica inutili le preoccupazioni per la sicurezza: la compagnia ha assunto guardie private per controllare il ponte dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre.

Stamper aggiunge anche che all’Ambassador vengono effettuati controlli sulla struttura ogni anno, da ditte private, e che i risultati di ciascuna vengono resi disponibili alle autorità dei trasporti di Michigan e Canada, anche se non direttamente al pubblico. Gli uffici responsabili per il Michigan rispondono che hanno potuto vedere un rapporto di ispezione completo solo nel 2005, nel quadro di un accordo di ampliamento stradale.

Stamper li contesta, affermando che la compagnia del ponte ha sempre condiviso le informazioni, sia con lo stato che coi funzionari canadesi.

“A chi non è a suo agio per il fatto che siamo dei privati, rispondo: la nostra storia è quella di un successo”.

Gli alti responsabili del settore automobilistico, che dipende dal ponte per il trasporto dei componenti fra le varie fabbriche su entrambe le sponde, sostengono gli studi per un attraversamento di proprietà pubblica.

Frederick W. Hoffman, direttore dei rapporti con lo stato per la Chrysler, spiega “La nostra preoccupazione principale, è che ci possano essere più proprietà, e quindi più concorrenza sulle tariffe”.

I pedaggi sul ponte attuale sono di 3,75 dollari per le macchine, mentre i camion (circa 12.000 al giorno nei momenti più trafficati della settimana) pagano a seconda del carico, con una media che secondo Stamper è di 12 dollari.

Alla fin fine, nessuno esclude la possibilità di costruirli tutti e due, i ponti.

here English version

TORINO - Sulla Tav Bruxelles frena l’impazienza italiana. E rintuzza il presidente del Consiglio facendo nascere un caso diplomatico. Prodi ieri, a Torino, si era lasciato scappare: «Ho chiamato Bruxelles e mi hanno detto che i finanziamenti per la Torino-Lione ci sono». «Non c’è ancora nulla di deciso, si vedrà a metà novembre», ha risposto il portavoce del commissario europeo, Jacques Barrot. Aggiungendo con sarcasmo: «La nostra posizione non cambia: che sia il presidente del Consiglio o il sindaco di Torino a esprimersi».

A settembre l’Italia ha presentato il dossier sulle opere prioritarie che dovranno essere finanziate dall’Europa. Nell’elenco c’erano due progetti principali: il traforo ferroviario del Brennero e la Torino-Lione. Da qualche settimana i tecnici di una commissione indipendente stanno valutando gli incartamenti. A fine ottobre esprimeranno le loro valutazioni e a metà novembre toccherà ai vertici politici degli stati europei decidere quali opere finanziarie per il periodo 2007-2013. Dunque, come spiega il presidente dell’Osservatorio, Mario Virano, «siamo ancora alle fasi preliminari. Come dire, mezzo mattone nella costruzione di una casa».

Nonostante l’iter sia ancora lungo, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ha dato il là al tam tam nei giorni scorsi, parlando a Repubblica tv di «buone notizie da Bruxelles» e ieri di «indiscrezioni da fonti molto attendibili di addetti ai lavori dell’Unione». Indiscrezioni che si sono trasformate in quasi certezza ieri quando Prodi ha confermato: «Mi è stato confermato questa mattina da Bruxelles il finanziamento. Anch’io ho le mie informazioni». È a questo punto che i vertici della Ue hanno deciso di intervenire. Il portavoce del commissario Barrot, Michele Cercone, ha dichiarato che «la fase di analisi del progetto da parte dei nostri servizi è ancora in corso e i risultati sono attesi tra la metà e la fine di novembre». E le certezze di Prodi e Barrot? «Questa è la nostra posizione. Che sia il presidente del Consiglio o il sindaco di Torino a esprimersi per noi non fa differenza». Una smentita secca che ha provocato nel pomeriggio una mezza retromarcia di Prodi: «Sull’esito della domanda sono fiducioso. Ma ancora nulla è deciso. Abbiamo lavorato bene in questi mesi con l’Osservatorio di Virano».

Indiscrezioni e smentite hanno sortito l’effetto di rendere caldo il clima in Val di Susa: «Non accettiamo questo balletto continuo - ha commentato il presidente della Comunità montana della valle, Antonio Ferrentino - e chiederemo che i soldi eurpei non vengano usati per il tunnel di base ma per iniziare i lavori partendo dal nodo ferroviario di Torino». E critiche a Prodi sono arrivate da Rifondazione. «Il presidente ha accelerato troppo, nel metodo e nel merito», si legge in una nota dei capigruppo di Prc.

Molti articoli in questa cartella dimostrano che il TAV è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchà I costi dell'alta velocità corrono più dei treni

In arrivo il Piano e anche gli sfratti

di Eleonora Martini

Alla Conferenza nazionale sulle politiche abitative i 12 punti del governo e i problemi per trovare le risorse. Ma rimane fuori dalla discussione la questione delle migliaia di persone che dal 14 ottobre rischiano di trovarsi per strada. Sulla quale Di Pietro non vuole la proroga

«Gli inquilini non si sentono sicuri. Forse un inquilino sicuro potrebbe essere un inquilino felice». Se non altro è un insolito sguardo sul problema della percezione generalizzata di insicurezza, la frase con la quale Gualtiero Tamburini, presidente di Nomisma, ha concluso la presentazione del rapporto curato dalla sua società che ha messo carne sul fuoco della Conferenza nazionale sulle politiche abitative organizzata ieri a Roma dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Un'insicurezza particolarmente soffocante per quelle 10-15 mila famiglie italiane sotto sfratto (ma c'è chi la considera una sottostima) e che va crescendo man mano che si avvicina la data del 14 ottobre, giorno in cui scade l'ultima proroga degli sfratti secondo la legge 9 del 2007. Anche per questo, mentre all'interno dell'aula magna della prestigiosa (e costosissima) Università Luiss si susseguivano gli interventi dei quattro ministri e di un viceministro e di altre figure istituzionali di alto profilo, fuori gli inquilini del Sunia, del Sicet e dell'Uniat avevano messo in piedi una piccola manifestazione con l'intenzione di «sollecitare il governo ad azioni concrete senza perdere altro tempo».

Per il premier Romano Prodi, però, piuttosto «le politiche tradizionali hanno troppi limiti», scrive nel suo messaggio inviato al convegno. «Dobbiamo dare prova di grande fantasia e di creatività» e «coinvolgere anche le fondazioni e il capitale privato nei nuovi progetti abitativi. Stiamo anche pensando a strumenti fiscali per aiutare le famiglie ad affrontare i costi della casa».

Un po' deludente per chi si aspettava un dibattito pubblico a tutto campo che coinvolgesse o almeno rendesse spettatori tutti i soggetti interessati, dai movimenti di base locali ai costruttori, proseguendo la discussione avviata a maggio nel Tavolo nazionale delle politiche abitative istituito dalla legge 9, la Conferenza nazionale ha affrontato soprattutto i nodi del nuovo Piano casa illustrato da Di Pietro che sarà presentato al Consiglio dei ministri del 28 settembre. Al centro della discussione anche il problema di come riuscire a trovare nella prossima Finanziaria le risorse necessarie al Piano, 1,5-1,7 miliardi di euro per il 2008. Anche se il vice ministro all'Economia Roberto Pinza ha subito messo le cose in chiaro: non c'è ancora «nessuna» indicazione sulle risorse disponibili nella manovra. Sul come ripartire le eventuali risorse, la ministra Rosi Bindi, felice perché «si è riaperto il capitolo casa da troppo tempo dimenticato», tira l'acqua al suo mulino e preme per i finanziamenti diretti alle famiglie. Ma il collega Paolo Ferrero non è d'accordo: «Trasferire risorse direttamente alle famiglie significa far crescere le rendite finanziarie. Le risorse invece vanno indirizzate verso l'offerta, non la domanda».

Il problema più urgente però, quello dell'emergenza sfratti con la prima scadenza del 14 ottobre (per i piccoli proprietari) e la seconda (per le grandi proprietà) a giugno 2008, non sembra all'ordine del giorno. È Ferrero ad accendere i riflettori: «So che Di Pietro la pensa diversamente, ma il 15 ottobre un anziano allettato non può finire in strada, non sarebbe degno di un paese civile. Si è sbagliato a non intervenire a luglio utilizzando l'extragettito ma o lo si fa ora nel bilancio 2007 oppure bisogna prorogare di nuovo il blocco degli sfratti». Occorrono infatti subito almeno 530 milioni di euro, tanto era il preventivo fatto a luglio per assicurare agli sfrattati il passaggio «casa a casa». Non che la sospensione degli sfratti sia gratuita: per 15 mila abitazioni la stima era di circa 32 miliardi di euro necessari. Ma il motivo di contrarietà di Di Pietro alla proroga non è certo questo.

Il ministro delle Infrastrutture piuttosto punta tutto sul piano articolato in dodici punti che era stato messo a punto dal Tavolo nazionale. E che prevede un programma triennale per il recupero di alloggi Erp (edilizia residenziale pubblica); l'acquisto e la locazione di alloggi per le categorie sociali più disagiate, con un diritto di prelazione per i Comuni per l'acquisto delle strutture messe in vendita dagli enti previdenziali; l'utilizzo di almeno il 20% degli stanziamenti per il rilancio di alloggi Erp nelle zone franche urbane, quelle dove spesso si concentra il degrado sociale ed economico; il recupero di aree e immobili militari dismessi; la ripresa dei finanziamenti dei «contratti di quartiere II», fermi dal 2002 e per i quali sono già disponibili 250 milioni di euro; un osservatorio nazionale sull'abusivismo edilizio e uno sulla condizione abitativa. Dal punto di vista fiscale: l'esenzione Ici per gli alloggi Iacp o di proprietà di enti locali; riduzione dell'imponibile per i proprietari che affittano a canone concordato. Un'esperienza questa del canone concordato «fallita» e che va rivista, secondo la ministra Giovanna Melandri che ha portato le istanze di quei «4,5 milioni di giovani che non riescono proprio ad avere una casa».

«Tre miliardi per l'edilizia pubblica»

M.D.C. intervista Angelo Fascetti, storico esponente del movimento di lotta per la casa a Roma

L'Asia, legata alla Cub-RdB, è una delle associazioni che si occupa del «problema della casa» aiutando le persone e le famiglie che vi restano intrappolate. Angelo Fascetti ne è uno dei rappresentanti storici, sulla piazza di Roma.

E' cambiato qualcosa con questo governo?

Ha perso un'occasione con il blocco degli sfratti e con la nomina di una commissione che poi non ha fatto nulla. Se non ci sono fondi, non si può fare una politica della casa. Qualche mese fa, per il blocco degli sfratti, furono stanziati 60 milioni, una cifra ridicola di fronte all'emergenza.

Anche allora avete posto il problema dei finanziamenti...

C'era stato un riconoscimento anche da parte del ministro Paolo Ferrero, che per parte sua si era posto l'obiettivo di strappare almeno 600 milioni. Per rilanciare l'edilizia pubblica, secondo noi, servirebbero almeno 3 miliardi.

Di Pietro, nella conferenza, ha parlato di un piano da 1 miliardo e mezzo.

Meglio che niente, se il governo si impegnasse veramente su questa cifre. Bisogna infatti recuperare tutto quello che non si è più fatto da almeno 10 anni a questa parte.

Che tipo di figure sociali vi trovate ad assistere?

Tra gli sfrattati, la maggioranza è di famiglie monoreddito. In alcuni casi anche con redditi decenti, intorno ai 2.000 euro al mese. E parecchi portatori di handicap. Ma è cambiata completamente la ragione degli sfratti. Fino a qualche tempo fa l'85% erano per finita locazione; ora al 70% sono per morosità, perché gli affitti sono altissimi. E vi si aggiungono almeno 400.000 famiglie, in Italia, che hanno problemi a pagare il mutuo.

Quanta gente sarebbe interessata a un rilancio dell'edilizia pubblica?

C'è stata una forte crescita delle famiglie monoparentali, per cui il problema è ormai un'emergenza. Si parla di almeno 500.000 nuove famiglie di questo tipo. Cui si aggiungono le separazioni, l'immigrazione, ecc. Di fronte a questa domanda, le case pubbliche sono scese al 3% del patrimonio abitativo; fino a qualche anno fa erano il 5%. Mentre la media europea è del 20 (40% in Francia e anche di più in Germania). Non c'è alternativa al mercato, anzi tante iniziative sono state prese per costringere a gente a indebitarsi per comprare casa.

Questo tracollo è storia recente?

Gravissima è stata la vendita delle case degli enti, decisa da Tremonti. Il grosso di questi appartamenti era localizzato nelle grandi città, e soprattutto a Roma. Che infatti guida la classifica dei rincari. Nel '93-94 si costruivano in Italia 32.000 appartamenti pubblici l'anno; nel 2004 erano appena 1.900. Da quando è stata abolita la Gescal sono stati chiusi i rubinetti e si è smesso di costruire. Abbiamo chiesto agli enti locali di stanziare almeno il 2% del bilancio per la casa. Ma siamo ancora al punto che la Regione Lazio, per fare un esempio, considera una «grande vittoria» l'aver stanziato 100 milioni per tutte e cinque le province. Quante case ci puoi fare?

Soldi di stato e gestori privati

di Tommaso De Berlanga

La distanza tra la capacità di fotografare la realtà e quella di formulare proposte è in genere ampia. Ma nel rapporto elaborato da Nomisma sulla «Condizione abitativa in Italia. Fattori di disagio e strategie di intervento» risulta in certi momenti vertiginosa. Certo, se fosse stato scelto un istituto di ricerca meno intimo col presidente del consiglio l'impressione di «convergenza di interessi» non avrebbe preso corpo con altrettanta evidenza.

Ma tant'è. Partiamo dunque dai dati oggettivi, decisamente attendibili. Il «disagio abitativo» nel corso di un ventennio ha cambiato configurazione, contagiando chi vive in affitto (una popolazione non maggioritaria, ma prevalentemente a basso reddito - giovani coppie, persone sole,migranti, famiglie numerose e/o monoreddito, studenti fuori sede) ma anche molti «proprietari» alle prese con mutui dalle rate crescenti per effetto della politica monetaria della Bce. Disagio è un termine generico, che copre sia la difficoltà di far fronte alle spese sia la percezione di «inadeguatezza» della casa rispetto alle proprie esigenze vitali. In generale, comunque, gli affittuari sono più poveri dei proprietari. In totale, oltre tre milioni e mezzo di famiglie.

Non mancano le notazioni curiose, come l'accenno a «chi è costretto a vivere in ricoveri di fortuna (un fenomeno nuovo per l'Italia, quello delle bidonville)»; che testimonia quantomeno della giovane età dei ricercatori addetti alla stesura del testo, all'oscuro della realtà italiana degli anni '50 e '60, immortalata anche in film come Sporchi, brutti e cattivi.

Il sogno della casa di proprietà risulta fondamentalmente legato al «bisogno di sicurezza»; il «pericolo» però è identificato nel padrone di casa, notoriamente uno che ti può buttare fuori alla fine del contratto chiedendoti - come sta accadendo in questi ultimi anni - una cifra doppia o tripla per rinnovartelo. La crescita degli affitti, parallela a quella dei prezzi delle case, è infatti avanzata a un ritmo molto superiore all'incremento dei redditi. In sintesi: «tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80 per circa il 60% degli affittuari il peso del canone non superava il 10% del reddito». Proprio quello che predicava allora uno slogan in voga nel movimento di lotta per la casa. Ora, invece, il 45% delle famiglie attualmente in affitto sacrifica al canone più del 25%. Per chi invece cerca in questo momento casa, l'affitto può anche essere superiore al salario medio: 1.523 euro per un appartamento di 90 mq a Roma, 1.252 a Milano, e così via.

Sul fronte dei proprietari mutuatari le cose non vanno meglio: crescono le famiglie indebitate e il grado di esposizione. Nomisma commenta serafica «questo è lo scotto che si è dovuto pagare per la diffusione ulteriore della proprietà della casa», come se non fosse stata una scelta politica quella di bloccare la costruzione degli alloggi popolari e spingere la gente in direzione dell'acquisto.

Tra le conseguenze sociali viene dato il giusto peso alla permanenza forzata dei giovani all'interno del nucleo familiare: la percentuale dei «mammoni» tra i 25 e 34 anni è salita del 12% in un decennio. E altrettanta rilevanza viene attribuita al numero degli immigrati, soprattutto per il tasso di natalità che li contraddistingue (il 10,3% dei nuovi nati).

Ma quando si passa alle strategie di intervento la concretezza improvvisamente scompare. Eppure si sa che il 38% delle famiglie a rischio povertà ha comprato una casa (il subprime all'italiana parte da qui); che le politiche dell'ultimo decennio «appaiono non facilmente riconducibili a un disegno unitario». Che occorra come minimo un «flusso di risorse finanziarie aggiuntive» allo zero esistente, è abbastanza ovvio. Che «la migliore politica consista in una pluralità coordinata di azioni mirate», anche.

Tutto diventa chiaro al momento di tirare le conclusioni: viene consigliato «un modello di gestione davvero innovativo rispetto al passato», perché «in ogni caso il pubblico non può essere un gestore più efficiente dell'operatore privato». Voilà la soluzione: soldi pubblici per costruire case e un gestore privato per amministrarle guadagnandoci. Semplice e innovativo, come il partito democratico

Le nostre città sono invivibili per tre ordini di problemi. Sono preda di un inquinamento atmosferico elevatissimo causato dal traffico veicolare fuori controllo. Vivono una fase di espulsione di ceti popolari causata dal vertiginoso aumento dei valori immobiliari. Sono infine alle prese con l'impoverimento dei luoghi pubblici, dai servizi alle abitazioni. Vendute ai privati «perché si deve tagliare la spesa pubblica».

Per affrontare seriamente questi tre problemi, i sindaci delle grandi città avrebbero dovuto analizzare le cause del fallimento. Lo sforzo deve essere sembrato fuori della portata e non solo per fattori soggettivi. Analizzare l'invivibilità urbana avrebbe infatti costretto ad analizzare le cause strutturali che la producono e fare i conti con la cultura trionfante del neoliberismo. Proprio quello che la sinistra tradizionale rifiuta sistematicamente di fare. Additare i lavavetri, gli immigrati, i graffitari e i mendicanti come responsabili del malessere urbano è dunque la scelta disperata di chi ha deliberatamente scelto di non esercitare più alcuna funzione critica.

Insieme alla privatizzazione dei monopoli pubblici, dalle banche ai comparti produttivi, iniziata nella metà degli anni '90, in Italia sono state privatizzate anche le città, beni comuni per eccellenza. Passo dopo passo si è provveduto - con intese bipartisan - ad abolire le regole che presiedono alle trasformazioni urbane, con la conseguenza di lasciare le città, unico caso nell'Europa occidentale, in mano alla speculazione fondiaria.

A Milano il trasferimento della Fiera è stato impostato fissando anticipatamente il valore dell'utile da ricavare dalla valorizzazione immobiliare. Questo valore ha condizionato la gigantesca quantità di cemento che verrà realizzata con tre grattacieli. Se la città è in grado di sopportare l'aumento di funzioni che ne conseguirà non è stato valutato. Se era meglio diradare l'area e creare una zona verde per migliorare la qualità della vita (Milano è la 29ma delle trenta città più inquinate del mondo) non è stato preso in considerazione.

A Roma è accaduto un caso ancor più paradigmatico. I giornali economici denunciano nel 2005 che i bilanci della società calcistica Roma sono giunti ad un livello di indebitamento prossimo al fallimento. Su un'area periferica di sua proprietà, la società propone allora all'amministrazione comunale di poter realizzare un grande quartiere residenziale così da recuperare, lo si afferma esplicitamente nella trattativa, una parte del disavanzo. All'approvazione del progetto, è l'autorevole settimanale Il Mondo ad informarci, la Roma fissa nel proprio bilancio il nuovo valore dei terreni portandolo dagli originari 5 a 65 milioni di euro. 60 milioni di euro guadagnati sulle spalle dei cittadini che vedranno aggravarsi le condizioni del traffico.

I destini urbani si decidono oggi volta per volta, sulla base di una contrattazione economica con la proprietà. Non c'è più alcuno spazio per il tema della vivibilità, per i servizi alle persone, per il verde pubblico. Ma per i neofiti dell'adorazione del mercato doveva ancora venire il colpo di grazia.

Nell'estate 2006 il governo Prodi sembrava orientarsi verso l'inasprimento del carico fiscale sul comparto edilizio. Le prime indiscrezioni dei media parlavano di un decreto legge che conteneva aggravi sui trasferimenti di proprietà e altro. Nel fuoco di sbarramento non si sono distinte soltanto le associazioni della proprietà edilizia, Confedilizia e Assoimmobiliare, Sole 24 0re e Confindustria.

In soccorso del potere economico è scesa una delle principali agenzie del rating internazionale, Standard & Poor's, che affermò «che il decreto sugli immobili potrebbe incrementare i costi delle transazioni e impattare negativamente sul mercato». Il decreto fiscale venne approvato senza il capitolo che riguardava le rendite immobiliari. Il parere di Standard & Poor's fu decisivo: si tratta dei severi custodi del «mercato».

Nell'estate 2007 i mercati finanziari mondiali sono scossi dallo scandalo dei mutui subprime statunitensi. Si scopre che un'immensa operazione di sostegno finanziario al settore delle costruzioni era stata finanziata senza alcuna reale copertura. I mutui concessi alle famiglie americane non erano legati ad alcun reale valore, erano cartolarizzati, volatili come le società che li producevano. Alcune di queste società protagoniste della grande truffa erano state classificate proprio da Standard & Poor's nella fascia di più elevata solvibilità, la ambita tripla «A».

Con il neoliberismo siamo dunque passati da una fase storica in cui i destini delle città venivano decisi dai cittadini ad una nuova fase dominata capitale finanziario internazionale e da società di comodo che vengono dipinte come severi e imparziali arbitri. Nelle nostre città si costruisce tanto non sulla base di una domanda interna, la popolazione italiana come noto non cresce, ma perché esiste una liquidità gigantesca che deve essere investita: solo i mutui subprime hanno creato 640 miliardi di dollari.

E mentre le città si sviluppano in modo incontrollato senza alcuna regola, gli stessi sindaci impegnati nella contrattazione con la proprietà immobiliare fingono di avere una grave amnesia e invocano il rispetto delle «regole», ma soltanto per i lavavetri e i marginali.

CAGLIARI. Il messaggio che gli ecologisti del Gruppo d’Intervento Giuridico e degli Amici della Terra spediscono al presidente Renato Soru è molto chiaro: non basta creare leggi che tutelano l’ambiente, occorre anche applicarle. «Signor presidente - scrivono infatti - le chiediamo di svolgere le necessarie e opportune attività finalizzate all’effettuazione di coordinati interventi coattivi di demolizioni di abusi edilizi insanabili in aree di rilevante interesse tutelate con vincoli di natura ambientale». Insomma, in parole povere: si mettano in moto le ruspe e venga spazzato via tutto il cemento abusivo dalle coste sarde.

Non è la prima volta che gli ambientalisti chiedono alla Regione un atteggiamento più deciso contro gli abusi edilizi lungo i litorali dell’isola. Due istanze simili sono infatti state presentate in passato. Una nell’ottobre del 2006 e l’altra nel febbraio scorso. «Con le voci che circolano su nuovi e improbabili provvedimenti di condono e con la scarsa efficacia delle procedure repressive - dice il portavoce dei gruppi ambientalisti Stefano Deliperi - l’abusivismo edilizio imperversa. Ecco qualche dato: se nei primi otto mesi del 1994 erano stati accertati 397 casi di abusivismo edilizio nella sola provincia di Cagliari, nel 2005 sono stati accertati ben 420 nuovi casi abuso nel solo territorio comunale di Quartu Sant’Elena. E ancora: nel 2006, nel territorio di Quartucciu gli abusi riscontrati sono stati 105. Parlando di quest’anno, vorrei solo citare le oltre trenta ville messe sotto sequestro penale in Costa Smeralda dal Corpo Forestale e di vigilanza ambientale».

E sono i numeri a disegnare le reali dimensioni del fenomeno del quale parlano oggi i movimenti ecologisti. Secondo il censimento regionale con aerofotogrammetria del 2001, i casi stimati di abusivismo edilizio erano circa 45 mila. Quelli insanabili superavano i 4.500 e quasi tutti erano lungo i litorali. Secondo il Gruppo d’Intervento giuridico, Quartu Sant’Elena continua a essere la capitale dell’abusivismo in Sardegna, ma anche una delle prime in Italia. La verità è però che si tratta anche dell’unico comune dell’isola che è riuscito a disegnare una mappa completa degli abusi sul proprio territorio. Nel 1995, e cioé al termine dell’operazione-condono del 1985, a Quartu erano stati registrati 10.400 casi di abusivismo. Per capire meglio le drammatiche dimensioni del fenomeno, basti dire che in Italia solo Napoli e Gela potevano vantare un numero superiore di abusi edilizi.

Di questi, ben 486 sono risultati “insanabili totali” e 127 “insanabili parziali”. Andando ad analizzare più in profondità quei dati, è risultato che in 2.858 casi - per una volumetria complessiva di oltre 739 mila metri cubi - si è trattato di abusi nelle zone F turistiche. Dopo il secondo condono edilizio (1999) i casi di abusivismo “insanabili totali” sono scesi a 147 e quelli “insanabili parziali” a 72. Sempre tantissimi, quindi.

«Tra i casi sicuramente più eclatanti - continua Deliperi - c’è quello, sempre a Quartu, di addirittura 185 edifici abusivi all’interno del parco naturale di Molentargius-Saline. Ebbene, l’amministrazione comunale ha predisposto ventinove piani di risanamento, ancora in gran parte inattuati e sono cresciuti a dismisura gli oneri collettivi per dotare di servizi gli “abusi condonati”. La spesa complessiva è stata stimata in 222 milioni di euro a fronte dei 18-20 milioni di entrate derivanti dalle oblazioni pagate. Per quanto riguarda l’ultimo condono edilizio, cioé quello del 2003-2004 a Quartu sono state presentate oltre 3.500 istanze di condono. Un numero davvero imponente se si considera che, secondo i dati forniti da Confedilizia, le domande presentate a livello nazionale sono state 102.126. Nel comune di Cagliari, per capirci sono state circa 2.300».

Ma il caso di Molentargius non è isolato. Gli abusi edilizi in aree di pregio naturalistico sono segnalati dagli ecologisti del Gruppo d’Intervento Giuridico anche in altre zone della Sardegna. Come i complessi abusivi all’interno del parco naturale di Porto Conte, alcune strutture sul Monte Ortobene e perfino cinquanta abusi all’interno del parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena. Ma l’elenco continua con tredici unità abitative a Capo Ceraso (sequestrate nelle scorse settimane dal Corpo forestale e di vigilanza ambientale) e le 45 strutture abusive nell’isoletta di Corrumanciu nello stagno di Porto Pino.

Conti alla mano, Deliperi denuncia poi anche il fallimento finanziario della politica dei condoni: «Nel 1985, a fronte di una previsione di entrate di 2.995 milioni di euro, le entrate effettive furono pari al 58%; nel 1994, rispetto a un gettito previsto di 2.531 milioni di euro, le entrate salirono al 71%. Oggi, infine, rispetto a una previsione di 3.165 milioni di euro, la stima sulle entrate effettive è davvero molto bassa: appena il 40%. Sono numeri che parlano da soli e dimostrano che la linea del condono non paga non solo sotto il profilo dell’emersione dell’abusivismo, ma non paga neppure sul piano squisitamente finanziario».

Per concludere, gli ambientalisti ricordano i casi più noti di ordine di demolizione di abusi edilizi sulle coste contenuti in sentenze penali ormai passate in giudicato e perciò irrevocabili:

1) Porto Malu-Baia delle Ginestre. Risale ormai al 1996 la sentenza della Cassazione che ordinava la demolizione delle opere abusive e il ripristino ambientale. Dopo un lunga battaglia di ricorsi e opposizioni in fase di esecuzione, le ruspe del genio militare entrarono in azione nel giugno del 2001, ma si attende ancora il ripristino ambientale. Nel 2002 la Cassazione ha accolto un ulteriore ricorso del Comune e ora pende un nuovo incidente di esecuzione davanti alla corte d’appello di Cagliari.

Intanto, nel settembre dello scorso anno, il gruppo Antonioli ha acquistato all’asta fallimentare l’intero complesso (4,110 milioni di euro), sembra anche la parte che era diventata proprietà del comune di Teulada per effetto della sentenza penale.

2) Baccu Mandara. Sulla costa di Maracalagonis le ruspe sono entrate in azione nel marzo del 2002 per abbattere 29 unità immobiliari realizzate dalla Tre P srl e dichiarate abusive dal pretore di Cagliari dal 1996.

3) Piscinnì. Su questo tratto di costa sulcitana intervenne anche il ministero dei Beni culturali per annullare l’autorizzazione paesaggistica regionale in sanatoria delle opere abusive.

Il progetto, prima del gruppo Monzino e successivamente della Lega delle Cooperative, prevedeva 80 mila metri cubi complessivi.

4) Piscina Rey. Sono state necessarie ben dieci pronunce giurisdizionali per arrivare alla demolizione di un complesso di villette a schiera realizzate dalla Saitur srl in terreni a uso civico.

Titolo originale: When's a home not a home? When it's a live/work space – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Si chiamano alloggi abitazione/lavoro, e sono spuntati in tutti i centri urbani del Regno Unito. Sono rivolti ai pionieri del lavoro direttamente da casa, e spesso offrono una progettazione architettonica d’avanguardia.

Ma ora centinaia di acquirenti che li usano solo per abitare rischiano lo sgombero, a seguito di un’azione degli uffici urbanistici comunali.

La circoscrizione londinese di Hackney ha già spedito 600 “avvisi di contravvenzione urbanistica”, e altre amministrazioni nel paese stanno esaminando da vicino la situazione.

Due settimane fa, i 75 proprietari di Union Wharf, complesso dall’aspetto molto trendy a un tiro di sasso da Hoxton, N1, hanno sobbalzato aprendo una lettera dall’aria innocua della circoscrizione di Hackney.

Era firmata da un funzionario, e comunicava che stavano contravvenendo alle norme urbanistiche: dovevano lasciare le proprie abitazioni, oppure fare richiesta per un’autorizzazione a uso residenziale entro 28 giorni.

“Ricevere questa lettera è stato un autentico choc” spiega il ventinovenne Nichola Waterfall, mentre sfoglia le pagine con un’aria disorientata. “In teoria, pare che l’amministrazione possa ordinare che noi non si possa più abitare qui”.

Il problema, secondo la circoscrizione di Hackney, è che gli abitanti di Union Wharf usano i propri spazi solo per abitarci, anziché come ambienti da cui svolgere un’attività: quindi contravvengono all’autorizzazione urbanistica.

A Hackney – una delle prime municipalità di Londra ad aver consentito la realizzazione di spazi a categoria ibrida – la questione sta iniziando a raggiungere proporzioni epiche.

E si prevede che altre amministrazioni seguiranno a breve, se questi avvisi di contravvenzione avranno effetto.

Dopo che ampi tratti delle aree produttive della municipalità erano state trasformate in appartamenti trendy, l’amministrazione di Hackney ha tirato i freni e nel 2003 ha revocato le norme urbanistiche supplementari che incoraggiavano spazi abitazione/lavoro.

A partire da allora, ha spedito 600 avvisi di contravvenzione ai proprietari degli appartamenti così classificati, e quest’anno ha istituito un ufficio espressamente dedicato alla questione.

“Dobbiamo tutelare gli spazi per attività economiche sui margini della City” spiega Mary Anna Wright, capo ufficio stampa di Hackney. “Gli spazi abitazione lavoro avrebbero dovuto essere ceduti come tali, quindi se chi li utilizza non lo sapeva ora deve rivolgersi a chi glie li ha venduti”.

Ai sensi della Sezione 172 del Town and Country Planning Act 1990, le amministrazioni possono anche “rimediare” tramite deroghe alle norme urbanistiche. Ma, visto che si tratta di un fenomeno tanto nuovo, le norme sugli spazi abitazione/lavoro sono particolarmente vaghe.

L’amministrazione afferma che chiunque occupa un appartamento di questo tipo deve pagare le imposte per le attività economiche, oltre che quelle municipali. Agli spazi si applica anche la tassa sui capital gain quando viene ceduta la parte dell’attività.

Gli abitanti lamentano che l’amministrazione li sta trattando in modo troppo severo. Quattordici degli appartamenti di Union Wharf sono stati comprati dalla Notting Hill Housing Association, che poi li ha rivenduti a lavoratori dei servizi essenziali in “ shared equity”, con l’accordo che fossero utilizzati esclusivamente ad uso residenziale.

Oltre che prendere di sorpresa gli inquilini, questa azione sembra aver confuso anche l’associazione. “Stiamo cercando di capire meglio i problemi connessi” spiega Rachel Bhageerutty, dell’ufficio stampa della Notting Hill.

here English version

Nella crisi innescata dai mutui subprime statunitensi vengono a galla - tra gli altri - due movimenti di lungo periodo decisamente contraddittori: la diminuzione del potere d'acquisto dei salari e l'incremento forsennato del numero dei proprietari della casa d'abitazione. Movimenti tanto più contraddittori se innestati - com'è avvenuto - con la (quasi) continua rivalutazione di prezzo delle case e il diffondersi della precarietà lavorativa (incompatibile, a prima vista, con l'indebitamento di lungo periodo proprio di un mutuo).

Sull'impoverimento relativo dei lavoratori dipendenti nel mondo occidentale - a far data quantomeno dal 1989 - basti pensare al fatto che ancora negli anni '70 la famiglia standard riusciva a vivere anche se monoreddito, mentre ora gli stessi livelli di vita sono possibili solo se i redditi sono almeno due. Eppure sempre più famiglie sono state «costrette» a diventare «proprietarie». In Italia sono ormai l'80%, mentre negli Stati uniti raggiungono il 70 (ma solo il 50% nel caso di famiglie nere o ispaniche). E proprio gli Usa forniscono l'esempio più chiaro. Due terzi di questi «proprietari» sono alle prese con un mutuo ipotecario. Proprietari precari, insomma.

Nel corso degli anni molto è cambiato. Fino agli anni '90 la concessione di mutui era quasi un'esclusiva delle tre agenzie controllate dal ministero del tesoro (Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae), che avevano adottato criteri assai restrittivi per l'erogazione (garanzie, tetto massimo di 417.000 dollari, documentazione). Poi questo «mercato» è stato aperto ai privati, che hanno immediatamente «liberalizzato» i criteri per la concessione (garanzie zero, continuità di reddito improbabile, abolizione del tetto massimo, ecc), avviando una furibonda concorrenza sia con le agenzie «pubbliche» che tra di loro (piani di ammortamento squinternati con rate basse all'inizio per invogliare i clienti, documentazione zero). Naturalmente queste società finanziarie non erano costituite da novelli Robin Hood che dispensavano soldi a vanvera, ma da prudenti speculatori che «cartolarizzavano» ogni credito in modo da garantirsi da qualsiasi insolvenza altrui. I soloni del capitalismo di casa nostra chiamano questa pratica «ripartizione del rischio» e ne lodano «l'efficenza». In teoria non avrebbero torto. Ma dimenticano di tenere nel giusto conto l'elemento «quantità», che pure - in economia, soprattutto! - appare decisivo. Se un soggetto di mercato «ripartisce» altrove un debito, non succede nulla. Se lo fanno alcuni milioni, ci ritroviamo tutti indebitati. Tanto più se, com'è avvenuto, la via della cartolarizzazione è la strada obbligata di ogni fusione-acquisizione societaria è il leverage buyout: letteralmente, «acquisizione con capitale di prestito». Ossia a debito.

In Europa siamo leggermente in ritardo, ma non troppo (avete presente le nuove formule per «un mutuo anche se sei precario»?). Ma soprattutto abbiamo dovuto abolire (non ancora in Francia o Germania, però) l'edilizia pubblica, in modo da creare coattivamente una domanda supplementare di case che potesse da un lato far esplodere i prezzi e dall'altro obbligare gli aspiranti proprietari ad entrare in banca per indebitarsi (condizione che prima era vissuta addirittura come «una vergogna», in questo paese ad alto tasso di risparmio). Tanto, mal che vada, si «cartolarizza». Ossia: si socializzano le perdite. Il problema irrisolto è che, nonostante questa «socializzazione», alla fine i debiti ci mettono in crisi lo stesso. Con molta «efficienza».

Titolo originale: Riotous Real Estate – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Lo scorso febbraio urlavano le sirene a Hollywood, mentre le forze del Los Angeles Police Department convergevano verso l’isolato 5600 su La Mirada Avenue. Mentre un capitano di polizia abbaiava ordini da un megafono, una folla inferocita di 3000 persone rispondeva gridando insulti. Chi passava da lì avrebbe potuto scambiare il confronto per una grossa ripresa cinematografica, o anche l’inizio della prossima grande rivolta di L.A..

A dire il vero, come ha raccontato poi il capitano Michael Downing del LAPD ai giornalisti “C’erano persone molto disperate con un atteggiamento di rivolta. Era come se stessero tentando di afferrare l’ultimo pezzo di pane”.

L’allusione alla rivolta del pane è giusta, anche se quella folla stava reclamando le ultime briciole di case a prezzi controllati in una città dove affitti e mutui sono lievitati a livelli stratosferici. In gioco, c’erano 56 appartamenti ancora da terminare, realizzati da un’impresa no-profit. I costruttori si erano aspettati una presenza, al massimo, di qualche centinaio di persone. Quando invece sono arrivati migliaia di aspiranti assegnatari disperati, la cosa è girata al brutto ed è intervenuta la polizia.

Poche settimane dopo questo teso confronto di Hollywood, un’altra folla ansiosa – stavolta composta da persone più agiate, in cerca di casa – si è accodata per ore a fare offerte vergognose per l’acquisto di una casa in rovina, con le fondazioni crepate, in un sobborgo vicino rinomato per le ottime scuole. “Quella folla brulicante – ha scritto l’editorialista del Los Angeles Times Steve Lopez – non è stata una sorpresa, visto che è dimostrato come la scuola pubblica della California sia una fabbrica di emarginati”.

Le scuole di Los Angele, sottofinanziate, sovraffollate, violente, secondo un recente rapporto di un gruppo di ricerca di Harvard, al momento non riescono a far concludere gli studi alla maggioranza degli studenti neri e latini, e a un terzo dei bianchi. Come conseguenza, i genitori sono disposti a straordinari sacrifici per spostare i propri figli verso sobborghi dotati di strutture educative efficienti. Questo dà un nuovo impulso al vecchio detto immobiliarista “la posizione è tutto”: le case nella California meridionale sono universalmente pubblicizzate e qualificate dal prestigio dei distretti scolastici locali.

Naturalmente la crisi delle abitazioni in Sud California ha anche un lato solare. Negli ultimi cinque anni i valori medi dell’edilizia residenziale si sono incrementati del 118% a Los Angeles, e di un eccezionale 137% nella vicina San Diego. Di conseguenza, le case sono diventate una specie di bancomat, offrendo ai proprietari magici flussi di denaro non guadagnato, con cui acquistare nuovi fuoristrada, pagare gli interessi delle case di vacanza, finanziare la sempre più costosa istruzione dei figli nei colleges privati. I mutui per seconde case e i rifinanziamenti per l’edilizia residenziale, secondo uno studio della Wharton Business School, hanno generato a partire dal 2000 l’incredibile somma di 1,6 trilioni in consumi aggiuntivi.

La grande bolla della casa in America, come i sui obesi corrispondenti in Olanda, Spagna, Australia, è un classico gioco a somma zero. Senza generare un solo atomo di nuova ricchezza, l’inflazione dei suoli ridistribuisce senza pietà le risorse dalla domanda all’offerta, approfondendo le divisioni dentro e fra classi sociali. Un giovane insegnante di San Diego che prende in affitto un appartamento, per esempio, ora deve affrontare un costo annuale della casa (24.000 dollari per due stanze in zona centrale) che è l’equivalente di due terzi del suo reddito. Per contro, un più anziano autista di bus scolastici che possiede una modesta casa nello stesso quartiere, può aver “guadagnato” dall’inflazione residenziale l’equivalente della sua paga sindacale.

L’attuale bolla della casa è figlia bastarda della bolla azionaria di metà anni ’90. I prezzi delle case, specialmente sulla costa occidentale e nel corridoio orientale Boston-Washington, hanno iniziato a schizzare verso l’alto nella seconda metà del 1995, quando i profitti delle imprese dot-com si sono riversati sul mercato immobiliare. Questo boom è stato sostenuto da tassi di interesse incredibilmente bassi, grazie soprattutto all’interesse della Cina ad acquisire grandi quantità di titoli del Tesoro USA, nonostante i redditi bassi o addirittura le perdite. Pechino ha volontariamente finanziato i contrattori di mutui americani per tenere aperta la porta all’export cinese.

In modo simile, i mercati interni più caldi – California meridionale, Las Vegas, New York, Miami, e Washington, D.C. – hanno attirato le voraci colonne di termiti degli speculatori puri, a comprare e vendere case azzardando che i prezzi avrebbero continuato a salire. Lo speculatore con più successo è stato, naturalmente, George W. Bush. I valori immobiliari in crescita hanno sollevato un’economia stagnante, e smorzato le critiche a quella che era una politica economica disastrosa.

I Democratici da parte loro non hanno affrontato seriamente la crisi di milioni di famiglie tagliate fuori dalla proprietà della casa. In una città-bolla come San Diego, ad esempio, meno del 15% della popolazione guadagna abbastanza per finanziare la costruzione di una nuova casa di prezzo medio.

Certamente, se alla base della vittoria di Bush lo scorso novembre ci sono stati dei “valori”, si trattava di valori immobiliari, e non di principi morali o pregiudizi religiosi. Di fronte a questa perversa bolla immobiliare la campagna elettorale di Kerry, come sui costi delle assicurazioni sanitarie o la perdita di posti di lavoro, girava semplicemente a vuoto. Non offriva alternative serie allo status quo. Ma i Repubblicani hanno cose più serie di cui preoccuparsi che non i Democratici. Quando la bolla immobiliare raggiungerà il suo vertice, George Bush potrebbe scoprire di aver cavalcato uno tsunami, e che si avvicina un’alta scogliera.

La bolla è già scoppiata a San Francisco, e il titolo apparso sul numero dell’11 aprile di Business Week esprime timore che una generale deflazione – magari di dimensioni internazionali – sia prossima. Come sarà la vita negli Stati Uniti (o in Gran Bretagna, o Irlanda) quando chiuderà il bancomat immobiliare?

La stampa economica, come al solito, tranquillizza i passeggeri: sarà un atterraggio morbido, un rallentamento anziché un disastro, ma anche un sussulto di media importanza può bastare a fermare l’attuale anemica ripresa, e gettare tutte le economie legate al dollaro in depressione. Più minacciosi, alcuni eminenti e rispettati economisti di Wall Street, come Stephen Roach della Morgan Stanley, avvertono sul pericoloso anello di retroazione negativo fra le bolle immobiliari alimentate dall’estero e l’enorme deficit commerciale USA. (quello che sta solo aspettando di succedere, ha scritto è “ The funding of America”).

Alla fin fine, l’egemonia militare americana non è più sostenuta da un’equivalente supremazie economica globale. La bolla del problema casa, come l’esplosione delle imprese dot-com prima, ha mascherato provvisoriamente questo pasticcio di contraddizioni economiche. Di conseguenza, il secondo mandato di George W. Bush può riservarci grandi sorprese, degne di Shakespeare.

Nota: qui il testo originale (con introduzione) al sito Tom Dispatch; il giorno successivo alla pubblicazione di questo testo su Eddyburg sul quotidiano il manifesto ne è apparsa una traduzione - certo meno frettolosa - di Marina Impallomeni col titolo "La bolla californiana" (f.b.)

The Guardian

Ancient urban sprawl surrounded Angkor Wat

di David Adam

Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il famoso tempio medievale di Angkor Wat in Cambogia un tempo era circondato da un gigantesco sprawl urbano di insediamenti, secondo una nuova mappa pubblicata da un gruppo internazionale di archeologi. Gli esperti hanno trascorso anni a studiare le immagini della Nasa per la regione di Angkor, verificando tutte le possibili prospettive sul posto, e scoprendo rovine a sufficienza per concludere che il sito rappresenta l’insediamento urbano più vasto dell’epoca pre-industriale.

Ricoperte dalla vegetazione e oscurate dalle nubi basse, le rovine sono diffuse su oltre 1.000 chilometri quadrati attorno al simbolico tempio, collegate da un complesso sistema di irrigazione.

La scoperta potrebbe porre un problema per gli esperti di conservazione, dato che questi resti storici sono sparsi ben oltre i confini dell’area classificata Patrimonio dell’Umanità attorno al monumento.

Damian Evans, del laboratorio di elaborazione al computer per l’archeologia dell’Università di Sydney, insieme a colleghi da Australia, Cambogia, e Francia, ha incrociato i dati di carte redatte a mano, rilievi sul terreno, fotografie aeree e immagini radar messe a disposizione dalla Nasa. Il radar può rilevare le differenze nella crescita della vegetazione e nei contenuti di umidità, prodotte da piccole variazioni nella struttura o livello superficiale. Il gruppo di lavoro ha trovato tracce di oltre 1.000 bacini artificiali e almeno 74 templi in rovina. Un sistema idraulico collegava tutto a rete, ed era probabilmente utilizzato per fornire agli abitanti una scorta costante di acqua. Sono anche state scoperte due misteriose gigantesche strutture a terrapieno.

La nuova mappa è stata pubblicata ieri dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Gli esperti affermano: “Anche secondo calcoli prudenti, l’area metropolitana di Angkor al suo massimo era il complesso urbano a bassa densità più vasto del mondo pre-industriale”.

La città è fiorita fra in IX e il XVI secolo. I ricercatori affermano che ci sono segni di decadenza dovuta al degrado ambientale prodotto dagli abitanti.

“Angkor si trova in una vasta regione di risaie, che ha richiesto grandi disboscamenti in tutta l’area di pianura, e fino alle colline di Kulen e Khror verso nord” affermano gli esperti. “Le nuove carte mostrano come il cambiamento nell’uso del suolo sia stato diffuso e intenso, in modo sufficiente ad aver prodotto una serie di problemi ecologici, dalla deforestazione, alla sovrappopolazione, all’erosione”.

Nota: di tono leggermente diverso l'articolo su Angkor dell'italiano la Repubblica (riportato di seguito) sul tema della sostenibilità ambientale. Resta da chiedersi (domanda angosciosa, no?) cosa ne penseranno i sostenitori della legittimità storica dello sprawl suburbano, tipoRobert Bruegmanno il più moderato ma mica tanto, Joel Kotkin. L’immagine del tempio è tratta dal Guardian; quelle delle foto aeree illustrano un articolo di Emma Young sul medesimo ritrovamento, dal New Scientist 13 agosto 2007 (f.b.)

here English version

la Repubblica

Angkor, la Los Angeles del passato

di Paola Coppola

C’era nell’età preindustriale una metropoli che aveva fondato la sua grandezza sull’acqua. Era la capitale dell’impero Khmer al tempo del suo massimo splendore. Angkor, che in sanscrito significa "città", era la più grande del mondo, molto simile alla Los Angeles di oggi.

Un gigante nel cuore della giungla cambogiana dove vivevano un milione di persone e che invece di grattacieli aveva più di mille templi.

Fiorì sotto la guida del re Jayavarman II, il "monarca universale", poi crebbe nei secoli. Tanto splendore a partire dall’anno 800 fu possibile grazie una sofisticata tecnologia di gestione e conservazione dell’acqua che si reggeva su un sistema di laghi artificiali e di canali. Nei periodi di siccità veniva anche deviato il corso del fiume Siem Reap per portare l’acqua nel cuore della capitale.

Ma l’aver fatto affidamento su questa risorsa fu anche la rovina di Angkor, perché alcuni secoli dopo, intorno al 1500, ne provocò il collasso: la pressione esercitata da una città che continuava a crescere e la deforestazione prima incepparono e poi fecero saltare quel delicato meccanismo che garantiva la sua autonomia idrica.

Sembra una metafora contemporanea la ricostruzione del passato della capitale dell’impero Khmer fatta da uno studio pubblicato sui Pnas, Proceedings of the national academy of sciences. «Il sistema idraulico era diventato ingestibile», ha raccontato al Los Angeles Times l’archeologo Damian Evans dell’Università di Sydney, che ha coordinato la ricerca.

Ma quando era in auge Angkor non aveva pari anche perché era una delle poche civiltà fiorite in un ambiente tropicale. E per questo, secondo l’archeologo William Saturno dell’Università di Boston, diventerà un modello per interpretare le civiltà simili.

Se oggi sappiamo che un tempo aveva un volto simile a quello di Los Angeles è grazie a un articolato progetto - Greater Angkor Project - che ha usato antiche e nuove tecnologie per restituire ai resti dell’impero Khmer lo sfarzo di un tempo. Ci sono i dati raccolti dallo shuttle in orbita nel 2000 e rielaborati dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa che hanno fotografato il suolo e svelato l’esistenza di alcuni templi nascosti e dei laghi artificiali usati per conservare l’acqua e per irrigare i campi. E c’è il lavoro sul campo dei ricercatori che hanno scattato immagini volando sopra i resti o sono andati a verificare nella giungla quello che aveva visto il satellite.

Lo studio continua ancora, ma oggi la mappa di Angkor è più ricca di dettagli rispetto a quella restituita dai ricercatori tre anni fa. Non si sapeva allora che la capitale fosse così estesa, né che ci fossero altri 74 templi nella zona nota soprattutto per quello di Angkor Wat, costruito da Suryavarman II all’inizio del XII secolo. Né che la capitale di quell’impero che si estendeva fino a Laos, Thailandia e Vietnam, potesse contare su così tanti laghi artificiali per soddisfare la sua necessità di acqua.

«La ricerca mostra che le conoscenze di ingegneria idraulica erano sofisticate e complesse», chiarisce Evans. All’avanguardia per quei tempi, anche se il paesaggio venne manipolato in modo così radicale da creare problemi all’ambiente. Le pareti dei canali erano fatte di terra e, continua il ricercatore, «i punti di collegamento nel sistema erano sofisticate strutture di pietra». I Khmer erano anche riusciti a trovare il sistema per coltivare il riso durante tutto l’anno e non solo nella stagione delle piogge.

Ma la manutenzione di quest’opera di ingegneria era faticosa: richiedeva capacità amministrative, conoscenze tecniche e soprattutto un grande sforzo fisico. Il lavoro divenne troppo: i sedimenti si accumulavano nei canali prima di poter essere rimossi, gli argini cedevano in fretta. Il sistema andò in rovina, e fu il primo segnale. Dopo poco seguì il collasso dell’impero.

Sulla griglia ci sono sarde e sgombri. «Quando ho voglia di cozze, vado a prenderle in scogliera. In cinque minuti, ne porto a casa tre chili. Con la pasta sono ottime». Si sta all’ombra dei pioppi e delle lamiere, in questo Villaggio Bianco che gli abitanti chiamano «il nostro paradiso».

«La spiaggia e il mare sono proprio davanti a noi. Per i bambini non c’è nessun pericolo. E poi siamo tutti amici: alla sera facciamo delle belle tavolate e possiamo anche ballare, con gli stereo o la musica delle autoradio. Qui nessuno ci disturba e noi non disturbiamo nessuno». Sembra di tornare agli anni ‘70, quando per la vacanza bastavano un letto per dormire e un tavolo per i piatti di pasta al pasta al ragù e le fette di cocomero. «Ma lo sa che possiamo pescare anche carpe e tinche? Proprio qui accanto c’è il fiume Esino, con i pesci d’acqua dolce».

Sono felici - per ora - gli abitanti del Villaggio Bianco e anche quelli dell’Isola Blu, che assieme formano un "paese" di quasi 200 fra capanni o villini, costruiti con materiale di recupero o trasformando in «cottage» garage in lamiera e vecchi container.

Felici e anche ottimisti, perché ti raccontano la bellezza del mare e i colori dell’alba e quasi sembrano non vedere l’imponente raffineria dell’Api che è proprio a fianco dei capanni e che giorno e notte manda in cielo sbuffi di fuoco. Sembrano non sentire nemmeno lo sferragliare dei treni della linea Bologna - Lecce che passano in alto, sopra le loro teste. «Ci abbiamo fatto l’abitudine, ormai non li sentiamo più. L’importante è che ci lascino qui, che il Comune non ci mandi via. Siamo arrivati che eravamo giovani, qui abbiamo cresciuto i nostri figli. Adesso anche loro sono sposati e ci affidano i nipotini. In pratica, a dirla tutta, facciamo i badanti».

Vacanze poverette di chi ha lavorato una vita e, per risparmiare soldi e fare studiare i figli, si è inventato una vacanza fai da te. «Tutto è nato - dice Getulio Ceccarelli, 77 anni - nell’ormai lontano 1972. Qui dove c’è l’Isola Blu c’era un proprietario terriero che ci affittava le piazzole a 50.000 lire all’anno. Lì in prima fila, dove invece c’è il Villaggio Bianco, il proprietario vendeva piccoli lotti di terra. Io ho comprato un garage in lamiera. L’ho portato qui e piano piano l’ho trasformato in un villino. Ci sono anche i capanni a due piani. Muri al piano terra, e sopra il solito garage o un container. Subito il Comune di Falconara voleva mandarci via, e noi abbiamo fatto una manifestazione con i cartelli. Abbiamo raccolto le firme dei commercianti che erano d’accordo con noi, anche perché eravamo 2000 e facevamo la spesa nei loro negozi. Da allora è iniziata una battaglia che ancora non è finita. Il Comune decide di sfrattarci poi cambia la giunta e tutto ricomincia. Noi del Villaggio Bianco siamo uniti in una cooperativa, gli altri si sono organizzati in una Srl, una società a responsabilità limitata. Abbiamo i contratti regolari per la luce e l’acqua, al Comune paghiamo anche l’Ici. Abbiamo fatto il condono, 800.000 lire a testa. Poi ci hanno spiegato che, causa la legge Galasso, il condono non si poteva fare, ma i soldi se li sono tenuti».

Sbarre automatiche all’ingresso, e un cartello spiega che questa è "Proprietà privata" e con l’automobile «Se piano non vuoi andare / fai a meno di entrare». Cucina e bagno a piano terra, e sopra una o due camerette da letto. Lamiere, tende, teli di plastica, per riparare dal sole e dal vento.

Decine di griglie sulla spiaggia di sassi, portati ad ogni piena dal fiume Esino. Decine di piccole barche per la pesca. «Ogni tanto - raccontano Giorgio e Armanda S., coppia di settantenni del Villaggio bianco - passa di qui la Goletta verde e dice che il mare è inquinato. Poi arriva la mareggiata e tutto si risolve. Il Comune mette il cartello con il divieto di balneazione così si mette a posto la coscienza. Tanto, chi vuol fare il bagno, lo fa comunque. Per i bambini abbiamo le piccole piscine di plastica».

Arrivano da Ancona e dalla montagna, i villeggianti della raffineria. Ma ci sono anche romani e perugini che con 10-15.000 euro si sono comprati il villino al mare. «A marzo - raccontano Giorgio e Armanda - dovevano arrivare le ruspe, e invece siamo ancora qui. Questa è la nostra casa da fine maggio a fine agosto. Ci costa 450 euro all’anno, per le bollette e tutte le spese della Srl. Dove andremmo, con quei soldi? Due giorni di albergo e poi a casa. Ma non è solo una questione economica. Ci siamo affezionati, a questo posto. Qui abbiamo cresciuto i nostri bambini e adesso ci sono i nipoti. I nostri figli invece vanno via, sulle spiagge di lusso. Ognuno ha la sua macchina, noi in famiglia ne avevamo solo una, usata. Però i nipoti sono tanti. Quando giocano alla playstation si trovano anche in quindici, tutti in questa piccola cucina. Con i vicini, siamo diventati vecchi assieme. Si sta in compagnia anche a cena e, per fare festa, a mezzanotte facciamo una spaghettata».

Sarà però difficile tenere lontano le ruspe. «Il Comune - racconta Umberto Serrani, 71 anni - ha un progetto: tirare giù tutto e al posto di 200 capanni, uno diverso dall’altro, costruire 128 casette tutte uguali, di appena 33 metri quadrati. Intanto ci porterebbero via metà della terra che noi abbiamo comprato. Quel terreno serve a costruire parcheggi e una piccola darsena accanto al fiume. E poi ci farebbero pagare, oltre alla costruzione, anche le opere di urbanizzazione. Abbiamo fatto i conti: ognuno di noi dovrebbe spendere dai 50.000 ai 60.000 euro per avere un posto che è la metà di quello che abbiamo. Io sono ormai anziano, non me la sento di fare un investimento così grosso. A noi vecchi, chi ci fa un mutuo?». Ma c’è anche chi ha annusato l’affare. C’è chi ha comprato 3 o 4 quote della Srl Villaggio Bianco, villini compresi (per paura delle ruspe, qualcuno ha venduto a meno di 10.000 euro) per diventare poi proprietario di qualche cottage regolare previsto dal Comune. Con la nuova darsena un «Monolocale rialzato vista mare», accanto al posto barca, andrà via come il pane.

La signora Sandra, sulla sua veranda, ha messo anche i gerani. «Di plastica, così il vento salmastro non li rovina». Tiziana Serrani sta con marito e il figlio piccolo nel villino del padre Umberto.

«Mi hanno portata qui quando avevo 3 anni, e per me questa è la vacanza in capanno, non in una casa. Il nuovo progetto cambierebbe tutto e c’è una cosa che non capisco. Vogliono mandarci via perché ci sono la raffineria che inquina e la ferrovia che fa rumore. Perché allora costruire villini in muratura? Con le nuove casette, sarebbe come vivere in condominio, con le regole, gli orari, gli spazi definiti. E’ proprio ciò da cui fuggiamo». Giorgio S. sente già la tristezza dell’addio. «Non so se l’anno prossimo tutto questo esisterà ancora. Io mi alzo prestissimo, per vedere l’alba. E alla sera, con la scusa della pesca, guardo il tramonto. Ma lo sa che in questo pezzo di Adriatico, come se fossimo su un’isola, il sole sorge e tramonta in mare?»

Due ricerche autorevoli e recenti di Bankitalia e del Cresme ci consegnano una nitida fotografia del disagio abitativo nel nostro Paese. Un quinto della popolazione residente destinerebbe oggi all'alloggio oltre il 30% del suo reddito (una cifra oltre la quale, generalmente, gli istituti di credito sono restii a concedere finanziamenti) e tale condizione non sarebbe per nulla destinata a migliorare nel breve periodo. Al contrario, per la prima volta, il disagio abitativo non sarebbe più esclusivo appannaggio di chi vive in affitto, cominciando a riguardare anche chi, negli scorsi anni, attratto da mutui che coprivano tutto l'investimento necessario, ha acquistato la casa che occupa. Inoltre, il trend demografico del nostro Paese esporrebbe alla minaccia del disagio abitativo anche ulteriori quote di popolazione, a partire dai cosiddetti nuclei uni personali per i quali le spese di alloggio raggiungono addirittura l'insostenibile limite del 40% del reddito.

Occorrerebbero nuove politiche attive sulla casa. Però, dopo che il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative del maggio scorso aveva fatto sperare su un rinnovato impegno del Governo, il recente Dpef pare lasciare tutto inalterato. Eppure è la stessa Bankitalia a ricordare che a fronte di una spesa sociale tendenzialmente allineata a quella europea, il capitolo destinato alla casa è solo dello 0,1% contro il 2,1 dell'U.E.

E' da metà degli anni '80 che il campo abitativo è stato consegnato al solo mercato privato. Da allora gli unici interventi svolti si sono per lo più limitati a sostenere e incentivare l'acquisto. E' accaduto tanto per i buoni casa, quanto per la detassazione delle transazioni immobiliari; interventi incapaci di calmierare il valore immobiliare (non a caso salito nel periodo 85-2005 da 5,6 annualità consecutive di retribuzione a 9,1) e che hanno drenato la quota messa a risparmio interamente dentro la rendita immobiliare. Lo stesso, per lo più, è accaduto nelle politiche di sostegno alla locazione e sarebbe bene ricordarsene quando - di questi tempi- troppe volte la proprietà edilizia suggerisce di stimolare il merca

I centri storici sono incompatibili con le automobili. Non solo per ragioni d’inquinamento ambientale. I veicoli a motore, diceva Antonio Cederna, se anche emettessero, non veleni, ma profumi soavi e salubri, sarebbero comunque inconciliabili con i centri storici. I quali si sono formati, nel corso dei secoli e dei millenni, a misura di pedoni, di cavalli, di carri e di carrozze. Non possono essere impunemente invasi da oggetti alieni per forma, per funzione e per colore. È una violenza, come mettere infissi di alluminio in un palazzo del Cinquecento. I centri storici sono anch’essi monumenti, ed è merito della cultura italiana del secolo scorso di averlo capito (a partire dalla carta di Gubbio del 1960) e di aver quindi ottenuto (a partire dalla legge ponte del 1967) la loro tutela integrale.

Tutela tutt’altro che soddisfacente. Non è questa l’occasione, Italia nostra lo ha fatto altre volte, per denunciare gli errori, gli abusi e le incongruenze nelle politiche locali e nazionali a proposito dei centri storici, che continuano a essere snaturati da usi impropri e abbandonati dai residenti, per primi quelli appartenenti a fasce di reddito sfavorite. Qui ci occupiamo solo del più grave e diffuso degli errori, quello appunto di lasciare libero accesso alle automobili, anzi di agevolare sempre di più l’invasione degli alieni, come succede con la realizzazione dei parcheggi sotterranei di cui tratta questo fascicolo.

Abitare nel centro storico è un privilegio: questo dovrebbe essere il punto di partenza di ogni politica d’intervento. Un privilegio per tante ragioni, ma soprattutto perché la qualità paesaggistica dei centri storici – determinata dall’alternanza di edifici monumentali di epoche diverse, e diversi per forma e concezione, con un tessuto abitativo minuto e anodino – è incomparabile con l’infimo livello della città contemporanea, con le espansioni del dopoguerra, la cui forma, il più delle volte repellente, è stata dettata esclusivamente dagli interessi fondiari. Il privilegio è ancor più evidente se poi si considera che i centri storici rappresentano una percentuale minima dello spazio urbanizzato, percentuale che ogni anno diventa più esigua per la crescita continua e inarrestabile delle città. Il prezzo da pagare rispetto al privilegio goduto è qualche disagio nell’accessibilità, disagio assolutamente sostenibile ove si disponga di un trasporto pubblico e di un servizio di taxi efficienti, di percorsi ciclabili ben distribuiti e dove i pedoni siano i protagonisti della scena urbana.

Privilegiati sono anche coloro che lavorano nel centro storico. Almeno per costoro dovrebbe essere pacifico che non si ha diritto a parcheggiare. È così in molte città europee. Non da noi. A Roma la lista degli aventi diritto al posto macchina è sconfinata, in sostanza basta pagare.

I parcheggi dei residenti (e dei lavoratori) dovrebbero invece essere previsti ai margini dei centri storici, come a Venezia, dove si vive benissimo senza la macchina sotto casa (aveva assolutamente ragione Le Corbusier nell’esaltare la modernità di Venezia). Una modalità d’uso come quella descritta è evidentemente alternativa alla tendenza in atto, e sempre più spinta, all’uso terziario o di alta rappresentanza (come nel caso di Roma) del centro storico, funzioni che portano inevitabilmente, per molti aspetti, all’omologazione del centro storico a qualsivoglia centro direzionale.

A spingere in questa direzione dissennata sono i grandi interessi fondiari e finanziari contro i quali è sempre più difficile trovare alleati.

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